Vertov, Dziga
Nome d'arte di Denis Arkadevič Kaufman, regista e teorico del cinema, di famiglia ebrea, nato a Białystok (od. Polonia) il 2 gennaio 1896 e morto a Mosca il 12 febbraio 1954. Fu l'ideatore di una delle più rilevanti concezioni politiche del cinema, inteso in senso rigorosamente non finzionale. Il suo progetto complessivo si caratterizzò in primo luogo per il fatto di prospettare un'alternativa radicale e intransigente al cinema di finzione (che rifiutava prospettando un cinema non recitato, neigrovaja kinematografija), alternativa da non confondere con l'idea della pura e semplice riproduzione di una 'realtà' pronta per essere 'documentata'. Nella concezione di V., al contrario, 'riproduttivo' è proprio il cinema di finzione, da respingere e combattere perché il suo modo di rappresentazione non è originario ma derivato, non si fonda sull'autonoma formatività del nuovo strumento tecnico ma dipende da altre forme ‒ il teatro, le arti figurative e soprattutto la letteratura ‒ di cui si limita essenzialmente a riprodurre i modi di rappresentazione.
Figlio di un bibliotecario e scrittore, nel 1915, durante la Prima guerra mondiale, si trasferì a Mosca insieme ai genitori e ai fratelli (anch'essi destinati a una carriera nell'ambito del cinema, come direttore della fotografia Boris A. Kaufman, e come operatore Michail, che avrebbe attivamente collaborato con V.). In questa città si dedicò agli studi musicali e si interessò di neuropsichiatria. La sua prima esperienza nel campo delle 'arti' risale agli anni 1916-17, quando organizzò un 'laboratorio dell'udito' lavorando al montaggio di suoni e rumori (per es. quelli di una stazione ferroviaria) registrati con un rudimentale fonografo. Fu un esordio significativo, in cui già compaiono tutti i termini essenziali del contributo originale di V. a una teoria della comunicazione audiovisiva: la valorizzazione delle autonome potenzialità della riproduzione tecnica, la relazione tra forme espressive e mondo della vita, il rapporto tra il carattere testimoniale della registrazione meccanica e quello creativo e costruttivo del montaggio. Nel 1918 cominciò a lavorare nel cinema come montatore della Kinonedelja (Cinesettimana), il primo cinegiornale sovietico. Tra il 1919 e il 1921, durante la guerra civile, diresse la sezione cinematografica del treno di propaganda del Comitato esecutivo centrale e realizzò alcuni film di montaggio di materiali documentari. Nel 1922, con un ridottissimo numero di collaboratori, fondò la Kinopravda (Cineverità o "Pravda" cinematografica), un cinegiornale autonomo e fortemente innovativo di cui uscirono, a intervalli irregolari, 23 numeri (1922-1925). Il presupposto rivoluzionario della Kinopravda consisteva nell'idea di una "cinematizzazione delle masse": un'effettiva "alfabetizzazione" cinematografica, volta a prospettare uno scambio sempre più ampio e capillare tra interlocutori attivi e interagenti. È in questa chiave che va inteso il progetto politico più ambizioso di V.: il Kinoglaz (Cineocchio), inizialmente pensato come un complesso manifesto visivo della "cinematizzazione" che doveva comportare sei 'serie' successive e interconnesse di cui il gruppo coordinato da V., i Kinoki (Cineocchi), riuscì a realizzare solo la prima nel 1924 (Žizn′ vrasploch, La vita colta sul fatto) a causa dell'incomprensione o, più verosimilmente, del consapevole sabotaggio dell'ente cinematografico preposto alla produzione, che interruppe i finanziamenti. La linea pluralista e spregiudicata di V. risultava infatti incompatibile con la politica culturale dello Stato sovietico, già in quegli anni, e poi sempre più decisamente, orientata verso un uso strumentale e propagandistico del cinema. Questo conflitto segnò l'intera produzione successiva di V., che conta film del tutto notevoli e almeno un 'capolavoro' (Čelovek s kinoapparatom, 1929, L'uomo con la macchina da presa) ma coincise con l'impossibilità di dare corso al progetto del Kinoglaz e con una progressiva, implacabile marginalizzazione di cui il contributo di V. sconta ancora oggi pesanti conseguenze, attestate dal travisamento pressoché sistematico con cui la vulgata storiografica continua a presentarlo come un episodio pionieristico del cosiddetto cinema documentario.
V. percepì con assoluta lungimiranza (anticipando nettamente le tesi sulla riproducibilità tecnica enunciate da Walter Benjamin nel 1936) che il cinema avrebbe potuto inaugurare una rivoluzione nella percezione e nella lettura del mondo visibile a condizione di saper dispiegare in modo indipendente la sua 'naturale' capacità di cogliere e interpretare (come si legge nel più famoso dei suoi manifesti My, pubblicato nel 1922; trad. it. Noi, in L'occhio della rivoluzione, 1975, pp. 27-30) "i movimenti necessari delle cose", il "ritmo interno" secondo cui le cose si collegano l'un l'altra. I rapporti tra le cose, infatti, possono essere colti secondo le normali abitudini percettive, cioè come un semplice e passivo riconoscimento, oppure, all'opposto, possono apparire come un caos indecifrabile (è l'esperienza moderna della città, centralissima in V., come lo sarebbe stata in Benjamin): ebbene il cinema non recitato, il Kinoglaz, sceglie di lavorare nello spazio intermedio tra il semplice riconoscimento e il caos, sceglie di far vedere, organizzandoli, i rapporti che legano le cose e che rendono più autenticamente comprensibile e interpretabile il mondo della vita. Si tratta dunque di un cinema eminentemente costruttivo (e non passivamente riproduttivo), e ciò che esso 'documenta' è precisamente l'importo di costruttività (il montaggio) richiesto per dar luogo a qualsiasi autentica testimonianza. È lo strumento tecnico che permette questa prestazione, ma solo a condizione di saperne riconoscere e valorizzare le autonome potenzialità formali. Ciò significa che l'elogio dell'occhio meccanico ‒ a cui V. si abbandona spesso nei suoi scritti programmatici ‒ non è, come nel Futurismo italiano, pura e semplice apologia della macchina, ma si giustifica a partire da un principio conoscitivo: il Kinoglaz può far vedere l'invisibile, può cioè mettere in forma la rete di rapporti che collega le cose nel loro movimento e dunque fornisce un'immagine della realtà incomparabilmente più completa proprio perché non la rispecchia ma la ricostruisce, la riorganizza. Questa riorganizzazione, inoltre, non avviene da una posizione esterna alla realtà stessa, perché il Kinoglaz sa di far parte della realtà posta sotto esame e lo denuncia continuamente. Decisivo si rivela anche un ulteriore aspetto: se il cinema non recitato ricostruisce e rende visibili gli invisibili rapporti che collegano le cose, questo lavoro non può che essere interminabile. Il cinema non recitato fa dunque saltare il concetto di 'opera' in quanto testo in sé compiuto e lo sostituisce con l'immagine, un 'ipertesto' interminabile ("film che producono film" diceva V.) in cui ogni singolo frammento testimoniale si offre in via di principio a ulteriori ricostruzioni, interpretazioni e commenti. V. cominciò a sperimentare queste idee nella Kinopravda, ossia un giornale che realizzava nel cinema l'analogo del quotidiano "Pravda", ma in cui pravda indica anche la 'verità' delle cose, così come il cinema la può far apparire e mettere in forma. O meglio ancora la verità che si dichiara come verità cinematografica, si autodenuncia per quello che è ricordando allo spettatore che ciò che sta vedendo è cinema. Il cinema non recitato, dunque, prevede uno spettatore distanziato, critico, mai assorbito nell'illusione, uno spettatore a cui viene continuamente ricordata la situazione enunciativa di cui sta facendo esperienza con una strategia, più o meno complessa, di rimandi autoreferenziali (la Kinopravda si apre in genere con un'autocitazione: l'immagine di un rullo che viene inserito nel proiettore). La Kinopravda ebbe tuttavia per V. una funzione propedeutica, un compromesso con le forme usuali della cronaca cinematografica. Con il progetto intitolato Kinoglaz egli si spinse invece oltre ogni ancoraggio meramente documentario inaugurando il primo vero tentativo di cinematografia non recitata.
La dimensione politica si radica nella stessa ontologia dell'immagine presupposta dal Kinoglaz, in quanto immagine che dispiega la sua autentica essenza solo offrendosi a un'inesauribile ripresa, a un commento infinito, a una proliferazione interminabile e dunque a un incremento dell'interpretazione che richiede l'intervento di altri soggetti ed è legata in modo costitutivo alla riproducibilità tecnica, senza la quale non potrebbe propriamente sussistere. Ma l'intervento di altri soggetti è, al tempo stesso, un ampliamento della realtà posta sotto costruzione interpretativa. Ecco dunque il grande spazio pubblico e plurale della comunicazione cinematografica nel quale è possibile, interpretando attivamente il mondo, fare esperienza dell'altro e costruire l'orizzonte del consenso. Ne deriva, secondo una concezione del politico tanto lungimirante quanto in contrasto con quella sovietica, che l'esercizio effettivo del potere trae autorità dal libero convenire di una pluralità di soggetti attivi. Ne consegue inoltre che solo la riproducibilità tecnica può davvero garantire l'apertura e l'esercizio di un tale spazio pubblico e plurale.V., costretto ad abbandonare il progetto del Kinoglaz, realizzò successivamente tre film su commmittenza (Šagaj, sovet, 1926, Avanti, soviet; Šestaja čast′ mira, 1926, La sesta parte del mondo; Odinnadcatyj, 1928, L'undicesimo) e poté recuperare l'idea originaria del cinema non recitato solo nel 1929 con Čelovek s kinoapparatom. Ma quest'ultimo si colloca già fuori dal progetto del Kinoglaz perché è un film compiuto, cioè un''opera'. Nel volgere di pochi anni, dunque, il progetto politico di V. era tramontato, e ciò che ne resta è la sperimentazione di un nuovo linguaggio: una grammatica e un lessico per produrre 'discorsi' che non furono mai pronunciati (e che forse soltanto nell'epoca della rete possono cominciare a esserlo). V. realizzò poi il suo primo film sonoro, Entuziazm (1930, Entusiasmo), noto anche come Simfonija Donbassa (La sinfonia del Donbass) e la sua prima, deliberata opera d'arte, Tri pesni o Lenine (1934; Tre canti su Lenin), canonizzata come un capolavoro del realismo socialista. Nei venti anni successivi, completamente emarginato, lavorò a qualche film di montaggio e, come collaboratore saltuario, al cinegiornale Novosti dnja (Notizie del giorno). La sua lezione sarebbe tornata nel cinema degli anni Settanta di Jean-Luc Godard, e successivamente nell'opera di Abbas Kiarostami che, al di là di ogni ripresa esplicita, è forse il suo più autentico erede.
I principali testi teorici di V. sono tradotti in italiano in D. Vertov, L'occhio della rivoluzione. Scritti 1922-1942, a cura di P. Montani, Milano 1975.
In russo, oltre all'antologia Stat′i, dnevniki, zamysly (Articoli, diari, progetti), Moskva 1966, con introduzione di S.V. Drobašenko, si può leggere la raccolta tematica Tri pesni o Lenine (Tre canti su Lenin), Moskva 1972.
Nella bibliografia secondaria, si possono ricordare:
N.P. Abramov, Dziga Vertov, Moskva 1962 (trad. it. Roma 1963).
L. e J. Schnitzler, Dziga Vertov, in "Anthologie du cinéma", 1968, 4.
V. Listov, Pervyj fil′m Dzigi Vertova (Il primo film di Dziga Vertov), in "Prometej", 1969, 7.
G. Sadoul, Dziga Vertov, Paris 1971.
S.R. Feldman, Evolution of style in the early work of Dziga Vertov, New York 1975, 19772.
P. Montani, Dziga Vertov, Firenze 1975.
S.R. Feldman, Dziga Vertov: a guide to references and resources, Boston 1979.
L.M. Rosal′, DzigaVertov, Moskva 1982.