causalita, dottrine indiane della
Tema centrale per la riflessione filosofica indiana, che si concentra soprattutto sulla causa materiale, al contrario della filosofia occidentale, eminentemente interessata alla causa efficiente.
Tutte le scuole indiane accettano il concetto di causa fatta eccezione per alcuni pensatori materialisti che, in quanto rigidamente empiristi, riconoscono solo la percezione diretta (pratyakṣa) come strumento conoscitivo. Tramite percezione diretta, continuano, osserviamo solo concomitanze di eventi, ma non relazioni causali. Il susseguirsi di eventi nel mondo risulta quindi più razionalmente spiegabile facendo appello al caso o alla «natura propria» (svabhāva) delle cose. Le altre scuole rispondono criticando l’epistemologia troppo angusta che deriverebbe dalla negazione di ogni relazione causale o accusando i materialisti di incoerenza, in quanto anche loro agiscono nel mondo presupponendo l’esistenza di relazioni causali (raccolgono legna e la accendono aspettandosi un fuoco, e così via). In generale, la negazione di ogni relazione causale avrebbe non solo enorme portata epistemologica, ma anche formidabili conseguenze sul piano religioso. L’indagine sui nessi causali infatti, è, nella filosofia indiana, fortemente legata al problema di giustificare la possibilità di una liberazione (mokṣa). In ambito buddista (➔ buddismo), la possibilità della liberazione è legata all’interruzione del duodecuplo nesso causale (pratītyasamutpāda) costituito da ignoranza (avidyā), predisposizioni (saṃskāra), coscienza, individualità (nāmarūpa), sei sfere sensoriali, sensazioni, brama (tr̥ṣṇa), attaccamento, divenire, nascita, vecchiaia, morte. Ogni elemento è descritto come condizionato (dal precedente) e condizionante (i seguenti) ed è causa necessaria, ma non sufficiente dell’elemento successivo. Se infatti fosse causa necessaria e sufficiente, non sarebbe possibile interrompere il circolo, mentre secondo le scuole buddiste esistono (almeno) due punti deboli in cui è possibile introdurre cause positive e contrarie al perpetuarsi del circolo stesso, ossia non attaccamento e retta conoscenza, rispettivamente atti a interrompere il perpetuarsi di brama e ignoranza. La scuola Nyāya propone un nesso causale parzialmente diverso, ma accomunato a quello buddista dalla presenza dell’ignoranza e di conseguenza dalla possibilità di interrompere il circolo mediante retta conoscenza.
Tradizionalmente, le dottrine indiane si distinguono in satkāryavāda, vivartavāda e asatkāryavāda a seconda del loro modo di concepire il rapporto causa-effetto. Il satkāryavāda («dottrina dell’effetto esistente [nella causa]») insegna la preesistenza dell’effetto nella causa ed è sostenuto dalle scuole Sāṅkhya e Yoga. Esempi tipici in proposito sono l’emergere dello yogurt dal latte, o di un albero di mango dal seme di mango, considerati come l’evolversi di una stessa sostanza da uno stato all’altro. La versione sāṅkhya di tale dottrina è perciò anche detta pariṇāmavāda («dottrina della trasformazione [della causa nel suo effetto]»). Il testo base del Sāṅkhya, le Sāṅkhyakārikā («Stanze sul Sāṅkhya») spiega che se l’effetto non preesistesse nella causa, allora ogni cosa potrebbe causare qualunque altra cosa. In positivo, adduce il dato di fatto che nulla emerge dal nulla. Il vivartavāda («dottrina dell’illusoria trasformazione [della causa nei suoi effetti]») è una variante della dottrina precedente, sostenuta dal filosofo Śaṅkara e dall’Advaita Vedānta a lui successivo. Sostiene infatti Śaṅkara che realmente esistente sia solo il brahman e che quindi esso sia l’unica causa del mondo manifesto. Poiché però il brahman è eterno, esso non potrebbe dar luogo che a effetti eterni, mentre il mondo fenomenico è evidentemente transeunte. Esso è quindi il risultato di un’illusoria trasformazione del brahman nei suoi effetti. Il brahman può esser detto la causa materiale del mondo solo dal punto di vista del mondo fenomenico, mentre dal punto di vista della realtà assoluta non esiste che il brahman e i suoi effetti sono soltanto parvenze. Infine, l’asatkāryavāda («dottrina della non esistenza dell’effetto [nella causa]») insegna che l’effetto è qualcosa di nuovo, non preesistente nella causa, ed è sostenuto dalla scuola Nyāya, dal Vaiśeṣika e da molte scuole buddiste. Fra gli esempi proposti dal Nyāya, ricorrono quello delle due metà del vaso, che sono cause del vaso finito (pare che i vasai indiani costruissero prima le due metà del vaso e poi le attaccassero insieme), e quello dei fili che sono causa della stoffa. Infine, le scuole giainiste e alcune scuole teiste vedāntiche sostengono che, a seconda dei punti di vista, un effetto possa esser detto identico o anche non identico alla sua causa.
Appare chiaramente dagli esempi citati che il tipo di causa cui pensano le scuole indiane è innanzi tutto la causa materiale. Tuttavia, il Sāṅkhya ammette accanto a questa anche una causa efficiente, denominata nimittakāraṇa, la quale non interviene direttamente nell’emergere dell’effetto, ma serve a rimuovere gli ostacoli che ne impedirebbero l’attenzione. Il Nyāya distingue inoltre fra tre tipi di cause: causa «in cui l’effetto inerisce» (samavāyikāraṇa), causa «in cui l’effetto non inerisce» (asamavāyikāraṇa) e causa efficiente (nimittakāraṇa). La prima è descritta come la sostanza in cui l’effetto risiede per inerenza, come il vaso intero inerisce alle sue due metà. La seconda è una causa che direttamente o indirettamente inerisce a una causa in cui l’effetto inerisce, come il contatto fra le due metà del vaso, che inerisce alla metà del vaso (ma non al vaso intero). Questi due tipi di causa sono necessari ma non sufficienti, mentre nella categoria di nimittakāraṇa sono raccolti tutti gli altri fattori, a partire dall’agente dell’azione (il vasaio).