LUMINARIA, DUO
Nella famosa decretale Solitae indirizzata all'imperatore di Costantinopoli, presto inserita nella Compilatio III del 1210 e quindi, nel 1234, nel Liber Extra di Gregorio IX (la raccolta ufficiale redatta da Raimondo di Peñafort e destinata a sostituire tutte le precedenti sillogi pontificie), Innocenzo III paragonava l'autorità pontificia e la potestà regale al sole e alla luna (i duo magna luminaria). Il papa scriveva che l'imperatore avrebbe dovuto sapere che i due grandi astri furono posti da Dio "in firmamento caeli", il sole (luminare maius) per presiedere al giorno e la luna (luminare minus) per presiedere alla notte, l'uno però maggiore dell'altro. I due astri posti da Dio nel firmamento, simbolo della Chiesa universale, sono le due dignità pontificia e regale (pontificalis auctoritas et regalis potestas), l'una maggiore in quanto istituita per presiedere allo spirituale, l'altra minore in quanto destinata a reggere nel temporale, per mostrare che l'ordine di grandezza dei due poteri è paragonabile a quello tra il sole e la luna, "quanta est inter solem et lunam" (cap. 6, X, i, 33 = cap. 2, Comp. III, i, 21).
La rottura dell''equilibrio ideale', riposto nel cosiddetto principio gelasiano, cioè nel principio della distinzione e separazione della giurisdizione secolare dall'ecclesiastica, è caratteristica del papato innocenziano, che "si evolse rapidamente verso l'affermazione trionfale e senza riserve della supremazia pontificia, gettando le basi di un movimento di pensiero, che occuperà tutto il secolo" (Calasso, 19573, p. 51). Al di là delle tradizionali affermazioni di potenza morale (auctoritas) accanto a quella materiale (potestas) dell'imperatore, appaiono le solenni e programmatiche dichiarazioni di attribuzione al papa dei supremi poteri spirituali e terreni, e di assoggettamento al capo della Chiesa di tutti i capi di ordinamenti temporali: "Innocenzo III, che non aveva dubbio alcuno nell'affermare che l'Impero dipendeva dalla Chiesa principaliter et finaliter, a più forte ragione poteva dire dei re: 'sicut luna lumen suum a sole sortitur quae re vera minor est illo quantitate simul et qualitate, situ pariter et effectu; sic regalis potestas ab auctoritate pontificali suae sortitur dignitatis splendorem'" (ibid., p. 52; cf. Innocenzo III, 1855, col. 377: Epist. I, 401). In tal modo la metafora ecclesiologica dei duo luminaria si sostituiva a quella più risalente dell'oro e del piombo, derivata dal De dignitate sacerdotali di Ambrogio e passata nel canone gelasiano accolto nel Decretum Gratiani a metà del sec. XII (can. 10, D. XCVI). La glossa disposta intorno a questo canone opera una concordanza con la novella giustinianea Quomodo oporteat episcopos (Coll. I, 6, pr. = Nov. VI, pr.), dove si afferma solennemente la comune origine a Deo della potestà imperiale e del ministero sacerdotale (ex uno eodemque principio utraque procedentia), e con lo stesso initium del Decretum, dove altrettanto solennemente si afferma che il genere umano è retto dal diritto divino-naturale e dal diritto umano (consuetudinario e positivo). Tuttavia è al problema della superiorità del sacerdotium sull'imperium che si rivolge intorno al 1216 il pensiero del suo autore, Giovanni Teutonico, cui si deve anche l'apparato alla Compilatio III di Innocenzo, aggiornata da Bartolomeo da Brescia intorno al 1245. Non a caso la glossa "fulgorem" stabilisce un espresso e diretto collegamento, come a luogo parallelo, con la decretale innocenziana Solitae: "Et quanta est differentia inter solem et lunam, tanta est differentia inter imperium et sacerdotium. extra de mai. et obe. solitae" [cap. 6, X, i, 33] (gl. "fulgorem", can. Duo sunt [can. 10, D. XCVI], in Decretum Gratiani, 1584, col. 468).
La metafora innocenziana (metafora teologico-politica, che ha la sua base in una già consolidata tradizione esegetica intorno a Genesi I, 7, dove la creazione del firmamentum è intesa come originaria costituzione dell'Ecclesia) era destinata a produrre implicazioni nuove nella letteratura canonistica, propensa a 'scientizzare' l'argumentum della conoscibilità del rapporto di grandezza tra la pontificalis auctoritas e la regalis potestas, munendolo di un'interpretazione matematico-astrologica. Così è nell'apparato al Liber Extra, opera, in diverse redazioni successive dal 1241 circa al 1263, di Bernardo da Parma. È infatti Bernardo che, glossando la decretale innocenziana Solitae, dopo aver richiamato ad ogni buon conto come luogo parallelo il canone gelasiano, ci offre nella glossa "inter solem et lunam" una spiegazione naturalistica dell'affermazione di Innocenzo III, per la quale appunto la differenza tra il papa e l'imperatore è tanta "quanta est inter solem et lunam", e cioè di cinquantasei volte, essendo la terra sette volte maggiore della luna e il sole otto volte maggiore della terra ("cum terra sit septies maior luna, sol autem octies maior terra": gl. "inter solem et lunam", ad cap. 6, X, i, 33, in Decretales D. Gregorii Papae IX, 1584, col. 417).
La canonistica duecentesca ricorre all'ordo naturae, quasi il solo ordo scripturae non basti a sorreggere la teoria della supremazia pontificia. In realtà già prima di Bernardo da Parma un altro canonista, Lorenzo Ispano, un allievo del glossatore civilista Azzone "che insegnò diritto canonico a Bologna forse a partir dal 1190, sicuramente tra il 1210 e il 1214, e che fu maestro [...] di Bartolomeo da Brescia (oltre che di Tancredi e ‒ secondo una tradizione però incertissima ‒ di Sinibaldo Fieschi, il futuro Innocenzo IV)" (Cortese, 1995, p. 234 n. 112), aveva glossato il luogo innocenziano nella Compilatio III apponendovi il dictum di Tolomeo nell'Almagesto (V, 16).
Poco oltre la metà del Duecento, il grande canonista Enrico da Susa, detto Ostiense dal titolo cardinalizio e che per la sua scienza "meritò gli epiteti di pater canonum, di fons o monarcha iuris, di stella, di lumen lucidissimum" (Cortese, 1995, p. 241 n. 129), perfezionò l'argomento nella sua Summa sulle Decretali (1250-1253), che ebbe un successo enorme, divenendo "il vade-mecum dei canonisti un po' come le summae azzoniane lo erano diventate per i civilisti" (ibid., p. 241). La maggior complessità della sua dottrina è un fatto riconosciuto, tanto che l'Ostiense è apparso, rispetto alla tradizione canonistica precedente, "più fedele al pensiero di Gelasio" (ibid., p. 243). In realtà egli esprime una tendenza alla conciliazione di atteggiamenti confliggenti, alla ricerca di una propria posizione tra quelle più estreme di Alano Anglico e di Tancredi, i quali avevano affermato che quantunque l'Impero traesse la sua origine a solo Deo, esso riceveva il gladio temporale dalla Chiesa in ragione della maioritas del papa, al quale spetta l'esercizio dei due gladi. L'Ostiense invece, nel confermare la distinzione delle due potestà nella loro comune origine a Deo, afferma la supremazia della potestà spirituale in quanto essa è più prossima a Dio (magis Deo appropinquatur), concludendo che perciò si deve intendere che tra le due potestà non vi è molta differenza (non multum discrepant) quanto al loro principio, "sed multum discrepant quo ad maioritatem" (Enrico da Susa, 1556, p. 319v, nr. 9: IV, Qui filii sint legitimi, § Qualiter et a quo filii illegitimi legitimentur).
Si vede bene come l'Ostiense non intendesse revocare in dubbio la distinzione delle due potestà, spirituale e secolare, vero principio generale ordinatore delle relazioni umane in ogni dimensione dell'esercizio di un potere terreno, principio incardinato nella dottrina delle due spade (metafora giuridico-politica già interpretata dall'imperatore Federico I come relativa all'Impero e al papato e costante oggetto, nell'ecclesiologia e nella pubblicistica medievali, di una di-sputa sostanzialmente diretta ad accreditare o a escludere che la Chiesa abbia ricevuto da Cristo una plenitudo potestatis nel senso del conferimento di una duplice giurisdizione, spirituale e secolare, sì da postulare un esercizio indiretto del potere secolare da parte del sacerdotium, o meglio, come dice l'Ostiense, un esercizio distinto della giurisdizione secolare solo quoad executionem). A metà del Duecento, dopo la solenne deposizione di Federico II al concilio di Lione e in seguito alla sua morte, la preoccupazione della canonistica si sposta piuttosto sulla giustificazione della maioritas pontificia, di una supremazia 'scientificamente' commensurabile in quanto riposta in un ordine cosmico che è al tempo stesso un ordine politico.
Per dimostrare quanta sia la differenza tra l'auctoritas pontificia e la potestas imperiale, l'Ostiense introduce il paragone famoso del sole e della luna, interpretando la decretale innocenziana Solitae in modo tale da superare le difficoltà di un'esegesi contraddittoria: "Quia quanta est differentia inter Solem et Lunam, tanta est inter sacerdotem, et regalem dignitatem [...]. Que verba, licet per doctores diversimode exponantur, tu tamen dic quod sicut Luna recipit claritatem a Sole, non Sol a Luna, sic regalis potestas recipit authoritatem a sacerdotali, non econtra; sicut etiam Sol illuminat mundum per Lunam quando per se non potest, scilicet de nocte, sic sacerdotalis dignitas clarificat mundum per regalem quando per se non potest, scilicet ubi agitur de vindicta sanguinis" (ibid.).
Concludendo che perciò il diritto canonico deve prevalere sul secolare ("lex secularis debet servire canonice"), l'Ostiense espone ad litteram il luogo tolemaico, discutendone le proposizioni e confermandole "ratione ordinis scripturae", "ratione subiecti" e "ratione naturali", nonché "authoritatibus sanctorum", cioè per l'autorità di Ambrogio nel canone gelasiano, e giungendo così all'affermazione che la dignità sacerdotale oltrepassa più di settemilaseicentoquarantaquattro volte la dignità regale ("septies millies et sexcenties et quadragesies quater et insuper eius medietatem est maior sacerdotalis dignitas quam regalis"). Tolomeo infatti dimostra che il sole contiene la terra centosettantasette volte, così come che il sole contiene la luna settemila e seicentoquarantaquattro volte e mezzo, e che infine la terra contiene la luna più di trentanove volte, ciò che "in summa huius maioritas comprobatur". Perciò "quamvis iurisdictiones sint distinctae quo ad executionem, tamen imperator ab Ecclesia Romana imperium tenet [...], ergo Papa superior est [...]. Ergo quo ad maioritatem unum caput est tantum, scilicet Papa. Nam unus debet tantum esse caput nostrum dominus spiritualium et temporalium: quia ipsius est orbis et plenitudo eius […]" (ibid., pp. 319v-320r, nrr. 9-10).
L'ecclesiologia duecentesca di ambito canonistico inserisce dunque l'autorità tolemaica in una fitta trama di appigli autoritativi, dando alla dottrina prevalente quella particolare coloritura per la quale Dante, nella sua polemica anticurialista, prescelse l'Ostiense come simbolo del diritto canonico: "Non per lo mondo, per cui mo s'affanna / di retro a Ostiense e a Taddeo, / ma per amor de la verace manna / in picciol tempo gran dottor si feo" (Paradiso, XII, 82-85). Non ha bisogno di essere ricordata l'insistenza di Dante nella polemica contro l'Ostiense (non solo nel canto XII del Paradiso, ma più ancora nel lamento dell'Epistola ai cardinali italiani su Roma "nunc utroque lumine destituta" e nella stessa accusa, rivolta genericamente ai decretalisti, "theologie ac phylosophie cuiuslibet inscii et expertes", nella Monarchia, III, 3). Lo stesso tentativo dantesco di confutare la dottrina canonistica dei duo luminaria con argomentazioni naturalistiche rivela forse l'intenzione di rispondere all'uso spregiudicato dell'Almagesto da parte dell'Ostiense nella sua affermazione della supremazia della giurisdizione ecclesiastica sul potere temporale. Si rammenti il noto passaggio di Monarchia, III, 4, in cui Dante argomenta: "Dico dunque che sebbene la luna non ha abbondanza di luce se non in quanto la riceve dal sole, non per questo consegue che la luna stessa sia in funzione del sole [quod ipsa luna sit a sole]. In proposito infatti bisogna sapere che altro è l'essere della stessa luna, altra la sua virtù, altra la sua operazione. Per quel che riguarda l'essere, la luna non dipende in nessun modo dal sole, né ne dipende quanto alla virtù e nemmeno, in via assoluta, quanto all'operazione, perché il suo moto deriva da un primo motore ed il suo influsso dai suoi propri raggi; essa ha infatti una qualche luce tutta sua, come risulta dalle eclissi. Ma quanto alla possibilità di operare meglio e con maggiore efficacia, essa riceve allora qualcosa dal sole, cioè luce abbondante, ed una volta ricevutala opera più efficacemente. Così io dico dunque che il potere temporale non riceve il proprio essere dallo spirituale, né la virtù, che è la sua autorità, e neppure, in assoluto, l'operazione, ma ne riceve la capacità di operare con efficacia maggiore per mezzo della luce della grazia che Dio gli infonde nel cielo e la benedizione del sommo Pontefice in terra".
Se Dante ammette qui un principio di maggior funzionalità per via della grazia impetrata dal pontefice, occorre ricordare, con l'interpretazione di Nardi (19672, pp. 289-293), la lucidità dell'intuizione dantesca per la quale il principio gelasiano, nella metafora politica dei 'due soli', non è un principio di pura 'distinzione funzionale', ma di reciproca limitazione del potere spirituale e del temporale: "Ben puoi veder che la mala condotta / è la cagion che'l mondo ha fatto reo, / e non natura che'n voi sia corrotta. / Soleva Roma, che'l buon mondo feo, / due soli aver, che l'una e l'altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo. / L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada / col pasturale, e l'un con l'altro seme / per viva forza mal conven che vada; / però che giunti, l'un l'altro non teme: / se non mi credi, pon mente a la spiga, / ch'ogn'erba si conosce per lo seme" (Purgatorio, XVI, 103-114).
Non diversamente può essere forse interpretato un luogo della Lectura di Cino da Pistoia sul Codice di Giustiniano. Si tratta del commento all'autentica clericus (1578, ad C. 1, 3, 33, p. 18v), in polemica con la dottrina che riconosce alla Chiesa il potere di sovraordinare la sua autorità alla potestà secolare ratione peccati e nell'intento di restringerne la giurisdizione, secondo l'insegnamento di Pierre de Belleperche, alle sole materie di fede. È a questo proposito che Cino ricorda la dottrina dei duo luminaria, per riaffermare la distinzione delle giurisdizioni, soprattutto in materia penale, e per giudicare tuttavia che la Chiesa ha usurpato un potere totale intromettendosi ovunque nella giurisdizione secolare: "Praeterea Deus fecit duo luminaria, unum quod praeesset diei, alterum quod praeesset nocti, id est unum quod praeesset secularibus, alterum quod praeesset spiritualibus [...]. Tamen, quicquid dicat, Ecclesia sibi usurpavit ratione peccati totam iurisdictionem". Forse in questo breve commento, scritto a Bologna tra il 1312 e il 1314, è già in nuce buona parte del pensiero di Marsilio, o almeno la radice dell'atteggiamento 'ideologico' marsiliano, la sua rivendicazione della restituzione alla vita politico-istituzionale del suo tempo di un principio schiettamente romanistico: spiritualia per saeculares non deciduntur, nec secularia per spirituales. Il turbamento cui allude Cino può inoltre ben esser considerato come qualcosa più che un 'precorrimento' del lamento marsiliano per la pace messa in pericolo proprio dalla pretesa del potere ecclesiastico di estendere la forza della 'sua' regola di diritto umano sulle regole formate dal titolare del potere civile.
A pochi anni di distanza, intorno al 1338, il primo canonista laico, Giovanni d'Andrea, proprio davanti ai dilemmi posti dall'interpretazione della decretale innocenziana Solitae, giunto al periglioso passaggio del 'paragone famoso del sole e della luna', poteva riassumere le interpretazioni della Glossa di Bernardo da Parma e della Summa dell'Ostiense, introducendo nuovi motivi di riflessione e nuove autorità extragiuridiche. Nei suoi Novella Commentaria in primum Decretalium librum (ad cap. 6, X, i, 33) egli poteva ripetere gli argomenti dell'Ostiense sulla differenza dell'officium claritatis et illuminationis in relazione alla praelatio e alla subiectio "inter pontifices et reges" (Giovanni d'Andrea, 1581, p. 264v, nr. 16). E dalla Summa Aurea dell'Ostiense Giovanni d'Andrea ripete l'ampia allegazione dell'Almagesto di Tolomeo: "Dicit Hostiensis quod in v. libro almagesti demonstrati Ptolomaei .xviij. propositione sic legitur: manifestum est, quod magnitudo solis continet magnitudinem terrae centies et sexagesies septies, et insuper eius quartam, et octavam. Ibidem, palam est, quod magnitudo solis continet magnitudinem lune septies millies, et septingenties, et quadragesies quater, et insuper eius medietatem. Ibidem, magnitudo terre continet magnitudinem lune trigesies, idest xxx. vicibus et novies, et quartam, et xx. eius, ex quibus patet, quod pontificalis authoritas maior est regali septies millies, et septingenties, et quadragesies quater, et insuper eius medietatem, quia sol tantum est maior luna" (ibid., p. 265r, nr. 27).
Giovanni d'Andrea non chiude però qui il suo commento. Allegando Thābit ibn Qurra, al-Farghānī (l'Alfagrano di Dante), uno Speculum historiarum e Macrobio sul Somnium Scipionis, egli sembra tagliare corto con l'uso che la canonistica precedente ha fatto dell'argomento astrologico, affermando recisamente: "hec, quae per rationem non capio, astrologis relinquo" (ibid.). L'ultima parte del commento è una sorta d'invettiva contro l'introduzione delle matematiche nel discorso giuridico, sostenuta da un'allegazione dell'Exaëmeron di Ambrogio, in polemica con Macrobio: rifiuto della confusione delle scienze della natura con le scienze morali, che con la sua forte intonazione patristica sembra preannunciare i moduli dell'ormai prossimo orizzonte dell'umanesimo giuridico: "Dicamus cum Amb. exameron. vj. quid mihi quaerere, quae sit terrae mensura, quis circuitus, quem geometrae .clxxx. millibus stadiorum estimaverunt: libenter fateor me nescire, quod nescio, imo quod nescire nil proderit" (ibid., p. 265r, nr. 28). Il paragone famoso del sole e della luna aveva ormai perduto la sua valenza paradigmatica.
Fonti e Bibl.: Enrico da Susa (cardinale Ostiense), Summa Aurea, Lugduni 1556; Cino da Pistoia, In Codicem, et aliquantulos titulos primi Pandectorum Tomi, id est, Digesti veteris, doctissima Commentaria, Francoforti ad Moenum 1578 (rist. anast. Torino 1964); Giovanni d'Andrea, In Primum Decretalium librum Novella Commentaria, Venetiis 1581; Decretales D. Gregorii Papae IX. suae integritati una cum glossis restitutae. Ad exemplar Romanum diligenter recognitae, Lugduni 1584; Decretum Gratiani emendatum et notationibus illustratum Una cum glossis, Gregorii XIII. Pont. Max. iussu editum. Ad exemplar Romanum diligenter recognitum, ivi 1584; Innocenzo III, Regestorum sive Epistolarum Libri sexdecim, I, in Patrologia Latina, a cura di J.-P. Migne, CCXIV, Parisiis 1855; Dante Alighieri, Monarchia, a cura di P.G. Ricci, Milano 1965. F. Calasso, I Glossatori e la teoria della sovranità. Studio di diritto comune pubblico, Milano 19573; R.W. Carlyle-A.J. Carlyle, Il pensiero politico medievale, a cura di L. Firpo, III, Bari 1967; B. Nardi, Tre pretese fasi del pensiero politico di Dante, in Id., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 19672, pp. 276-310; P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale, 1100-1433, Milano 1969 (2002); R. Morghen, Medioevo cristiano, Roma-Bari 19723; Id., Le lettere politiche di Dante, in Id., Civiltà medievale al tramonto, ivi 19732, pp. 143-176; E. Cortese, Il diritto nella storia medioevale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995.