Droghe endogene
Homo sapiens conosce la pianta Cannabis sativa (anche nota come canapa indiana o marijuana) da più di 5000 anni (e probabilmente anche da prima, considerando che questa data si riferisce alle prime notizie scritte sull’uso della pianta, ritrovate in Cina e risalenti al 3000 a.C. circa). Si tratta, infatti, della più antica pianta coltivata dall’uomo per scopi non alimentari. Gli usi che della marijuana si sono fatti nel tempo sono i più svariati e vanno dallo sfruttamento delle sue fibre per la produzione di cordami, tessuti e materiali isolanti, alla preparazione di estratti utilizzati a scopo terapeutico per numerose patologie, e usati per fini psicotropi, ricreativi e religiosi.
Associati e connessi agli usi religiosi, gli estratti della pianta possiedono effetti che furono sfruttati anche nella medicina occidentale a partire dall’Ottocento, quando un medico irlandese al seguito dell’esercito britannico, William Brooke O’Shaughnessy, ne osservò l’uso in India e li introdusse nella farmacopea europea come rimedio per molte malattie. Tale utilizzo fu interrotto negli anni Trenta del 20° sec. per la proibizione dell’uso di droga negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo occidentale (Marihuana and medicine, 1999). Da quel mo-mento, la pianta è stata soprattutto usata a scopo ricreativo per le sue proprietà psicotrope, tanto che i derivati della marijuana rappresentano oggi la maggior fonte di droghe psicotrope illecite, ed è seconda, nel campo delle sostanze d’abuso, solo a caffeina, alcol e nicotina.
Le svariate proprietà della pianta (non solo a livello psicotropo) sono oggi intensamente studiate dai farmacologi, sia per comprenderne i meccanismi potenzialmente dannosi in quanto stupefacente sia per sfruttarne le eventuali proprietà terapeutiche.
Dalla marijuana al sistema endocannabinoide
La data d’inizio della ricerca moderna sulla Cannabis può essere identificata con gli studi condotti negli anni Sessanta del 20° sec. da alcuni chimici e biochimici, fra i quali il ricercatore israeliano Raphael Mechoulam merita sicuramente il primato. Lo scopo di questi veri e propri pionieri nella ricerca sulla Cannabis era l’identificazione delle componenti chimiche che conferiscono alla pianta le sue caratteristiche biologicamente attive. Un complesso lavoro portò all’identificazione di una sessantina di composti prodotti da Cannabis sativa, che furono denominati cannabinoidi, fra i quali il più noto e, probabilmente, il più importante è il delta-9-tetraidrocannabinolo (fig. 1A), conosciuto anche come THC (Y. Gaoni, R. Mechoulam, Isolation, structure and partial synthesis of an active constituent of hashish, «Journal of American chemical society», 1964, 86, pp. 1646-47). Quest’ultimo è il componente più attivo della pianta dal punto di vista psicotropo, e la maggior parte degli effetti euforizzanti, rilassanti e in qualche caso allucinogeni dei preparati di Cannabis sono dovuti principalmente al loro contenuto in THC. È tuttavia necessario ricordare che anche gli altri sessanta cannabinoidi svolgono un ruolo importante negli effetti dei derivati della Cannabis e che il solo THC purificato può avere effetti diversi dall’azione concertata dei derivati della pianta a composizione complessa.
Una volta identificata, nel 1964, la struttura chimica dei cannabinoidi e, soprattutto, del THC, numerosi ricercatori si impegnarono nello studio dei meccanismi attivati sia negli animali sia nell’uomo dalla somministrazione di questo principio attivo. Per circa venticinque anni, si sviluppò un dibattito piuttosto intenso che vedeva schierati, da un lato, i fautori della teoria lipofilica e, dall’altro, quelli della teoria recettoriale. Per i primi, poiché tutti i cannabinoidi sono sostanze lipofile (ossia si sciolgono e interagiscono con sostanze grasse e non in ambiente acquoso), il THC sarebbe stato in grado di modificare le attività cellulari (soprattutto dei neuroni) semplicemente interferendo con la struttura lipidica delle membrane e quindi alterandone le proprietà fisico-chimiche. Le membrane (vere e proprie ‘pareti’ che dividono l’esterno dall’interno delle cellule che compongono il nostro corpo) sono formate da doppi strati di lipidi (grassi) che, appunto, separano i due ambienti acquosi intracellulare ed extracellulare. Tramite diversi meccanismi, le membrane sono in grado di mantenere una differente composizione chimica fra tali ambienti e, di conseguenza, di conferire alle cellule molte delle loro proprietà fisico-chimiche. Interferendo con la composizione dei lipidi di membrana, si possono quindi alterare tali proprietà. I fautori della teoria recettoriale, invece, sostenevano l’esistenza di un meccanismo più specifico, basato sull’interazione molecolare del THC con recettori cellulari inseriti nella membrana delle cellule aventi una struttura che permette loro di accogliere in modo molto selettivo specifiche molecole esterne (i ligandi), proprio come una serratura è in grado di accogliere solo la sua chiave. Il legame fra il ligando e il recettore provoca cambiamenti all’interno delle cellule che ne modificano le proprietà funzionali, permettendo loro di ricevere informazioni sulle variazioni dell’ambiente esterno e di reagire a esse in maniera appropriata. Dalla fine degli anni Ottanta del 20° sec. fu comunque la seconda teoria a prevalere, con la scoperta di siti di legame specifici per i cannabinoidi su cellule di tipo neuronale mantenute in coltura. A queste prime osservazioni si aggiunse, la fondamentale identificazione molecolare del primo recettore per i cannabinoidi (denominato CB1), ottenuta da Lisa A. Matsuda nel laboratorio di Allyn Howlett negli Stati Uniti (L.A. Matsuda, S.J. Lolait, M.J. Brownstein et al., Structure of a cannabinoid receptor and functional expression of the cloned cDNA, «Nature», 1990, 346, 6284, pp. 561-64). CB1 appartiene alla grande famiglia di recettori proteici a sette domini transmembranari (possiede, cioè, una struttura simile a quella di un serpente che passa sette volte attraverso la membrana, fig. 1B).
Con l’identificazione del recettore endogeno (prodotto, cioè, all’interno dell’organismo) si comprese meglio il meccanismo di azione del THC e di altri cannabinoidi di sintesi (nel frattempo prodotti da numerosi laboratori). Restava aperta, comunque, la questione importante sul perché l’evoluzione avesse portato alla presenza di un recettore cellulare capace di rispondere specificamente a sostanze esogene, esterne, cioè, al corpo. Si tratta probabilmente di un caso di ‘evoluzione parallela’, simile a quella descritta per i derivati dell’oppio come la morfina, di cui erano già stati identificati i recettori sulle cellule, e a quella per le sostanze endogene, le endorfine, capaci di attivare quei recettori. In entrambi i casi, quello dei cannabinoidi e quello degli oppioidi, le piante e gli animali sembrano aver sviluppato sostanze attive e meccanismi di risposta a queste sostanze. Nel caso degli oppioidi, l’intenso lavoro di alcuni gruppi di farmacologi negli anni Settanta aveva portato all’identificazione dei cosiddetti oppioidi endogeni (peptidi), capaci di attivare i recettori senza la necessità di somministrare morfina o altri oppioidi esogeni. Nel caso dei cannabinoidi, invece, al momento dell’individuazione di CB1 e dei suoi aspetti farmacologici, la natura di eventuali ligandi endogeni era ancora sconosciuta. Fu ancora il gruppo di Mechoulam in Israele a colmare per primo questa lacuna. Nel 1992, a soli due anni dalla pubblicazione della struttura molecolare di CB1, il gruppo israeliano, servendosi di mezzi biochimici, identificò il primo ‘cannabinoide del corpo’, presto ribattezzato endocannabinoide (W.A. Devane, L. Hanus, A. Breuer et al., Isolation and structure of a brain constituent that binds to the cannabinoid receptor, «Science», 1992, 258, 5090, pp. 1946-49). Data la natura lipofila dei cannabinoidi esogeni, non fu una gran sorpresa scoprire che questo primo endocannabinoide e quasi tutti gli altri individuati negli anni successivi fossero molecole lipidiche, derivati dell’acido arachidonico, un acido grasso abbondante nelle strutture biologiche. Il primo endocannabinoide fu identificato come derivante dalla fusione fra l’acido arachidonico e un’ammina, conosciuta come etanolammina. L’arachidoniletanolammide è prodotta in quantità notevole nel corpo animale ed è in grado di legare e attivare i recettori cannabinoidi. In omaggio all’uso dei cannabinoidi nella tradizione induista, i ricercatori ribattezzarono questa molecola con il nome di anandammide, ottenuto dalla fusione del suffisso chimico -ammide con la parola sanscrita ananda «beatitudine». In questo modo, Mechoulam e i suoi collaboratori vollero indicare le probabili funzioni rilassanti e antistress che, dati i risultati farmacologici ottenuti con la somministrazione di marijuana a uomini e animali, si potevano attendere da un nuovo sistema presente nel corpo: il sistema endocannabinoide (Maccarrone, Gasperi, Bari et al. 2009).
Il sistema endocannabinoide
A livello scientifico, il 1992 può essere considerato l’anno di nascita del sistema endocannabinoide. La dimostrazione dell’esistenza di un ‘sistema’ fisiologico, formato da recettori e dai loro ligandi endogeni, indicava che questo dovesse partecipare a funzioni normali e/o patologiche degli animali, e che gli effetti farmacologici della marijuana fossero da considerare come interferenze con questo sistema. Dalla scoperta originale dell’anandammide, un intenso lavoro ha via via contribuito a definire il quadro del sistema endocannabinoide. Numerose ricerche hanno apportato il loro contributo: altri endocannabinoidi sono stati descritti, fra cui il 2-arachidonil-glicerolo è quello conosciuto meglio (fig. 1A); un altro recettore, denominato CB2, è stato identificato come responsabile principale degli effetti farmacologici dei cannabinoidi esogeni e delle funzioni fisiologiche degli endocannabinoidi sul sistema immunitario; si sono cominciati a studiare e a chiarire i meccanismi molecolari per la sintesi e la degradazione degli endocannabinoidi; in particolare, sono andate emergendo nel corso degli studi numerose funzioni fisiologiche del sistema endocannabinoide, inoltre sono state proposte nuove possibilità per l’eventuale sfruttamento a fini terapeutici del sistema.
Un enorme interesse ha portato a un incremento esponenziale delle pubblicazioni scientifiche sull’argomento (fig. 2) in cui, tra l’altro, sono state evidenziate differenze significative fra gli effetti farmacologici della marijuana e del THC e le funzioni fisiologiche del sistema endocannabinoide: si ritiene, infatti, che il sistema endogeno sia estremamente specifico nella modulazione spaziotemporale delle attività biologiche. Gli endocannabinoidi sono prodotti dalle cellule solo in determinate condizioni e, dopo aver agito sui recettori (CB1 o CB2), sono rapidamente degradati da sistemi enzimatici specifici. Tali eventi (sintesi degli endocannabinoidi, loro azione sui recettori e loro degradazione) avvengono solitamente in un periodo di tempo relativamente breve che può durare da poche decine di millisecondi a qualche minuto. Inoltre, data la specificità delle condizioni in cui gli endocannabinoidi sono prodotti e la loro scarsa abilità a diffondersi dal luogo di produzione (a causa della loro limitata capacità di sciogliersi nei liquidi extracellulari a base acquosa), anche l’aspetto spaziale dell’attivazione del sistema endocannabinoide è estremamente specifico. È quindi possibile che solo poche cellule producano, in un determinato momento, endocannabinoidi, i quali agiranno nelle immediate vicinanze per un tempo limitato. In altre parole, si pensa che il sistema endocannabinoide possegga un modo di azione on demand («a richiesta»): solo dove e quando vi è necessità, esso viene attivato per contribuire a determinate funzioni fisiologiche (o fisiopatologiche), per essere poi rapidamente inattivato (Piomelli 2003). Al contrario, la somministrazione esogena di THC, di marijuana o di altri farmaci in grado di attivare i recettori cannabinoidi porterà a una loro attivazione prolungata e generalizzata, con il risultato di generare effetti che solo raramente riproducono le funzioni fisiologiche del sistema endogeno. In pratica, i recettori cannabinoidi attivati da un farmaco esogeno saranno tutti quelli presenti nel corpo, al medesimo tempo e per una durata che dipende esclusivamente dalle proprietà farmacocinetiche di assorbimento, diffusione ed escrezione del farmaco stesso. Il sistema endocannabinoide può, quindi, essere considerato come la ‘marijuana del corpo’, ma tale definizione non permette di apprezzare completamente l’estrema precisione spaziotemporale delle sue funzioni (Maccarrone, Gasperi, Bari et al. 2009).
Se lo studio della farmacologia dei cannabinoidi esogeni (marijuana, THC e derivati sintetici) ha una lunga storia, la novità degli ultimi anni è rappresentata dallo studio della fisiologia del sistema endocannabinoide. Nei paragrafi successivi saranno esaminate alcune funzioni fisiologiche del sistema endocannabinoide che, per quanto detto prima, non vanno confuse con gli effetti farmacologici della marijuana e degli altri cannabinoidi esogeni.
Funzioni
Il sistema endocannabinoide è coinvolto in un numero crescente di funzioni fisiologiche e fisiopatologiche. Non passa settimana che la letteratura scientifica non aggiunga un tassello al complesso rompicapo formato da queste funzioni e dalle loro interazioni. Allo stato attuale delle conoscenze, non è esagerato ipotizzare che quasi tutte le funzioni del corpo, dalla pelle al cervello, vedano il sistema endocannabinoide coinvolto in alcuni dei loro meccanismi. Dal controllo del prurito cutaneo fino alla regolazione della trasmissione sinaptica fra neuroni, necessaria per ricordare o muoversi, esistono evidenze che indicano nel sistema endocannabinoide un fattore di regolazione e di controllo estremamente importante (per un ulteriore approfondimento di questo argomento v. Cannabinoids and the brain, 2008, e Maccarrone, Gasperi, Bari et al. 2009). Qui è sufficiente fornire alcuni esempi delle funzioni del sistema endocannabinoide nella fisiologia e fisiopatologia animale, secondo un immaginario viaggio attraverso il corpo, dal ‘centro operativo’, il sistema nervoso, alla periferia.
Controllo della trasmissione sinaptica retrograda
Date le proprietà psicotrope della marijuana, i primi studi sul sistema endocannabinoide si focalizzarono sulle sue funzioni neuronali. Effettivamente, CB1 è espresso in maniera molto abbondante nel cervello, anche se è ormai chiaro che esso è presente anche in numerosi organi periferici.
I neuroni sono cellule altamente specializzate del sistema nervoso, il cui scopo principale è quello di scambiare e immagazzinare informazioni: la capacità di comunicare ne rappresenta, quindi, la caratteristica principale. Anche la loro forma riflette questa specializzazione. In genere, essi sono composti da un corpo cellulare e da prolungamenti sottili (i neuriti) che possono essere anche molto lunghi in rapporto alle dimensioni del corpo. I neuriti sono ulteriormente classificati in due categorie: i dendriti e gli assoni. Ai dendriti spetta soprattutto il compito di ricevere informazioni da altri neuroni, mentre gli assoni le ritrasmettono elaborate dalla cellula ai loro bersagli, in genere i dendriti di altri neuroni. La natura dell’informazione ricevuta, elaborata e trasmessa dai neuroni, è di tipo elettrochimico. Le membrane neuronali posseggono la caratteristica di essere selettivamente permeabili a certi ioni carichi elettricamente, quali il sodio, il potassio, il calcio e altri. Una permeabilità selettiva che, insieme alla presenza di ‘pompe’ capaci di mantenere gradienti ionici (differenze, cioè, di concentrazione ionica), permette di mantenere una differenza di carica fra un lato e l’altro della membrana e di determinare un potenziale di membrana. Ogni variazione di tale potenziale è utilizzata dai neuroni come segnale elettrico che, quando raggiunge una certa intensità, si diffonde lungo la membrana attraverso meccanismi specializzati che generano il potenziale d’azione, il quale progredisce rapidamente lungo le membrane. Tranne che in alcune situazioni particolari, però, le membrane di un neurone sono fisicamente separate da quelle di un altro neurone. Si pone, quindi, il problema di come trasformare il segnale elettrico che viaggia sulla membrana di una cellula in qualcosa di riconoscibile da un’altra cellula. È per risolvere tale problema che i neuroni hanno sviluppato strutture specializzate – le sinapsi – che permettono la trasformazione del segnale elettrico in segnale chimico, capace di trasmettere l’informazione da una cellula all’altra.
Le sinapsi sono formate da due componenti, una appartenente all’assone della cellula che trasmette il segnale, denominata terminale presinaptico, e l’altra appartenente al neurone (o alla cellula di altro tipo) che riceve il segnale, denominata porzione postsinaptica della sinapsi stessa. Il terminale presinaptico contiene alcune vescicole che a loro volta sono riempite da un neurotrasmettitore, una molecola che agisce come segnale chimico fra neuroni o fra questi e altre cellule. In corrispondenza del terminale presinaptico, nella parte postsinaptica, il neurone ricevente contiene recettori specifici per il neurotrasmettitore rilasciato dal terminale presinaptico. Una volta attivati, i recettori modificano le proprietà elettriche della membrana postsinaptica e trasferiscono così l’informazione alla cellula ricevente. La modificazione a livello postsinaptico dipende dalla natura del neurotrasmettitore utilizzato dal neurone presinaptico, che può indurre diversi effetti, ma che in generale può essere di tipo eccitatorio (quando aumenta l’intensità del segnale elettrico della membrana postsinaptica) o inibitorio (quando l’effetto sulla cellula postsinaptica è opposto). In questo modo, nella sinapsi, l’informazione viene trasferita a una cellula ricevente tramite una trasformazione da segnale elettrico (presinaptico) a segnale chimico (sinaptico), per poi ridiventare segnale elettrico (aumentato o diminuito) a livello postsinaptico. Si ritiene a tutt’oggi che il meccanismo descritto sia il principale metodo di trasferimento di informazione a livello neuronale.
Per molti anni, il fatto che l’informazione fluisse in maniera unidirezionale da una cellula presinaptica a una cellula postsinaptica, e mai viceversa, è stato considerato una specie di verità indiscutibile. Così fino agli anni Novanta quando, in base a nuove evidenze sperimentali, un numero crescente di neurofisiologi (fra cui Bradley E. Alger negli Stati Uniti e Alain Marty in Francia spiccano come veri pionieri) non l’hanno posta in discussione (I. Llano, N. Leresche, A. Marty, Calcium entry increases the sensitivity of cerebellar Purkinje cells to applied GABA and decreases inhibitory synaptic currents, «Neuron», 1991, 6, 4, pp. 565-74; T.A. Pitler, B.E. Alger, Postsynaptic spike firing re-duces synaptic GABAA responses in hippocampal py-ramidal cells, «The journal of neuroscience», 1992, 12, 10, pp. 4122-32). I loro risultati – tratti dall’osservazione di sinapsi sia eccitatorie sia inibitorie, in diverse regioni del sistema nervoso centrale – misero in evidenza come, in certe condizioni, il flusso di informazione possa prendere la direzione inversa portando il segnale dalla membrana postsinaptica alla membrana presinaptica, secondo modalità di trasmissione retrograda. Tali studi dimostrarono che, in determinate condizioni, un segnale di natura chimica è rilasciato a livello postsinaptico, viaggia nello spazio sinaptico in senso opposto ai neurotrasmettitori classici e ne diminuisce il rilascio presinaptico. Un neurone, quindi, non solo può ‘parlare’ a un altro neurone a livello di singola sinapsi, ma – al contrario di quanto ritenuto sino ad allora – è anche in grado di ‘ascoltarne’ la risposta o, semplicemente, di riceverne nuova informazione.
La comprensione dei meccanismi della trasmissione retrograda a livello sinaptico si presentava ostica per la difficoltà di individuare quale potesse essere il mediatore chimico della comunicazione. Se, infatti, la natura e i meccanismi dei mediatori classici (quelli cioè che portano il messaggio dalla pre- alla postsinapsi) erano ben conosciuti e descritti, poco o nulla si riusciva a immaginare di quale potesse essere l’entità chimica capace di portare il messaggio ‘all’indietro’. Si sapeva, per es., come, a livello di terminale presinaptico, i messaggeri chimici, idrosolubili, fossero conservati in vescicole lipidiche e che l’arrivo del segnale elettrico al terminale inducesse una fusione delle vescicole con la membrana cellulare, provocando il rilascio delle molecole di neurotrasmettitore nello spazio sinaptico e l’attivazione dei loro recettori specifici a livello postsinaptico. A livello postsinaptico, però, non è presente alcuna struttura simile alle vescicole: la trasmissione retrograda doveva quindi basarsi su meccanismi diversi rispetto alla trasmissione classica anterograda.
Nel 2001 apparvero quasi contemporaneamente tre articoli fondamentali nella ricerca sulla trasmissione sinaptica e sul sistema endocannabinoide. Gli autori, i gruppi di Roger A. Nicoll e Wade G. Regehr negli Stati Uniti e di Masanobu Kano in Giappone, mostrarono che gli endocannabinoidi erano i mediatori della trasmissione sinaptica retrograda (Wilson, Nicoll 2001; Ohno-Shosaku, Maejima, Kano 2001; Kreitzer, Regehr 2001). Gli endocannabinoidi, infatti, rispondono a molte delle caratteristiche che un mediatore retrogrado deve avere. A causa della loro natura lipofila, essi non possono essere conservati entro vescicole, ma sono prodotti direttamente dalle membrane cellulari. Il loro recettore CB1 è presente principalmente a livello della membrana presinaptica, in posizione strategicamente perfetta per mediare un segnale di tipo retrogrado: in seguito alla sua attivazione tramite un ligando esogeno o endogeno, esso è in grado di diminuire l’eccitabilità del neurone che lo contiene e di ridurre, così, il rilascio del neurotrasmettitore specifico di quella sinapsi. L’attivazione di CB1 può quindi determinare sia una diminuzione della comunicazione eccitatoria (quando la sinapsi è di questo tipo) sia una riduzione della trasmissione inibitoria (nel caso contrario). I ricercatori dimostrarono che queste proprietà degli endocannabinoidi e dei loro recettori permettono al sistema endocannabinoide di mediare la comunicazione retrograda a livello sinaptico: durante la trasmissione sinaptica, in determinate condizioni, il neurone postsinaptico produce endocannabinoidi che sono rilasciati nello spazio extracellulare, attraversano lo spazio sinaptico e si vanno a legare ai recettori CB1 posti sulla membrana presinaptica, dove inibiscono l’eccitabilità della membrana presinaptica e riducono il rilascio del neurotrasmettitore (Nicoll, Alger 2004).
Meccanismi simili sono stati in seguito descritti in quasi tutte le aree cerebrali, permettendo di affermare che, allo stato attuale delle ricerche, il sistema endocannabinoide è il più diffuso e conosciuto sistema di comunicazione retrograda a livello sinaptico. Un’efficace rappresentazione animata di tali meccanismi può essere ritrovata sul sito dell’ECSN (EndoCannabinoid System Network, http://www.endocannabinoid.net/videoAnimation/EndocannabinoidBiology.aspx, 24 febbraio 2010).
I meccanismi descritti mostrano che il sistema endocannabinoide rappresenta un fattore molto importante nella regolazione fine della trasmissione sinaptica e nella modulazione dell’attività del cervello e del sistema nervoso in genere. Nonostante sia sempre difficile stabilire nessi sicuri e solidi fra i fenomeni di tipo cellulare e i comportamenti complessi degli animali e dell’uomo, è molto probabile che la trasmissione sinaptica retrograda sia alla base di molte delle funzioni attribuite al sistema endocannabinoide negli ultimi anni, almeno di quelle mediate dal sistema nervoso.
Protezione contro l’eccessiva attività neuronale
Le funzioni del sistema nervoso dipendono dalla continua attività dei neuroni basata sull’equilibrio delicato fra eccitazione e inibizione neuronale. Una gran parte delle informazioni scambiate fra neuroni viaggia attraverso meccanismi eccitatori: un neurone viene eccitato da uno stimolo e comunica a un altro neurone questa eccitazione, il quale ne ecciterà un altro e così via, formando dei veri e propri circuiti eccitatori. È opinione condivisa fra i neuroscienziati moderni che la diversa combinazione di tali circuiti formi una sorta di rappresentazione interna del mondo esteriore e induca l’organismo, tramite l’attivazione di altri circuiti, a reagire a questa informazione. I neuroni, però, sono costantemente esposti al rischio della sovraeccitazione. Quando queste cellule sono molto eccitate, si instaurano meccanismi che portano al danneggiamento o alla morte dei neuroni stessi e di quelli in contatto con loro. Questi fenomeni, denominati eccitotossici, sono coinvolti nella fisiopatologia di numerose malattie neuronali, quali, per es., diverse forme di epilessia, le malattie di Alzheimer, di Parkinson o di Huntington. Il sistema nervoso è dotato quindi di potenti e sofisticati mezzi per controllare i propri livelli di eccitazione. I due neurotrasmettitori principali utilizzati dai neuroni sono l’acido glutammico (Glu, eccitatorio) e l’acido γ-amminobutirrico (GABA, inibitorio). L’attivazione dei neuroni che utilizzano Glu come neurotrasmettitore (detti neuroni glutammatergici) indurrà, quindi, un’eccitazione della cellula bersaglio, mentre i neuroni GABAergici provocheranno l’effetto contrario. L’eccitotossicità si genera principalmente quando il rapporto fra le attività di questi neurotrasmettitori è sbilanciato verso un’eccessiva attività glutammatergica. CB1, come è stato detto in precedenza, è in grado di regolare la liberazione dei neurotrasmettitori dai neuroni sui quali è espresso. Infatti, è presente sia su neuroni glutammatergici sia su quelli GABAergici e può, quindi, regolare il livello sia di eccitazione sia di inibizione dei circuiti. D’altro canto, la sintesi degli endocannabinoidi è estremamente sofisticata e può essere fortemente specifica dal punto di vista spaziotemporale.
Nei primi anni del 21° sec., numerose evidenze hanno mostrato come, in modelli animali di eccitotossicità (in situazioni, cioè, in cui gli sperimentatori inducono artificialmente condizioni di eccessiva attività eccitatoria neuronale negli animali da esperimento), il sistema endocannabinoide agisce come un potente controllore, proteggendo l’animale dalle conseguenze nefaste di quelle condizioni. Per es., l’induzione di crisi di tipo epilettico in topi da laboratorio tramite la somministrazione di particolari farmaci (eccitotossine) provoca un’attivazione pronunciata del sistema endocannabinoide, con la conseguente inibizione del rilascio di glutammato da parte dei neuroni e il miglioramento del quadro clinico dell’animale (Marsicano, Goodenough, Monory et al. 2003). Studi ancora più recenti hanno mostrato come il sistema endocannabinoide, in tali condizioni, sembri essere attivato solo a livello di neuroni glutammatergici eccitatori, ma non di quelli GABAergici inibitori, confermando l’idea di attivazione a richiesta del sistema (Monory, Massa, Egertová et al. 2006). In presenza di un’eccessiva eccitazione (mediata principalmente dai neuroni glutammatergici), il sistema endocannabinoide è in grado di attivarsi solo ove e quando ciò sia utile all’individuo. Si avrà, quindi, una riduzione del rilascio di glutammato, ma nessuna alterazione del rilascio di GABA che, essendo un neurotrasmettitore inibitorio, partecipa alla protezione contro l’eccitotossicità.
La conclusione è che il sistema endocannabinoide sembrerebbe svolgere una funzione decisiva nella protezione contro fenomeni potenzialmente dannosi per la salute. Anche se è sempre difficile estendere risultati ottenuti in laboratorio alle patologie umane, esiste la speranza che l’uso di farmaci capaci di aumentare l’attività del sistema endocannabinoide possano in futuro aiutare a combattere alcune malattie neuronali importanti, quali l’epilessia. Ulteriori studi saranno, quindi, necessari per confermare o meno queste speranze.
Controllo delle reazioni emozionali
La paura è un’emozione che svolge un ruolo fondamentale nel comportamento degli animali e dell’uomo. Sulla base dell’istinto e dell’esperienza, essa permette di evitare comportamenti che possono essere pericolosi, o di adottare misure atte a evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo. La paura istintiva verso certi animali, quali ragni o serpenti, permette di evitare il contatto con essi e quindi di esporci a eventuali pericoli. La paura non è solo istintiva, ma può anche essere appresa. Tutti noi insegniamo ai nostri figli a fare attenzione alle automobili quando si attraversa la strada. Nel caso fortunato di un incidente evitato o con danni limitati, tale apprendimento sarà sicuramente più rapido, perché sarà rafforzato da meccanismi molto potenti che vengono generalmente descritti come condizionamento. Dopo un incidente evitato, il segnale rappresentato dal sopraggiungere di un’automobile diventerà un allarme molto più efficace e spingerà ad agire in maniera molto più prudente in futuro.
Sono migliaia gli esempi che dimostrano come la paura, istintiva o acquisita tramite l’insegnamento o l’esperienza diretta, sia un’emozione fondamentale per la sopravvivenza degli individui. Il cervello, infatti, possiede meccanismi specifici per generare questa emozione in risposta a stimoli potenzialmente pericolosi provenienti dall’ambiente esterno. Tuttavia, la paura deve essere tenuta sotto controllo. Una persona che abita in campagna non potrebbe sopravvivere se la sua paura naturale per i ragni fosse troppo forte e gli impedisse di muoversi nel suo ambiente (che, ovviamente, presenta una densità di ragni superiore a quella di un appartamento in città). Allo stesso modo, un cittadino non potrebbe attendere ad alcuna delle sue funzioni quotidiane (fare la spesa o recarsi al lavoro) se la sua paura delle automobili gli impedisse di attraversare la strada in qualsiasi condizione.
La paura, quindi, è un’emozione fondamentale, ma la sua intensità deve essere sempre regolata per adattarsi alle condizioni ambientali e non impedire lo svolgersi di altre funzioni altrettanto importanti (per es., la ricerca del cibo). Solo così la vita degli uomini e degli animali può scorrere in maniera normale, in un giusto equilibrio fra le paure necessarie e quelle sotto controllo. Esistono numerose patologie psichiche caratterizzate dall’alterazione dei meccanismi di controllo della paura. Le fobie, le sindromi da stress postraumatico o numerosi tipi di disturbi d’ansia presentano, come elemento comune, l’alterazione nella capacità dei pazienti di adattare le proprie paure e i comportamenti legati a esse alle condizioni normali della vita quotidiana. Per riprendere uno degli esempi fatti prima, gli aracnofobici (coloro che soffrono di una paura patologica dei ragni) o i claustrofobici (coloro che soffrono di una paura eccessiva di un’altra condizione potenzialmente pericolosa: i luoghi chiusi e senza vie di fuga) presentano eccessi patologici di una funzione naturale. Il cervello, quindi, ha sviluppato, nel corso dell’evolu-zione, meccanismi per sopprimere la paura altrettanto potenti di quelli per generarla ed esprimerla, e l’equilibrio fra questi meccanismi distinti è centrale per il benessere e la sopravvivenza di uomini e animali.
Dal 2002, numerosi studi hanno dimostrato che il sistema endocannabinoide svolge una funzione importante nei meccanismi cerebrali del controllo della paura, sia acquisita sia istintiva. In laboratorio, la paura può essere ‘insegnata’ agli animali. Uno dei modi classici per indurre forme di paura acquisita è il cosiddetto condizionamento alla paura. In questo modello sperimentale, l’animale viene esposto a uno stimolo neutro, incapace, cioè, di generare di per sé alcun comportamento di paura nell’animale stesso. Lo stimolo, per es. un suono o una luce, è chiamato stimolo condizionato. In laboratorio, si può associare lo stimolo condizionato a un’esperienza negativa, per es. a una leggera scossa elettrica, che viene denominata stimolo incondizionato. Dopo questa esperienza (che ricorda l’incidente con leggere conseguenze menzionato in precedenza), si presenta all’animale lo stimolo condizionato. L’individuo reagirà con comportamenti di paura tipici della sua specie: esprimerà, quindi, una reazione condizionata.
Tali comportamenti sono misurabili e possono fornire allo sperimentatore un mezzo per valutare la quantità di paura che lo stimolo condizionato è in grado di suscitare. Se la presentazione dello stimolo, però, viene ripetuta varie volte in assenza dell’esperienza avversa, si osserva una diminuzione progressiva della paura espressa dall’individuo. Il fenomeno, conosciuto come estinzione della paura, ricorda molto da vicino i processi di adattamento e di equilibrio per il controllo della paura descritti sopra. Il fatto che lo stimolo pauroso sia ripetutamente presente senza che questo abbia più alcun effetto dannoso porta a una sorta di ridimensionamento del suo valore e a una diminuzione della risposta condizionata di paura. Allo stesso modo, dopo l’incidente con leggere conseguenze, la nostra paura delle automobili tenderà a diminuire se ci troviamo nelle condizioni di attraversare la strada molte volte senza conseguenze dannose. I risultati sperimentali in laboratorio hanno mostrato che animali in cui il sistema endocannabinoide è stato bloccato possono essere condizionati normalmente alla paura, ma presentano una ridotta capacità di estinguere questa emozione. Continueranno, cioè, a reagire con la medesima intensità anche in seguito alla presentazione ripetuta dello stimolo condizionato in assenza dell’esperienza negativa (Marsicano, Wotjak, Azad et al. 2002). La fig. 3 mostra il ruolo del sistema endocannabinoide nell’estinzione della paura: 24 ore dopo essere stati condizionati, topi normali sono riesposti in giorni successivi allo stimolo condizionato in assenza di ogni stimolo avversivo (simboli viola). Mentre la paura suscitata dallo stimolo è alta il primo giorno, essa diminuisce decisamente nei giorni successivi, indicando l’avvenuta estinzione della reazione. Topi in cui il sistema endocannabinoide è stato bloccato (simboli rossi) mostrano la stessa paura dei topi normali al primo giorno di esposizione, ma poi non sono in grado di diminuire la reazione durante i giorni successivi. In numerosi laboratori sono stati ottenuti simili risultati, mostrando come il sistema endocannabinoide svolga un ruolo fondamentale nei processi adattativi necessari per stabilire il giusto equilibrio fra ‘paura necessaria’ e ‘paura sotto controllo’.
Esiste la speranza che tali osservazioni possano un giorno portare allo sfruttamento di queste proprietà nello sviluppo di terapie contro alcune delle malattie psichiche menzionate in precedenza. Si tratta, comunque, ancora di una speranza, e ulteriori approfonditi studi saranno necessari per estendere all’uomo e alle sue patologie questi risultati, ottenuti, per ora, solo su animali da laboratorio.
Regolazione centrale e periferica dell’alimentazione e della bilancia energetica
Gli organismi biologici possono essere considerati macchine per accumulare e usare energia. A partire dagli organismi più semplici, il problema di conservare l’energia sottratta all’ambiente esterno ha rappresentato probabilmente la spinta più forte dal punto di vista evolutivo. Negli animali, i meccanismi per eseguire questa funzione fondamentale hanno raggiunto livelli molto complessi di perfezionamento. Il rapporto fra l’energia assimilata, la sua conservazione e il suo utilizzo è denominato bilancia energetica degli individui. Ognuna delle tappe della bilancia energetica è regolata attraverso meccanismi altamente specializzati che necessitano di un continuo scambio di informazioni fra gli organi periferici e il cervello, dove queste funzioni sono controllate e tradotte in comportamenti. Esistono ormoni periferici, come, per es., la leptina prodotta nel tessuto adiposo, che informano il cervello sullo stato generale della bilancia energetica. Quando il corpo necessita di un aumento dell’apporto energetico, gli adipociti (le cellule del tessuto adiposo) diminuiscono la produzione di leptina. La diminuzione è registrata dal cervello, il quale mette in atto una serie di sensazioni e di comportamenti che comunemente chiamiamo fame e ricerca del cibo. Al contrario, quando l’apporto energetico è sufficiente, i livelli di leptina circolante aumentano, inducendo, così, il cervello a diminuire la sensazione di fame (in altre parole ad aumentare la sensazione di sazietà) e di conseguenza a ridurre la ricerca del cibo. In modo simile, altri ormoni regolano questi processi, modificando l’attività di un gran numero di regioni cerebrali e di organi periferici. Inoltre, i meccanismi che regolano l’apporto e la conservazione dell’energia non dipendono solo dai bisogni immediati del corpo, ma sono anche predisposti alla previsione di future necessità.
Gli animali e l’uomo si sono evoluti in condizioni piuttosto ostili, in cui la quantità di nutrimento era spesso insufficiente a soddisfare i bisogni fondamentali. Meccanismi si sono sviluppati con lo scopo non solo di indurre l’assunzione della quantità di cibo necessaria nel momento in cui una fonte di nutrimento è a disposizione, ma anche l’accumulo di eccessi di energia, che risulteranno molto utili in futuri periodi di scarsità alimentare, creando vere e proprie riserve nel corpo. Per far ciò, sono necessarie alcune funzioni che vanno al di là della semplice equazione «ho fame, il mio corpo ha bisogno di cibo, quindi mangio». Innanzitutto, bisogna che lo stimolo a mangiare non sia esclusivamente legato ai bisogni immediati, ma che l’individuo sia portato a mangiare anche se al momento non ne ha un bisogno reale. Se i meccanismi di fame e sazietà fossero perfettamente bilanciati e regolati sui bisogni immediati, non ci sarebbe nessuno stimolo a mangiare di più e quindi non ci sarebbe possibilità di crearsi delle riserve. Ecco così che i processi evolutivi hanno selezionato pulsioni e comportamenti per cui la presa alimentare non è soggetta alla sola regola del bisogno immediato. Queste pulsioni trasformano il cibo stesso, la sua presenza e le sue caratteristiche organolettiche (la sua bontà, che spesso corrisponde direttamente al suo contenuto energetico) in uno stimolo a cibarsi che agisce in maniera indipendente dallo stato energetico momentaneo dell’individuo. È così che il comportamento alimentare dell’uomo e degli animali non è sempre strettamente legato ai suoi bisogni energetici, ma anche ad altri impulsi, che coinvolgono meccanismi quali quelli cosiddetti della ricompensa (reward): non si mangia solo per fame, ma anche per piacere. Inoltre, l’eccesso di energia così acquisito deve essere conservato per un uso futuro. È per tale ragione che il corpo è dotato di meccanismi per lo stoccaggio di questa energia sotto forma di grassi. L’organo centrale di tali meccanismi (anche se non l’unico coinvolto) è il tessuto adiposo, le cui cellule, gli adipociti, hanno come funzione più evidente quella di accumulare grassi. Il tessuto adiposo, però, non è solo un magazzino di energia, ma partecipa attivamente ai processi di regolazione della bilancia energetica. Si è già visto come esso sia la principale fonte di sintesi e rilascio della leptina, ma negli ultimi anni si è anche scoperto che gli adipociti sono cellule estremamente reattive che ‘dialogano’ in continuazione con altri organi e partecipano a numerose funzioni non solo legate all’accumulo di energia.
Anche altri organi periferici regolano attivamente le riserve energetiche. Il fegato, per es., è in grado di sintetizzare grassi a partire dai nutrienti ingeriti; il pancreas regola il consumo della fonte di energia più immediata, il glucosio; il sistema gastroenterico non svolge solo il ruolo fondamentale dell’assorbimento dell’energia, ma è anche capace di comunicare con altri organi e con il sistema nervoso centrale, fornendo e ricevendo informazioni sullo stato energetico del corpo; i muscoli, poi, sono la maggior fonte di consumo di energia e la loro funzionalità è molto importante per la regolazione della bilancia energetica. I vari organi e le loro interazioni formano una macchina complessa capace di regolare l’apporto, lo stoccaggio e il consumo di energia. L’evoluzione di questa macchina negli animali e nell’uomo è avvenuta lungo il corso di milioni di anni, durante i quali, in condizioni selvagge, l’apporto di nutrimento è quasi sempre stato al limite delle necessità, ma mai abbondante, e il lavoro (e quindi il consumo di energia) necessario per procurarsi il cibo è sempre stato piuttosto elevato. Allo stato attuale dell’evoluzione, quindi, i meccanismi di controllo della bilancia energetica sono sbilanciati verso l’assimilazione e l’accumulo di energia, piuttosto che verso il digiuno e il consumo di energia: in altre parole, per l’uomo e gli animali è più istintivo e naturale mangiare molto e lavorare poco, piuttosto che mangiare poco e lavorare molto. Con l’avvento dell’industrializzazione nella società umana occidentale e la conseguente possibilità di produzione di ingenti quantità di beni e cibo, questa tendenza naturale all’accumulo ha prodotto una situazione che possiamo definire paradossale. Oggi, in una parte estesa del mondo, sono presenti enormi quantità di nutrimento ad alto contenuto energetico relativamente poco costose da ottenere in termini di lavoro individuale. Se a ciò si aggiunge l’avvento delle macchine che sollevano gli individui da buona parte del loro lavoro fisico (per spostarsi e per produrre), ecco che si delinea una situazione in cui gli uomini si trovano a poter ingerire e accumulare grandissime quantità di energia e consumarne pochissima. Poiché tali comportamenti sono favoriti dai sistemi di controllo della bilancia energetica, gli uomini hanno cominciato ad accumulare sempre più energia sotto forma di grassi. Ciò ha causato l’insorgenza dell’obesità, una malattia che provoca enormi danni dal punto di vista socioeconomico e sanitario. L’eccesso di grasso, infatti, non è solo un problema estetico, ma implica soprattutto lo scatenarsi di una serie di processi patologici che possono portare a situazioni estremamente gravi, quali il diabete e numerose malattie cardiovascolari, con enormi rischi per la sopravvivenza stessa dell’individuo.
Gli studi hanno mostrato che il sistema endocannabinoide svolge un ruolo fondamentale nel controllo della bilancia energetica, contribuendo sostanzialmente alla ‘tendenza all’accumulo’ (Pagotto, Marsicano, Cota et al. 2006). Tale ruolo si esplica praticamente a tutti i livelli anatomici (fig. 4). Il sistema è presente nel cervello, dove partecipa attivamente sia ai meccanismi della ‘fame’ (cioè l’impulso all’assunzione di cibo in condizioni di bisogno fisico di energia dell’individuo), sia ai meccanismi di ‘piacere’ dato dal cibo, che ci portano ad assumere nutrimento anche se non ne abbiamo immediato bisogno, soprattutto se esso è ricco in energia (zuccheri, grassi) e associato a esperienze positive dell’individuo (nessuno, anche dopo un pranzo abbondante, potrebbe resistere alla torta che faceva la nonna quando eravamo bambini). Inoltre, il recettore CB1 e gli endocannabinoidi sono presenti in tutti i siti periferici che partecipano alla bilancia energetica: nel tessuto adiposo e nel fegato essi favoriscono la sintesi e l’accumulo dei grassi; nel muscolo diminuiscono l’ultilizzo del glucosio; nel pancreas regolano la sintesi e la secrezione di insulina (ormone fondamentale per il controllo dei livelli di glucosio nel corpo); nel sistema gastroenterico facilitano l’assorbimento dei nutrienti e partecipano attivamente alla comunicazione fra questo organo e il cervello.
In conclusione, si può affermare che il sistema endocannabinoide, attraverso azioni concertate in organi diversi, tende a favorire l’acquisizione e l’accumulo di energia, piuttosto che il suo consumo. Questa funzione del sistema è stata molto utile nel corso dell’evoluzione delle specie, quando le fonti di cibo erano limitate: nella savana è meglio mangiare di più e ingrassare, piuttosto che limitarsi e rischiare la morte per inedia. Al contrario, in condizioni di eccesso di apporto energetico quali quelle tipiche della società occidentale industrializzata, l’attivazione eccessiva del sistema endocannabinoide può contribuire in maniera sostanziale a indurre uno stato di obesità con tutte le sue conseguenze pericolose per l’organismo. Numerosi studi hanno dimostrato che in soggetti obesi (umani o animali), il sistema endocannabinoide tende a essere potenziato oltre i suoi limiti normali, favorendo sia l’eccesso di ingestione di energia (effetto principalmente nel cervello e nel tratto gastroenterico), sia il suo accumulo (effetto principalmente a livello di tessuto adiposo e fegato), sia la diminuzione del suo consumo (effetto principalmente nel muscolo e nel pancreas). Si crea così una sorta di circolo vizioso, per cui il soggetto obeso ha grandissime difficoltà a regolare i suoi comportamenti e il suo metabolismo, anche perché il sistema endocannabinoide superpotenziato continua a spingere verso l’accumulo di energia. In questo quadro, l’industria farmaceutica è stata attratta dall’idea che la diminuzione dell’attività del sistema endocannabinoide tramite l’uso di farmaci antagonisti del recettore CB1 (capaci, cioè, di impedirne l’attivazione da parte degli endocannabinoidi) potrebbe contribuire al trattamento farmacologico dell’obesità e delle malattie associate. Dal 2004, si sono effettuati test clinici che hanno mostrato come questa via terapeutica farmacologica (in aggiunta, naturalmente, a un cambiamento negli stili di vita: mangiare meno e muoversi di più) possa davvero contribuire a ostacolare l’epidemia di obesità che si sta profilando come uno dei problemi sanitari più seri per i prossimi decenni (Pagotto, Marsicano, Cota et al. 2006). Naturalmente, questo approccio farmacologico è un ottimo mezzo per affrontare il problema, ma non bisogna dimenticare le numerose altre funzioni importanti e utili del sistema endocannabinoide fra cui quelle viste in precedenza. Il blocco totale del sistema in pazienti obesi potrebbe quindi favorire sì la loro perdita di peso e il miglioramento del loro profilo metabolico, ma potrebbe anche esporli ad altri rischi collaterali. Infatti, il primo bloccante di CB1 è stato ritirato dal commercio nel 2008 a causa dei suoi effetti collaterali di tipo ansiogeno.
La bilancia energetica può anche essere alterata in senso inverso durante altre patologie, caratterizzate dalla perdita eccessiva di peso con le conseguenze nefaste che si possono immaginare. Condizioni psichiche o fisiche, quali l’anoressia nervosa o le cachessie causate dal cancro, sono situazioni in cui gli individui, per diverse ragioni, non sono in grado di assumere e conservare livelli sufficienti di energia. Il sistema endocannabinoide (in questo caso a causa di un suo ipofunzionamento) potrebbe partecipare a queste condizioni patologiche. In tali campi, comunque, gli studi sugli animali sono appena iniziati e non vedono ancora una loro applicazione clinica pienamente supportata da prove conclusive. L’approvazione in alcuni Paesi del mondo, comunque, dell’uso della marijuana come palliativo per il trattamento delle cachessie associate al cancro o all’AIDS ha generato risultati piuttosto promettenti e ci sono buone speranze che questo aspetto del sistema endocannabinoide potrà, in un prossimo futuro, essere sfruttato in terapia.
Conclusioni
Il sistema endocannabinoide è molto antico dal punto di vista evolutivo: già animali molto semplici, quali le sanguisughe, producono e usano endocannabinoidi nella loro fisiologia. Si tratta, però, di un sistema relativamente nuovo dal punto di vista della ricerca scientifica. In questo breve saggio si è cercato di riportare lo stato attuale delle conoscenze generali sull’argomento, e di approfondire alcuni casi esemplari, ma moltissime sono ancora le scoperte sul sistema endocannabinoide che ci attendono nel futuro. Alcune, come per es. il ruolo del sistema nella percezione del dolore, nella modulazione della memoria, nelle attività vascolari, nella regolazione del sistema immunitario, nella fisiologia della crescita ossea o della riproduzione, nel controllo di numerose malattie e molte altre ancora, sono venute all’attenzione dei ricercatori di tutto il mondo. Sicuramente, comunque, ci saranno grandi sorprese in futuro che aumenteranno ancor più l’interesse suscitato da questo argomento affascinante sia per la ricerca ‘pura’ dei meccanismi di funzionamento del nostro corpo sia per la ricerca più ‘applicata’, tesa alla scoperta di nuovi bersagli terapeutici per il trattamento medico di moltissime malattie.
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