DUBAI.
- La storia. La consumer city crocevia tra Asia e Africa. Gli spazi. La blue city. Bibliografia
La maggiore città degli Emirati Arabi Uniti ha costituito negli ultimi decenni l’esempio più clamoroso di ricerca del nuovo in ambito architettonico e urbano, non soltanto nella penisola arabica ma, probabilmente, nel mondo intero. A lungo se n’è parlato – in termini sempre positivi, spesso esageratamente superlativi – nel periodo della sua frenetica crescita. Se ne è poi nuovamente molto parlato, per lo più in termini negativi, quando la crisi economica globale ne fermò bruscamente lo sviluppo (il fallimento, com’è noto, fu evitato solo grazie all’aiuto, non disinteressato, della più solida e sobria Abū Dhābi). Come altri insediamenti posti lungo il mare, la città si estende in maniera lineare per circa 50 km lungo le coste del Golfo, fra gli emirati di Sharjah a est e Abū Dhābi a ovest. La sua espansione è stata rapidissima e vistosa sia in verticale, con l’edificazione di innumerevoli nuove torri, sia in orizzontale, in maniera se possibile ancor più spettacolare, soprattutto sottraendo spazi al mare.
La storia. – D. era un piccolo porto naturale noto a veneziani, portoghesi e olandesi sin dal 17° sec. per la sua collocazione sulle rotte della seta e delle spezie. Nel 1833 la secessione di un ramo della famiglia Al Maktoum, chiamato Al Bu Falasa, lasciò Abū Dhābi per insediarsi in quella che sarebbe divenuta la moderna Dubai. Le attività prevalenti erano legate alla pesca e al commercio delle perle. Nel 1892 la città divenne protettorato britannico. Ma lo sviluppo tardò ad arrivare. Le avverse condizioni climatiche e la mancanza d’acqua sembravano aver ragione di ogni pur ferrea volontà di sviluppo. Nel 1904 la città fu dichiarata porto franco, senza peraltro grandi risultati. La crisi economica mondiale del 1929 e l’introduzione delle perle coltivate da parte dei giapponesi crearono ulteriori difficoltà alla fragile economia locale. Lo sviluppo si cominciò ad avvertire negli anni Cinquanta quando, abbandonando progressivamente il Kuwait, il mercato dell’oro si concentrò a Dubai. Al 1959-60 risale il primo piano urbanistico redatto da John R. Harris in coincidenza con l’inizio di un graduale, inarrestabile boom edilizio. Nel 1968 fu annunciato il ritiro del Regno Unito. Tre anni più tardi, nel 1971, nacque la confederazione dei sette emirati: fu il momento di avvio di una espansione economica senza precedenti dovuta non tanto allo sfruttamento di risorse energetiche fossili (già inizialmente modeste, ma di cui oggi D. è sostanzialmente priva), quanto piuttosto all’improvviso afflusso di capitali stranieri dovuti a due fattori concomitanti: la volontà dei grandi poteri finanziari inglesi che, in prossimità della scadenza del mandato britannico su Hong Kong, erano desiderosi di identificare una piazza alternativa chiaramente rivolta ai mercati asiatici, e le audaci politiche economiche dello sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, deciso a trasformare la città in un grande centro transnazionale finanziario, commerciale, turistico e del lusso: obiettivo in larga misura conseguito nel volgere di meno di trent’anni.
La famiglia al-Maktoum continua ancora oggi a controllare, pressoché integralmente, il territorio dell’emirato, sia dal punto di vista della proprietà (con sistemi di lease più o meno lunghi, un po’ come accade nel centro di Londra) sia da quello gestionale (con precisi vincoli d’uso). D. è diventata così uno straordinario collettore di danaro, convogliando verso Oriente enormi quantità di petrolio, soprattutto saudita, e continuando ad attirare capitali. Ma la sua fortuna, oltre agli aspetti di cui s’è parlato, è in gran parte dovuta al ruolo di città libera e favorevole all’imprenditoria al centro di una estesa area geografica dove la libertà è, invece, molto poca. D. ha assunto insomma, per il Medio Oriente, un ruolo simile a quello giocato da Hong Kong per la Cina e da Singapore per il Sud-Est asiatico: città-Stato indipendenti in grado di garantire ampia libertà operativa e, al tempo stesso, regole e sistemi giuridici sufficientemente certi ed efficienti al centro di estese regioni che ne erano, e in parte ne sono ancora oggi, per lo più prive.
La consumer city crocevia tra Asia e Africa. – Gli scali marittimi di Port Rashid, non lontano dalla foce del Creek, e di Jebel Ali, porto industriale molto spostato verso ovest, hanno assunto rilevanza globale per i flussi petroliferi, ma ospitano anche un’importante base militare statunitense. Le free zones sono caratterizzate da una concentrazione elevatissima di attività commerciali che rendono la città un crocevia inevitabile fra Africa, Asia ed Europa per petrolieri, uomini d’affari e imprenditori. Il Cargo Village, aperto nel 1991 presso il Dubai international airport, è rapidamente diventato uno dei principali scali aerei commerciali del mondo. L’esenzione dalle tasse, l’uso generalizzato della lingua inglese, la citata relativa libertà dello stile di vita (la più elevata nel mondo arabo), l’accessibilità doganale, l’assenza di visti d’entrata almeno per la gran parte dei Paesi ricchi, compresi quelli occidentali, hanno fatto di D. il naturale punto di riferimento per una estesa area geografica a cavallo fra Africa e Asia. D. è inoltre riuscita a connotarsi come la più straordinaria consumer city della regione: una turistica resort city, come fu definita da Rem Koolhaas. Tutto ciò ha determinato una costante crescita demografica: da meno di 250.000 abitanti alla fine degli anni Settanta a oltre un milione di oggi.
Le ambizioni dello sceicco e la vision urbana che anima i suoi progetti non hanno limiti. Dietro di lui vi sono alcune gigantesche società immobiliari quali Emaar Properties, dallo sceicco stesso fondata nei secondi anni Novanta, Nakheel Properties e Dubai Properties: un successo garantito da un coraggioso insieme di assolutismo autocratico e politiche capital-friendly, cioè favorevoli e rassicuranti per i grandi investitori privati internazionali. In assenza di un aggiornato piano urbanistico – il secondo e ultimo fu quello redatto dallo stesso citato studio inglese John R. Harris and partners nel 1971 – D. ha così, nei fatti, messo in crisi ogni discorso storicamente fondato sulla forma urbana e la sua evoluzione nel tempo. La nuova linea metropolitana, per lo più sopraelevata, lascia anche intravedere un primo, progressivo affrancamento dai mezzi privati. La crescita verticale, a partire da complessi come il World trade center realizzato nei tardi anni Settanta, ha fatto proliferare un numero incredibile di nuove, altissime torri: dal vertiginoso corridoio di Sheikh Zayed Road, che si estende da est a ovest parallelamente alla costa, a Burj al-Arab, la ‘vela’ opera di Tom Wright e Atkins che, con i suoi 321 m, emerge plasticamente dalle acque del Golfo, fino a Burj Khalifa, progettata da Adam Smith con SOM e realizzata dalla sudcoreana Samsung Corporation, che, con i suoi 828 m, detiene attualmente il labile titolo di edificio più alto del mondo. La torre (burj vuol dire appunto «torre») fa parte di un gigantesco complesso circondato da un lago artificiale collegato al Creek, su cui si affaccia Burj Dubai Downtown, un insieme comprendente 33.000 unità residenziali, il centro commerciale Dubai Mall, uffici e alberghi, fra cui (all’interno della stessa Burj Khalifa) il primo Armani Hotel. Grandi shopping malls tematici si susseguono gli uni accanto agli altri, superandosi per dimensioni e trovate da Dubailand a Sports City a Global Village.
Gli spazi. – Altrettanto vistosa l’espansione orizzontale: oltre che verso le inospitali aree desertiche interne, essa avviene soprattutto sottraendo progressivamente pregiati spazi al mare. Si tratta di interventi che, per dimensione e spettacolarità, non hanno precedenti: come testimoniano le immagini satellitari, è la stessa geografia costiera a risultar ne radicalmente modificata. È il caso delle molte, note realizzazioni immobiliari come The Palms, tre grandi isole artificiali (Jebel Ali, Jumeirah e Deira, quest’ultima ancora in costruzione) che ospitano alberghi e residenze di lusso, ciascuna dotata di attracchi privati per le barche; o The World (la cui costruzione è iniziata nel 2003), un arcipelago di circa 300 isole artificiali che, viste dall’alto, simulano sommariamente le terre emerse dei cinque continenti. Anche a Dubai Marina, zona economica a regime fiscale speciale prevalentemente abitata da occidentali, la spinta verticalizzazione si accompagna a uno spregiudicato ridisegno geografico, con ampi canali e spettacolari bacini interni navigabili sui quali si affacciano terrazze e percorsi pedonali panoramici. Un simile, altrettanto colossale (140 km2) progetto – al momento sospeso – è poi Waterfront City, commissionato nel 2008 dalla Nakheel Properties a OMA/Rem Koolhaas: all’interno di un quadrato delineato da un canale che consentirà alle acque di penetrare dove prima era la terraferma, la nuova città, pensata per 1.500.000 abitanti con una densità media pari a quella di New York, avrà un impianto urbano regolare con 25 isolati e una serie di torri molto alte, ma anche una monumentale sfera di 44 piani riservata a usi civici diversi e una gigantesca moschea. Fra le molte infrastrutture a cavallo fra sport e spettacolo, si ricorda l’autodromo dedicato alla Formula 1, le cui avveniristiche tribune, interamente rivestite in alluminio e vetro, sono state progettate dal gruppo statunitense HOK Sport Architecture. Moltissime anche le gated communities, più o meno lussuose, molte delle quali sorte anche lontano dalla fascia costiera, per lo più intorno a grandiosi campi da golf, a partire dall’archetipica Dubai Creekside Golf Club, fino alle più recenti The Gardens, realizzata da Nakheel, ed Emirates Hills, realizzata da Emaar.
La blue city. – D. è anche la città della penisola arabica più ricca di verde, grazie al costante irrigamento derivante dalla massiccia desalinizzazione delle acque del Golfo (al punto da determinare un preoccupante aumento della salinità del mare). Ma più che una green city del deserto, sembra ispirarsi, almeno dal punto di vista pubblicitario, all’ancora più improbabile modello della blue city: una grande città affacciata sull’acqua. Le spiagge di D. sono in larga misura aperte al pubblico e godono di un livello di libertà inedito in questa parte del mondo. La città è così pronta a un’espansione demografica senza precedenti: per il 2015, prima della crisi, le stime parlavano di 2,5 milioni di residenti, 40 milioni di visitatori l’anno, una ricettività alberghiera di 110.000 camere, 650.000 nuove unità residenziali con investimenti edilizi pari a 318 miliardi di dollari. Con la sua ansia del nuovo e soprattutto grazie ai successi conseguiti, D. costituisce una sorta di ossessione collettiva per l’intero mondo arabo e in particolare per i più giovani, un modello amato e odiato al tempo stesso, con sentimenti misti che oscillano fra l’invidia per i livelli di libertà raggiunti, ormai per non pochi aspetti abbastanza simili a quelli occidentali (lontanissimi da quelli dell’Arabia Saudita), e il disprezzo per gli eccessi di apertura e l’assenza di controlli sui capitali stranieri che vi affluiscono (compresi quelli delle mafie di Karachi, Mumbai o Mosca). È l’esempio più significativo di una nuova tipologia urbana che è riduttivo etichettare come ‘cattivo gusto’, rientrando piuttosto all’interno dell’eclettismo stilistico del lusso, sia esso europeo, americano o altro, che comprova la metamorfosi dell’architettura da bene culturale a bene di consumo. Si tratta anche di un eccezionale laboratorio antropologico sulla mobilità sociale (con lavoratori provenienti da tutta l’Asia sud-orientale, dall’Irān, da altri Paesi arabi e dalla ex Unione Sovietica ed expats, expatriates, professionisti qualificati, provenienti invece da Europa, Stati Uniti e Australia): un esperimento i cui futuri effetti e le cui capacità di tenuta nel tempo sono ancora da verificare.
D. ha infine innescato un interessante fenomeno: la dubaizzazione della città contemporanea, riscontrabile in diverse regioni del mondo islamico, dando il via a una serie di studi di carattere economico, politico, sociale ecc. sui reali motori dello sviluppo della città contemporanea.
Bibliografia: L. Sacchi, Architettura e identità islamica, Milano 2014, pp. 26-35.