durata
La definizione più antica di d. è quella di Aristotele, secondo cui è da intendersi con questo termine il periodo di tempo che una cosa occupa nella sua esistenza, in altre parole il suo ciclo vitale; la d. può poi indentificarsi anche con l’eternità, secondo Aristotele, qualora venga riferita al mondo, la cui esistenza abbraccia e contiene la totalità e l’infinità del tempo. La speculazione greco-cristiana (Plotino e Agostino) mantiene tale impostazione e bisogna giungere a Cartesio per trovare in modo esplicito la distinzione dei due concetti di d. e di tempo. Cartesio considera infatti il tempo come la «misura comune» della d. delle singole cose o fenomeni. Con Locke il concetto di d. viene analizzato nei termini della sua genesi psicologica a partire dalla riflessione intorno al succedersi delle idee che si presentano nella mente, mentre Kant, pur all’interno della fondazione trascendentale, ritorna in qualche modo alla tradizionale definizione aristotelica allorché identifica la d. con una quantità misurabile fondata sulla permanenza e pertanto attributo della sostanza come oggetto che permane nel tempo. Nella filosofia contemporanea, particolare fortuna ha goduto il concetto di d. reale o pura nella filosofia di Bergson (➔), in cui, contrapposto al concetto di tempo, suo simbolo spazializzato, designa la forma che assume la successione dei nostri stati di coscienza, quando è immediatamente sentita come molteplicità qualitativa di elementi che, susseguendosi, si penetrano e si fondono tra loro come le note in una melodia. Per influsso della filosofia bergsoniana il termine è passato nella critica letteraria francese, e successivamente nelle altre, a designare il «tempo» interiore di una narrazione o di un personaggio, la sua «curva» o traiettoria ideale, risultante dalla successione di tanti singoli atti, fatti, stati d’animo, e così via.