Droga
Proibizionismo e antiproibizionismo
Legalizzare le droghe leggere?
di Pietro Soggiu
12 MARZO
Un giudice di Venezia ordina all'Azienda sanitaria di S. Donà di Piave di acquistare all'estero e di fornire gratuitamente a una paziente medicinali a base di Cannabis sativa, non commercializzati in Italia. Il 30 aprile il Consiglio regionale della Lombardia chiede al governo e al Parlamento di regolamentare l'uso medico della canapa indiana e dei suoi derivati. In ambedue i casi l'utilizzo della marijuana nella terapia del dolore diventa materia di un serrato dibattito, che confluisce in quello più ampio incentrato sull'opportunità o meno di legalizzare le cosiddette droghe leggere.
l'ipotesi legalizzatrice
L'argomento della legalizzazione delle droghe leggere viene affrontato, con periodica ossessività, da molti anni, con dispute di natura scientifica, tecnica, operativa ma, soprattutto, spesso ideologica. Se non si è mai giunti a valutazioni o conclusioni tali da far considerare l'ipotesi legalizzatrice concretamente percorribile lo si deve al fatto - e forse non è inutile ricordarlo - che il mondo scientifico, le istituzioni politiche, gli orientamenti di ordine etico sono, nella loro assoluta maggioranza, contrari a ogni forma di liberalizzazione, legalizzazione ecc. delle sostanze stupefacenti.
Il tema, comunque, riguarda un quadro instabile, arduo da definirsi compiutamente, nel quale si inseriscono le proposte avanzate dagli 'antiproibizionisti', commettendo - ovviamente a mio avviso - errori che in gran parte nascono non da malafede ma dalla maniera, in alcuni casi invero semplicistica, nella quale il problema viene affrontato. Secondo quelle tesi, infatti, in un regime di legalizzazione e/o liberalizzazione, la diffusione delle droghe verrebbe ridotta, le sostanze da distribuire non sarebbero adulterate perché prodotte dall'industria farmaceutica e controllate dallo Stato, la pericolosità sociale del fenomeno verrebbe notevolmente dimensionata e si darebbe, infine, un colpo significativo alla criminalità che presiede al traffico illecito. Con tali premesse si denunzia, quindi, il fallimento delle politiche proibizioniste, sostenendo che si è giunti al momento di superare le 'repressive' norme vigenti.
Conviene intanto, prima di addentrarsi in un problema da molti già affrontato, precisare in sintesi la differenza fra 'liberalizzare' e 'legalizzare'. Liberalizzare significa lecitamente produrre, distribuire, cedere, vendere ecc. le sostanze nel libero mercato, tesi, questa, universalmente respinta; legalizzare significa, invece, regolamentare l'uso di una sostanza stabilendo parametri da rispettare per poterne avere il diritto all'uso, di solito limitatamente a quel gruppo di sostanze che vengono comunemente ma impropriamente definite 'leggere'.
Pertanto, ritengo sia preventivamente necessario sottolineare un aspetto che fa giustizia di alcune superficiali valutazioni circa la pericolosità delle droghe e, quindi, della loro classificazione in 'leggere' e 'pesanti' (definizioni create e sostenute dal movimento antiproibizionista), che non ha senso e non solo perché in dottrina è inesistente ma perché è ovviamente più corretto fare riferimento agli effetti che le sostanze determinano sull'organismo; in tal caso, va ulteriormente sottolineato che vi possono essere 'effetti pesanti' da un uso di droghe cosiddette leggere ed 'effetti leggeri' da quello di droghe cosiddette pesanti: tutto infatti è condizionato dalla quantità di sostanza assunta, da come viene 'acquisita' dall'organismo (iniettata, fumata, aspirata), dalle condizioni fisiche dell'assuntore e, infine, dal fatto che l'uso sia intenso e ripetitivo o del tutto occasionale.
Queste assai semplici e sin troppo sintetiche considerazioni non fermeranno davvero - come mai hanno fermato in passato - le polemiche sulla classificazione riferita, poiché esistono gruppi che si riconoscono ideologicamente nelle posizioni 'antiproibizioniste', altri in quelle 'proibizioniste', e l'ideologia non di rado si manifesta in forme di faziosità, relegando in un canto anche le più solari verità.
Rinviando per il momento le valutazioni scientifiche che sono alla base della convinzione circa l'impercorribilità dell'ipotesi di legalizzazione delle droghe cosiddette leggere, cominciamo con l'esaminare gli argomenti e le affermazioni portati avanti nel tempo dai 'legalizzatori'.
le esperienze svizzera e olandese
I sostenitori della legalizzazione delle droghe fanno frequentemente ricorso a interviste e richieste di pareri a politici, personaggi dei media, della medicina alternativa, dello spettacolo, della giustizia ecc., che si dichiarano a favore della legalizzazione delle droghe 'leggere', spesso avvalorando le proprie affermazioni con il riferimento a "quanto è successo altrove, con risultati inequivocabili, in Svizzera, in Olanda…".
Particolare enfasi viene posta sul 'successo' della sperimentazione svizzera di somministrazione controllata di sostanze stupefacenti. Prima di addentrarsi nell'esame di tale provvedimento, e al fine di evitare ogni equivoco, va ricordato che le autorità elvetiche hanno precisato che nel loro paese non è prevista alcuna forma di legalizzazione delle droghe. Nel 1992 fu presentato un progetto per la prescrizione di eroina, accompagnato da uno studio scientifico. Il progetto venne lanciato nel 1993 per la durata di tre anni. All'inizio dello studio, il programma prevedeva l'obiettivo finale della completa astinenza dalle droghe, criterio in seguito abbandonato e sostituito da quello, più banale, della 'fattibilità' del programma. I committenti erano al tempo stesso gli analisti della sperimentazione a programma terminato, aspetto che ovviamente condizionava l'attendibilità dei risultati.
Il programma intendeva coinvolgere tossicodipendenti cronici di lunga data (grave forma di dipendenza da due anni o più), di almeno 20 anni di età, con due tentativi terapeutici falliti alle spalle, dediti a consumo quotidiano di eroina, in cattivo stato di salute, con sintomi di disintegrazione sociale. Una gran parte di tali condizioni non risulta essere stata rispettata: per es., il 49% dei partecipanti non si era mai sottoposto a terapia in centri residenziali e il 26% aveva affrontato un solo tentativo di cura; il 9% non si era mai sottoposto a terapia sostitutiva e il 37% l'aveva fatto una sola volta; in quanto allo stato di salute all'inizio della sperimentazione, il 79% dei soggetti era in buona od ottima salute, l'80% in buono od ottimo stato di nutrizione, e ciò dimostra che proprio i cosiddetti tossicodipendenti gravi, che avrebbero dovuto costituire l'autentico gruppo target della sperimentazione, non erano praticamente coinvolti nel programma.
Il provvedimento ha riguardato, all'inizio, 1146 persone, delle quali - come risulta dal riassunto del Rapporto di sintesi redatto dagli analisti - 356 (oltre un terzo) si sono ritirate e 83 sono passate a terapie di astinenza (cioè a percorsi del tutto opposti a quelli della sperimentazione); cinque sono state colpite da epatite C, quattro da epatite B e tre da HIV; 36 sono decedute. I relatori hanno riferito, sempre nel loro rapporto, che i tossicomani si sono ammalati e/o sono deceduti "per malattie infettive e per overdose di stupefacenti non somministrati su prescrizione medica" e che "il consumo illegale di eroina e cocaina è diminuito in modo rapido e consistente" da parte dei pazienti controllati. Nella sostanza, pertanto, emerge che i pazienti - ai quali venivano somministrate diverse 'dosi' al giorno - assumevano sostanze anche fuori dalle strutture di sperimentazione e che per gli stessi pazienti è stata rilevata una diminuzione del consumo 'illegale' di droghe.
Ma, soprattutto, la 'validità' dell'esperimento è più correttamente desumibile da quanto organismi scientifici hanno, di proposito, riferito. L'Organo internazionale di controllo degli stupefacenti di Vienna, l'INCB (International narcotics control board), ha più volte criticato la politica della Svizzera in materia di droga e nel suo rapporto del 24 febbraio 1998 ha affermato: "L'Organo ha espresso riserve in merito a un elemento della politica svizzera in materia di droga, e più precisamente in merito al progetto di prescrizioni di eroina ai tossicodipendenti".
L'Ufficio federale della Sanità pubblica elvetico (UFSP), equivalente al nostro Ministero della Salute, conclude il suo esame dell'esperimento affermando: "L'Ufficio federale della Sanità pubblica fa notare che il trattamento con prescrizioni di eroina è una delle tante possibilità terapeutiche che possono essere offerte ai tossicodipendenti. In nessun caso il trattamento con prescrizioni di eroina deve essere considerato come sostitutivo di altre terapie che mirano direttamente alla disassuefazione o che prevedono la somministrazione di altri medicamenti (metadone)".
Nel Rapporto di valutazione (1999) presentato da 23 esperti su incarico dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si possono leggere altre critiche e censure, scientificamente documentate, e si sottolinea, peraltro, come le informazioni concernenti il miglioramento delle condizioni generali (abitative, lavorative, dei contatti sociali ecc.) dei pazienti e la riduzione dei consumi di droghe da parte degli stessi si basino esclusivamente sulle dichiarazioni dei tossicodipendenti, nella completa assenza di analisti esterni e indipendenti, nonché di ogni tipo di controllo.
Ancor più severamente critico e scientificamente documentato è il volume di Ernst Aeschbach Analisi del valore scientifico dell'esperimento. Distribuzione dell'eroina in Svizzera (edito dal Gruppo 'Medici svizzeri contro la droga', stampato in tedesco, inglese e francese nel 1997), nel quale - dopo aver esaminato in modo estremamente dettagliato l'esito del progetto - si definiscono 'inconsistenti' le affermazioni sulla positività dei risultati e così si conclude: "La Svizzera dovrebbe davvero tornare a utilizzare metodi e terapie tesi a eliminare la dipendenza dalle droghe. Questa unica esperienza condotta attraverso la distribuzione di eroina, ha provocato solo preoccupazioni e confusione nella gran parte della comunità mondiale. A livello internazionale la Commissione sulle droghe narcotiche (CND), i cui membri sono parte delle tre Convenzioni delle Nazioni Unite sul controllo delle droghe narcotiche e delle sostanze psicotrope, ha in modo concordante e schiacciante respinto le proposte per la distribuzione statale di eroina ai tossicodipendenti".
Simili precisazioni merita il frequente ricorso dei 'legalizzatori' alla cosiddetta esperienza olandese. Definito il 'paese di tutte le libertà', l'Olanda manifesta forme di tolleranza e valutazioni sul comportamento dei cittadini che non di rado hanno determinato sconcerto e reazioni anche molto dure da parte degli altri paesi europei (è noto, per es., il rifiuto del presidente francese Chirac di recarsi all'Aia, facendo fallire il previsto vertice del 7 marzo 1996, per sottolineare l'inaccettabilità della posizione olandese nel favorire il 'turismo della droga' in Europa). Le 'filosofie operative' degli olandesi si rivelano spesso agli antipodi rispetto a quelle adottate negli altri paesi occidentali che si trovino a gestire situazioni analoghe. Le carceri in Olanda, per es., prevedono soltanto 13.007 celle, tutte singole e giustamente confortevoli, nelle quali viene 'ospitato', ovviamente, un massimo di 13.007 giudicati che hanno, tutti, la certezza di essere rilasciati ben prima della scadenza della loro pena per consentire agli altri condannati di occupare la prigione, secondo il programma Incidental advanced release. Va ricordato anche che coloro che evadono dal carcere non sono legalmente perseguibili perché in quel paese si sostiene - come ha ricordato nella sua relazione conclusiva al Senato francese Paul Masson, incaricato dalla Commissione di Bruxelles per lo studio dell'Accordo di Schengen - che "per un essere umano nulla è più naturale del desiderio di riacquistare la libertà".
In tale ottica può essere valutata, in materia di droga, la decisione a suo tempo assunta di autorizzare la vendita, in un certo numero di coffee-shop, sino a un massimo di 30 g di cannabis agli adulti che ne facessero richiesta. Tutto ciò premesso, deve essere ora rilevato che, negli ultimi tempi, le valutazioni circa l'efficacia delle decisioni prese nel passato hanno avuto - a seguito delle esperienze maturate, evidentemente tutt'altro che positive - brusche inversioni, da parte delle stesse autorità olandesi, inversioni tanto rilevanti quanto passate sotto silenzio da parte dei sostenitori della 'filosofia' olandese. Non solo la gran parte dei coffee-shop che vendevano cannabis è stata chiusa, le autorizzazioni all'apertura di nuovi locali non risultano essere state più concesse e il quantitativo di cannabis consentito è stato drasticamente ridotto da 30 a 5 g. Ma, soprattutto, il governo ha ritenuto di dover rendere nota la sua nuova e definitiva scelta politica in materia di droghe, pubblicando un volume, Q&A drugs. A guide to Dutch policy, edito annualmente dal Ministero degli Affari Esteri-Dipartimento per l'informazione e distribuito alle ambasciate e ai consolati nel mondo. Nella presentazione in copertina si afferma: "Il presente libretto ha lo scopo di chiarire i fraintendimenti riguardanti la politica olandese sulla droga". Il volume è articolato in 30 domande e risposte, le prime delle quali sono: "Le droghe sono state legalizzate in Olanda?" "No. Per la precisione, il traffico, lo spaccio, la produzione, il possesso di droghe sia leggere sia pesanti sono e continueranno a essere reati in Olanda. Il consumo delle stesse non è reato". Viene specificato anche che il possesso per uso personale di droghe 'pesanti' comporta la condanna a un anno di reclusione, mentre quello di pochi grammi di droghe 'leggere' a un mese di prigione oltre alla multa. È appena il caso di ricordare che nel nostro paese il consumo non comporta alcuna sanzione penale né per le sostanze 'leggere' né per quelle 'pesanti'.
Può fondatamente ritenersi che questa pubblicazione sia stata resa necessaria dalla pericolosità sempre maggiore assunta dal fenomeno del 'turismo della droga', che ha preoccupato soprattutto le autorità francesi, belghe, tedesche, danesi intervenute duramente presso le limitrofe autorità olandesi; ma l'inversione di tendenza appare comunque rilevantissima e non può non essere collegata al fallimento della precedente politica di tolleranza. Che di totale fallimento si sia trattato lo conferma quanto ha dichiarato due anni fa, in un convegno internazionale in Italia, l'ex primo ministro olandese, Andreas Van Agt: "Le critiche mosse nel tempo al permissivismo olandese si sono dimostrate vere a tutti gli effetti e giustificate". Chiarendo che la nascita dei coffee-shop ove è venduta legalmente la cannabis è stata una scelta operata negli anni Settanta nel tentativo di marcare la differenza tra droghe leggere e droghe pesanti, allo scopo di mantenere separati i mercati della cannabis e quelli dell'eroina, Van Agt ha continuato: "Questo tipo di politica non ha raggiunto gli obiettivi di separare i mercati ma li ha raddoppiati a dismisura. I motivi vanno ricercati nello sviluppo dell'enorme produzione di cannabis, più pericolosa rispetto a quella degli anni Settanta perché modificata e migliorata chimicamente, e nel profondo cambiamento del mercato della droga innescato dalla presenza sempre più consistente delle nuove sostanze sintetiche fabbricate in piccoli e nascosti laboratori difficilissimi da scoprire per le forze dell'ordine. In sintesi, ci siamo resi conto che la demarcazione tra droghe leggere e droghe pesanti non esiste, che tutte sono ugualmente dannose, e che la politica permissiva adottata nel nostro paese aveva favorito e non eliminato l'aumento della produzione e del consumo di tutte le sostanze stupefacenti".
tesi a confronto
È opportuno ricordare che più volte nel passato sono stati esperiti tentativi di orientare l'opinione pubblica verso l'efficacia della legalizzazione delle droghe. Di alcuni degli assunti su cui tali tentativi si basavano si è potuta constatare la non validità in assoluto, di altri la superficialità e di altri ancora la falsità.
In occasione della campagna referendaria del 1993, lo slogan, martellante e suggestivo, degli antiproibizionisti diceva che - qualora fosse passata la loro proposta di depenalizzazione del consumo - sarebbero finalmente uscite dal carcere le migliaia di tossicodipendenti che vi erano detenuti; la proposta passò con una ridottissima maggioranza dei votanti (e in presenza di un massiccio astensionismo), ma dal carcere non uscirono tossicodipendenti perché nessuno di questi era detenuto per il semplice consumo di droghe: lo 'Stato repressivo' (come più volte venne definito) aveva recluso soltanto tossicodipendenti che avevano rapinato, rubato, stuprato, ucciso, trafficato, spacciato ecc.
All'apertura della Seconda Conferenza triennale sulla droga (Napoli, marzo 1997) lo slogan di presentazione recitava, tra l'altro, che occorreva "affrontare la depenalizzazione delle droghe leggere, nel quadro delle decisioni auspicate dagli organismi europei". L'affermazione appariva del tutto nuova e, soprattutto, particolarmente grave e preoccupante, per cui si rese opportuna un'immediata indagine europea, con richiesta di chiarimenti, che consentì rapidamente di rilevare come quegli organismi non solo non avevano mai 'auspicato' la soluzione suddetta ma si erano sempre espressi in modo del tutto contrario, con dichiarazioni, peraltro, di particolare durezza nei confronti delle ipotesi 'legalizzatrici' da alcuni avanzate. Lo slogan venne, pertanto, soppresso ma restò lo sconcerto di rilevare come si fosse tentato, in un contesto ufficiale che doveva trattare della futura politica delle droghe in Italia, di diffondere inesattezze sulla corrispondente politica europea.
I fautori della legalizzazione sottolineano la necessità di "nuove impostazioni criminologiche e terapeutiche perché la scelta repressiva e il proibizionismo sono clamorosamente falliti", non essendo riusciti a porre un freno al fenomeno. L'assunto appare incomprensibile: se, infatti, si riferisce al 'consumo', parlare di inefficacia della 'scelta repressiva' è un assurdo, atteso che il consumo, in Italia, è totalmente depenalizzato; se, invece, l'affermazione vuole riferirsi alla presunta inefficacia della repressione del traffico e dello spaccio, essa è ancor più incomprensibile, in quanto vorrebbe sostenere che i suddetti gravissimi reati, perseguiti duramente in tutto il mondo e peraltro in mano al crimine organizzato, dovrebbero essere contrastati attraverso "nuove impostazioni criminologiche", che non vengono definite ma è agevole ritenere si identifichino con l'opzione 'legalizzatrice'. Si tratta di un'ipotesi errata, ma pericolosamente suggestiva poiché induce un'opinione pubblica particolarmente e giustamente allarmata dall'incremento della criminalità, in gran parte legata alla droga, a ritenere che 'nuove impostazioni criminologiche' determinerebbero una forte riduzione dei reati e, quindi, a guardare con favore alla legalizzazione.
Al contrario, prescindendo dall'efficacia del contrasto all'aspetto criminale del fenomeno, realizzato dalle forze dell'ordine - efficacia concretizzata come in nessun altro settore del crimine, anche attraverso l'arresto di capi di Stato, ministri, capi di Polizia, funzionari corrotti, decine di migliaia di trafficanti e spacciatori, il sequestro e la sottrazione al mercato illecito di miliardi di 'dosi' mortali, confische per miliardi di dollari 'sporchi' ecc. - c'è da chiedere ai proponenti quali leggi abbiano mai condotto alla scomparsa del reato per il quale erano state emanate. Va ricordato che la legge penale ha anche una funzione deterrente e dispone le sanzioni con riguardo all'allarme sociale che il reato da perseguire manifesta in un determinato momento storico. Qualora, invece, la sconcertante tesi di 'nuove impostazioni criminologiche', diverse dalla repressione dei gravi reati, quando questa non ne determini la scomparsa fosse percorribile, il fatto che, per es., il 96% di scippi, furti, ecc. rimanga impunito in Italia, dovrebbe comportare per uno Stato di diritto la legalizzazione del furto, dello scippo e, poi, a seguire, del contrabbando, della truffa, e così via?
Il tema droga-crimine è, peraltro, di tale rilevanza e pericolosità che merita un ulteriore approfondimento la tesi antiproibizionista secondo la quale la legalizzazione delle droghe determinerebbe la riduzione degli aspetti criminali connessi alla diffusione della sostanze vietate, argomentando che la disponibilità 'ufficiale' di stupefacenti sul mercato impedirebbe praticamente al crimine di 'monopolizzarle'. Per ottenere, infatti, secondo quanto auspicato dagli antiproibizionisti, la contrazione del crimine legato alla droga, sarebbe necessario che le loro proposte venissero indistintamente applicate in tutti i paesi del mondo (in caso contrario le organizzazioni criminali continuerebbero a operare nei paesi rimasti 'proibizionisti'). Si tratta di un'ipotesi chiaramente utopica; basta ricordare che nessun governo (dell'eccezione rappresentata dall'Olanda si è parlato prima) ha mai ipotizzato un ricorso alla legalizzazione mentre, al contrario, tutti hanno varato normative antidroga, peraltro in doverosa sintonia con le convenzioni internazionali sottoscritte in materia (1961-1971-1988).
Sarebbe altresì necessario che le medesime proposte riguardassero indistintamente tutte le droghe vietate (se così non fosse, l'attività criminale, anziché scomparire, si concentrerebbe ovviamente su quelle sostanze che rimanessero proibite). Prescindendo da considerazioni di natura etica, sociale e sanitaria su uno Stato che fornisse sostanze letali, non è improprio domandarsi se la distribuzione dovrebbe riguardare, per es., sostanze per loro natura definibili 'criminogene' come la cocaina, il crack-cocaina, l'LSD, alcune anfetamine ecc., notoriamente assunte da criminali (per il loro effetto fortemente stimolante e per la conseguente carica di aggressività che determinano nell'assuntore). Non è ovviamente ipotizzabile che un paese consenta la distribuzione di sostanze che, lungi dal ridurli, possano incrementare gli impulsi a delinquere derivanti dalla loro assunzione.
Infine, secondo tale argomentazione, sarebbe necessario che l'uso di tutte le sostanze suddette fosse esteso in maniera generalizzata a tutti coloro che ne facessero richiesta (in caso contrario, i gruppi criminali, anziché scomparire, si dedicherebbero alla fornitura di droghe ai soggetti non 'autorizzati' a riceverle). Orbene, nessuno Stato, nemmeno il più liberale, potrebbe ammettere la distribuzione a una serie numerosissima di categorie di persone (minori, donne in attesa, piloti di aerei, treni, traghetti, incaricati di pubblici servizi, chirurghi, tecnici in delicate strutture pubbliche o private, militari ecc.).
Nella ricerca di sostegni autorevoli alle loro tesi, gli antiproibizionisti continuano a enfatizzare una decisione della Corte Costituzionale del 1991 che solennemente affermò come "il passaggio dalle droghe leggere alle pesanti […] non rappresenta connotati di alta pericolosità": ciò, in termini più semplici, significa che la Suprema Corte ha riconosciuto come non tutti i consumatori di droghe leggere passano in seguito al consumo di quelle pesanti. Si tratta sicuramente di un'affermazione vera, ma è il caso di sottolineare che coloro che giungono alle droghe cosiddette 'dure' hanno cominciato a prendere confidenza con la cultura della droga, cioè del 'farsi', attraverso le sostanze leggere. Tale constatazione appare sufficiente a definire gravissima la potenziale pericolosità di tali droghe che, peraltro, ora sono tutt'altro che 'leggere', visto che le analisi svolte sulla marijuana sequestrata negli ultimi tempi, con provenienza soprattutto albanese e olandese, evidenziano percentuali di presenza del principio attivo (il THC) pari al 18-25%, quando solo alcuni anni fa esso non superava lo 0,5-1%. I genitori di oggi che negli anni della contestazione fumavano lo 'spinello' e, ora, memori di quelle leggerezze non si preoccupano molto se apprendono che il figlio occasionalmente 'si fa una canna', non sanno quale abisso di pericolosità separa le due esperienze e, soprattutto, quali sono le gravissime conseguenze del 'fumo' attuale sulla salute degli assuntori.
un paragone improprio
Altro argomento tipico usato dagli antiproibizionisti per enfatizzare la validità delle ipotesi legalizzatrici è quello di sottolineare il fallimento della politica 'proibizionista' negli Stati Uniti durante gli anni Venti e Trenta. Nell'argomentazione si nascondono diversi errori. Innanzitutto l'alcolismo non può essere paragonato alla tossicodipendenza perché si tratta di due patologie diversissime e non confrontabili: la prima è endemica, la seconda è epidemica; la prima generalmente stronca chi ha già vissuto una parte notevole della propria esistenza, la seconda mina alla radice la vita di persone giovanissime. Inoltre, quando si affronta il tema dell'alcolismo - che, va sempre ricordato, è un'autentica, gravissima piaga mondiale - spesso si dimentica la differenza tra uso e abuso: un bicchiere di vino a pasto corrisponde a un uso dell'alcol non di rado ritenuto anche benefico, mentre è l'abuso, l'assunzione di litri al giorno, a condurre all'alcolismo. Al contrario farsi costantemente una 'pera' di eroina conduce rapidamente alla tossicodipendenza.
Infine, il credere che basti 'soffiare' alla mafia una merce per sottrarle il mercato è storicamente falso, come è provato proprio dallo stesso esempio del proibizionismo americano: una volta 'perduto' l'alcol, la mafia non si è ritirata né è scomparsa ma si è gettata, e con forza, su un altro mercato, prima praticamente inesistente, rendendosene 'proprietaria': la droga. Si ha, quindi, dell'attività criminale una visione non corretta: toglietele, infatti, l'alcol e si getterà, come ha fatto, sull'eroina; toglietele l'eroina e si getterà sulla cocaina; toglietele la cocaina e si occuperà dell'LSD, dell'ecstasy, delle designer drugs, della china white, verso veleni sempre più efficaci e resi sempre più subdolamente ambiti. Non va combattuta la 'merce'; va affrontata, e duramente, l'organizzazione criminale che la controlla, in ogni campo.
la 'marijuana terapeutica'
Altro argomento portato avanti dagli antiproibizionisti - e con il quale si potrebbe ottenere, in modo surrettizio, una forma strisciante di legalizzazione - è quello di attribuire alla marijuana 'capacità terapeutiche' per alleviare le sofferenze di pazienti affetti da gravi malattie. La tesi secondo la quale i farmaci a base di cannabis potrebbero essere utilizzati nella terapia del dolore, nei casi in cui altre cure avessero fallito, è sul piano scientifico insostenibile: tali farmaci (contenenti il D.9 tetraidrocannabinolo), come per es. il Dronobinol, il Marinol, il Nabilone, sono stati effettivamente inclusi nelle farmacopee nazionali di alcuni paesi solo ed esclusivamente per il loro effetto antiemetico, cioè contro la nausea e il vomito, connessi all'uso di farmaci chemioterapici nelle malattie tumorali. In nessun paese trovano indicazione farmacologica ufficiale nella terapia del dolore, come peraltro è rilevabile in ampia documentazione scientifica mondiale accreditata (Martindole: the extra farmacopea, in British Medical Journal, 23, 7 luglio 2001), ove si può leggere che i derivati della cannabis sono ancora meno efficaci della codeina, che già agisce limitatamente sul dolore. Va inoltre sottolineato che i farmaci a base di cannabis hanno effetti collaterali indesiderabili, e, in alcuni casi, severi, poiché sono depressori del sistema nervoso centrale. Anche per quanto riguarda l'efficacia della marijuana nell'epilessia, da qualcuno sostenuta, esistono fortissime perplessità: secondo il lavoro di un ricercatore del Dipartimento di neurologia, psichiatria e neurochirurgia della New York University School of medicine pubblicato sulla rivista Epilessia (42, 10, 2001) "le ricerche sugli animali e sull'uomo circa l'effetto della marijuana sugli attacchi epilettici sono inconcludenti".
È certo che qualora un farmaco, avente per base il principio attivo di qualunque sostanza, anche illecita, determinasse effetti sicuramente positivi nella terapia del dolore o in altre patologie, esso dovrebbe essere prescrivibile e utilizzabile, sia pure con le cautele, le autorizzazioni e i controlli del caso. Ma si deve trattare di un farmaco, riconosciuto come tale e validato, perché in un farmaco è sempre ben nota la quantità di principio attivo assunto ed è quindi possibile valutarne l'efficacia e gli eventuali effetti collaterali. Al contrario, il consumo della cannabis o dei suoi derivati attraverso il fumo non consente di conoscere la quantità di sostanza assunta, esistendo una notevole variabilità nella produzione di principio attivo tra le singole piante, anche in quelle coltivate nello stesso vaso. Inoltre il fumo e, quindi, la combustione costituiscono un ulteriore fattore di variabilità nella quantità di principio attivo assunto. Nei processi di combustione vengono distrutte alcune sostanze (anche parte del principio attivo) e se ne formano altre in funzione della temperatura di combustione (che dipende anche dal modo individuale di fumare). Uno studio della Società italiana di farmacologia del 1995 diceva testualmente: "Il fumo prodotto dalla cannabis contiene un elevato numero di sostanze prodotte per pirolisi, molte delle quali, ad esempio gli idrocarburi, sono le stesse presenti nel fumo da tabacco e sono considerate responsabili della bronchite cronica, disturbi ostruttivi delle vie respiratorie e neoplasie polmonari […] Va inoltre tenuto presente che il benzopirene [che è un potente cancerogeno] è presente in misura più abbondante nel fumo della cannabis che in quello del tabacco e che il modo di fumare la cannabis fa depositare una quantità di catrame nei polmoni superiore a quella depositata dal fumo di tabacco".
Sentire, come recentemente è accaduto nel corso della polemica sulla cosiddetta 'marijuana terapeutica', che se lo Stato continua a vietare la marijuana migliaia di pazienti gravemente ammalati non avranno altra scelta che ricorrere alla criminalità per ottenere la sostanza, lascia sgomenti: allo spacciatore/criminale ci si rivolge per acquistare 'erba' da fumare e non farmaci a base di THC, agevolmente disponibili, se autorizzati, in farmacia. Per concludere, i farmaci a base di THC non sono stati introdotti in Italia non perché la sostanza sia proibita (lo è anche, infatti, nei paesi dove i farmaci sono disponibili) ma perché non è riconosciuta la loro validità terapeutica.
valutazioni scientifiche
Possiamo concludere con alcune valutazioni di carattere tecnico-scientifico sull'argomento, atteso che la ricerca fornisce informazioni sempre più accurate relative all'effetto delle sostanze sul cervello. Oggi, infatti, la realtà scientifica afferma che la dipendenza da sostanza stupefacente è una malattia cronica recidivante, caratterizzata principalmente dalla perdita di controllo sull'uso della droga.
Esiste, purtroppo, da parte della società una perdurante ed errata percezione del concetto di dipendenza, per cui i dibattiti intorno alle droghe vertono essenzialmente sull'aspetto relativo alla dipendenza fisica, con l'idea che tanto più gravi sono i sintomi fisici prodotti dalla sospensione dell'uso di droga (l'astinenza), tanto più pericolosa è la droga in questione. Questa tesi, peraltro datata, non ha retto allo scrutinio medico e scientifico. I conclamati e spesso visivamente drammatici sintomi di astinenza da eroina ed etanolo possono essere 'gestiti' con presidi medico-farmacologici. Al contrario, molte droghe pericolosissime, come la cocaina o alcuni anfetaminici, non provocano sintomi di astinenza fisica, ma producono irreversibili danni neurologici e portano rapidamente (molto più rapidamente degli oppiacei) a perdita di controllo sull'uso.
Pertanto, come sostiene Luigi Pulvirenti dell'Istituto di neuroscienze dell'Università di Firenze, già dalla sola indagine comportamentale e fenomenologica si rileva che non ha senso continuare a parlare di dipendenza fisica e di dipendenza psichica e a distinguere, anche su tali basi, le droghe in leggere e pesanti. Ancora, le droghe 'leggere', come sostiene Gian Luigi Gessa, causano, negli adolescenti e nei preadolescenti, cioè nella fase evolutiva del loro cervello, seri deficit cognitivi, nell'apprendimento come nella memoria. "Fumando a quella età (10/15 anni, cioè il target più consistente dei fumatori di cannabis) non si accumulano crediti - ha affermato in una recente intervista Gessa - ma discrediti, insomma si perdono treni: se a 15 anni si deve studiare matematica non si può fumare marijuana, questo è chiaro. E nello sport è lo stesso, perché le droghe leggere creano più di una difficoltà al controllo motorio, ai movimenti complessi, all'abilità manuale. E c'è ancora qualcos'altro. È un dato scientificamente certo: chi comincia presto ad assumere droghe leggere ne rimane agganciato, può diventare un fumatore abituale, da più volte al giorno".
repertorio
le droghe d'abuso
L'oppio e i suoi alcaloidi
L'oppio è il succo ottenuto per incisione delle capsule immature del papavero sonnifero (Papaver somniferum), pianta largamente coltivata nel Medio Oriente, in Cina e, soprattutto, in alcuni paesi dell'Asia sudorientale. La droga, che si presenta sotto forma di 'pani' brunastri, contiene numerosi alcaloidi, appartenenti a due famiglie totalmente distinte, sia chimicamente sia farmacologicamente: alcaloidi fenantrenici, quali morfina, codeina e tebaina, e alcaloidi benzilisochinolinici, quali papaverina e noscapina. Di questi alcaloidi quello di gran lunga più importante, anche quantitativamente, è la morfina, che può arrivare a costituire fino al 15-20% del peso dell'oppio. La morfina è dotata di potenti effetti soprattutto a livello del sistema nervoso centrale, su cui svolge una complessa azione di tipo prevalentemente depressivo che tende, con l'aumentare della dose, a intensificarsi ed estendersi coinvolgendo, direttamente o indirettamente, corteccia, sistema limbico, talamo, asse cerebrale, bulbo e midollo spinale. Piccole dosi di morfina deprimono in particolare i centri superiori della vita psichica, vale a dire quelli dell'autocontrollo, della riflessione e della critica. Cominciano però nello stesso tempo a essere interessati anche i centri corticali psicosensori e il sistema limbico, deputati alla percezione cosciente e all'elaborazione affettiva della sensazione dolorosa. L'indebolimento del senso critico da un lato, l'ottundimento e le modificazioni qualitative di tutte le sensazioni dolorose e comunque moleste (fame, stanchezza ecc.) dall'altro, portano a uno stato di ebbrezza euforica, caratterizzato da un intimo senso di benessere e di fiducia, da visione ottimistica della vita e, a volte, da vivace e incontrollabile flusso di idee e da vividezza di rappresentazioni mentali gradite. Per dosi medie di morfina si hanno fenomeni più accentuati ed estesi: l'ebbrezza si accompagna a spiccato rilasciamento muscolare, a tendenza all'immobilità e all'apatia, a incapacità alla concentrazione e all'elaborazione mentale, a sonnolenza. La depressione si è quindi estesa dalla corteccia ai centri sottocorticali. Depresso è anche il centro respiratorio bulbare, con conseguente riduzione dapprima della frequenza e poi della profondità del respiro. Aumentando la dose di morfina, lo stato di sonnolenza trapassa in uno stato di sonno profondo, dal quale si può essere svegliati con difficoltà; anche i dolori più forti sono aboliti e il respiro risulta nettamente rallentato. Infine, per dosi di morfina tossiche, il sonno si trasforma in coma e la depressione respiratoria in paralisi.
Le azioni centrali e periferiche della morfina sono condivise, oltre che dall'alcaloide naturale codeina, da una serie di suoi derivati semisintetici e di molecole sintetiche aventi con la morfina più o meno remote analogie strutturali. Si possono ricordare: la petidina, capostipite di queste molecole sintetiche; la pentazocina; il fentanyl, usato nella medicazione preanestetica o nel trattamento del dolore nell'infanzia; il metadone, utilizzato nel trattamento temporaneo o programmato di individui dipendenti dall'eroina; il naxolone; la loperamide. Nella clinica la morfina e gli analgesici morfinosimili sono impiegati nelle gravi patologie dolorose. La morfina è l'analgesico per eccellenza, capace di controllare, sia pure con efficacia diversa, ogni tipo di dolore, ed è anche un insuperabile ipnotico quando il sonno sia reso impossibile dal dolore. È noto che la morfina, come l'eroina e droghe similari, inducono il fenomeno dell'assuefazione, rilevabile non solo nell'uomo ma anche nell'animale da esperimento. In quest'ultimo si assiste a una rapida diminuzione, fino alla perdita, del potere analgesico della droga. Nell'uomo avviene altrettanto, obbligando malati affetti da sindromi dolorose croniche e tossicodipendenti ad aumentare progressivamente la dose del farmaco.
L'eroina
L'eroina fu isolata per acetilazione del cloridrato di morfina nel 1898 da un chimico tedesco della Bayer, J.L. Dreser, che le diede questo nome (da heroisch) in riferimento alla sua qualità di rimedio energico. Infatti risultò subito notevole la sua azione sulle vie respiratorie, in particolare lo spiccato effetto deprimente sui centri della tosse, tanto che Dreser ritenne di avere trovato addirittura il rimedio contro la tubercolosi. Secondo Dreser, l'eroina non induceva tossicomania, era facile a manipolarsi e, inoltre, capace di guarire rapidamente i morfinomani. Ma ben presto fu chiaro che si era trattato di un grosso abbaglio. I tossicomani, lungi dall'essere disintossicati, incominciarono a iniettarsi l'eroina invece della morfina, per la sua azione più intensa: l'eroina è infatti circa tre volte più potente della morfina e agisce più rapidamente, in quanto penetra con maggiore facilità attraverso la barriera ematoencefalica.
La qualità del piacere che fornisce questo stupefacente è tale da essere definita 'un orgasmo sessuale generalizzato' o 'un'impressione come di essere avviluppati dall'acqua tiepida'. Il flash, la sensazione che segue la sua somministrazione venosa (ma la droga può anche essere inalata, sebbene in questo caso la sua efficacia sia inferiore), viene vissuto dal tossicomane come un momento magico, di metamorfosi, di trasformazione, che permette una percezione nuova e straordinaria: infatti, dopo le nausee e le vertigini, conseguenza della prima iniezione, si attenua fino a scomparire lo stato d'ansia e subentra una sorta di eccitazione gioiosa, euforica, unita a una netta sensazione di potenziamento qualitativo e quantitativo delle facoltà intellettive, che determina atarassia e impressione di fuga verso un mondo ideale. L'effetto euforizzante, tuttavia, ha breve durata e fin dalle prime somministrazioni decresce in intensità, richiedendo un aumento progressivo delle dosi e del numero delle iniezioni per ripresentarsi, finché praticamente scompare.
Quando il tossicomane non può più reperire la droga, precipita nella crisi di astinenza, che, per il terrore che incute, costituisce senz'altro una delle cause più importanti del persistere della tossicomania. La crisi di astinenza ha inizio con i cosiddetti sintomi finalistici, cioè lamenti e richieste insistenti della sostanza, che si notano un po' prima del momento previsto per l'assunzione della dose successiva. I sintomi finalistici diminuiscono progressivamente e compaiono quindi quelli non finalistici: lacrimazione, rinorrea, sbadigli, sudorazione. Può subentrare un sonno agitato da cui il tossicomane si risveglia ancora più inquieto e abbattuto. Successivamente si manifestano midriasi, piloerezione, irritabilità, tremori, nel quadro di un'invincibile angoscia respiratoria, e ancora starnuti, insonnia, nausea e vomito, aumento del ritmo cardiaco e respiratorio, brividi violenti, crampi addominali, dolori ossei e muscolari, eiaculazione. Talora si incorre in un collasso cardiocircolatorio. I sintomi vengono cancellati dalla somministrazione della droga; in caso contrario, ovvero di non somministrazione, gran parte di essi scompare dopo un tempo più o meno lungo. L'assunzione protratta di eroina, come quella di stupefacenti in genere, determina una debilitazione generale dell'organismo, che è sovente una delle cause di decesso del tossicomane. Altra causa di morte, che avviene per blocco del centro della respirazione, è l'iniezione di dosi troppo elevate di sostanza, che l'organismo non tollera (overdose).
La cocaina
La cocaina è il principale degli alcaloidi contenuti nelle foglie della coca e si presenta sotto forma di cristalli prismatici incolori o di polvere cristallina bianca, di sapore amaro. Si ricava in particolare da Erythroxylon coca, un arbusto originario delle Ande e attualmente diffuso in tutte le regioni montagnose delle Ande, in Ecuador, Perù e Bolivia, e da Erythroxylon novogranatense, tipico delle regioni montagnose della Colombia e delle coste caraibiche dell'America Meridionale. La polvere di coca è chiamata basujo nei paesi latinoamericani e crack in quelli occidentali.
L'uso della cocaina risale a tempi molto antichi. I suoi effetti erano già noti in Ecuador molte migliaia di anni prima dell'instaurazione dell'impero degli incas (1200 d.C.), presso i quali l'abitudine di drogarsi era enormemente diffusa. Nel vasto impero inca i messaggeri postali viaggiavano portando con sé le foglie di coca, che masticavano nei loro lunghi percorsi. La droga aumentava le energie ed essi potevano così correre senza troppa fatica da una stazione all'altra sulle elevate cime delle Ande. Nel 1855 il chimico tedesco F. Gaedcke isolò il principio attivo contenuto nelle foglie di coca. L'alcaloide cocaina fu poi caratterizzato chimicamente nel 1859 da A. Niemann, dell'Università di Göttingen. La cocaina è stata una delle prime sostanze alcaloidi a essere sintetizzata, nella speranza di poterla utilizzare come anestetico locale, sfruttando la sua capacità di bloccare la conduzione nervosa quando viene a contatto diretto con il tessuto nervoso. Le vie utilizzate dai tossicomani per introdurre la sostanza nell'organismo sono varie. In passato era diffusa soprattutto la tecnica dell'aspirazione nasale della polvere di coca, chiamata snow perché bianca come la neve. Poi, con l'aumento del prezzo della droga ci si è rivolti alla più efficace via endovenosa, spesso associando la cocaina agli oppioidi (morfina ed eroina), che riducono l'eccitamento tossico provocato dalla sostanza. La droga può essere inoltre assorbita attraverso i polmoni con il fumo. La quantità media di cocaina assunta da un cocainomane è di 5-10 g al giorno. Una singola dose di 0,5 g, in un individuo non abituato alla sostanza, può essere mortale. Le conseguenze dell'uso di cocaina sono molteplici, a livello sia psichico sia fisiologico e, ovviamente, come per ogni altra droga, dipendono, oltre che dalle vie di introduzione, dalla dose, dalle aspettative e dalla personalità di chi la assume, nonché dalla frequenza delle assunzioni. I suoi effetti si possono distinguere in tre fasi: la prima è caratterizzata da euforia, disinibizione comportamentale, annullamento della fatica, sensazione di onnipotenza, che porta ad aggressività; a questa subentra una seconda fase in cui sono presenti confusione mentale e allucinazioni; nella terza si manifestano sonnolenza e depressione. Tali sintomi sono dovu-ti alla stimolazione del sistema nervoso centrale, che ha luogo dalla corteccia verso il basso. L'azione euforizzante, l'eccitamento e la diminuzione del senso di affaticamento si producono a livello corticale ed è a essi che si deve la larga diffusione della droga. Agli effetti sopra descritti e ricollegabili all'azione di dosi basse, si aggiungono, per dosi più elevate, ansietà e comportamento sospettoso e, per dosi ancora superiori, ideazione paranoide con mania di persecuzione. Dosi elevatissime, somministrate per via endovenosa, esercitano un'azione tossica sul muscolo cardiaco, bloccandolo. Sempre per quanto concerne il cuore, dosi basse, somministrate per via sistemica, possono, a causa della stimolazione vagale, alterare la frequenza cardiaca, che viene notevolmente aumentata da dosi moderate, in conseguenza, probabilmente, di un'accresciuta stimolazione centrale simpatica. La cocaina, agendo a livello del midollo allungato, provoca anche aumento della frequenza respiratoria e innalzamento della temperatura corporea. Un'altra azione importante, che contribuisce alla diffusione della droga, è il potenziamento della libido: nel maschio, infatti, la cocaina favorisce il prolungamento dell'erezione, aumentando il piacere sessuale e il numero degli orgasmi, effetti che però scompaiono allorché l'uso diviene cronico, situazione che porta, all'opposto, a una diminuzione della potenza sessuale. È un fatto accertato che la cocaina determina tolleranza e dipendenza psichica. La sindrome di astinenza è caratterizzata da depressione, svogliatezza, affaticamento, iperfagia ecc. A mano a mano che procede nella sua abitudine ad assumere la droga, il cocainomane diviene sempre più pallido, fino a presentare un colorito terreo, la bocca secca provoca un movimento incessante di deglutizione e compaiono deliri di persecuzione, depressione, stato confusionale. L'uso continuato della droga si accompagna, in particolare, a disturbi psichici e somatici. La sindrome psichica comprende disturbi della memoria e dell'affettività, con apatia e indifferenza, ma anche ansietà, oscillazioni dell'umore ecc. Le manifestazioni somatiche si esplicano in tic, tremiti delle labbra, disturbi oculari (miosi, esoftalmo), alterazioni dello stato di nutrizione (dimagrimento, cachessia). Il cocainismo cronico causa danni cerebrali che sono alla base del declino intellettuale riscontrabile nei soggetti preda di questa tossicomania.
Le anfetamine
Le anfetamine o amine di sintesi sono sostanze simpaticomimetiche, che producono cioè effetti analoghi alla stimolazione del sistema nervoso simpatico, quali aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, vasocostrizione e dilatazione delle pupille. Si è arrivati alla loro scoperta studiando le proprietà dell'efedrina, un alcaloide di origine vegetale. Tra di esse la più antica è la benzedrina, preparata nel 1910 da G. Barger e H.H. Dale, ma studiata negli Stati Uniti solo a partire dal 1931 e commercializzata come solfato di anfetamina o tartrato di anfetamina. Altre amine di sintesi sono la dexedrina e la metilanfetamina, studiate in Germania nel 1930, e la preludina, utilizzata nelle cure dimagranti. L'aumento della pressione arteriosa determinato dalle anfetamine è stato descritto per la prima volta nel 1930, mentre nel 1933 vennero evidenziate le azioni analettiche e di broncodilatazione. Gli effetti stimolanti sul sistema nervoso centrale, per i quali l'uso delle anfetamine è così diffuso, furono utilizzati a partire dal 1935 per la cura di alcune turbe del sonno e, più tardi, per la cura di obesità, affaticamento, parkinsonismo e avvelenamento da sostanze che deprimono il sistema nervoso centrale. Un uso massiccio delle anfetamine si registrò durante la Seconda guerra mondiale, quando i soldati se ne servivano per sviluppare una maggiore resistenza alla fatica. Successivamente gli effetti stimolanti delle anfetamine trovarono nuove applicazioni: venivano utilizzate, e lo sono ancora oggi a dispetto delle restrizioni imposte a partire dagli anni Settanta dalla legge in materia di stupefacenti, da alcuni sportivi per migliorare le loro prestazioni. A partire dagli anni Ottanta ha avuto inoltre grande diffusione, soprattutto tra i giovani, il consumo di ecstasy, un derivato dell'anfetamina che associa alle tipiche proprietà stimolanti effetti allucinogeni simili a quelli provocati dalla mescalina. Le anfetamine possono essere assunte per via sia orale sia parenterale. Il loro assorbimento è molto rapido: gli effetti sono constatabili 30 minuti dopo la somministrazione orale, e già 5 minuti dopo l'iniezione intramuscolare. L'azione sul sistema nervoso centrale avviene a vari livelli: vengono stimolati i centri della respirazione localizzati nel midollo allungato e aumenta lo stato di attivazione della formazione reticolare, da cui derivano insonnia e ipereccitabilità. L'effetto anoressante caratteristico delle anfetamine è provocato invece dalla depressione dei centri ipotalamici della fame. Le anfetamine, infine, riducono la durata del sonno REM, effetto che è, almeno in parte, alla base degli stati psicotici determinati dalla loro assunzione cronica. Gli effetti psichici sono altrettanto rilevanti. Oltre alla diminuzione della fatica e all'aumento della vigilanza e della concentrazione, si registrano miglioramenti dell'umore, incremento dell'attività motoria e della loquacità. Le anfetamine determinano una lucidità al di fuori della norma, un senso di onnipotenza e di piena efficienza fisica, un'eccitazione euforica e un'accelerazione del pensiero. Gli effetti sono strettamente legati alla dose, aumentando la quale il comportamento può divenire violento e aggressivo. Si comprende quindi facilmente come la pericolosità di queste sostanze possa aumentare se esse sono assunte da individui in gruppo. Verso le anfetamine si sviluppano sia tolleranza sia dipendenza fisica e psichica. Cessato l'effetto della droga, il tossicomane cade in uno stato di astinenza caratterizzato da depressione profonda che può portare anche al suicidio. L'unica via per provare di nuovo le sensazioni iniziali e tornare in una condizione di euforia è assumere ripetutamente la droga e aumentare le dosi. Il continuo alternarsi di stati di eccitamento e di depressione danneggia in maniera irreparabile la psiche dell'individuo, che dopo lunghi periodi di intossicazione può precipitare in uno stato di coma. Nei soggetti che fanno uso costante di anfetamine si registrano gravi forme di psicosi, nelle quali l'individuo presenta idee fisse e mania di persecuzione, oltre a confusione, disorientamento e vari tipi di allucinazioni: visive, uditive, tattili e olfattive.
gli allucinogeni
Con il nome allucinogeni vengono indicate alcune sostanze che possono indurre cambiamenti percettivi, cioè allucinazioni. Questi composti vengono anche chiamati psicotomimetici, in quanto in certi casi possono indurre uno stato morboso simile a quello che si riscontra in talune psicosi, o psichedelici, perché determinano una sorta di espansione dello spettro della percezione sensoriale. La sempre più vasta diffusione dell'uso di sostanze allucinogene ha richiamato su di esse l'attenzione di psicologi, chimici, psicofarmacologi e sociologi, nonostante esse siano conosciute da migliaia di anni in vari paesi del mondo. Nel passato il loro uso era connesso soprattutto alle pratiche religiose e terapeutiche di vari gruppi etnici, in particolare dell'America Latina. Le sostanze allucinogene più note sono la psilocibina, la mescalina e l'LSD (dietilammide dell'acido lisergico).
La psilocibina è un alcaloide con proprietà allucinogene contenuto nei funghi dei generi Psilocybe e Stropharia. Dalla psilocibina, mediante un processo di defosforilazione, si produce la psilocina, derivato indolico chimicamente simile alla serotonina, responsabile degli effetti psicotomimetici che seguono l'ingestione del fungo. Tali effetti variano a seconda del soggetto. Il quadro di un'esperienza tipo presenta una fase di latenza, della durata da qualche minuto a un'ora, che precede la comparsa dei primi sintomi: sensazioni di calore e malessere fisico, astenia, sonnolenza, congestione, midriasi, bradicardia. Caratteristica è in seguito la presenza di uno stato euforico (loquacità, risa, necessità di muoversi), cui si alternano stati di angoscia. Sono inoltre descritte la comparsa di visioni colorate, o di arabeschi, l'alterazione della percezione del tempo, la sensazione di estraniamento. La crisi dura circa quattro ore, quindi i disturbi della coscienza si attenuano, mentre permane l'astenia, sovente più marcata nei giorni successivi di quanto non lo sia nel corso della crisi.
La mescalina è un alcaloide contenuto nel peyotl, o peyote (Lophophora williamsii), una cactacea diffusa nelle zone desertiche del Messico e del Texas. Si tratta di un piccolo cactus la cui radice a forma di carota affonda profondamente nel terreno; i suoi fiori contengono sostanze alcaloidi in quantità superiore al resto della pianta. Come per la maggior parte degli allucinogeni, anche per la mescalina la prassi di ingestione faceva parte del cerimoniale religioso delle culture degli indiani del Messico e di quelle precolombiane messicana e azteca. Gli effetti della mescalina nell'uomo sono stati estesamente studiati. L'individuo sotto il suo effetto sente il proprio coraggio aumentare e le sensazioni di fame e di sete attenuarsi; il tutto è accompagnato da uno stato di ebbrezza che scompare completamente in due o tre giorni. Le fonti dell'acido lisergico sono i semi lenticolari dell'ololiuqui, la convolvulacea Rivea corimbosa, e l'ergot, il fungo ascomicete Claviceps purpurea, che parassita la spiga di alcune Graminacee. L'assunzione di pane ottenuto da Graminacee infestate dall'ergot fu all'origine, in passato, di forme di tossicosi, note come ergotismo, che causarono migliaia di morti. I primi tentativi di isolare le sostanze che determinano i fenomeni provocati dall'ingestione di ergot risalgono al 19° secolo, ma solo intorno agli anni Quaranta del 20° secolo si pervenne all'isolamento dei dodici alcaloidi dell'ergot, il cui costituente specifico è l'acido lisergico. Nel 1938 presso i laboratori Sandoz di Basilea furono sintetizzate l'LSD-25, la dietilammide dell'acido lisergico, e la LAE-32, la sua monoetilammide. Gli effetti dell'LSD sull'uomo furono descritti inizialmente dal suo scopritore, A. Hoffmann, e approfonditi in seguito. Le prime sensazioni (irrequietezza, vertigini) si avvertono 5-10 minuti dopo la somministrazione della droga, in un secondo momento compaiono le nausee, infine le allucinazioni. I colori aumentano in bellezza e intensità rispetto al reale e appaiono forme geometriche e disegni bizzarri che cambiano con il tempo; il corpo sembra frantumarsi all'infinito e mutano le esperienze di spazio e tempo. Disturbi della memoria e dell'attenzione, così come talune allucinazioni, possono persistere anche a lungo dopo l'esperienza. La reazione prolungata più comune è la depressione, talora accompagnata da tendenze suicide. L'LSD è estremamente più potente degli altri allucinogeni. Le dosi standard, che producono i primi effetti clinici in un individuo adulto medio del peso di circa 70 kg, sono costituite da 500 mg di mescalina, 20 mg di psilocibina e solo 0,1 mg di LSD.
la marijuana e l'ashish
Il termine marijuana, forse di origine spagnola e di etimo incerto, designa in America e in Europa la droga ottenuta facendo essiccare i fiori e le foglie della canapa indiana (Cannabis indica), una varietà della canapa comune (Cannabis sativa). Si tratta di una pianta dioica (pianta maschile separata dalla pianta femminile) che può crescere a tutte le latitudini, essendo molto resistente. Dalle sommità fiorite delle piante femminili, non fecondate, si ottiene una resina di colore bruno, detta hashish; la marijuana è data invece dalle infiorescenze femminili essiccate e polverizzate. Nell'uso più comune queste ultime, incorporate in sigarette con tabacco e fumate, producono una serie di effetti dovuti alla presenza di un componente biologicamente efficace, il tetraidrocannabinolo (THC). La resina contiene circa il 40% di principi attivi, mentre le foglie e i fiori hanno un tasso sovente inferiore al 10%. Vi sono inoltre altri componenti meno efficaci oppure inattivi, come il cannabidiolo, il cannabigerolo e il cannabinolo. Allorché si fuma, il 25-30% dei principi attivi passa nei polmoni, provocando modificazioni fisiologiche e psichiche che compaiono pochi minuti dopo aver inalato il fumo e sono di breve durata. L'ingestione della resina dà luogo a un'azione più persistente, che si manifesta però dopo un tempo maggiore (mezz'ora o un'ora) dall'assunzione. Gli effetti fisiologici acuti della marijuana comprendono un aumento della frequenza del polso, della pressione arteriosa e della minzione e la congestione vascolare della congiuntiva. In taluni soggetti sono stati messi in evidenza ptosi, fotofobia e nistagmo; si registra anche un incremento dell'appetito. Gli effetti psichici iniziano con un periodo di ansietà, circa 10 minuti dopo aver fumato, durante il quale l'individuo mostra talvolta paura della morte e uno stato ansioso di natura vaga, associato a irrequietezza e iperattività. Poi il soggetto comincia a sentirsi più calmo, manifesta segni di euforia, diventa più loquace, si esalta, avverte un senso di leggerezza agli arti e al corpo, ride in modo incontrollato, talvolta in assenza del pur minimo stimolo. Inoltre ha la sensazione di essere brillante nella conversazione; il rapido fluire delle idee dà l'impressione di una vivacità e puntualità del pensiero, ma è evidente la confusione quando egli tenta di ricordare ciò che ha appena pensato. È possibile che abbia anche allucinazioni visive, lampi di luce o immagini amorfe dai vividi colori che si evolvono e sviluppano in figure geometriche, strutture, volti umani e dipinti di grande complessità. Dopo un periodo più o meno lungo, che può estendersi fino a due ore, il fumatore viene colto da torpore e sprofonda in un sonno senza sogni. Gli effetti della marijuana variano notevolmente in ragione della dose assunta e della personalità dell'individuo. La reazione più comune, a dosi basse, è lo svilupparsi di uno stato sognante con coscienza alterata, in cui le idee sono sconnesse e incontrollabili, i concetti di spazio e tempo vengono stravolti, oggetti vicini possono apparire lontani. A quantità più elevate corrispondono allucinazioni vivide, alterazioni dell'umore, senso di grande benessere, esaltazione, eccitazione. L'assunzione di dosi molto elevate si accompagna a reazioni di panico, timore della morte, distorsione dell'immagine corporea, sdoppiamento dell'identità. Tali effetti si accentuano in individui particolarmente predisposti, nei quali possono insorgere casi di psicosi tossica, una sindrome di vera e propria allucinazione mentale, e anche episodi di aggressività incontrollabile.
repertorio
Tossicomania, abitudine, farmacodipendenza
Nel 1952, il comitato dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per i farmaci che producono tossicomania propose una distinzione tra tossicomania e abitudine. Venne definito tossicomania (addiction) uno stato di intossicazione periodica o cronica prodotto dalle ripetute assunzioni di una sostanza naturale o sintetica, avente per caratteristiche: 1) un irresistibile desiderio o bisogno di continuare ad assumere la sostanza e a procurarsela con ogni mezzo; 2) una tendenza ad aumentare la dose; 3) una dipendenza psichica e di solito fisica dagli effetti della sostanza; 4) conseguenze dannose per l'individuo e la società. Vi erano dunque tre proprietà che una sostanza doveva avere prima di essere considerata capace di generare la tossicomania (addictive-drug): essa doveva produrre tolleranza, sintomi di astinenza e desiderio spasmodico di ottenerla. Tolleranza significa che la sostanza deve essere assunta in dosi progressivamente crescenti per ottenere il risultato desiderato. D'altra parte, se l'individuo non può più, per varie ragioni, assumerla, egli soffrirà della sindrome di astinenza, i cui sintomi variano da una sostanza all'altra. L'abitudine (habituation) a una sostanza è definibile come una condizione che deriva dalla ripetuta assunzione di questa. Le sue caratteristiche comprendono: 1) un desiderio (ma non una coazione) a continuare ad assumere la sostanza per il senso di accresciuto benessere che essa produce; 2) la scarsa o nessuna tendenza ad aumentare la dose; 3) un certo grado di dipendenza psichica all'effetto della sostanza, in assenza di dipendenza fisica e quindi di una sindrome di astinenza; 4) effetti dannosi, se mai, principalmente per l'individuo.
Poiché queste definizioni, in apparenza molto chiare, sono state spesso mal comprese e confuse e non di rado i due termini sono stati usati scambievolmente e impropriamente, il comitato di esperti dell'OMS ha proposto nel 1968 ulteriori definizioni chiarificatrici: farmaco è ogni sostanza che, introdotta in un organismo vivente, può modificare una o più funzioni; per abuso di farmaci si intende l'uso del farmaco eccessivo o comunque fatto in maniera inadeguata e diversa da quella accettata dalla pratica medica; la farmacodipendenza è uno stato psichico, a volte fisico, risultante dall'interazione tra un organismo vivente e un farmaco, caratterizzato da reazioni comportamentali e di altro genere che includono sempre la coazione ad assumere il farmaco in modo continuo o sporadico per sperimentarne gli effetti psichici o evitare il disagio causato dalla sua assenza. Può esservi tolleranza o meno. Un individuo può essere dipendente da più farmaci. Poiché i diversi farmaci producono diversi tipi di farmacodipendenza, questa definizione va completata volta per volta dall'indicazione del farmaco che la determina. Non si dovrà parlare più dunque di tossicomania o di abitudine, ma di farmacodipendenza: 1) di tipo morfinico, le cui caratteristiche corrispondono a quelle citate per la vecchia definizione di tossicomania: essa è provocata dall'oppio e dai suoi alcaloidi naturali e semisintetici (morfina, codeina, eroina) o sintetici (metadone, petidina ecc.); 2) di tipo alcol-barbiturico, causata dall'alcol e dai derivati dell'acido barbiturico (luminal, veronal), dai sedativi e da molti ipnotici non barbiturici (cloralio, metaqualone, paraldeide ecc.); 3) di tipo ansiolitico, indotta dai cosiddetti tranquillanti minori come il meprobamato, il clordiazepossido, il diazepam e le altre innumerevoli benzodiazepine; 4) di tipo anfetaminico, determinata in generale da tutte le sostanze psicostimolanti: anfetamine e anfetaminosimili (fra cui l'ecstasy e altre droghe di sintesi); 5) di tipo cocainico, procurata dalla cocaina e dalla sua polvere; 6) di tipo cannabis, dovuta ai derivati della Cannabis sativa (marijuana, hashish); 7) di tipo allucinogeno, imputabile a sostanze sia di sintesi, come l'LSD 25, sia naturali come la mescalina e la psilocibina. Il concetto di farmacodipendenza, chiaro e utile, ha avuto tuttavia scarsa fortuna. Il motivo fondamentale di ciò sta probabilmente nell'osservazione relativa alla sua estrema genericità; esso si applica ugualmente bene, infatti, a una serie di situazioni assai diverse fra loro e non dà notizie utili su un problema cruciale, quello della gravità. Un esempio assai semplice in proposito può essere quello dei sonniferi: indicare con lo stesso nome di farmacodipendente chi ne usa una compressa ogni sera, anche per anni, e chi assume decine di compresse ogni giorno, continuamente al limite dell'intossicazione acuta, dell'incidente o del coma, genera soltanto confusione. Per ovviare a tali difficoltà definitorie è opportuno analizzare il tipo di relazione che il singolo individuo stabilisce con il farmaco in tre situazioni assai diverse l'una dall'altra: quella del consumatore, del farmacodipendente e del tossicomane, contrassegnata ognuna da una serie di caratteristiche, proprie dello specifico rapporto fra un individuo e un farmaco.
Un punto di vista utile per definire la tossicomania può essere quello basato sull'analisi del comportamento di ricerca del farmaco da parte del singolo individuo che ne fa uso. Presupposto di tale analisi è immaginare che la gran parte dei comportamenti umani siano rivolti al conseguimento di una soddisfazione o di un sollievo dalla tensione: caratteristica del tossicomane diviene, allora, la tendenza a rivolgere al farmaco e alla sua ricerca una gamma sempre più ampia dei propri comportamenti spontanei. Incapace di adattarsi in modo flessibile e adeguato alle esigenze della realtà che lo circonda, incapace di graduare richieste e risposte, il tossicomane finisce per stabilire una relazione di dipendenza assoluta all'effetto del farmaco. Tale relazione può essere favorita, mai spiegata, dalla condizione di dipendenza fisica. La straordinaria facilità delle ricadute dopo che la condizione di dipendenza fisica è stata superata e la possibilità dell'individuo di distinguere l'esperienza soggettiva dell'astinenza fisica da quella del coinvolgimento totale della tossicomania appaiono argomenti probanti per questa affermazione. Si può concludere che per il vero tossicomane si delinea l'emergere di una struttura di personalità costruita attorno alla droga, un'immagine del sé conseguente a tale struttura e a uno stile di vita a essa direttamente collegato o, più brevemente, un modello di coinvolgimento personale totale.
Una definizione basata su osservazioni siffatte può essere applicata a una varietà di situazioni diverse, per il farmaco di volta in volta implicato, ma fondamentalmente assai simili per la gravità del quadro e la ristrettezza dell'azione terapeutica. La tossicomania è, pertanto, uno stato di intossicazione prodotto dalle assunzioni ripetute di una sostanza naturale o sintetica, le cui caratteristiche comprendono sia il bisogno di continuare ad assumere la sostanza e di procurarsela a qualsiasi prezzo, sia un indebolimento di tutti gli interessi e dei legami con la realtà degli altri e infine l'assunzione di un ruolo sociale tipico: di un'immagine del sé, in pratica, e di una serie di comportamenti pubblici (stile di vita) che connotano tale ruolo.
Definita così la tossicomania, è più facile definire in contrasto la farmacodipendenza, che è pur sempre uno stato di intossicazione prodotto dall'assunzione di una sostanza naturale o sintetica, ma le cui caratteristiche saranno tuttavia una tendenza evidente, ma non irresistibile, ad assumere la sostanza e a procurarsela e il mantenimento di una serie di interessi e di legami con la realtà degli altri che permetta una vita complessivamente molto vicina a quello che può essere inteso come standard sociale nel contesto socioculturale dell'individuo in questione.
Consumatori saranno, infine, nell'ambito di questa particolare prospettiva, individui che fanno esperienza della droga, qualunque essa sia, in modo saltuario e in situazioni di eccezione; oppure in modo ripetuto ma utilizzando dosaggi del tutto innocui e mantenendo sempre il controllo della situazione e la possibilità di interrompere l'assunzione del farmaco senza risentirne alcuna conseguenza.