Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il teatro di prosa, che ridefinisce la propria identità confrontandosi con le altre forme di spettacolo e con la dilagante logica capitalistica, vede inserirsi nel dialogo tra attore e autore la nuova figura del regista.
Goethe e Hegel agli albori della regia
Al principio del XIX secolo compare sulla scena europea una figura fino a quel momento ignota all’organizzazione teatrale: il regista, colui che è cioè chiamato al coordinamento delle diverse componenti della messa in scena (recitazione, scenografia, costumi, musica, illuminazione) al fine di ottenere una maggiore omogeneità dello spettacolo. Nel profilarsi della funzione registica, questioni di ordine artistico relative all’esigenza di conferire dignità estetica alla "poesia" scenica vengono a fondersi con considerazioni pratiche. I progressi tecnologici dell’Ottocento determinano infatti una vera e propria rivoluzione nell’ambito della rappresentazione teatrale. L’introduzione nelle sale adibite agli spettacoli dell’illuminazione a gas e in seguito di quella elettrica o la progettazione di palcoscenici multipli mutano radicalmente il linguaggio scenico e, in primo luogo, pongono la necessità di organizzare il lavoro di quanti cooperano alla riuscita di uno spettacolo. Nel corso dell’Ottocento teorici e uomini di teatro combattono dunque una battaglia per il passaggio da una costruzione paratattica degli allestimenti, fondata sulla giustapposizione di elementi tra loro indipendenti, a una costruzione ipotattica, tendente a stabilire precisi nessi di reciproca subordinazione tra le varie componenti della messa in scena.
Dirigendo l’Hoftheater di Weimar dal 1791 al 1817, Goethe anticipa l’avvento dell’istituzione registica nell’ambito della prassi scenica. Le sue Regeln für Schauspieler (1803, edite nel 1824) documentano infatti una poetica classicheggiante dello spettacolo che punta a una composizione armonica della realizzazione scenica, tanto sul piano della recitazione quanto su quello della traduzione spaziale.
Lo scrupolo con cui Goethe e Schiller – suo collaboratore a Weimar tra il 1794 e il 1805 – lavorano alla ricostruzione storica degli ambienti nei quali si svolgono i drammi da loro rappresentati addita nella precisione filologica la via per uscire dalla genericità degli allestimenti tradizionali. L’esperienza goethiana di Weimar sintetizza mirabilmente le utopie e le disillusioni della civiltà spettacolare dell’intero secolo: le ambizioni artistiche dell’uomo di teatro sono costantemente frustrate dalla realtà del mercato e Goethe infatti è ripetutamente costretto a scendere a patti coi gusti del proprio pubblico altoborghese e aristocratico. Durante i 26 anni della direzione artistica goethiana, l’autore più rappresentato all’Hoftheater è il commerciale August Kotzebue. Nel 1817 la corte fa pressioni perché sia messo in scena Le chien de Montargis di Pixérécourt, Goethe indignato si dimette. L’ipotesi di un teatro d’arte è naufragata: nel 1832 viene pubblicata la seconda parte del Faust, lo sterminato poema drammatico pensato fuori dal teatro.
Sul fronte teorico la nascita della regia è profetizzata a Berlino dai corsi di estetica di Hegel (Lezioni di estetica, 1836-1838). L’avvento della funzione registica è infatti la conseguenza teatrale delle riflessioni hegeliane sulla "morte dell’arte" e sul rapporto tra teoresi e critica da un lato ed esperienza estetica dall’altro; la regia è in fondo l’istituzione teatrale in grado di assicurare allo spettacolo il carattere di totalità che l’estetica hegeliana richiede all’opera d’arte. Con estrema lucidità Hegel, sin dai primi decenni del secolo, denuncia il problema chiave della civiltà teatrale contemporanea: la necessità di definire il margine di autonomia che lo spettacolo possiede, in quanto opera d’arte in sé conclusa, rispetto alla creazione poetico-letteraria utilizzata come base per l’allestimento.
Il drammaturgo e la messa in scena
Tanto i drammaturghi-artisti quanto quelli più compromessi con le leggi del mercato rivendicano la centralità del testo nell’ambito della creazione teatrale. Tale rivendicazione può assumere forme diverse, spaziando dal rifiuto totale dei condizionamenti scenici di Byron o di Musset alla volontà di controllare la messa in scena di Pixérécourt o di Hugo. Nelle Ultime riflessioni dell’autore sul melodramma (1843) Pixérécourt, che nelle proprie opere sfrutta ampiamente le risorse spettacolari offerte da un impiego consapevole della messa in scena, teorizza la necessità di sottoporre la creazione teatrale al controllo di un solo autore. Così fin dall’allestimento di Ernani (1830), Hugo partecipa personalmente alla messa in scena dei propri drammi e non esita ad arrivare allo scontro diretto con gli attori, quando questi rifiutano di aderire ai moduli interpretativi richiesti dalla poetica teatrale romantica. Le ambizioni "registiche" dei drammaturghi attraversano l’intero secolo e, passando per autori come Becque o Sardou, arrivano con Strindberg e D’Annunzio fino agli inizi del Novecento. Strindberg, dopo avere diretto il debutto privato a Copenaghen della Signorina Giulia (1889), tra il 1907 e il 1910 dà vita a Stoccolma, in collaborazione con Falk, all’Intima Teatern. Nel 1901 D’Annunzio dirige personalmente l’allestimento filologico-estetizzante della Francesca da Rimini , sforzandosi di introdurre anche in Italia la figura del regista; l’esperienza di capocomico di Pirandello è ormai alle porte.
Il contatto diretto con la realtà del palcoscenico ha un influsso determinante sull’evoluzione della scrittura teatrale di alcuni autori ottocenteschi: la tecnica drammaturgica di Ibsen o di Bjørnson, ad esempio, è largamente debitrice del coinvolgimento di questi autori nel mondo del teatro professionale. Il tormentato rapporto degli scrittori con la scena si riflette, inoltre, nelle trasformazioni che la didascalia subisce nel corso del XIX secolo. Se è vero che tutti i drammaturghi concordano nel sostenere la supremazia del testo sulla messa in scena, essi hanno opinioni diverse circa i modi attraverso i quali l’opera letteraria può arrivare a esercitare un controllo sul proprio allestimento. Il romanticismo tedesco nutre un’incondizionata fiducia nella capacità della poesia drammatica di autodeterminare la propria realizzazione scenica. Nelle Lezioni sull’arte drammaturgica e sulla letteratura (1809), August Wilhelm Schlegel condanna l’uso nel testo delle didascalie per l’attore, quale ingiuria all’eloquenza drammatica. Già Hugo, sulla scorta delle sue esperienze teatrali e dell’influsso esercitato dal modello del mélo, accorda invece nei suoi drammi sempre più spazio alle didascalie – sintomatico in tal senso il confronto tra Ernani (1830) e Ruy Blas (1838). In pieno naturalismo la didascalia diventa un autentico progetto di messa in scena inscritto nel testo. Tra abbandono lirico, compiacimento estetizzante e volontà di evasione dalla materialità del teatro, la didascalia della drammaturgia simbolista – con le sue indicazioni che travalicano ogni possibile concretizzazione scenica o con la sua sapiente gestione delle pause, tese a modulare il ritmo del dialogo – si pone infine come teatro ideale per l’epifania del simbolo o come sottotesto capace di guidare il lavoro dell’attore.
August Wilhelm Schlegel
L’eloquenza drammatica
Corso di letteratura drammatica, lezione XII
Diderot fece ancora grande ingiuria all’eloquenza dramatica con l’usanza ch’egli introdusse di notare distesamente lo sceneggiar muto de’ personaggi. Egli è come se il poeta tirasse una lettera di cambio sopra l’attore, in vece di pagare di propria borsa. Senza dubio tutti i buoni poeti dramatici pensano allo sceneggiar muto in mentre che scrivono; ma se l’attore ha d’uopo che gli si dieno istruzioni in tal proposito, è da temere ch’egli non abbia pure il talento di seguirle con sagacità. Il dialogo debb’essere scritto di sorta, che un attore intelligente non possa ingannarsi circa il modo di cogliere le particolarità del personaggio da lui rappresentato.
A.W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, trad. it. e note a cura di G. Gherardini, Genova, Il Melangolo, 1980
Victor Hugo
Descrizione del salone di Danae, entrano Don Sallustio, Ruy Blas e Gudiel
Ruy Blas
Il salone di Danae nel palazzo reale a Madrid. Magnifici mobili di gusto fiammingo, che risalgono all’epoca di Filippo IV. A sinistra, una grande finestra, dal telaio dorato, a piccoli riquadri. Da entrambi i lati una porta bassa, su pareti trasversali, dà negli appartamenti interni. Sul fondo una vetrata a riquadri dorati immette, attraverso un’altra porta, in una lunghissima galleria che ricopre tutta l’estensione del palcoscenico. La galleria è mascherata da pesanti tendaggi che cadono dall’alto della vetrata fino a terra. Un tavolo, una poltrona e l’occorrente per scrivere. Dalla porticina a sinistra entra Don Sallustio, seguito da Ruy Blas e da Gudiel che trasporta un cofanetto e parecchi involti che fanno pensare a preparativi di viaggio. Don Sallustio sfoggia una veste di velluto nero, un abito cortigiano di moda all’epoca di Carlo II. Al collo porta il toson d’oro. Sopra il severo abito nero indossa un ricco mantello di velluto verde chiaro ricamato d’oro e foderato di raso nero. La sua spada è sormontata da un’elsa imponente. Il cappello è adorno di piume bianche. Anche Gudiel veste di nero e porta la spada. Ruy Blas è in livrea, brache alte e giustacuore scuro. Indossa un soprabito a galloni rosso e oro. E’ a capo scoperto e non porta la spada.
Victor Hugo, Ernani, Il re si diverte, Ruy Blas, a cura di E. Groppali, Milano, Garzanti, 1988
La battaglia per la tutela legale dei diritti d’autore sulle rappresentazioni è la più immediata conseguenza organizzativa del tentativo dei drammaturghi di esercitare un’influenza diretta sulla vita teatrale. All’inizio del secolo il lavoro degli scrittori che si dedicano al teatro è particolarmente penalizzato in Inghilterra: in un rapporto del 1832 William Thomas Moncrieff denuncia l’impossibilità per i drammaturghi inglesi di percepire un giusto compenso alle proprie fatiche.
Soltanto nella seconda metà del secolo, a seguito del riordinamento della legislazione sul teatro deciso dalla regina Vittoria, i drammaturghi inglesi ottengono un più congruo riconoscimento del loro lavoro. Nel 1858 si tiene a Bruxelles un congresso internazionale che pone le basi per la legislazione europea sui diritti d’autore e negli anni immediatamente successivi ha luogo la stipulazione di una serie di convenzioni tra i singoli Stati: nel 1862, ad esempio, l’Italia firma una convenzione con la Francia, la più forte "esportatrice" di drammaturgia in Europa.
Proprio le vicende italiane forniscono un utile diagramma sull’andamento delle lotte per il riconoscimento dei diritti d’autore. Nel 1865 il nuovo Stato unitario vara la prima legge in materia; le disposizioni in essa contenute vengono poi modificate con due successive leggi del 1875 e del 1882. Il moltiplicarsi di iniziative legislative denuncia il perdurare del disagio delle parti in causa, autori e teatranti. Nel 1882 a Milano nasce la S.I.A., la Società Italiana degli Autori; una svolta nella vita della società si ha nel 1896 con la nomina di Marco Praga a direttore generale, carica che Praga conserverà fino al 1911. In quello stesso 1896 apre a Roma un proprio studio Adolfo Re Riccardi, specializzato nell’importazione di pièce francesi. Tra Praga e Re Riccardi inizia uno scontro per la gestione del "mercato drammaturgico" che si protrarrà fin nei primi decenni del Novecento.
Dichiarazioni di intenti: il regista "fedele" al drammaturgo
Il teatro ottocentesco vede inserirsi nel rapporto spesso burrascoso tra drammaturgo e attore la figura del regista. Muovendo i primi passi sulla scena europea, il regista tende a giustificare la propria presenza proponendosi come alter ego dell’autore, nonché come esecutore della sua volontà. Opponendosi all’arbitrio delle creazioni dei grandi attori e alla sciatteria delle produzioni di mercato, il regista legittima dunque il proprio ruolo attribuendosi la funzione di difensore dei valori della poesia drammatica.
Creando la compagnia dei Meininger, il duca Georg II von Meiningen in collaborazione col regista Ludwig Chronegk intende essenzialmente combattere la corruzione dilagante nell’arte teatrale. Sviluppando l’inclinazione alla ricostruzione filologica di Goethe e il realismo storico inglese di Macready, Kean e Phelps, conosciuto a Berlino nel 1859, il duca dedica una particolare cura all’aspetto visivo degli spettacoli. Lo studio dei costumi viene impostato su basi scientifiche; lo spazio scenico è sfruttato in tutta la sua profondità, passando dalla scenografia dipinta alla scenografia tridimensionale. Per illuminare la scena viene utilizzata l’energia elettrica. Grazie all’uso di praticabili, inoltre, gli attori possono essere collocati ad altezze diverse. Parallelamente il duca combatte i malvezzi del grande divismo attoriale; in nome della naturalezza i Meininger devono astenersi dal rivolgersi direttamente al pubblico o dallo stazionare in prossimità della ribalta; talvolta devono recitare anche "coperti"dai loro colleghi o volgendo le spalle alla platea. Un’attenzione particolare è rivolta alle scene di massa – significativa in tal senso la scelta di debuttare con il Julius Caesar di Shakespeare.
In seno alla compagnia un rigoroso sistema di rotazione presiede inoltre alla distribuzione delle parti: lo stesso attore può essere indifferentemente chiamato a interpretare personaggi di rilievo o secondari. Georg von Meiningen affronta i testi col medesimo scrupolo filologico che dedica alla progettazione delle scenografie. Le opere straniere sono presentate in traduzioni accurate e il duca cerca, per quanto possibile, di mettere in scena i testi così come sono stati concepiti dai loro autori: anziché utilizzare il rifacimento di Dingelstedt, Il racconto d’inverno è recuperato nella sua versione originale e a un restauro analogo è sottoposta Caterina di Heilbronn di Kleist. Il piglio militaresco con cui il duca regge i Meininger – non a caso le comparse della compagnia sono scelte tra i soldati del suo esercito – è dunque rivolto a creare una sorta di dittatura nel nome dell’arte.
Uno stesso "zelo" artistico può essere riscontrato in André Antoine, fondatore del Théâtre Libre (1887-1896), del Théâtre Antoine (1897-1906) e infine, dal 1906, direttore del secondo teatro di Francia, l’Odéon. Antoine, sostenitore dei Meininger visti a Bruxelles nel 1888, orienta in direzione naturalistica il realismo storico di questi ultimi.
Ponendosi sotto l’egida di Zola – la cui novella Jacques Damour è inclusa nel programma della serata inaugurale del Théâtre Libre in un adattamento curato da Hennique – Antoine cerca di fornire al repertorio naturalista un adeguato corrispettivo teatrale. Gli ambienti sono ricostruiti con puntiglio, la dislocazione scenica di arredi e attori è stabilita secondo il principio della quarta parete e la recitazione, scaturendo dall’identificazione dell’attore con il personaggio, rifugge dall’enfasi declamatoria della tradizione teatrale francese per accostarsi il più possibile al parlato. Il rigore con cui Antoine predica il verbo naturalistico, sfidando l’ostracismo della critica ufficiale e del pubblico – gli scandali suscitati dagli spettacoli del Théâtre Libre vengono addirittura discussi in parlamento – si arresta di fronte a un solo limite: la volontà dell’autore. In una celebre lettera del 24 ottobre 1893 indirizzata a Charles Le Bargy, Antoine spiega che l’attore deve essere una semplice "tastiera" meravigliosamente accordata e pronta a essere suonata dall’autore. Trincerandosi dietro il fantasma del drammaturgo, il regista può quindi assumere le redini della messa in scena a scapito dell’attore.
Realtà operativa: il regista creativo
Nel volgere di pochi anni la tattica di adesione alla voluntas auctoris, per guadagnarsi uno spazio di lavoro autonomo all’ombra del drammaturgo, viene abbandonata dal regista che, forte del potere conquistato, rivela apertamente le ambizioni "totalitarie" dissimulate nelle sue prime dichiarazioni d’intenti.
Il 22 giugno 1897 ha luogo lo storico incontro tra il giovane attore dilettante Konstantin Stanislavskij e il drammaturgo Nemirovic-Dancenko, direttore della scuola della Società Filarmonica di Mosca. Come racconta lo stesso Stanislaviskij nel volume autobiografico La mia vita nell’arte (1924), nel corso di tale incontro i due progettano la creazione del Moskovskij Chudožestvennyj Teatr (Teatro d’Arte di Mosca). Nel programma della nuova compagnia non mancano i richiami al rispetto della volontà dell’autore, ma il tipo di "fedeltà" praticato dal Teatro d’Arte, che inizia la propria attività il 14 ottobre 1898 con l’allestimento di Lo zar Fëdor Joannovic di Aleksej Konstantinovic Tolstoj, appare ben presto alquanto originale.
Konstantin Stanislavskij
Un nuovo teatro
La mia vita nell’arte
Nel giugno del 1897 ricevetti un biglietto, nel quale mi invitava ad andare, per conferire con lui, in un ristorante di Mosca che si chiamava Slavjanskij Bazar. Là egli mi spiegò lo scopo del nostro incontro: la creazione di un nuovo teatro, nel quale io avrei dovuto entrare con il mio gruppo di dilettanti, ed egli con quello dei suoi allievi prossimi a licenziarsi. A questo nucleo bisognava aggiungere i suoi allievi precedenti, I.M. Moskvin e M.L. Roksanova, e scegliere gli artisti mancanti dagli altri teatri delle capitali e della provincia. La questione principale consisteva nel chiarire fino a che punto i principî artistici dei dirigenti della futura impresa fossero affini tra loro, fino a che punto ciascuno di noi fosse disposto a reciproche concessioni e quali punti di contatto esistessero tra noi.
Una conferenza internazionale non esamina i suoi importanti problemi con la precisione con cui noi allora esaminammo le basi della futura impresa, i problemi di arte pura, i nostri ideali artistici, l’etica del teatro, la tecnica, i piani di organizzazione, i progetti del futuro repertorio, i nostri rapporti reciproci.
- Per esempio l’attore A., - ci esaminavamo a vicenda. - Lo considerate di talento?
- In alto grado.
- Lo prendereste nella vostra compagnia?
- No.
- Perché?
- Egli si è adattato alla carriera, ha conformato il suo talento alle esigenze del pubblico, il suo carattere ai capricci dell’impresario e tutto se stesso alla mediocrità teatrale. Chi è intossicato da un tale veleno, non può guarire.
- E che dite della attrice B.?
- Una buona attrice, ma non fa al nostro caso.
- Perché?
- Non ama l’arte, ma solo se stessa nell’arte.
- E l’attrice C.?
- Non è adatta, incorreggibilmente lenta.
- E l’attore D.?
- Su questo vi consiglio di rivolgere la vostra attenzione.
- Perché?
- Ha degli ideali per i quali lotta; egli non si adagia sul già esistente. È un uomo di principî.
- Sono del vostro parere e perciò, col vostro permesso, lo includo nell’elenco dei candidati.
Ma ecco sorgere la questione della letteratura, e io immediatamente sentii la superiorità di Vladimir Ivanovic su di me; volentieri mi piegai alla sua autorità, mettendo nel verbale della seduta che riconoscevo al mio futuro collaboratore teatrale V.I. Nemirovic-Dancenko il pieno diritto di veto in tutti i problemi di carattere letterario.
Però per quel che riguarda gli attori, il regista e la messinscena non mi mostrai così accondiscendente. Io avevo un difetto, che ora, oso pensare, credo di essere riuscito in gran parte a vincere: quando mi invaghivo di qualche cosa, senza pensarci due volte, come se avessi i paraocchi, mi sforzavo ad ogni costo di raggiungere lo scopo prefissomi. In quel momento né persuasione né ragionamenti avevano alcun effetto. Evidentemente, ciò non era altro che un residuo della mia ostinazione di ragazzo. Al tempo a cui mi riferisco io ero già abbastanza esperto in questioni di regia, perciò Vladimir Ivanovic fu costretto a concedermi il diritto di veto in fatto di regia e di messinscena artistica. Nel protocollo fu scritto:
"Il diritto di veto per la letteratura appartiene a Nemirovic-Dancenko, quello artistico a Stanislavskij". (...)
Nelle questioni generali di etica ci mettemmo immediatamente d’accordo sul fatto che, prima di esigere dagli attori il rispetto delle norme della decenza, obbligatorie per tutta la gente civile, era necessario porli in condizioni umane. Pensate in quali condizioni vivono gli artisti, specialmente in provincia. Spesso non hanno nemmeno il proprio angoletto dietro le quinte. Tre quarti dell’edificio è destinato agli spettatori; essi hanno buffet, sale da tè, ristoranti e splendidi spogliatoi, foyer, sale da fumo, gabinetti con acqua e con lavamani, corridoi per passeggiare. Soltanto un quarto dell’edificio è a disposizione dell’arte scenica, compresi anche i depositi degli scenari, degli accessori teatrali, degli impianti elettrici, gli uffici, i laboratori, e le sartorie per l’adattamento dei costumi. Che spazio resta all’attore? Alcuni minuscoli bugigattoli, simili a stalle, sotto la scena, privi di finestre e di ventilazione, sempre pieni di polvere e sporchi, perché, per quanto li si scopi, da sopra, dal pavimento della scena, che costituisce il soffitto di questi cosiddetti camerini, casca continuamente spazzatura, sporcizia, polvere, per di più caustica, essendo mista ai colori che si distaccano dagli scenari, da far male agli occhi e ai polmoni. Pensate all’arredamento di questi camerini e in che cosa sia meglio di una cella di prigione: alcune tavole mal piallate su mensole inchiodate al muro, che sostituiscono il tavolo da trucco; un piccolo specchio destinato a due o tre artisti, nella maggior parte dei casi storto, comprato d’occasione, di vetro di scarto; una vecchia sedia non adatta per la platea, riparata alla buona e degradata a uso del camerino degli artisti; una tavola di legno sulla parete, con dei chiodi infissi, che funge da attaccapanni; la porta fatta di tavole con lunghe fessure attraverso le quali è molto comodo spiare le signore che si cambiano d’abito; un chiodo e un pezzo di corda al posto della serratura; iscrizioni non sempre decenti sui muri. Ma se dai un’occhiata al bugigattolo del suggeritore ti viene da pensare all’inquisizione medievale. Questo martire è condannato nel teatro a un’eterna tortura, per cui ti senti assalire da un senso di terrore. Una sporca cassa simile a un canile, tappezzata di feltro polveroso. Metà del tronco del suggeritore è immersa sotto il pavimento della scena, impregnato dell’umidità sotterranea, l’altra metà, a livello del pavimento, è riscaldata da entrambi i lati con le lampade arroventate della ribalta. Tutta la polvere che si sprigiona aprendo il sipario, e per il continuo strisciare delle sottane femminili sul pavimento, vola nella bocca del povero suggeritore, mentre è costretto, tutto il giorno e tutta la serata, senza mai prendere fiato, durante l’intero spettacolo e le prove, a parlare con voce artificialmente repressa, spesso sforzata, per essere sentito soltanto dagli attori e non dagli spettatori. È noto che tre quarti dei suggeritori finiscono tisici. Tutti lo sanno, e nessuno tenta di inventare una buca per il suggeritore più o meno decente, eppure il nostro secolo non è avaro di invenzioni.
(...) parlammo anche dell’etica artistica, e mettemmo a verbale le nostre risoluzioni con frasi e aforismi quali, ad esempio:
"Non esistono piccole parti, esistono invece piccoli artisti".
Oppure:
"Oggi Amleto, domani una comparsa, ma anche in tale qualità d’artista..."
"Il poeta, l’attore, il pittore, il sarto, l’operaio, devono servire all’unico fine posto dal poeta alla base della sua opera".
"Ogni infrazione alla vita creativa del teatro è un delitto".
"Il ritardo, la pigrizia, i capricci, gli isterismi, il brutto carattere, il non sapere la parte, la necessità di ripetere due volte la stessa cosa, sono tutte cose dannose e devono essere sradicati". (...)
La prima storica seduta con V.I. Nemirovic-Dancenko, che ebbe un’importanza decisiva per il futuro del nostro teatro, incominciò alle due antimeridiane e terminò l’indomani mattina alle otto: si prolungò senza interruzione per diciotto ore. In complesso ci intendemmo su tutti i problemi fondamentali e giungemmo alla conclusione che potevamo lavorare insieme. Prima dell’inaugurazione del teatro, cioè prima dell’autunno 1898, rimaneva ancora molto tempo; un anno e quattro mesi. Nondimeno ci mettemmo al lavoro immediatamente. Decidemmo che entro l’anno prossimo Vladimir Ivanovic avrebbe fatto conoscenza con gli artisti del mio circolo, della Società di arte e di letteratura, e io con i suoi allievi, destinati alla futura compagnia. Ed effettivamente, non vi fu uno spettacolo della scuola della Società filarmonica senza che io vi partecipassi, e nessuna delle mie messinscene passò senza l’esame e la critica di Vladimir Ivanovic. Criticandoci e non temendo di dire e ascoltare la verità avemmo modo di conoscerci reciprocamente e con gli attori. Nello stesso tempo discutemmo la composizione della futura compagnia e della futura amministrazione.
K. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, trad. it. di M. Borsellino Di Lorenzo, Torino, Einaudi, 1963
In linea di principio il gusto per la ricostruzione storica di Stanislavskij, che per le scenografie dei propri allestimenti si avvale della collaborazione di Simov, non è troppo diverso da quello dei Meininger e, come il duca di Meiningen, anche Stanislavskij si batte per correggere i vizi degli attori. Il repertorio del Teatro d’Arte è meno omogeneo di quello dei teatri d’"avanguardia" che lo hanno preceduto in Occidente: accanto alla linea storica di costume, in cui rientra la messa in scena di Lo zar Fëdor Joannovic, il MCHT tenta la linea del fantastico, con l’allestimento di La fanciulla di neve di Ostrovskij (1901), la linea del simbolismo e dell’impressionismo, che per Stanislavskij si concretizza nell’approccio alla drammaturgia di Ibsen, la linea dell’intuizione e del sentimento, inaugurata con Il gabbiano (1898), e la linea politico-sociale, avviata con Doktor Stockmann (Un nemico del popolo) di Ibsen (stagione 1900-1901). La coppia Stanislavskij/Nemirovic-Dancenko istituzionalizza la complementarità che, nell’organigramma dei teatri d’arte novecenteschi, si crea tra la figura del "regista" e quella del suo consulente letterario o Dramaturg – da non confondersi con il drammaturgo autore dei testi. Come risulta da alcune pagine autobiografiche, già prima della costituzione del Teatro d’Arte, una tournée moscovita dei Meininger induce Stanislavskij a riflettere sul rapporto tra attore e regista.
Punto di forza della poetica teatrale di Stanislavskij diventa una ridefinizione della figura dell’attore che, per prima cosa, va sottratto all’esistenza di miseria cui è stato condannato per tutto l’Ottocento e va sostenuto nella sua crescita umana e culturale. Il passaggio dal "realismo esteriore" al "realismo interiore" mediato dalla drammaturgia di Cechov e la continua sperimentazione di nuove tecniche di lavoro, dall’identificazione tramite "reviviscenza" al metodo delle "azioni fisiche", avvicinano pericolosamente il regista-pedagogo Stanislavskij a posizioni eversive. Il significato profondo del percorso artistico del MCHT è colto con precisione da Mandel’štam che nel 1923 accusa Stanislavskij di tradire la parola. Nel corso del secolo il regista ha acquistato forza sufficiente per emanciparsi dalla tutela autoriale e per avviare, in stretto rapporto con l’attore, un percorso estetico autonomo.
Sul finire dell’Ottocento il destino eversivo della figura del regista si legge con chiarezza nelle riflessioni teoriche di Adolphe Appia. Analizzando le questioni sollevate dalla rappresentazione dei drammi wagneriani (Notes de mise en scène pour l’Anneau de Nibelung, 1891; La mise en scène du drame wagnérien, 1895; Die Musik und die Inszenierung, 1899), Appia formula il principio dell’assoluta dipendenza della messa in scena del Wort-Ton-Drama dalla musica.
La vera soluzione al problema che più preoccupava Wagner – l’impossibilità cioè di controllare completamente la presentazione scenica delle proprie opere – può essere risolta per Appia solo lasciando che sia la musica a determinare la traduzione visiva del dramma. Cercando di sfruttare al meglio le possibilità offerte dalla prassi istituzionalizzata al Festspielhaus di Bayreuth di utilizzare l’energia elettrica per l’illuminazione della scena e di oscurare completamente la platea durante le rappresentazioni, Appia indica nella luce il mezzo principale per plasmare lo spazio secondo la logica imposta dalla musica.
Libera da ogni preoccupazione archeologico-decorativa, la teoria della messa in scena di Appia è ormai a un passo dalle astrazioni dell’avanguardia; nel 1900 Gordon Craig consegue infatti il suo primo risultato importante con la messa in scena del Dido and Aeneas di Purcell, ripreso l’anno successivo in un unico spettacolo con The Masque of Love. L’ortodossia maniacale del culto wagneriano di Appia si converte in pulsione eterodossa: non a caso Cosima Wagner, inflessibile esecutrice testamentaria delle volontà del marito scomparso, proibisce ad Appia l’accesso al tempio di Bayreuth.
Evoluzione delle convenzioni: le messe in scena shakespeariane
Ogni scuola drammaturgica presuppone un proprio sistema di convenzioni rappresentative, a volte concretamente messo in atto nella prassi teatrale, a volte semplicemente ipotizzato dagli scrittori. A prescindere dall’orientamento del repertorio, l’evoluzione ottocentesca dei paradigmi che strutturano la messa in scena si coglie nella storia delle rappresentazioni shakespeariane. Alternando momenti di straordinaria fortuna a momenti di calo di interesse, il mito di Shakespeare attraversa l’intero secolo da Schlegel a Laforgue, spaziando dal teatro di parola a quello per musica – Rossini, Otello (1816); Verdi, Macbeth (1847), Otello (1887) e Falstaff (1893) – dalla letteratura alle arti figurative (celebri le trasposizioni visive delle opere shakespeariane di Füssli).
Quando ormai da lungo tempo si sono spenti gli entusiasmi romantici per il drammaturgo inglese, il teatro di Shakespeare è ancora capace di sedurre gli artisti simbolisti. Di tutti gli spettacoli che Mallarmé recensisce per la "Revue indépendante", soltanto l’ Hamlet dato alla Comédie Française nel 1896 riceve infatti una sua parziale approvazione, sulla quale la magistrale interpretazione del celebre attore Mounet-Sully nella parte del protagonista non ha meno peso dello straordinario fascino del personaggio che egli incarna.
Agli inizi del secolo Tieck, Dramaturg a Dresda, dedica un interesse particolare allo studio del teatro shakespeariano, di cui cura anche una traduzione integrale in collaborazione con Schlegel (1828-1833). Ostile alle ricostruzioni "storicistiche" in auge in quegli anni grazie agli allestimenti di von Brühl, che si avvale della collaborazione di Schinkel per le scenografie e di Sturmer per i costumi, Tieck – richiamandosi alle scarse conoscenze primo-ottocentesche sul teatro elisabettiano – sostiene la necessità di calare i drammi di Shakespeare in una scena più astratta che sia trampolino per la fantasia dello spettatore e non ricostruzione "archeologica" di un ambiente. Celebre è l’allestimento curato da Tieck a Berlino di Sogno di una notte di mezza estate (1843), con una scena divisa in tre piani connessi da una scalinata e la scenografia dipinta relegata a semplice fondale. Le scelte di Tieck influenzano Immermann, direttore del teatro di Düsseldorf tra il 1832 e il 1837; la Musterbühne (scena modello) di Immermann è progettata ispirandosi alle semplici strutture del teatro elisabettiano.
Negli allestimenti shakespeariani ottocenteschi prevale però la linea del realismo storico, quasi a compensare lo scarsissimo scrupolo filologico dimostrato nei confronti dei testi che vengono quasi sempre rappresentati in versione ridotta e rimaneggiata per venire incontro ai gusti del pubblico. In Inghilterra scenografi come Stanfield, Telbin o Alma-Tadema si sforzano di dare ambientazioni storicamente precise ai drammi shakespeariani, in armonia con le richieste di attori quali Charles Kemble – che per la messa in scena di King Lear al Covent Garden (1823) ricorre alla collaborazione di Planché, vera autorità in campo araldico – William Macready o Samuel Phelps. Nella seconda metà del secolo il realismo storico trionfa negli allestimenti di Henry Irving.
Dall’Inghilterra lo scrupolo storicistico – i cui risultati agli occhi delle conoscenze storico-iconografiche acquisite nel Novecento sono spesso discutibili – si trasmette alla Germania dei Meininger: per l’allestimento del Julius Caesar (1870) Georg II von Meiningen interpella il conservatore dei monumenti antichi di Roma. Diffusa attraverso i Meininger in tutta Europa, la linea realistica arriva sostanzialmente fino a Stanislavskij. Il geniale regista, che inaugura un nuovo corso nella storia del teatro europeo, pur essendo sensibile ai risultati conseguiti dalla ricerca scenica primo novecentesca si distacca solo a fatica dalle convenzioni rappresentative realistiche: sintomatica in tal senso è la tormentata collaborazione con Gordon Craig per la messa in scena di Hamlet al Teatro d’Arte (1912).
Nel 1888, presso la biblioteca di Utrecht, viene scoperto un disegno di Arend van Buchel, copia di uno schizzo di De Witt raffigurante l’interno dello Swann Theatre nel 1596; se si eccettua una panca, il palcoscenico rappresentato nel disegno è privo di scenografia. La scoperta dello schizzo influenza profondamente gli allestimenti di William Poel, che nel 1895 fonda l’Elizabethan Stage Society. Richiamandosi alla struttura del palcoscenico del periodo elisabettiano e giacobiano, gli esperimenti di Poel, contemporanei alla ricerca teatrale simbolista, aprono la strada al definitivo abbandono dell’arco di proscenio nell’architettura teatrale.