dottrina sociale della Chiesa
Insieme di principi, teorie, insegnamenti e direttive emanate dalla Chiesa cattolica in relazione ai problemi di natura sociale ed economica del mondo contemporaneo.
Coniata nel 1941 da Pio XII, l’espressione Dottrina Sociale della Chiesa (DSC) è stata poi sistematicamente utilizzata, salvo una breve parentesi, dai pontefici successivi. Leone XIII preferiva parlare di ‘filosofia cristiana’ e Pio XI di ‘dottrina sociale ed economica’. Il Concilio Vaticano II ridusse di rango, per così dire, la DSC. La Gaudium et Spes (1968), infatti, non impiega l’espressione doctrina socialis per riferirsi alla DSC, ma quella di doctrina de societate. Tale mutamento non sarebbe stato notato se, alcuni anni dopo, non fosse intervenuto M.-D. Chenu con la sua affermazione che la DSC sarebbe, in verità, un mero ‘insegnamento sociale della Chiesa’, che si limita a leggere le res novae alla luce dei principi immutabili della teologia cristiana. Allo scopo di scongiurare il rischio dell’ideologizzazione, una posizione del genere svuota di fatto la DSC della sua funzione pratico-orientativa. È con Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato a Puebla nel 1979 alla terza assemblea dei vescovi latino-americani, che l’espressione DSC è tornata in auge e da allora non è stata più modificata. In precedenza, si parlava infatti di d. s. cristiana o di pensiero sociale cristiano.
Nell’enciclica Sollecitudo Rei Socialis (1988), Giovanni Paolo II fissò l’identità propria della DSC quando scrisse che essa «non è una ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo […] Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano» (n. 41). La Centesimus Annus (1991) chiuse il ciclo della modernità della DSC, quel ciclo che era stato inaugurato da Leone XIII con la Rerum Novarum, nel 1891. La Centesimus Annus è un documento di grande rilevanza che, mentre chiude un ciclo, apre alla nuova fase della DSC che viene inaugurata dalla Caritas in Veritate (2009) di Benedetto XVI.
Duplice il grande tema su cui è costruita la Centesimus Annus: per un verso, l’analisi rigorosa delle cause remote che hanno condotto al declino e poi alla caduta dei regimi del socialismo reale nell’Est europeo; per l’altro verso, il chiarimento definitivo circa la distinzione tra economia di mercato ed economia capitalistica. La posizione circa il rapporto tra etica cattolica e spirito del capitalismo, difesa dalla Centesimus Annus, è alternativa rispetto ai due punti di vista ancora oggi prevalenti. Per un verso, quello di chi ritiene che la coscienza cattolica non possa che essere radicalmente anticapitalista, vedendo nel capitalismo un avversario da vincere, non meno pericoloso del comunismo. Costoro si appoggiano alla linea di pensiero che va dalla Rerum Novarum alla Quadragesimo Anno (1931), alla Gaudium et Spes, fino al Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, dove al n. 2425 si legge: «La Chiesa ha rifiutato le ideologie totalitarie e atee associate, nei tempi moderni, al ‘comunismo’o al ‘socialismo’. Peraltro essa ha pure rifiutato, nella pratica politica del ‘capitalismo’, l’individualismo e il primato della legge del mercato sul lavoro umano». Per l’altro verso, il punto di vista di coloro che invece ritengono che con la Centesimus Annus si sarebbe verificata la tanto attesa ‘svolta’. È questa la tesi dei neoconservatori americani, secondo i quali all’origine del mancato incontro tra ciò che essi chiamano ‘capitalismo democratico’ ed etica cattolica starebbe l’erronea identificazione fra ‘spirito borghese’ e irreligiosità.
La novità apportata dalla Caritas in Veritate, enciclica che ha registrato un successo a livello internazionale davvero sorprendente, è quello di spiegare che tali interpretazioni, pur legittime e non prive di interesse, peccano di riduzionismo, perché se l’una privilegia la giustizia, l’altra privilegia la libertà come unico principio regolativo sulla cui base misurare assonanze o dissonanze tra cattolicesimo e capitalismo. Il pensiero cattolico da sempre rifiuta questa sorta di dicotomizzazioni. Il suo progetto, piuttosto, è quello di tenere insieme i 3 principi base di ogni ordine sociale – lo scambio di equivalenti; la redistribuzione; la reciprocità – intervenendo non solamente sul piano culturale, ma anche su quello propriamente istituzionale, per far sì che il principio di fraternità possa trovare spazio di applicazione nell’ordinaria vita economica. In verità, non sempre, anzi quasi mai, tale progetto ha trovato il modo di realizzarsi appieno. Le deviazioni dall’alveo – nelle forme del corporativismo, del capitalismo senza regole, del comunismo – sono state la norma più che l’eccezione nel corso del tempo. Ma ciò non autorizza affatto a concludere che l’etica cattolica possa essere strattonata da una parte o dall’altra a seconda delle convenienze del momento storico. Nella Caritas in Veritate, infine, si trova la definizione a oggi più lucida del principio del bene comune che, unitamente ai principi della centralità della persona umana, di solidarietà, di sussidiarietà, costituisce uno dei 4 pilasti della DSC. Il bene comune è il bene di tutti gli esseri umani e di tutta la persona umana, nelle sue 3 dimensioni fondamentali: materiale, socio-relazionale, spirituale. Tali dimensioni sono in relazione moltiplicativa, non additiva. Il che implica che non è lecito sacrificare la dimensione socio-relazionale oppure quella spirituale per favorire quella materiale. Il principio del bene comune statuisce che l’organizzazione del lavoro, il funzionamento dei mercati, le forme della politica devono essere tali da favorire l’armonioso sviluppo di tutte e 3 le dimensioni: è questo il senso proprio della nozione di sviluppo umano integrale.