DOVIZI, Bernardo, detto il Bibbiena
Nacque a Bibbiena, nel Casentino, il 4 agosto 1470 da Francesco e da Francesca Nutarrini.
Secondo alcune fonti la sua famiglia sarebbe stata tra le principali del paese natale, ma in realtà il padre Francesco non era un aristocratico ed esercitava la professione di notaio. Nel luglio del '79 Francesco chiese che il figlio primogenito Piero fosse preso a Firenze a servizio dei Medici e quando il suo desiderio fu esaudito seguì il fratello a Firenze anche il piccolo D., di appena dieci anni.
Il D. fu dunque praticamente guidato dal fratello nei suoi studi letterari che dovettero svolgersi tutti all'ombra della corte medicea. già disegnando un legame che doveva caratterizzare tutta l'esistenza del Bibbiena. Non abbiamo documenti che testimonino le modalità dell'educazione umanistica del D.: solo nel 1487 una sua lettera al generale dei camaldolesi Pietro Dolfin con la domanda di un posto di segretario fa supporre ad un biografo del D., il Bandini, che, fino ad allora, egli non fosse ancora entrato al servizio del Magnifico. Documenti sicuri segnalano che ciò avvenne soltanto nell'88: a questa data risalgono due lettere del fratello maggiore Piero, già autorevole cancelliere del Magnifico, che dava consigli al D. su come si dovesse comportare nella corte medicea. Nello stesso anno il D. fu inviato a Roma per la sua prima, delicata, missione. Lorenzo de' Medici, prossimo alla morte, aveva concluso il matrimonio del figlio Piero con Alfonsina Orsini, erede della potente famiglia romana a cui pure apparteneva la moglie di Lorenzo. Il D. fu scelto per accompagnare il Medici, quasi coetaneo, ma anche per rafforzare i legami, alquanto precari, tra il papa Innocenzo VIII e i signori fiorentini: oltre che confermare al pontefice l'amicizia di Lorenzo, il D. doveva ottenere la concessione di una parte delle miniere di allume del Lazio, necessarie all'economia fiorentina. Il giovanissimo D. riuscì ad adempiere con successo alla missione affidatagli e questo certo gli permise di accelerare la propria carriera cancelleresca. Nell'89 lo troviamo a Pisa, vicino a Lorenzo di cui era considerato il confidente. Nel maggio del '91 perse il padre Francesco. In questo anno una ricca serie di lettere di amici che chiedevano aiuti e favori testimoniano del D. una crescente autorità ed una affabilità mirata e finalizzata. Anche l'ormai anziano Marsilio Ficino dichiarava nello stesso arco di tempo, in un fitto scambio di lettere, la stima e l'ammirazione per il Dovizi.
Nel 1492, dopo la morte di Lorenzo e del pontefice Innocenzo VIII, il D. era nuovamente a Roma, ancora al seguito di Piero de' Medici. Ora la missione aveva lo scopo di salutare il nuovo pontefice Alessandro VI Borgia e di rinsaldare i rapporti di amicizia con i Medici, nella prospettiva di un'alleanza contro Carlo VIII di cui si annunciava una minacciosa discesa in Italia. Per lo stesso motivo, subito dopo la morte di re Ferdinando avvenuta alla fine di gennaio 1494, il D. era a Napoli, presso Alfonso II d'Aragona, per spingerlo a partecipare alla lega antifrancese: l'incerto Piero, che vedeva sempre più allargarsi la frattura tra la politica dinastica del suo casato e la politica delle istituzioni cittadine, sembrava ora affidarsi del tutto all'intelligente iniziativa dell'instancabile ed ambizioso D., oltre che al più accorto ed esperto Piero.
Presso la corte aragonese, nel '94, il D. dovette scontrarsi con la totale sottovalutazione del pericolo francese da parte della diplomazia napoletana: dispacci irritati e sferzanti del D. a Piero denunciano la superficialità di quei "divini spiriti" che egli si aspettava di incontrare alla corte di Alfonso; il solo Giovanni Pontano si salvava nel giudizio del D.: ma egli, scriveva, non è un politico, "è filosofo e basta".
Nel settembre dello stesso anno il D. era in missione in Romagna, presso il campo di Ferdinando, duca di Calabria, figlio di Alfonso, che si preparava ad accogliere le truppe francesi che discendevano verso Firenze. Le lettere del D., in quest'occasione, si dimostrano del tutto inadeguate alla complessità della situazione: da Cesena scrive parole ottimistiche e tranquillizzanti a Piero; si affanna a colpire qualsiasi accento antimediceo; dimostra scarsa conoscenza dei problemi militari e progetta una campagna contro la Lombardia, appena fossero arrivate truppe di rinforzo.
Intanto interrompeva le preoccupazioni della guerra con occasioni mondane, verso cui aveva sempre dimostrato particolare propensione: vera e propria novella d'argomento amoroso è quella contenuta in una lettera inviata a Piero il 4 ott. 1494, per descrivere Un'avventura amorosa di Ferdinando d'Aragona duca di Calabria (così suona il titolo con cui I. Del Lungo pubblicò la lettera nel 1862). La vivacità di racconto e la compiaciuta testimonianza di simpatia e complicità per le peripezie eroticogoliardiche di Ferdinando e Caterina Gonzaga rivelano una vena letteraria che pure serpeggia in altri più seri dispacci, dove però, a volte, la scrittura s'impenna con toni ora drammatici ora epigrammatici (Dionisotti).
Le truppe di Ferdinando si dimostrarono inadeguate a fermare la discesa dei Francesi: ripiegarono a Faenza mentre Carlo VIII muoveva su Firenze. Piero gli andò incontro per cercare di salvare la propria causa mentre la città si rivoltava ai Medici. Il D. accorse a Firenze per assistere alla caduta dei suoi signori e alla condanna al bando di tutta la fazione, compresi egli stesso e il fratello Piero, rivelatosi in quest'occasione cattivo consigliere della politica medicea. I Dovizi ripararono a Bologna per riprendere immediatamente quella diplomazia a favore di Piero a cui apparivano votati; il ritorno della casata al potere di Firenze si disegna subito come l'obiettivo a cui destinare tutte le risorse politiche ed intellettuali. La situazione per i Francesi era mutata subito dopo il rapido trionfo di Carlo VIII: una lega di Stati italiani costrinse l'invasore a cercare nuove alleanze. Piero de' Medici cercò prima di conquistarsi i favori del re francese per un ritorno alla sua città, poi, nel '98, inviò il D. a Milano per cercare l'appoggio di Ludovico il Moro ma senza risultati. Un nuovo tentativo il Medici lo compì tra la fine del '98 e i primi del '99 con l'aiuto dei Veneziani: i Dovizi avevano preparato il terreno affinché Bibbiena accogliesse senza resistenze le truppe alleate dei Medici che dal Casentino avrebbero dovuto attaccare Firenze. Ma l'esercito fiorentino reagì assediando Bibbiena e costringendo il nemico a ritirarsi, nonostante il D. invocasse rinforzi da Venezia. Bibbiena, ripresa, fu saccheggiata.
Dopo quest'altro insuccesso il giovane cardinale Giovanni de' Medici, con una piccola corte di fedelissimi, lasciò l'Italia per un viaggio attraverso la Baviera, il Belgio e la Francia: esilio volontario, ulteriore ricerca di alleanze o addirittura viaggio di studi (così secondo l'Audin), in ogni caso questo singolare peregrinare probabilmente vide ancora il D. accanto al minore dei Medici: questo secondo alcune fonti, come l'Audin e il Tiraboschi. Nell'aprile del 1500 il D. era di nuovo in Italia per riprendere la sua febbrile attività diplomatica: presso i Veneziani che appoggiavano la guerra dei Pisani contro Firenze; nel maggio a Milano da dove riferiva ai Veneziani della crisi di quella Signoria a cui l'eccessivo favore per la Francia aveva alienato le simpatie dei sudditi. Nel gennaio del 1504, dopo la morte di Piero de' Medici, il D. si trasferì definitivamente a Roma come segretario del cardinale Giovanni. È in questo periodo che il D. consolidò la sua autorità politica e la sua fama mondano-culturale: pur non dimenticando il fine ultimo di ogni sua iniziativa, che era quello di riportare in patria la famiglia dei suoi protettori, la personalità del D. si afferma come quella di un uomo d'azione, dalla fama di abile diplomatico anche se, alla resa dei conti, risulterà superficiale e privo di un vero intendimento della realtà (Gaeta). Si legò d'amicizia con Pietro Bembo che, proprio nel 1504, era giunto presso la corte papale con una legazione veneziana. Un ricco carteggio tra i due coetanei descrive gli ozi mondani, gli svaghi amorosi, gli impegni intellettuali attorno a cui si costruiva un rapporto di complicità affettuosa e d'interesse: il Bembo cercava una collocazione di prestigio presso la corte romana, il D., attraverso l'amico, intesseva numerosi rapporti diplomatici e mondani con la corte di Urbino, dove soggiornò a più riprese tra il 1504 e il 1508. Legatosi anche alla marchesa di Mantova, Isabella d'Este, ne protesse il figlio Federico che, fatto prigioniero dai Veneziani, fu liberato e trovò riparo a Roma per intercessione del papa Giulio II. Questi, la cui politica aggressiva era vista con favore dal D. che continuava a progettare di sfruttarne l'ostilità contro la Repubblica di Soderini per ristabilire i Medici a Firenze, era tuttavia una personalità che si scontrava con l'opportunismo alquanto superficiale della diplomazia del Dovizi.
I dispacci che il D. inviava da ogni parte al suo padrone sono estremamente significativi: numerosissimi negli anni che precedono il trionfo finale del ritorno mediceo, scarsi nel periodo che va dal 1504 al 1511, contengono giudizi feroci sulla determinazione del papa, a cui viene contrapposta la cauta saggezza di Giovanni de' Medici.
Nell'11, sancita l'alleanza antifrancese della Lega "santissima" con Venezia e la Spagna, il cardinale Giovanni fu inviato a Bologna come legato pontificio per seguire i preparativi militari: è di questo periodo un fitto invio di lettere al D. che, da Roma, scambiava col Medici ogni tipo d'informazione che potesse essere utile alla causa degli esiliati. Da queste pagine esce drammatizzato il turbolento rapporto tra il D. e Giulio II: il primo sembra reggere da solo le fila politiche e diplomatiche della Lega, attento ai delicati equilibri tra gli alleati che l'irruenza del papa rischiava di turbare. Svolgeva una paziente opera di mediazione tra l'impeto di Giulio che voleva un'iniziativa di attacco contro l'esercito francese e l'incertezza di Giovanni che chiedeva ancora tempo e denaro per i preparativi dell'esercito, tanto da suscitare a Roma voci di un suo tradimento. Il 9 genn. 1512 il D. si recò al campo della Lega che doveva prendere il presidio francese di Bologna: portava con sé la spada e il pileo benedetti dal papa e destinati al viceré di Napoli Rairnondo di Cardona comandante dell'esercito della Lega. Ma la presa di Bologna non riuscì e il D. assisté da Roma alle sconfitte delle truppe alleate culminanti nella rotta di Ravenna nell'aprile del '12. Giovanni de' Medici fu fatto prigioniero e condotto in Francia: il D. fece pressioni sul pontefice perché intervenisse in favore del suo legato, che comunque riuscì a mettersi in salvo. Ma il cambiamento delle alleanze rovesciò la situazione: Giulio II convocò un concilio a Mantova per riaffermare il nuovo assetto dell'Italia.
Nell'agosto del 1512 il D. era a Mantova come plenipotenziario del papa al congresso ivi riunito; questo decise la restaurazione dei Medici a Firenze e il 1° settembre, protetto dalle armi del Cardona, Giuliano de' Medici entrò nella città dove la fazione filomedicea aveva costretto il Soderini a lasciare la carica di gonfaloniere. Il D. giungeva lo stesso giorno da Prato. Il trionfo fu totale con l'arrivo di Giovanni e il bando per i fautori della decaduta Repubblica. Ma il D. si fermò a Firenze solo pochi giorni: fece ritorno a Roma, dopo aver portato a termine l'impresa a cui aveva dedicato sino ad allora tutte le sue energie.
Come sottolinea il Dionisotti, la causa a cui il D. si era votato era quella dei Medici, non di Firenze. In una lettera da Roma al fratello Piero in cui descrive l'ingresso in Firenze suo e di Giuliano de' Medici, il D. nota: "el bello era che noi da tutti eravamo conosciuti e ci chiamavano per nome, e noi pochissimi e quasi nessuno conosciavamo, da quelli in fuora che qua o altrove, for de Fiorenza, avevamo revisti". La città, fondamentalmente estranea, era stata la meta in fondo simbolica della presa di potere di una famiglia che non aveva più forza politica né capacità di governo: il D. è ben cosciente di questo quando scrive a Giulio de' Medici, il 15 sett. 1512: "sin quj sete intitulati homini di poco governo et meno apti a cose di stato se non usate la occasione che li cieli et li homini ne hanno posta in mano, secondo le lingue di quà, sarete li più vituperati homini del mondo" (cfr. Epistolario, I, pp. 505-506).
Certamente la decisione di far ritorno a Roma fu determinata dal desiderio di trovarvi un ambiente più vasto e gratificante dove meglio realizzare le ambizioni di una vita all'insegna del potere e della mondanità. Presso la corte pontificia il D. riprese il suo ruolo di legato e fu a Milano, dov'era in missione per preparare una guerra contro Ferrara, che apprese la notizia della morte di Giulio II, avvenuta il 21 febbr. 1513. Accorse, con il suo signore di sempre Giovanni de' Medici, a Roma e qui partecipò, dietro le quinte, ai lavori del conclave che dovevano portare al papato il Medici. L'opera diplomatica del D. fu, al solito, preziosa e spregiudicata: al cardinale F. Soderini, che osteggiava l'elezione di Giovanni, il D. fece balenare la speranza di un ritorno a Firenze della sua famiglia attraverso un matrimonio tra la nipote dei Soderini e un nipote del Medici. Appartiene alla leggenda della spregiudicatezza del D. l'idea di presentare ai cardinali del conclave il pretendente al soglio pontificio come gravemente ammalato di tumore e dunque destinato a pochi mesi di vita (Bandini).
Al di là di queste vicende improbabili, è certo che il D. realizzò, con l'elezione di Giovanni a papa, la sua maggiore operazione diplomatica, consegnando colui al cui servizio si era votato ad un rango ben maggiore di quel potere precario, che era riuscito a riconquistargli in Firenze. I benefici che il D. ricavò dalle sue abili iniziative giunsero presto. Il giorno stesso dell'elezione del trentottenne Giovanni - Leone X - il D. fu nominato tesoriere generale e dopo pochi giorni anche protonotario e conte palatino. Quindi gli fu concessa un'abbazia in Spagna con un'alta rendita e successivamente un'altra in Lombardia. Ma il premio maggiore doveva giungere il 23 settembre allorché il D. fu creato dal papa cardinale: il 16 dicembre ricevette la tonsura e gli ordini minori e il 17 fu ordinato diacono: ebbe il titolo di S. Maria in Portico, il permesso di raccogliere nello stemma cardinalizio, insieme con l'arma del proprio casato, quella dei Medici e infine il privilegio di godere delle entrate della S. Casa di Loreto.
Dopo l'elezione a cardinale, sul finire del '15 il D. prese alloggio in Vaticano e incaricò Raffaello della sistemazione degli ambienti. Di questi faceva parte anche quel bagno o "stufetta" che il pittore urbinate affrescò su progetto iconologico preparato dallo stesso D. che, secondo la recente interpretazione del Ruffini, metterebbe in scena l'intreccio e la convivenza di "passione" e "ragione".L'investitura del D. fu accolta da numerose polemiche anche in seno alla stessa famiglia Medici, in cui c'erano numerosi aspiranti alla porpora. Fu in questo periodo che la salute di D., alquanto delicata, mostrò segni di peggioramento con febbri e vertigini: appena rimesso, fu impegnato dai lavori del concilio lateranense già interrotto per la inorte di Giulio II. Contemporaneamente dovette continuare la propria attività diplomatica: come segretario particolare del papa curava i rapporti con le nazioni europee ad esclusione della Francia, verso cui il D. continuava ad essere apertamente ostile, affidata agli uffici di Giulio de' Medici, cugino di Leone X. Dai dispacci inviati dal D. ai nunzi pontifici presso tutti gli Stati europei e dalla corrispondenza con Giulio, tra il 1512 e il 1515, si ricava il disegno di una lega tra i principali Stati italiani e d'Europa contro i progetti di Luigi XII che minacciava di invadere l'Italia. Ma la posizione così radicale del D. si scontrava con la valutazione diversa che veniva data della politica francese alla corte pontificia, dove erano numerosi i personaggi favorevoli ad accordi con Luigi XII.
Nel gennaio del '14 tentò la riconciliazione di Venezia con l'imperatore, quindi perseguì una politica di avvicinamento alla Spagna in funzione antifrancese; nell'estate del '13, rhentre Spagna ed Inghilterra stavano per attaccare la Francia, Luigi chiese la mediazione del papa per recuperare il Ducato di Milano, quindi passò le Alpi ma fu sconfitto insieme con gli alleati veneziani. Il papa vedeva preoccupato l'insuccesso militare dei Francesi perché temeva un possibile accordo tra Luigi XII e l'imperatore. Mentre Leone X esitava indeciso tra la fedeltà ai vecchi alleati e il consenso ad una alleanza con Venezia e il re di Francia, il D. si adoprava per ridurre il partito romano filofrancese: cercava di intervenire sul Bembo, da tempo favorevole ad un'alleanza antimperiale. Il D. lo condusse con sé, nella primavera del '14, a Loreto per curare i restauri della chiesa. Ai primi di giugno il D. ritornò a Roma per recarsi poi a Firenze, dove il Medici voleva celebrare solennemente, in occasione delle feste di s. Giovanni, il proprio ritorno in patria. Tornato a Roma, il D. ottenne da Leone X che il Bembo, ormai conquistato alla causa imperiale, fosse mandato a Venezia per tentare di staccarla dalla Francia.
Intanto, morto re Luigi (1° genn. 1515), gli successe Francesco I e si accentuarono le voci su una possibile sua invasione dell'Italia. Per tentare di smussare le resistenze italiane Francesco I favorì il matrimonio tra Giuliano de' Medici e Filiberta di Savoia. Il D. si mostrava poco propenso a credere che le nozze avrebbero contribuito ad avvicinare il papa e il re di Francia: ed infatti, nel febbraio del 1515, il D. riuscì a portare a conclusione un'alleanza con l'imperatore, la Spagna e gli Svizzeri, anche fondandosi sulla improbabilità di una imminente discesa in Italia dei Francesi. Questa fu una chiave strategica fondamentale nella diplomazia del D., che fino all'ultimo tese a sottovalutare il pericolo di un'azione di Francesco I: che lo facesse per superficialità di osservatore politico o per cinismo di spregiudicato tessitore d'alleanze non è facile da comprendere; probabilmente i due fattori, anche in questo caso, si intrecciano, secondo le caratteristiche della complessa personalità del Dovizi.
Mentre, nell'agosto del '15, Francesco I entrava in Italia aggirando il blocco organizzato sulle Alpi dagli Svizzeri, il D., preoccupato per l'esito della guerra, si dava da fare per procurare alleanze al papa: consigliò di restituire Bologna ai Bentivoglio e Modena e Reggio al duca di Ferrara e tentò di impedire un accordo tra Francesi e Svizzeri. Chiese ripetutamente da Roma ai legati pontifigi presso i campi militari informazioni e valutazioni ("Scrivete, scrivete, scrivete", ordina a G. Gambaro il 18 agosto e il 25 scrive a E. Filonardi: "Le occurentie presenti et la celerità, che bisogna usar hora, non richiedono molti prohemii ne' longheza di parole, ma venire presto alla substantia de la materia").
Sconfitti gli Svizzeri a Marignano il 13 settembre, vincitore della guerra, Francesco I tentò di avviare trattative con gli Stati italiani. All'incontro di Bologna tra Francesco I e Leone X per.siglare un accordo fu presente anche il Dovizi. Successivamente il papa e il D. passarono a Firenze, dove il D. rimarrà fino a marzo per assistere il malato Giuliano fino alla morte, avvenuta il 17 marzo. Subito dopo fu inviato dal papa presso Massimiliano per renderselo benevolo in funzione antifrancese. Quando la situazione politica di Massimiliano peggiorò, il D. cominciò a rinviare la partenza, anche avanzando motivi di salute (alla metà di aprile): il papa intanto cercava di non scontentare troppo Francesco I inviandogli aiuti in danaro. Nel mese di maggio il D. era a Modena per tentare di sedare contrasti interni alle famiglie aristocratiche di quella città. Era intanto sempre viva la questione di Urbino che Leone X intendeva strappare a Francesco Maria Della Rovere; la campagna fu conclusa felicemente nel maggio del '16, ma fin dall'inizio dell'anno successivo il Della Rovere tornava in armi dall'esilio ed impegnava le truppe pontificie in una lunga guerra. Il D., dopo aver tentato alcune inutili mediazioni, anche per antichi legami di gratitudine con la famiglia dello spodestato Francesco Maria, fu nominato legato pontificio all'inizio dell'aprile 1517: fu molto occupato a sedare le discordie tra le varie forze mercenarie assoldate dal papa. Mentre si guerreggiava con alterne fortune, il D. riuscì, con la solita accorta diplomazia, ad evitare un allargamento del conflitto e a rafforzare l'esercito pontificio. Dopo vari tentativi di accordo con il duca Francesco Maria, il D. prima da Rimini, poi da Cesena e da Forlì, condusse una complessa trattativa che si concluse nel settembre con la rinuncia del Della Rovere ad Urbino.
In quello stesso anno si addensava sull'Europa la minaccia dei Turchi che apparivano sempre più bellicosi e pronti ad una guerra di conquista. Il papa pensò di opporre a questi preparativi una crociata e prese accordi in tal senso con l'imperatore e il re di Francia (oltre che con Inghilterra e Portogallo per le forze navali). La nuova intesa di Leone X con Francesco I fu sancita anche dal matrimonio di Lorenzo de' Medici con una giovane imparentata con la casa reale francese: per definire i termini dell'accordo militare in Francia fu inviato il D., nel giugno del '17. Le pretese del re per l'accordo apparivano eccessive e il D. dovette avere lunghi colloqui con Francesco I per raggiungere un'intesa. Le richieste di questo (tra cui quella di una tassa sui beni ecclesiastici a suo favore) erano rivolte soprattutto a creare un terreno favorevole ad assicurarsi la successione alla corona imperiale di Massimibano. Il D. fu incaricato, nell'agosto, di valutare attentamente le intenzioni del re in merito. Ebbe altri incontri con lui e cominciò a mostrarsi favorevole alla sua politica, mentre Francesco a sua volta sembrava riconoscere l'opportunità di non forzare il favore del papa alla propria aspirazione alla corona imperiale. Il 6 dicembre il D. fu ricevuto in un pranzo a corte: in quell'occasione Francesco I si impegnò a dare un pieno contributo alla crociata e conquistò completamente il D. alla propria causa. E il D. divenne un prezioso consigliere quando, nel gennaio del '19, morto l'imperatore Massimiliano, esplose la questione della successione.
Mentre il papa si barcamenava tra l'alleanza con la Francia e patti segreti con Carlo d'Asburgo, il D. tentò la carta di agitare lo spettro di una terza candidatura (Federico di Sassonia) per poter poi giostrare l'elettorato in favore di Francesco I. Questi, nel maggio, concesse al D. il vescovato di Albi, con una ricca rendita, come ringraziamento per l'appoggio ricevuto. Quando fu eletto imperatore Carlo, mentre il papa richiamava a Roma tutti i suoi legati, il D. rimase ancora qualche tempo in Francia per garantire il mantenimento dell'alleanza dello sconfitto Francesco. Intanto la sua salute andava peggiorando: sofferente per una fistola, aveva visto aggiungervisi vari altri disturbi. Nell'estate del 1520 ritornò in Italia: a Roma incontrò il Castiglione e godé gli ultimi attimi di un prestigio enorme acquistato con la sua opera in Francia.
Quando morì, il 9 nov. 1520, a Roma per l'aggravarsi delle malattie, si diffusero voci che fosse lo stesso papa Leone ad averne provocato l'avvelenamento, per invidia e gelosia. Imponenti funerali lo accompagnarono alla sepoltura presso la chiesa d'Aracoeli: il Giovenale e il Valeriano ne piansero la morte nei propri versi.
Se il Bandini dà notizia di un Discorso dell'esilio dei Medici, scritto dal D. e poi perduto, è rimasto in manoscritto un Sommario di alcuni ricordi generali del cardinal Bibiena che si possono dare ai nuntii et ministri, che negotiano per Principi et sig.ri (pubbl. in appendice a G. L. Moncallero, Il cardinale B. D.). Si tratta di una sorta di "galateo del negoziare" (Gaeta), risalente probabilmente ai primi anni del pontificato di Leone X, dove il D., muovendo evidentemente dalle proprie esperienze di nunzio, dava una serie di precetti per i rapporti con il signore: in quattordici punti essenziali sono raccolti tutti gli accorgimenti che un ambasciatore o un ministro deve assumere per svolgere con efficacia il proprio lavoro e per mantenere le grazie del principe. L'opera è una singolare commistione di attenzioni machiavelliche ad adattarsi agli umori e alle esigenze.del principe per poterne poi manipolare il comportamento e di adesione ai modelli proposti da quella trattatistica sull'educazione e sul comportamento che, dalle fonti umanistiche, giungerà alla forma organica. e celebrativa dei Cortegiano castiglionesco, la cui stesura è contemporanea al Sommario del Dovizi. La conclusione dell'opera è improntata a quel possibilismo tra l'ingenuo, l'opportunistico e il disincantato che caratterizzò realmente, come si è visto, la politica del Dovizi.
Quanto ai rapporti con Castiglione, oltre ai legami di cui si è detto con la'corte di Urbino, è da ricordare che il D. è uno degli interlocutori del Cortegiano e di gran rilievo se a lui è affidata, nel secondo fibro del trattato, la descrizione dei tipi e dei modi delle facezie: e questa è una competenza del D., anche testimoniata da un ricco epistolario che dimostra ripetutamente la verve mondana e giocosa di colui che amava esser chiamato dagli amici e chiamarsi lui stesso "moccicone" o con altri soprannomi allusivi alla sua esile corporatura e al suo spirito arguto. La ricchissima raccolta di lettere, pubblicata ancora dal Moncallero, è una fonte preziosissima non solo per la conoscenza dettagliata dell'attività diplomatica del D. e delle vicende politiche di quegli anni, ma anche per valutare le sue doti di scrittore che si rivela, in questo epistolario, descrittore preciso e brillante, abile ritrattista di personaggi e situazioni, intrattenitore ora galante, ora cortese, ora goliardico. Fedele in conclusione a quel modello indicato dal Dionisotti quando sottolineava come, in questo periodo, la letteratura dei diplomatici tendesse più al registro comico che a quello tragico (oltre al D., Ariosto, Bernbo, Castiglione, Machiavelli). Non è quindi da rneravigliarsi se i]. nome del D. sia legato soprattutto, al di là di tutta la sua opera politica e diplomatica, ad una commedia, giudicata tra le più belle del secolo, la Calandria.
Non si hanno dati precisi per datarne la composizione: il Padoan la fissa nel 1512, in base all'interpretazione di dati testuali. Fu rappresentata per la prima volta ad Urbino in occasione del carnevale, il 6 febbr. 1513; organizzatore dell'apparato teatrale e degli intermezzi Baldassar Castiglione, della scenografia Girolamo Genga, allievo di Raffaello. Il successo della messa in scena portò ad una fitta serie di altre rappresentazioni: a Roma fu recitata in Vaticano nel dicembre del '14 e nel gennaio del '15 con le scene di Baldassare Peruzzi; a Mantova fu allestita da Giulio Romano nel 1520 e nel 1532; a Venezia nel '21 e nel '22, poi a Lione e a Monaco. Fu pubblicato il testo a Siena nel 1521, poi ripetute edizioni a Venezia presso Giolito de' Ferrari e a Firenze presso Giunti. Tutte queste edizioni presentano come prologo quello della rappresentazione urbinate, che fu attribuito al Castiglione. Il ritrovamento nel 1875 da parte di Isidoro Del Lungo di un altro prologo del D. fece credere di essere dinanzi al prologo originale, sostituito in occasione della prima da uno scritto dal Castiglione probabilmente per il mancato arrivo di quello dell'autore. Ma il Padoan, nell'edizione critica della Calandria, nega l'attribuzione del prologo al Casfiglione per riaffermarne la paternità del D., soprattutto in base all'omogeneità di queste pagine con quelle dell'argomento. Quanto al prologo ritrovato, caduta l'ipotesi avanzata dal Moncallero sull'esistenza di altre commedie del Bibbiena (sembrando testimoniare in tal senso anche un passo della Vita Leonis X di Paolo Giovio), appare plausibile quella avanzata da Borsellino attorno alla composizione da parte del Bibbiena di un prologo per una commedia di altri.
L'argomento, un calco dai Menaechmi plautini che tiene però presenti i modelli più vicini del teatro ariostesco, racconta le vicende, molto complicate, di due fratelli gemelli, Lidio e Santilla, che, separati dalla sorte, si ritrovano a Roma dove ambedue, travestiti nel sesso opposto, inseguono incontri amorosi complicati dai loro travestimenti. Ne fa le spese, di tali intrighi buffoneschi e paradossali, soprattutto il vecchio sciocco Calandro - discendenza evidente del Calandrino boccacciano, ma anche personaggio che nel nome racchiude tutta l'ambiguità della comunione degli opposti suggerita dall'intera commedia e dalla figura dell'autore stesso, come ha dimostrato in un fondamentale saggio Franco Ruffini - raggirato da colui che è perno comico dell'opera, il servo Fessenio. La coppia comica che questi costituisce con Calandro rappresenta la struttura teatralmente tforte" attorno a cui si elaborano, a ritmo incalzante, le situazioni ridicole, la celebrazione della punizione della dabbenaggine, l'esibizione di un gusto del motto di spirito, del gioco di parole in cui il D. si mostra costantemente esperto, come aveva compreso bene il Castiglione chiamandolo ad interlocutore dei suo dialogo. Il meccanismo dell'opera è talmente ben congegnato e funzionante da far superare anche incongruenze della trama (come ha dimostrato il Ruffini) ed amalgamare i prestiti, le citazioni, le allusioni presenti nel testo: Plauto, come si è già detto (per i Menaechmi, ma anche per la Casina), i Suppositi e la Cassaria, e soprattutto il Decameron che si offre anche come modello di volgare illustre, pur con inserti di fiorentino parlato (con una intenzione di apologia per la Firenze medicea proprio nel cuore di una celebrazione della civiltà urbinate qual'era il carnevale del '13, secondo la Fontes Baratto).
Dell'opera di Boccaccio, oltre a riprese stilistiche, il D. tenne ben presenti i tipici temi della Fortuna, dell'Amore e dell'esaltazione dell'ingegno, sommando poi, nella figura di Calandro. tutte le prerogative degli sciocchi boccacciani, oltre all'eponimo Calandrino. Il connubio di passioni sfrenate, eroticamente esplicite, e di esaltazione dell'intelligenza e di un gusto vitalistico del riso replica la fisionomia complessiva dell'intera biografia del personaggio D.: questi attraversò le utopie di grandi progetti politici e civili, le strettoie di opportunismi, inganni e dissimulazioni con l'allegria e il gusto del gioco che, al rischio della superficialità e dell'approssimazione, ne resero attiva ` spesso febbrile, l'opera. E suona da epigrafe per l'intero personaggio D. la frase di Fulvia nella Calandria che, come ricorda Padoan, ha la fonte nel Decameron e un'eco in una lettera di Machiavelli, "egli è meglio fare e pentirsi, che starsi e pentirsi".
In edizioni moderne La Calandria è a cura di P. Fossati, Torino 1967; edizione critica a cura di G. Padoan, Bibbiena 1970. L'Epistolario, 2 vol., a cura di G. L. Moncallero, Firenze 1955 e 1964.
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