SPOLETO, DUCATO DI
Il ducato di Spoleto dell'epoca degli Hohenstaufen, sorto in misura ridotta su quello longobardo che "a fonte Tiberis usque ad laevam Anienis ripam extendebatur", è stato equiparato nell'estensione del territorio all'Umbria di oggi. Collocato a sinistra del corso superiore e centrale del Tevere, non possiede un'individualità geografica ben definita. Nei cento anni successivi al 1152, da quando Federico Barbarossa, riesumando una realtà caduta in desuetudine, vi aveva insediato come duca suo zio Guelfo di Baviera, già marchese di Toscana, subisce oscillazioni confinarie soprattutto verso nord e all'estremità meridionale. La separazione amministrativa dalla Marca d'Ancona ‒ già parte integrante del ducato longobardo ‒ avvenuta anch'essa nei decenni centrali del XII sec., non sembra aver dato occasione a variazioni di rilievo, fin quando il papato occasionalmente e poi (1247) Federico II non uniscono di nuovo le due province. Una certa compattezza quale unità amministrativa, che resterà punto di riferimento anche per il futuro, il ducato viene a maturarla durante il ventennio in cui è retto per l'Impero dallo svevo Corrado di Urslingen (v.). Quando questi, dopo la morte di Enrico VI e il venir meno del potere imperiale, si vede costretto (aprile 1198) a rassegnare il ducato alla Chiesa e a tornare in Germania, nella sua compagine territoriale troviamo Rieti, Spoleto, Foligno e inoltre Assisi e Nocera, che sono vecchie contee autonome accorpate al ducato sotto Federico Barbarossa. Per la maggior parte del sec. XIII la località più meridionale, Rieti, ne sarà invece esclusa, mentre Terni, già amministrata dall'Urslingen, ne resta fuori in seguito alle 'recuperazioni' di Innocenzo III e all'introduzione di criteri amministrativi diversi, e così pure Narni. Ma dopo la morte di questo papa fino ai giorni della breve rinascita sveva sotto Manfredi ambedue le città tornano di nuovo nel ducato. Variabile pure la collocazione di Todi: inizialmente inclusa nel ducato, durante l'epoca urslinghiana passa ad altra amministrazione, come anche Città di Castello, Gubbio e Perugia. Quest'ultima, situata di là dal Tevere, dagli Hohenstaufen è stata considerata estranea al ducato e parte integrante della Toscana meridionale. È solo nel 1198 che entra a far parte della circoscrizione, quando viene istituito il primo rettore papale del ducato, Gregorio cardinale diacono di S. Maria in Aquiro, insieme alle diocesi di Rieti, Spoleto, Todi, Foligno, Assisi, Gubbio; insieme anche a Città di Castello che nel 1221 risulta invece appartenente all'Impero, anche se solo quattro anni dopo vi opera di nuovo un rettore papale.
Un'entità amministrativa, quella del ducato, con confini dunque alquanto labili: praticamente mai, in questo lungo periodo, conservò la stessa configurazione geografica. In realtà non si trattava di linee di demarcazione tra territori sottoposti a differenti sovranità, ma semplicemente di circoscrizioni amministrative all'interno di una medesima appartenenza politica, fosse essa l'Impero o la Chiesa, e peraltro ancora prive di tradizione storica, a parte l'idea di confine stabile in società in cui nell'esercizio dei poteri pubblici coesistevano comuni più o meno autonomi, enti ecclesiastici o famiglie signorili beneficiarie di diritti feudali, che facevano valere i propri interessi in competizione tra loro, cercando di espandere l'area di influenza senza fermarsi all'interno di separazioni tra i vari aggregati amministrativi, in nome di diritti acquistati a vario titolo oppure grazie a privilegi imperiali e papali o anche con la violenza. Nel periodo convulso contraddistinto da situazioni politiche alterne che seguì alla scomparsa di Enrico VI, fu soprattutto la concessione di privilegi uno degli strumenti fondamentali del quale si valsero i due sommi poteri nel tentativo di assicurarsi il sostegno alle aspirazioni sul ducato. Privilegi che contribuiranno al rafforzamento delle 'libertà' e delle istituzioni comunali, e nel mutevole prevalere delle varie fazioni a favore dell'uno o dell'altro potere il ducato non riuscirà mai a pervenire a una sua coesione effettiva, nonostante l'unificazione amministrativa.
Come quella istituita da Federico Barbarossa, anche la struttura di governo impiantata da Innocenzo III era basata sulla provincia, un'eredità degli Hohenstaufen. In periodi particolarmente difficili i papi abbandonano però il sistema provinciale a favore di circoscrizioni più ampie (per esempio, sotto Ranieri e Pietro Capocci), conglobando allora il ducato con la Marca, talvolta anche col Patrimonio in Toscana. Del resto, pure gli ultimi anni della sovranità imperiale di Federico II nel ducato e il breve periodo di quella di Manfredi saranno contraddistinti da unificazioni amministrative con la Marca e la Romagna. L'istituzione chiave del reggimento papale è il rettorato, applicato con elasticità, sia per la durata, oscillante tra uno e quattro anni e comunque esaurito alla morte del papa, sia per la scelta dei titolari, i quali potevano essere ecclesiastici oppure laici. L'uso introdotto da Innocenzo III di nominare i rettori tra i cardinali viene poi abbandonato, e il tentativo di Gregorio IX ‒ che pure nel 1234 scelse numerosi rettori fuori del collegio cardinalizio ‒ di reintrodurre questo principio abortì. Nel caso di nomina di laici, privi di autorità spirituale, veniva loro affiancato un ecclesiastico, così che le funzioni erano scisse in spiritualibus e in temporalibus. Anche l'autonomia dei rettori che, di massima, ricevevano istruzioni precise dal papa, era variabile e dipendeva tanto dalla personalità che riuscivano a imporre quanto dalla forza del pontefice, e naturalmente dalle circostanze. L'altra istituzione fondamentale del ducato come provincia dello Stato della Chiesa era il parlamento, istituzione paragonabile alle diete imperiali, egualmente di derivazione feudale. In quest'epoca è convocato molto di rado; il primo si svolge a Bevagna nel 1220. Tutto sommato, per sviluppare un'amministrazione organica, meno sperimentale, alla Chiesa occorrerà un buon secolo.
I poteri ducali, come è provato dagli studi di Julius Ficker, erano piuttosto difformi in relazione al grado di autonomia delle città. A Terni, per esempio, in epoca ducale, benché vi operassero consoli, la giustizia penale e anche le entrate provenienti dalle multe erano appannaggio esclusivo del duca; a Rieti la metà delle pene e dei pedaggi andava prima al duca poi al rettore. Altre città godevano di una posizione più favorevole di autogoverno, non solo all'interno delle proprie mura, ma, come Spoleto e Foligno, anche sul contado. La situazione quindi non cambiava molto tra l'amministrazione di un duca e quella di un rettore. Secondo Achille Sansi, per il passaggio dall'Impero alla Chiesa "non mutavano le città gran fatto di stato loro. Il rettore entrava, si può dire, in luogo del duca e, senza esserlo, ne aveva l'autorità e i proventi, oltre un potere spirituale, che fu poi per uso commesso ad altra persona". In linea di massima, l'autorità del duca ‒ e del rettore ‒ si faceva sentire nel contado e soprattutto nelle fortificazioni.
In queste realtà del frazionamento autonomistico mancava un vero centro amministrativo. Gli ufficiali erano itineranti. È verso la fine del dominio di Federico II nel ducato che i suoi rappresentanti Tommaso I d'Aquino (v.) e Marino da Eboli (v.) risiedettero a Foligno. Persino dopo che il ducato sarà già saldamente parte integrante dello Stato della Chiesa, solo a metà del Trecento, con la costruzione del fortilizio di S. Fortunato a Montefalco, la Curia papale avrà una residenza stabile nel territorio. Per quanto piccoli, come lo erano i più, i comuni non avrebbero tollerato intromissioni e solo in occasioni di particolare solennità e rilevanza, come le diete imperiali e i parlamenti pontifici, le manifestazioni di potere avevano luogo nelle città più importanti, Foligno, Terni, Narni, Perugia, Bevagna. Gli amministratori, duchi, rettori e poi anche capitani non erano legati a sedi fisse, né erano sempre presenti nel ducato, come lo stesso Corrado di Urslingen che, come vicario di Enrico VI nel Regno, alla morte dell'imperatore si trovava nella lontana Messina. Esercitavano le loro funzioni dai castelli, essendo il potere ampiamente fondato sul possesso di fortezze strategiche. Così, l'atto di rinuncia al ducato dell'Urslingen, sottoscritto a Narni, si compone del proscioglimento dal giuramento di fedeltà dei sudditi e della consegna delle fortificazioni, le rocche di Gualdo e di Cesi; quella di Assisi viene distrutta prima dagli assisani, e dagli spoletini lo è quella di Narco nella Valnerina, costruita dallo stesso duca. Le contese tra Impero e papato per il ducato erano anche contese per il possesso dei castelli più importanti: sarà in particolare Gregorio IX a perseguire una politica basata sul possesso di fortificazioni chiave, come Gualdo Tadino, Otricoli sulla Flaminia e Miranda presso Terni. E Federico consulterà il suo capitano Andrea Cicala (v.) sull'utilità di un particolare castello ubicato al confine tra Spoleto e Rieti: è possibile acquistarlo e a quale prezzo?
Le contese, che raggiungeranno il loro apice nell'ultimo ventennio dell'impero di Federico II, erano iniziate quando Federico Barbarossa, nel quadro del suo progetto di un sistema semicentralizzato del governo imperiale, rinnovando l'istituzione del ducato, aveva formalmente innalzato barriere contro le rivendicazioni territoriali che i pontefici ‒ come avevano già fatto blandamente all'epoca degli imperatori salici ‒ accampavano con la riesumazione delle donazioni imperiali dei secoli precedenti.
Quando, nel luglio 1213, con la promissio di Eger, Federico II prende per la prima volta formalmente posizione nei riguardi del ducato, ne riconosce l'appartenenza al Dominio della Chiesa. Con questo atto solenne l'appena incoronato re dei Romani, ancora preso dai disordini per la successione al trono, conferma di fatto l'analoga larghissima promissione prestata già da Ottone IV nel 1201 a Neuss, larghissima nei confronti delle rivendicazioni relativamente modeste formulate ancora nel 1159 da papa Adriano IV a Federico Barbarossa, che però inglobavano anch'esse il ducato di Spoleto. Le concessioni di Ottone comprendevano oltre al ducato "tutte le terre tra Radicofani e Ceprano, l'esarcato di Ravenna, la Pentapoli, la Marca di Ancona, le terre della contessa Matilde e Bertinoro con le adiacenze, come menzionate in molti privilegi imperiali da Lodovico il Pio in poi". Questo cosiddetto "certificato di nascita dello Stato papale" (Waley, 1961) Ottone lo conferma di nuovo nel 1205 a Spira e dopo di lui Filippo di Svevia nel 1209. Con la prima ratifica delle 'recuperazioni' già realizzate, che proprio nel ducato, grazie all'estromissione dell'Urslingen, avevano conseguito il maggior successo, e con l'impegno di voler essere "adiutor […] ad recuperandum" (Regestum Innocentii III papae super negotio romani imperii, a cura di F. Kempf, Roma 1947, nr. 77, p. 209, del 1201) le terre fino ad allora non ancora nelle mani della Chiesa, era questa del 1201 la promissione di maggior rilievo. In mancanza di titoli che la giustificassero ‒ e infatti si era ragionato anche di una caduta in prescrizione di eventuali diritti, argomento respinto da Innocenzo per il quale essi erano stati occupati per violentiam ‒ essa creava il precedente che in avvenire poteva essere, e sarà in effetti, invocato per le pretese territoriali del papato. Questa promissione di Federico, come le sue rinunce successive, diventano sicuramente più vincolanti in quanto, corroborate anche da principi dell'Impero: non rappresentano più l'impegno personale di un aspirante alla corona imperiale, bensì un riconoscimento pubblico, con tutti i crismi delle autorità competenti in materia di cessione di territori dell'Impero.
Un'abdicazione di così ampia portata per l'integrità dell'Impero e per il suo collegamento col Regno di Sicilia può spiegarsi nella prospettiva di un interesse relativo per quel Regno, per l'intenzione di collocare la base del dominio di là dalle Alpi: dalla Germania, infatti, il ducato e la Marca potevano sembrare zone periferiche, il sacrificio delle quali andava accettato quale prezzo di quella tanto auspicata pace e concordia con il papato. Ma proprio la rinuncia a queste regioni si rivelerà l'impedimento principale a tale concordia. Federico rinnova la cessione nel settembre 1219 a Hagenau, al successore di Innocenzo, con un'ulteriore aggiunta di territorio, quello appenninico di Massa Trabaria tra la Tuscia e il ducato, e ancora un'altra volta nel 1221 dopo l'incoronazione imperiale. Col tempo, però, Federico aveva maturato una visione diversa: periferica era da ritenersi piuttosto la Germania, perciò aveva curato di farvi riconoscere come successore il figlio Enrico, mentre l'Italia imperiale e il Regno, più affini tra loro, stavano al centro delle sue attenzioni. Per questo essi andavano retti direttamente da lui, con il fulcro del dominio spostato nel Regno di Sicilia. Di conseguenza, da territorio marginale il ducato ora non solo faceva parte "de maioribus et melioribus provinciis Italie, florentibus divitiis et strenuitate virorum" (1227; Historia diplomatica Friderici secundi, III, p. 40), ma attraversato da un'arteria importantissima quale la Via Flaminia, ne acquistava la posizione chiave. Quindi, se il Patrimonio veniva lasciato alla Chiesa, il ducato (e la Marca) diventavano i beni più preziosi per l'imperatore. È precisamente questo il motivo per il quale il papato, sin dai tempi di Enrico VI assolutamente ostile all'unio regni ad imperium, insisteva caparbio sui diritti della Chiesa proprio su queste terre.
Ciò nonostante, finché è in vita papa Onorio III, Federico onora ufficialmente i suoi impegni. Infatti smorza tutte le rimostranze del papa che era sospettoso delle vere intenzioni dei figli dell'estromesso duca Corrado di Urslingen, Rainaldo (v.) e Bertoldo, tornati in Italia insieme allo stesso Federico. Essi sembravano ambire a subentrare al padre e considerare il ducato un loro feudo ereditario. Che Rainaldo, col genitore ancora in carica, si fosse già fregiato del titolo di duca di Spoleto e ora, nel 1219, avesse ripreso questo titolo veniva minimizzato da Federico, spiegando che si trattava di un uso tedesco peraltro senza valore sostanziale; un eventuale atto d'infeudazione che fosse saltato fuori era senz'altro da dichiararsi conseguito con inganno. E il papa certamente non ignorava che dallo zio di Federico, Filippo di Svevia, i due giovani Urslingen erano stati ritenuti legittimi duchi di Spoleto, mentre Ottone IV, non tenendo conto di tali presunti diritti, nel 1210, appena incoronato imperatore, aveva incaricato dell'amministrazione del ducato il tedesco Diepoldo di Schweinspunt, conte di Acerra, ignorando anche il rettore papale. Sotto questo aspetto era certamente più vicino a Enrico VI, la cui politica era stata quella di rimpiazzare gli Erblehen, feudi ereditari, con gli Amtslehen, feudi di breve durata. Su Filippo, del resto, era corsa voce di trattative segrete con Innocenzo III per congiungere in matrimonio con il fratello del papa, Riccardo, la propria figlia, alla quale sarebbero andate in dote Spoleto e Ancona. Ma come riferirla ad un papa che aveva fatto della propaganda antitedesca uno dei cavalli di battaglia per sottrarre l'Italia centrale all'Impero e che aveva già respinto le offerte di Corrado di Urslingen di voler prendere il ducato in feudo dal papato contro pagamento di 10.000 lire, altre 100 lire annue e servizio militare con duecento uomini a cavallo, consegnando, per garanzia, i propri figli? Federico assicura a un indispettito Onorio III che ora, nel 1222, avvenivano senza la sua volontà le operazioni di Bertoldo appoggiate dal legato imperiale in Tuscia, il dapifero Gonzolino da Wolfenbüttel, e volte alla conquista del ducato, operazioni già riuscite con Gubbio, Foligno e Nocera, che includevano la messa al bando degli oppositori e la cacciata degli ufficiali della Chiesa; in breve, che mettevano in atto la restaurazione della sovranità imperiale. Il pontefice però, poco convinto, oltre alle armi fa ricorso a sanzioni spirituali. L'invasore viene scomunicato e, ingiuntovi dall'imperatore, restituisce ai funzionari papali parte delle terre occupate. Nono-stante ciò e nonostante le ripetute promesse e assicurazioni, come già Ottone e Filippo, con più ragione Federico, nella sua duplice veste di imperatore e di re di Sicilia, non poteva accettare che l'Italia centrale dovesse considerarsi persa per sempre. Una così lunga osservanza formale delle rinunce desta stupore, ma va anche detto che oltre alle scorrerie e alle conquiste militari dei suoi fedeli, probabilmente da lui incoraggiate, l'imperatore stesso non esitava a intervenire di persona nelle vicende interne del ducato. Così chiese ‒ anche se invano, perché il papa aveva emanato uno speciale divieto ‒ il servizio militare agli abitanti del ducato contro i comuni dell'Italia settentrionale; accordò privilegi a vassalli (come Napoleone di Rinaldo, un antenato dei Trinci di Foligno), a comuni (come Gubbio), a monasteri (come Fonte Avellana), semplicemente ignorando i rettori che il pontefice vi aveva preposto. In questo modo contribuì non poco alla destabilizzazione dell'autorità secolare del papa in quella regione. Dell'incertezza che regnava sono buono specchio i documenti notarili, che infatti datano promiscuamente con gli anni del papa o con quelli dell'imperatore oppure con tutti e due insieme.
Se questa prima fase dei rapporti dei due poteri nei confronti del ducato è caratterizzata da una certa ambiguità imperiale, è con la morte di Onorio III (marzo 1227) che diventa più chiaro che il periodo dell'estromissione degli Svevi dall'Italia centrale doveva considerarsi terminato. Non passa molto tempo che entra nel ducato re Enzo. Toccando Città di Castello, Gubbio, Nocera, città amiche, raggiunge Foligno, anch'essa filoimperiale. Anche Spello, Bevagna e Bettona passano dalla sua parte. All'inizio di luglio, Perugia, che aveva tentato di impedirgli il passaggio, e Assisi si alleano contro di lui e partecipano a un parlamento convocato dal nuovo papa Gregorio IX, che allora risiedeva a Perugia. L'intenzione di questo pontefice era di riorganizzare l'amministrazione nel ducato e di raccogliere il massimo delle forze in una lega contro l'imperatore. Già si intravedono le costellazioni che saranno dominanti finché sarà in vita Federico, e anche dopo la sua morte.
A prendere iniziative non è però il papa. L'invasione del ducato compiuta dopo una breve tregua nel 1228-1229 da parte dei fratelli Urslingen avvenne quasi certamente con l'autorizzazione di Federico, anche se in futuro egli lo negherà. L'invasione dà un duro colpo all'ancora fragile struttura del governo papale nella regione. Federico, per recarsi in crociata, aveva nominato nel giugno 1228 suo vicario nel Regno, legato in Tuscia e probabilmente anche per i territori del ducato e della Marca, proprio Rainaldo di Urslingen, il quale opera col titolo di duca di Spoleto. Prima di partire per l'Oltremare, l'ultimo provvedimento dell'imperatore, scomunicato già dal settembre 1227, fu infatti quello di revocare le cessioni territoriali a favore del papato. Rainaldo viene contrastato da Giovanni di Brienne, già re di Gerusalemme, suocero di Federico ma notoriamente diventato suo acceso nemico e probabilmente proprio per questo, oltre che per le sue qualità militari ‒ era un "altro Carlo Magno" (Waley, 1961) ‒, fatto ora rettore del ducato da Gregorio IX. Le novità in queste vicende militari sono duplici. Diversamente dalle imprese guerresche precedenti, largamente fondate su forze tedesche, ora gli Urslingen s'appoggiano su un esercito costituito prevalentemente da pugliesi e, soprattutto, dai saraceni di Lucera, combattenti costoro del tutto indifferenti ad anatemi e scomuniche papali. E sull'altro fronte, troviamo truppe che comprendevano un ampio contingente francese comandato da Milone vescovo di Beauvais, futuro rettore del ducato, condotte con vari rinforzi da Giovanni di Brienne: per la prima volta si muovevano sotto le insegne delle chiavi pontificie, quasi si trattasse di un'impresa contro gli infedeli. "Infideles et inimicos Ecclesiae" chiamerà infatti Innocenzo IV, in una lettera diretta ad Assisi nel 1245, gli avversari politici. Le conquiste degli imperiali iniziano con la presa di fortificazioni della Valnerina: era da qui che il padre di Rainaldo aveva esercitato il suo dominio immediato sul ducato. Le popolazioni di Arrone, di Cascia, di Arquata e di altri luoghi dopo la sottomissione giurano fedeltà all'imperatore, Foligno viene occupata e Todi costretta ad aprire le porte agli estrinseci ghibellini, prima che le forze papali invadano il Regno. Tale minaccia all'integrità del Regno frena ulteriori avanzate nel ducato e accelera il ritorno dell'imperatore dalla Terrasanta. Sbarcato a Brindisi e aiutato dai crocesegnati tedeschi che l'avevano accompagnato e che ora combattono gomito a gomito con i saraceni pugliesi, raccolti sotto la mezzaluna, egli riesce a cacciare dal Regno l'esercito pontificio e a mantenere le conquiste nel ducato.
Si è escluso, almeno da parte di Federico, che fosse la scomunica del 1227 a provocare la revoca delle cessioni territoriali al papato. Il vero motivo fu la pienezza delle cessioni. I papi reclamavano per sé il merum et mixtum imperium nel ducato, e Gregorio IX fece avviare dai suoi rettori delle indagini sui diritti demaniali rivendicati dalla Chiesa, i cui risultati vennero poi incorporati nel Liber Censuum. Secondo l'imperatore, tali cessioni andavano invece intese nel senso che era riservata la sovranità imperiale e con essa le prestazioni a favore dell'Impero che ne derivavano, quali il servizio militare e l'esercizio del fodrum. Non essendo stati osservati codesti diritti dai rettori posti dal papato alla gestione del ducato, l'imperatore, anche nella sua veste di avvocato e procuratore della Chiesa, aveva il dovere di porre fine ai loro eccessi e all'oppressione degli abitanti, tanto più che essi s'erano rivelati cattivi amministratori. Argomenti, questi, che non hanno conseguenze pratiche: nella pace di San Germano (luglio 1230), che comprende l'assoluzione dalla scomunica, non se ne fa più cenno e i diritti della Chiesa sul ducato vengono un'altra volta riconosciuti senza riserve, anche da Rainaldo di Urslingen. Subito, già il mese successivo, si cominciano a mettere in atto le restituzioni dei luoghi che si tenevano per l'imperatore, inviandovi messi e lettere e sciogliendo la popolazione dal giuramento di fedeltà. Alla fine di settembre come nuovo rettore papale nel ducato arriva Milone vescovo di Beauvais. Essendo le cariche di breve durata, gli succedono altri rettori, che dal decreto Habet utilitas stimulos (gennaio 1234) dovevano essere scelti tra i cardinali: il decreto esordisce infatti con la costatazione che la negligenza e l'egoismo di rettori extranei avevano avuto conseguenze negative per le terre della Chiesa. Dalla conclusione della pace passano quasi dieci anni senza interferenze imperiali, anche perché Federico è occupato con i comuni dell'Italia settentrionale. Ma è proprio allora che egli si rende conto delle difficoltà di condurvi la guerra con un'Italia centrale papale potenzialmente ostile e in grado di spezzare la continuità con la sua base nel Regno.
Sarà nel 1239 che l'imperatore tornerà a revocare la cessione delle terre dell'Impero alla Chiesa: questa volta in modo più fermo e con esiti molto più incisivi, perché interviene di persona e non annullerà mai la decisione. Già le relazioni erano state turbate dagli aiuti papali a favore dei comuni settentrionali a lui ribelli, ma determinante fu un'ulteriore scomunica (20 marzo) e ancora di più la messa al bando dell'imperatore, una condanna formale da ritenersi una dichiarazione di guerra: infatti, non più ristretta alla sola sfera ecclesiastica, ma estesa a quella temporale e inflitta non tanto dal capo spirituale della cristianità quanto da chi agiva in veste di capo secolare dello Stato della Chiesa, rivale dell'Impero in quelle terre. L'esecuzione del bando avrebbe comportato per Federico l'invalidazione dei diritti temporali, la liceità di procedere contro i suoi beni, l'annullamento dei giuramenti prestati, l'obbligo dei sudditi di insorgere contro lui. Un passo, quello di Gregorio IX, che ‒ come Federico sosterrà in varie occasioni ‒ secondo il diritto romano autorizzava l'imperatore donatore a rendere invalida la cessione e a riprendersi le terre cedute per ingratitudine del donatario. Per rendere operativa questa revoca "propter ingratitudinem manifestam" e per la conseguente dispensa della popolazione dai giuramenti di fedeltà al papato ‒ giuramenti prestati peraltro "ex permissione nostra" e "salvo iure imperii" ‒ invia il figlio Enzo nel ducato e nella Marca e tramite lettere fa sapere che la liberazione era vicina e di non poter più tollerare che il ducato e la Marca, "duas in Italia sacri imperii provincias singulares", restassero ulteriormente divisi dal corpo dell'Impero (Historia diplomatica, V, 1, p. 375).
Non solo. Avendo il papa approfittato dalla sua posizione ecclesiastica per perseguire fini politici, era lecito procedere contro di lui secondo il diritto di guerra: ancora prima della fine del 1239 Enzo invade militarmente la Marca, e Federico, segno dell'importanza che gli attribuiva, riservava a sé la conquista del ducato, dove aveva già inviato Tommaso d'Aquino conte di Acerra. Giunge a Foligno, e Spoleto che gli si oppone viene messa al bando ma più tardi gli si dà con patti. Anche ad Assisi e a Perugia trova resistenza. Va a Coccorone (che poco dopo prenderà il nome di Montefalco), tratta la cessione della rocca di Cascia. Spello, Bevagna, Bettona, Trevi, Cerreto, Norcia gli aprono le porte. Nella primavera del 1240 l'imperatore è signore di quasi tutto il ducato: è la regione in cui incontra maggior favore. Ne affida l'amministrazione a Giacomo di Morra quale capitano generale. Nel gennaio 1240 indice una grande dieta dei ghibellini dell'Italia centrale a Foligno nella cattedrale locale, non tralasciando di ricordare che proprio a Foligno, sotto le cure della duchessa di Urslingen ‒ probabilmente italiana ‒ aveva passato parte della sua infanzia. Per bocca di Pier della Vigna fa intimare la pace tra tutti i sudditi; in particolare si adopera per un accordo tra Gubbio e Città di Castello, da tempo avversari agguerriti. L'imperatore muove verso Terni, che lo riceve. Narni e Rieti, invece, tengono chiuse le porte; e anche più tardi, nel 1242, l'esercito federiciano ‒ nel quale combatte un duca Bertoldo, probabilmente l'Urslingen ‒ non riesce a conquistare Narni, che anzi aderisce alla lega guelfa. Per undici anni, fino alla morte di Federico, il ducato torna di fatto territorio dell'Impero, anche se Gregorio IX prima e Innocenzo IV dopo continuano a intervenirvi con privilegi, esenzioni, donativi in denaro e in terre, rappresaglie e sanzioni e a inviarvi propri rettori, cambiando pure la struttura amministrativa. Con tutte le forze i papi cercano di mantenervi la loro posizione.
Un incontro diretto per ristabilire la pace con l'imperatore, allora a Terni, fissato dal papa per la fine di giugno 1244 nella città amica di Narni non ha luogo: temendo insidie, il papa Fieschi fugge nella natìa Genova e quindi a Lione. Nelle trattative preliminari egli aveva preteso come condizione irrinunciabile per ristabilire la pace e per assolvere Federico dalla scomunica la consegna di tutte le terre della Chiesa, non accettando la proposta dell'imperatore di prenderle in feudo per un censo annuo superiore alle entrate che ne avrebbe tratto il papa e in aggiunta un servizio militare, quando necessario, con cinquecento militi a cavallo e il pagamento di 30.000 marche d'argento per coprire i debiti della Chiesa. In via subordinata, l'imperatore s'impegnava a restituire tutte le terre che il papato aveva detenuto all'epoca della scomunica, conservando tutti i diritti che gli competevano quale avvocato della Chiesa, rifiutando però di restituirle prima dell'assoluzione. Altre riserve avevano fatto sorgere nel papa il sospetto che l'imperatore fosse intenzionato a escludere dalle restituzioni il ducato e la Marca, per conservarli all'Impero. Essendo impossibile, per la fuga papale, la chiarificazione diretta, nell'agosto dello stesso anno Federico emana l'Encyclica de tractatibus pacis, in cui espone i diritti che riteneva gli competessero quale avvocato e difensore della Chiesa: servizio militare, parlamenti, mercato, diritti che avrebbe già esercitato di fatto prima della discordia, anche se sui diritti militari c'erano state contese tra lui e i papi Onorio e Gregorio.
Da Lione, Innocenzo IV in un concilio antimperiale dichiarava Federico privato delle corone ed esortava i sudditi alla rivolta. Già in passato, in occasione della promulgazione della scomunica dell'imperatore nella basilica lateranense, l'atteggiamento del predecessore dell'attuale pontefice ‒ secondo la testimonianza di Salimbene de Adam che lo descrive furibondo, la voce tremante d'ira ‒ aveva fortemente turbato i presenti. In questo clima maturano due congiure che però vengono scoperte prima di raggiungere l'obiettivo: una è contro l'imperatore, l'altra contro i filopapali nel ducato. Di quest'ultima, probabilmente messo in guardia all'inizio del 1245, viene a conoscenza il podestà di Assisi, che avverte quello di Perugia, col coinvolgimento di cittadini dei due comuni e di altri abitanti del ducato. Loro intenzione era di consegnare le due città, da sempre fedeli alla Chiesa, nelle mani dell'imperatore. L'altra congiura, fomentata da lontano, mirava alla vita di Federico e di suo figlio Enzo. Viene sventata appena in tempo nel marzo dell'anno successivo. Vi erano implicate persone a lui vicine che fino allora gli sembravano fedelissime, come Giacomo di Morra, lo stesso che poco tempo prima aveva tenuto la carica di capitano generale del ducato e proprio per questa sua attività era molto informato sulle cose di questa provincia. L'iniziativa papale del 1246 prevedeva dunque l'immediata invasione nel ducato con un esercito della lega guelfa, composto per la maggior parte da perugini, "la migliore spada del papa" (Sansi, 1879, p. 78), e da assisani. Era organizzato dallo stesso Morra e dal cardinale Ranieri di Viterbo (v.), dalla partenza del papa nel 1244 al 1249 vicario di tutto lo Stato pontificio. Esperto uomo di guerra, era lui a condurre le truppe. I congiurati contavano anche su una sollevazione degli spoletini, incitati da lettere papali, e già pregustavano la vittoria e il ritorno del ducato alla Chiesa. Ma attaccati da Marino da Eboli (v.), il nuovo vicario imperiale nel ducato, e dal suo esercito di tedeschi e di ghibellini il 31 marzo 1246, vengono sconfitti e disfatti in una sanguinosa battaglia nella pianura sotto le mura della filoimperiale Spello. Il ducato resta all'Impero.
Forti del successo militare, "uno dei più segnalati di quei tempi" (ibid.), le truppe imperiali scorrazzano nel territorio per dare sostegno agli amici, per conquistare piazzeforti strategiche, per punire chi s'era opposto, come Amelia: la città viene presa, la cattedrale rasa al suolo e al suo posto costruita una rocca. La presenza dell'imperatore nel ducato dà vigore ai suoi fedeli, che nel febbraio 1247 vengono convocati per una dieta generale a Terni. L'asperità del conflitto col papa, sfociato nella recente esperienza, aveva tolto ogni remora e consigliato all'imperatore non solo di mantenere le terre del ducato e della Marca, ma di includerle come parti integranti in quella sistemazione organica che ora a Terni stava per dare al dominio nella sua interezza, riordinando Regno e Impero (con l'esclusione della Germania) in un corpo unico in forma federativa, costituito da dieci circoscrizioni principali (capitanati generali) con un'organizzazione uniforme, suddivise in unità minori e queste in capitanie e podesterie. Le supreme cariche le affidava esclusivamente ai propri discendenti. Come già in passato, i dipendenti tedeschi, benché più affidabili, venivano rimpiazzati da funzionari pugliesi formati nel Regno e di più alta qualificazione. Da Pepe (1935) la dieta di Terni è stata considerata un importantissimo tentativo di unificare l'Italia, dandole una configurazione politica nella quale "sotto Federico imperatore e re di Sicilia, con Enzo viceré d'Italia, tutti i parenti e affini di Federico reggevano l'Italia come legati dell'imperatore". In questo riordinamento i vicariati appaiono "come piccoli regni" dipendenti dall'imperatore. Il ducato, conglobato con la Marca e la Romagna in una circoscrizione amministrativa più ampia, viene affidato al figlio Riccardo conte di Chieti quale capitano generale.
Nella riorganizzazione il ducato allargato avrebbe mantenuto una posizione sempre importante in questa zona confinaria verso il Patrimonio ma certamente meno determinante di prima perché, divenendo uno tra altri capitanati generali del dominio federiciano, avrebbe perso la peculiarità di trovarsi in bilico tra Chiesa e Impero. Sarebbe stata in ogni caso una posizione più ragguardevole di quella alla quale verrà ridotto dopo la fine degli Hohenstaufen, senza funzioni strategiche, scaduto ormai allo stato "subalterno di provincia direttamente controllata" (Nessi, 1983, p. 934) dal papato e dai suoi funzionari. Ora invece, dopo la dieta di Terni, per far tornare il ducato saldamente tra le terre imperiali, compito essenziale di Riccardo da Chieti e dei suoi collaboratori doveva essere quello di impossessarsi del territorio con tutti i mezzi, pacificamente e con azioni militari, creando le strutture necessarie perché il dominio imperiale potesse penetrare, assorbendole, nelle istituzioni preesistenti, e creandone di nuove più consone alle finalità perseguite. La riuscita di questo progetto dipendeva dalla capacità tanto di costruire queste strutture di governo quanto di creare una tradizione di obbedienza all'autorità tra i sudditi, impresa non facile considerando il grado di autonomia e di autogoverno che essi erano riusciti a sviluppare, in particolare nelle città che fruivano di privilegi ricevuti a causa delle contese tra Chiesa e Impero e che proprio con questa politica avevano rivelato i loro limiti e le loro debolezze (Waley, 1961). Sarebbe comunque stato un processo lento che avrebbe richiesto del tempo.
Gli inizi furono promettenti, perché la fortuna militare assistette il capitano generale. Appena investito del capitanato, Riccardo riuscì a sconfiggere presso Terni un esercito papale comandato da Ugo Novello; nell'anno successivo folignati e tedeschi presero Nocera, e nel 1250 il vicario generale del pontefice, Capocci, venne costretto alla fuga. Ma nel frattempo era stato fatto prigioniero il trionfatore di Spello, Marino da Eboli, insieme al viceré Enzo, ed era morto il giovane figlio di Federico, Riccardo, capitano generale del ducato. L'imperatore fece giusto in tempo a nominarne successore Tommaso d'Aquino conte di Acerra, e vicario imperiale per il ducato e la Marca il genovese Percivalle Doria (v.), arcinemico del concittadino papa Fieschi. Con la morte improvvisa di Federico crollò anche l'impalcatura del suo ordinamento, a testimonianza che le fondamenta erano ancora troppo deboli e strettamente legate alla persona dell'imperatore. Le strutture non erano in grado di vivere di vita propria e nel ducato meno che altrove grazie all'intensissima attività 'diplomatica' dalla lontana Lione di Innocenzo IV, che impartiva istruzioni precise ai suoi rappresentanti e interveniva direttamente negli affari del ducato; con lettere raccomandava caldamente a un gran numero di città ducali e ad alcuni nobili della regione di seguire le indicazioni che avrebbe dato il nuovo rettore Pietro Capocci (1249-1252); elargiva privilegi amplissimi, meglio se a danno dell'imperatore stesso o dei suoi fautori, e franchigie commerciali nel Regno a favore di Spoleto, sottrazione di uomini dai feudi del conte Napoleone di Rinaldo a favore di Bevagna, concessione di una serie di castelli e ville appartenenti all'abbazia benedettina di S. Eutizio a favore di Norcia. Ne era destinataria soprattutto Spoleto, così ondeggiante tra l'una e l'altra parte; già Ranieri Capocci, predecessore dell'attuale rettore, s'era mostrato molto generoso nei suoi confronti con privilegi che vengono prontamente confermati dallo stesso Innocenzo: le sono perdonate tutte le offese del passato, quando cioè s'era schierata con gli imperiali; acquista il diritto di formare statuti, di eleggere liberamente e senza intervento papale i propri funzionari; ha cognizione su tutte le cause di prima istanza e sugli appelli con pene inferiori a 100 lire; le viene ridotto l'obbligo militare nel tempo e nello spazio; riceve la promessa che la Chiesa non costruirà nuove fortificazioni nel suo territorio e che non occuperà con guarnigioni il castello. E le Terre Arnolfe: già da tempo il comune aveva posto gli occhi su questo grande feudo papale posto tra il proprio territorio e quelli di Todi e di Terni, temporaneamente occupato dall'Impero. Nel 1242 una definizione dei confini era stata molto favorevole alla città. Ora le Terre Arnolfe passavano nella loro interezza a Spoleto. Assisi e prima di tutte Perugia, rimaste sempre in posizione filopapale, vennero lautamente privilegiate, anche dal successore di Innocenzo. Nel 1255, infatti, papa Alessandro IV assegnò a Perugia gran parte del territorio eugubino: Gubbio, in effetti, era stata tra le città fedeli all'imperatore. Mentre a Spoleto Urbano IV toglierà le terre Arnolfe, l'unica a trarre davvero profitto e non solo temporaneamente dalla formazione dello Stato della Chiesa è Perugia, che comincia ad acquistare una posizione di supremazia e di preminenza sulle altre città e terre del ducato di cui non aveva mai goduto in passato.
La morte di Federico e il conseguente ritorno in Italia del papa, che prende residenza a Perugia, avevano accelerato il processo di passaggio di città e di nobili, almeno formalmente, all'obbedienza della Chiesa. Ultime a sottomettersi sono Foligno e Terni, nel 1252. Ma nonostante l'assenza di un forte successore imperiale, non ci fu nel ducato una vera riscossa papale, soprattutto perché, non diversamente dal padre, i figli continuarono nella politica delle rivendicazioni delle terre imperiali cedute alla Chiesa. Manfredi, secondo il testamento federiciano amministratore d'Italia, nomina suo vicario generale per il ducato, la Marca e la Romagna Percivalle Doria. Nell'agosto 1259 questi riceve l'omaggio di Fermo e di Gubbio e riesce a entrare per tradimento a Spoleto, che viene posta a ferro e a fuoco. Non ha successo un tentativo di Alessandro IV di organizzare un forte esercito con un'alleanza militare dei propri sudditi del Patrimonio e del ducato per contrapporlo alla lega ghibellina che s'era formata nello stesso 1259. Successo avrà invece il trattato che il suo successore Urbano IV conclude con Carlo d'Angiò. Non trovando infatti l'appoggio necessario nelle proprie terre, aumenta l'inclinazione per la Francia. Come risposta, un esercito di tedeschi e di saraceni condotto da Percivalle Doria provenendo dagli Abruzzi entra nel ducato e opera in Valnerina. Più della 'crociata' bandita contro i ghibellini nel ducato potrà il destino: presso Arrone, al passaggio del Nera, nell'estate 1264, il cavallo del vicario regio per la Marca e il ducato s'imbizzarrisce e il suo cavaliere annega nelle correnti del fiume. Ma la fine della più che centenaria contesa si avrà solo in seguito alle battaglie di Benevento e di Tagliacozzo: il ducato è perso definitivamente, non solo per gli Hohenstaufen, ma anche per l'Impero.
Fonti e Bibl.: J. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechts-geschichte Italiens, I-IV, Innsbruck 1868-1874; Documenti storici inediti in sussidio allo studio delle memorie umbre, I, a cura di A. Sansi, Foligno 1879. A. Sansi, Storia del Comune di Spoleto dal secolo XII al XVII, I, ivi 1879; G. Pepe, L'importanza nella storia d'Italia della curia imperiale tenuta a Terni nel 1247, "Rassegna del Comune di Terni", 2, 1935, pp. 5-6; G. Ermini, Aspetti giuridici della sovranità pontificia nel secolo XIII, "Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l'Umbria", 34, 1937, pp. 5-28; D. Waley, The Papal State in the Thirteenth Century, London 1961; Id., L'Umbria e lo Stato papale nei secoli XII-XIV. Atti del sesto Convegno di studi umbri, Gubbio, 26-30 maggio 1968, II, Perugia 1971, pp. 271-287; G. Pepe, Carlo Magno. Federico II, Firenze 19782; Il Ducato di Spoleto. Atti del IX Congresso internazionale di studi sull'alto Medioevo, Spoleto, 27 settembre-2 ottobre 1982, Spoleto 1983, in partic. S. Nessi, Il ducato di Spoleto tra Papato e Impero al tempo di Federico II, pp. 909-954; H. Zug Tucci, Dalla polemica antimperiale alla polemica antitedesca, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Roma 1994, pp. 45-64; M. Sensi, Un 'palatium imperiale' a Foligno e un 'castrum imperiale' aSpello in età federiciana, "Bollettino Storico della Città di Foligno", 20-21, 1996-1997.