duello
D. tratta diffusamente del d. in Mn II VII 7 ss., IX 1 ss., X 1 ss. Riallacciandosi alla tradizione giuridica, egli pone il d. tra i giudizi di Dio, considerandolo quale procedimento in cui, stante l'impossibilità di risolvere la controversia in altro modo, vi è un diretto intervento della divinità: omnibus viis prius investigatis, pro iudicio de lite habendo, ad hoc remedium ultimo quadam iustitiae necessitate coacti recurramus (II IX 3).
Anche se D. si serve della figura del d. per dimostrare la legittimità dell'Impero romano e giustificare le guerre vinte dai Romani contro gli altri popoli (II X 1 ss.), non si esime dal darci di esso una compiuta trattazione dal punto di vista giuridico, secondo le esigenze proprie della sua cultura medievale. Anzitutto egli parte dalla tesi quod per duellum acquiritur, de iure acquiritur (II IX 1). Il d. avviene cum de libero assensu partium, non odio, non amore, sed solo zelo iustitiae, per virium tam animi quam corporis mutuam collisionem divinum iudicium postulatur (II IX 2).
Si nota che D. vuol dare la sua approvazione al d. concordato dalla volontà delle parti, non a quello ordinato d'ufficio dai magistrati, e che l'uso del d. deve essere richiesto dalle parti solo e unicamente zelo iustitiae, biasimando in tal modo l'abuso che si faceva di esso nel suo tempo per sfuggire alla giustizia umana con il ricorso alla giustizia divina. Con forza D. afferma che nel d. debbono presiedere due ragioni formali: che esso debba verificarsi per libera decisione delle parti, amanti della giustizia; che siano state esperite tutte le altre vie per giungere alla risoluzione della controversia. Non reputiamo esatta l'interpretazione che dà l'Arias di questo passo, intendendo il termine formalia duelli come adempimento delle formalità proprie del d.: il pensiero di D. è rivolto a ricercare l'intimo significato del ricorso al d., non tanto a richiamare costumanze del suo tempo. Egli dice testualmente: Quod si formalia duelli servata sunt, aliter enim duellum non esset, iustitiae necessitate de comuni assensu congregati propter zelum iustitiae nonne in nomine Dei congregati sunt? (II IX 5).
La presenza di Dio, assicurata dall'essere riuniti nel suo nome (Matt. 18, 20), fa sì che l'esito del d. sia secondo giustizia: infatti si Deus adest, nonne nefas est arbitrari iustitiam succumbere posse...? (Mn II IX 6). Come conseguenza si ha: si iustitia in duello succumbere nequit, nonne de iure acquiritur quod per duellum acquiritur? (§ 6).
Ma il discorso di D. non termina qui: avendo il d. un suo significato se usato come ricorso alla giustizia divina, i combattenti si guardino ne pretium constituant sibi causam, perché in tal caso si avrebbe non ... duellum, sed forum sanguinis et iustitiae (II IX 9). Non sarebbe presente Dio, quale arbitro, sed ille antiquus Hostis qui litigiis fuerat persuasor (§ 9).
Non vale obiettare che risulterebbe vincitore il più forte, perché si porrebbe nel nulla l'intervento divino: Stultum enim est valde vires quas Deus confortai, inferiores in pugile suspicari (II IX 11). A conforto della sua tesi D. porta vari esempi quali i duelli di David e Golia, di Ercole e Anteo.
Il d. ebbe nei secoli dell'alto Medioevo una grande diffusione: seppure qualche legislatore longobardo cerca di limitarne l'uso (Rotari 164, 165, 166; Liutprando 96), il d. specialmente con l'avvento del regno franco torna a essere in grande considerazione (cfr. Ottone I, Capitolare Veronese " de duello iudiciali "), poiché si aggiungono alla credenza nell'intervento divino ragioni pratiche che si rifletteranno, poi, nelle consuetudini delle città (Liber consuetudinum Mediolani, 1216). La Chiesa, pur avendo assunto fin dal VI secolo un atteggiamento di disapprovazione nei riguardi di questo mezzo, atteggiamento che man mano era divenuto più deciso, in special modo con Celestino III (1191-1198; cfr. Decretales Gregorii IX, lib. V, tit. XIV, II in Corpus Iuris Canonici, a Petro te Francisco Pithoeo editum, Parigi 1687, II 246) e con le deliberazioni del IV concilio Lateranense del 1215, che vietavano agli ecclesiastici di sostenere d. per difendere le loro persone o per qualunque altra ragione (disp. XVIII, Philippe Labbé, Conciliorum generalium nation. provinc. dioces. cum vitis epistulisque rom. pontificum, historica sinopsis, Parigi 1661, 202), non era riuscita a togliere dalla prassi il ricorso al d. giudiziario. I giuristi longobardisti e feudisti cercano di limitarne l'uso, mentre i romanisti non vi accennano neppure, non essendo detto istituto contemplato nel diritto romano. Roffredo Beneventano (metà XIII secolo) nella Summula de pugna (edita dal Patetta in Ordalie, cit., pp. 480 ss.) rimprovera ai suoi contemporanei il ricorso indiscriminato al d. e, pur ritenendolo un mezzo di prova in cui l'esito della lotta proveniva da un intervento diretto della divinità, ne limita l'uso a ventitré casi, ponendo l'accento sulla sua liceità, per la risoluzione di controversie giuridiche altrimenti irresolvibili. Andrea da Isernia, Alvarotus, Oldradi, in seguito, pongono il d. tra le " purgationes vulgares ", chiamandolo " humanum iudicium " in contrapposizione alle altre ordalie, indicate sotto il nome collettivo di " iudicium divinum " (Andrea da Isernia Super usibus feudorum, Venezia 1571, f. 168 De pace ten. Si miles, n. 22-23; Oldradi Consilia, ibid 1571, f. 81, cons. 191). Alvarotus dice testualmente: " alia est purgatio vulgaris, alfa canonica: vulgaris est illa quam sibi vulgus inversit et fit duobus modis, videlicet aut divino iudicio aut humano: divinum iudicium fiebat plurimis modis... fiebat quoque ista talis purgatio vulgaris per humanum iudicium, videlicet per pugnam et duellum " (Super feudis, Lione 1545, f. 92, n. I De pace ten. Si miles).
L'avversione verso l'uso del d. da parte dei giuristi di questo periodo, e conseguentemente la restrizione di esso solo a casi di particolare gravità, provengono oltre che dallo straordinario risveglio del diritto romano, dall'avvento di uno spirito razionalista alieno dal considerare l'intervento della divinità quale elemento risolutivo di una controversia giuridica. Le condizioni economiche e sociali che stavano rapidamente mutando con l'avvento della classe borghese, che prende il posto della nobiltà feudale, fanno sì che si cerchino altri mezzi per la regolazione dei rapporti giuridici. Esempio di questo nuovo stato di cose si ha nelle disposizioni di Federico II che, pur ammettendo il d., si esprimono per un uso ragionato di esso: " ... quae non tam vera probatio quam divinatio dici potest, quae naturae non consonans, a iure communi deviat, aequitatis rationibus non consentit " (Constt. Regni Siculi, II 33, in Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Frederici secundi, Parigi 1852, tomo IV, pars I).
D. è considerato l'ultimo strenuo difensore (Patetta, Arias, Fiorelli) di questo istituto, che stava scomparendo dalla scena giuridica. Egli tratta del d. per dimostrare come è sempre presente nell'umano agire l'intervento divino; per questo si scaglia contro i giuristi (chiamandoli praesumptuosi, Mn II IX 20), i quali, presi dalle disquisizioni giuridiche, perdono il vero senso della legge. Egli non solo tratta del d. quale mezzo di risoluzione di controversie private, anzi accentra tutta la sua attenzione sul d. quale sostitutivo delle guerre tra popoli.
Non sappiamo di preciso da chi D. abbia recepito quest'idea, peraltro molto diffusa nell'antichità sia presso i Romani sia presso le altre popolazioni. Nel pensiero arcaico ciò che noi chiamiamo ‛ giustizia ' era 'la volontà degli Dei', per cui la guerra o la lotta tra due venivano considerate prove della volontà divina (Johan Huizinga, Homo ludens, Firenze 1964, 137).
Interessante è quanto scrive il Grimm, il quale, richiamando un passo di Tacito ( " deo imperante, quem adesse bellantibus credunt " , Germania VII), pensa che la divinità presiedesse sempre, come giudice supremo, alle guerre tra popoli, così come ai duelli (J. Grimm, Deutsche Rechtsalterthűmer, IV ediz. curata da Heusler e Hűber, 1899, 908 ss.). Avevano poi trattato del d. quale mezzo per evitare una battaglia Paolo Diacono (Historia Langobardorum I 12, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rer. langob. 53, 58) e Gregorio di Tours (Historia Francorum II 2, ibid Scriptores rer. meroving I 60-61).
Certamente queste sono le fonti presenti a D. nella formulazione della tesi prima accennata oltre a quelle citate espressamente, quali Livio e Orosio e in modo particolare Virgilio, testimonianze tutte della sua profonda cultura. Allo stato attuale si può dire che D. considerasse il d. come procedimento stragiudiziale, in cui interviene la divinità a dare la vittoria, come nelle guerre, senza che sia data all'uomo la possibilità d'indagarne le ragioni o i motivi. Non perché D. consideri il d. nel modo dianzi accennato, è lecito credere che ammettesse e giustificasse il ricorso alle altre ordalie, resti di costumanze barbariche inaccettabili in una società evoluta quale quella del Trecento, di cui D. è parte integrante. Egli prende il d. a dimostrazione sia della legittimità della sua idea politica, che considerava l'Impero romano e la sua storia manifestazione della volontà di Dio, sia dell'intervent o divino nelle umane cose (da sottolineare in questo atteggiamento il sentimento di viva fede, componente essenziale della personalità di Dante).
Bibl. - Paris De Puteo, Duello, Venezia 1521, libri IV-V; L.A. Muratori, Del duello, sua origine, uso ed abuso, in Dissertazioni sopra le Antichità Italiane, Milano 1751, 495-597; G. Poletto, Dizion. dant., II, Siena 1886, sub. v.; A. Gaudenzi, Campione d'armi, in Digesto Italiano VI I Torino 1888, 495-505 (in part. 504); F. Patetta, Le Ordalie. Studio di Storia del Diritto e Scienza del Diritto comparato, ibid 1890, 415 ss.; A. Pertile, Storia del Diritto Italiano, V, ibid 1892, 507-513; VI I ibid 1900, 337-346, 355-360; VI II, ibid 1902, 174-178; U. Kohler, Strafrecht der Italienischen Statuten vom 12-16 Jahrhundert, Mannheim 1897, 730-731; G. Arias, Le Istituzioni giuridiche medievali nella D. C., Firenze 1901, 129-136; G.E. Levi, Il duello giudiziario. Enciclopedia e bibliografia, ibid 1932, 122; P. Fiorelli, in Enciclopedia del Diritto, XIV, Varese 1965, 88-93.