dualismo economico
Coesistenza in uno stesso sistema economico di due parti contrapposte per caratteristiche funzionali e di funzionamento. A seconda dei vari Paesi, si può trattare di un d. Nord-Sud, Est-Ovest, oppure anche a macchia di leopardo. In una condizione di d. e. si assiste all’attivarsi di un flusso di migrazioni in uscita dalle aree stagnanti verso quelle dinamiche (anche diverse da quelle vicine), che destruttura ulteriormente i territori ‘sfortunati’.
L’espansione delle attività economiche risponde a fattori di agglomerazione (➔) che da lungo tempo sono stati messi in evidenza da economisti e geografi: esistenza di materie prime importanti (fra cui l’acqua riveste un ruolo estremamente significativo, si pensi all’energia idroelettrica), facilità di trasporto (porto, nodo stradale o ferroviario), mercati di sbocco (città), reti di imprese, scuole professionali, università, tradizioni commerciali e artigianali, esistenza di banche, enti locali ben amministrati e attivi. Più uno Stato è territorialmente vasto e diversificato geograficamente e storicamente, più la sua economia tende a svilupparsi in maniera dualistica, ossia con aree che si rivelano dinamiche, perché possiedono alcuni dei fattori di agglomerazione sopra citati, e altre che rimangono stagnanti o addirittura tendono a declinare, perché prive di fattori di agglomerazione significativi. Talora, le aree originariamente tagliate fuori vengono a godere degli effetti di spillover (➔) da parte delle aree dinamiche vicine e sono coinvolte anch’esse nello sviluppo, magari con un supporto da parte di appropriate politiche locali. Talaltra, le aree deboli mettono in campo una sufficiente flessibilità dei prezzi (per es. delle abitazioni o dei fabbricati) e dei salari, tale da fornire un opportuno contrasto al loro indebolimento, attirando investimenti diretti esteri (➔ investimento diretto estero) o nazionali (da parte delle aree forti del Paese) e il d. e. sparisce o si attenua. Se questo, tuttavia, non avviene il d. diventa una dimensione persistente.
Gli Stati possono cercare di arginare questo fenomeno con politiche regionali che tendano a dotare i territori rimasti indietro di qualcuno dei fattori di agglomerazione: costruzione di infrastrutture, incentivi alla localizzazione di imprese, incentivi all’occupazione, scuole, università, bonifiche e acquedotti. Non sempre, tuttavia, questi interventi si rivelano risolutivi nell’attirare nuove attività economiche, per la path-dependence (➔) che le economie rivelano nel corso del tempo. È anche vero, però, che aree una volta forti possono declinare, per il mutamento della composizione della domanda o per altre ragioni, mentre aree deboli possono acquisire vantaggi comparati, a un diverso stadio di sviluppo, producendo deviazioni fuori dalla path-dependence. Le politiche regionali di contrasto alla stagnazione o al declino, oggi chiamate strutturali, sono state attivate in Europa non solo da singoli Stati, ma, a partire dagli anni 1970, anche dall’Unione Europea, con risultati che sono oggetto di opinioni contrastanti (➔ fondi strutturali europei). In Italia tali politiche, per la prima volta introdotte da G. Giolitti e poi riprese massicciamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non sono state in grado di portare a soluzione i problemi di d. Nord-Sud già esistenti all’epoca dell’unificazione (➔ anche Cassa per il Mezzogiorno; coesione; meridionale, questione).