È vero, gli oceani si stanno alzando
La scomparsa di 5 atolli dell’arcipelago delle Salomone è un esempio che documenta le conseguenze dei cambiamenti climatici globali, quali appunto l’innalzamento dei mari: quasi il 90% dell’incremento di calore dovuto all’anomalo aumento dei gas serra degli ultimi 50 anni e accumulato dal sistema climatico terrestre è stato assorbito dagli oceani.
Nel mese di maggio 2016 la rivista scientifica Environmental research letters (ERL) ha pubblicato un articolo che descrive la scomparsa di 5 piccole isole dell’arcipelago delle Salomone, collocate a est di Papua Nuova Guinea e Australia, in conseguenza dell’innalzamento del livello dell’Oceano Pacifico. È forse uno dei primi esempi che documenta scientificamente la perdita di terre emerse in conseguenza dei cambiamenti climatici globali.
Quando si affronta il delicato tema di come il clima sulla Terra stia cambiando e delle possibili conseguenze di queste modifiche si deve innanzitutto aver chiara la distinzione tra clima e tempo meteorologico. Col termine clima si intende la caratterizzazione di alcune variabili (temperatura, umidità, precipitazioni) in un’area relativamente ampia – almeno regionale – e per un periodo di tempo di almeno 30 anni. Anche se per questioni di scale spaziali e temporali il concetto di clima è quindi ben diverso da quello di tempo metereologico, negli ultimi decenni l’uomo si è progressivamente interessato anche alla sua previsione. Lo ha fatto commettendo, almeno nella sua fase iniziale, 2 grossi errori: considerare le dinamiche climatiche come quasi invarianti e non cogliere la complessità del clima a livello di sistema.
In realtà durante l’evoluzione della Terra, la cui età è prossima ai 4,5 miliardi, il clima è sempre cambiato, a volte in maniera lenta, ma altre attraverso transizioni significative e relativamente rapide.
Il clima è inoltre frutto di numerosissime e complesse interazioni tra i vari comparti della biosfera (acqua, aria, suolo, ghiacci, ecc.), ricche di azioni e retroazioni dove spesso alcuni aspetti considerati marginali si dimostrano essere invece determinanti. È per questo che è più corretto riferirci al concetto di clima con l’espressione sistema climatico.
Ancora più di recente l’uomo ha dovuto fare i conti con un’evidenza che ha cambiato profondamente il suo rapporto con l’idea di clima: appare ora incontrovertibilmente chiaro come non solo il sistema climatico sia complesso e possa modificarsi in tempi relativamente brevi, ma che questo possa verificarsi come conseguenza diretta di alcune azioni umane.
Torniamo alle Isole Salomone. Come per molte altre variabili, anche il livello medio degli oceani nel corso della storia della Terra è variato. Ricostruzioni paleoclimatiche stimano che durante quello che possiamo considerare l’ultimo massimo glaciale (20.000 anni fa circa) il livello medio marino fosse più o meno di 120 metri inferiore a quello attuale. In seguito all’aumento delle temperature e allo scioglimento delle enormi quantità di ghiaccio accumulate, il livello si è progressivamente innalzato fino a raggiungere poche migliaia di anni fa valori medi tipici del secolo scorso. Se guardassimo più indietro nel tempo, scopriremmo poi che fenomeni di innalzamento e abbassamento del livello del mare sono accaduti innumerevoli volte nel corso della storia del pianeta. Perché quindi preoccuparsene oggi? A partire dalla rivoluzione industriale, la combustione di energie fossili come petrolio o metano ha aumentato la concentrazione di alcuni gas presenti naturalmente nella nostra atmosfera, responsabili del cosiddetto effetto serra. Nella sua accezione più ampia, tale effetto consente a una parte del calore prodotto sulla Terra in conseguenza dell’arrivo dei raggi solari di rimanere intrappolato all’interno della nostra atmosfera, fatto benefico che ha consentito la nascita della vita come la conosciamo noi sul pianeta (che altrimenti avrebbe avuto una temperatura media di molti gradi sotto lo zero).
Nell’ultimo secolo le emissioni di gas serra legate alla civiltà industriale hanno però ‘rinforzato’ questo effetto (si parla oggi di effetto serra antropogenico), tanto che la concentrazione media di anidride carbonica in aria è giunta a essere superiore a 400 parti per milione (ppm, cioè lo 0,04 %), mentre negli ultimi 950.000 anni, seppur soggetta a cicli naturali, non aveva mai superato i 290 ppm. Una delle conseguenze acclarate dell’incremento della concentrazione di anidride carbonica (e di altri gas serra quali metano e vapore acqueo) negli ultimi 100 anni è stata il riscaldamento dell’atmosfera.
Allo stesso tempo, proprio perché il clima sulla Terra è un sistema complesso, altre evidenze oltre al riscaldamento dell’aria hanno iniziato a fare la loro comparsa.
In questo senso si deve ricordare come il ruolo degli oceani sia stato a lungo sottostimato, mentre in realtà quasi il 90% dell’incremento di calore dovuto all’anomalo aumento dei gas serra degli ultimi 50 anni e accumulato dal sistema climatico terrestre è stato assorbito dagli oceani. La capacità termica del mare è, a parità di volume, quasi 1000 volte superiore a quella dell’atmosfera, e per questo gli oceani sono i nostri migliori alleati nel contrasto dell’aumento della temperatura globale della Terra, oltre a essere voraci consumatori di anidride carbonica (hanno sequestrato più del 30% della CO2 emessa dall’uomo) e produttori di ossigeno. Ciò nondimeno, anche essi hanno una capacità limitata, e rispondono con alcune modifiche nelle loro caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche.
Abbiamo evidenze scientifiche misurate che testimonino della modifica del nostro sistema climatico e dei nostri mari?
I dati più aggiornati sono quelli riassunti dall’Intergovernmental panel on climate change (IPCC) dell’Organizzazione delle nazioni unite, un’istituzione scientifica fondata con lo scopo di studiare il tema dei cambiamenti climatici.
L’IPCC non svolge direttamente attività di ricerca ma fonda le sue valutazioni principalmente su letteratura scientifica internazionale pubblicata in seguito a revisione e referaggi. Ebbene, nel suo quinto rapporto pubblicato nel 2014 (AR5-IPCC), alcune evidenze appaiono così chiare da esser definite «virtualmente certe».
Partiamo dall’atmosfera, dove le temperature medie superficiali registrate nelle 3 decadi a partire dal 1980 fino al 2010 sono state le più alte in assoluto a partire dal 1850, con l’ultima (2000-10) in assoluto la più calda. La stima più attendibile riporta un riscaldamento medio globale della temperatura superficiale dell’aria pari a 0,85°C dal 1880. Volendo semplificare di molto il problema, e limitarlo al solo rapporto atmosfera/oceani, ci troviamo di fronte a una grande bacinella (i nostri oceani) con dentro sassi ricoperti di cubetti di ghiaccio (i nostri continenti con i loro ghiacciai); mentre alcuni sono sensibilmente più alti del livello del mare, altri invece sporgono solo di poco. Se l’aria si riscalda il ghiaccio si scioglierà e avremo più acqua nella bacinella; allo stesso tempo, quando con un po’ di ritardo anche l’acqua diverrà più calda, aumenterà il proprio volume. In entrambi i casi il livello dell’acqua salirà, e alcuni sassi andranno sott’acqua.
Riferendoci ancora alle sole misure e venendo agli oceani, l’incremento del livello medio marino relativo al periodo 1971-2010 si è attestato attorno ai 2 mm/anno, con una tendenza all’accelerazione negli ultimi anni.
Storico dell'innalzamento dei mari Acqua alta a Venezia
Nel periodo 1993-2010 il tasso medio di innalzamento è stato di circa 3,2 mm/anno; di questi, più di 1 mm/anno è dovuto all’espansione termica dell’acqua, mentre almeno lo 0,5 mm/anno deriva dallo scioglimento delle distese degli strati di ghiaccio di Antartide e Groenlandia e quasi 1 mm/anno da quello dei loro ghiacciai. Nell’ultimo secolo quindi il contributo dovuto all’espansione termica e allo scioglimento dei ghiacci è stato fattore dominante nel determinare l’innalzamento del livello medio del mare. Per il futuro, le proiezioni IPCC per il Sea level rise (SLR) entro la fine del secolo, ottenute tramite modelli matematici, forniscono stime che variano a seconda dello scenario economico associato (e quindi della quantità di anidride carbonica che verrà emessa), proponendo una forbice compresa tra 0,3 e 1 m rispetto all’inizio del secolo.
Torniamo alla nostra domanda iniziale: perché preoccuparci oggi dell’innalzamento del livello del mare? Due sono i motivi principali. Il primo fa riferimento alla crescente portata degli impatti: la popolazione mondiale è giunta a quasi 7 miliardi di persone colonizzando la totalità delle terre emerse (10.000 anni fa la popolazione mondiale era di qualche milione di unità), tre quarti delle megalopoli si affacciano sulla costa e circa il 50% della popolazione mondiale vive entro i primi 60 km da essa. È chiaro quindi che modifiche rispetto alla ‘regolarità’ dei nostri oceani (innalzamento del livello del mare, aumento dell’acidificazione delle acque, cambiamento del regime dei venti, modifica nelle frequenze di cicloni o mareggiate, ecc.) vadano ora a impattare un numero elevatissimo di esseri umani, con conseguenze ancora non del tutto immaginabili non solo su versanti economici e produttivi, ma anche di stabilità sociale e di relazioni internazionali (si pensi alla gestione dei flussi migratori associati). Il secondo ha a che fare con una questione morale, e pertiene al nuovo ruolo che è venuto a instaurarsi tra uomo e natura. Mentre fino a qualche decennio fa l’uomo era impegnato a difendersi dai fenomeni naturali per cercare di garantire la propria sopravvivenza, oggi si confronta con una capacità diretta di modificare percorsi globali della biosfera, e scopre di non essere attrezzato – in primis culturalmente – per questa sfida.
La tendenza evolutiva dei nostri oceani è quindi molto preoccupante. Certo, bisognerebbe non limitarci a dei dati medi, a proiezioni o stime, ma discutere anche del loro errore e della variabilità. A titolo di esempio, non occorre scomodare il famoso caso del pollo di Trilussa per capire che il concetto di media deve essere usato con molta cautela (rimanendo al caso del SLR, una media globale non ci dice molto di come siano distribuite spazialmente eventuali aree di innalzamento del mare, e nemmeno della loro distribuzione stagionale) e integrato da altre informazioni locali.
Nella realtà, quindi, le cose sono ancora più complesse, perché le stime a livello globale possono esplicitarsi in modo molto diverso in ambito ‘regionale’, dove gli effetti finali variano anche in funzione del clima meteo-marino del paraggio (per esempio le correnti marine, la pressione atmosferica, il regime dei venti), e sommarsi o annullarsi con fattori isostatici e tettonici locali (si pensi alla rilevanza dei processi di subsidenza in alcune zone costiere adriatiche, che le rendono ancor più vulnerabili all’eustatismo).
Per capire meglio il complesso legame esistente tra innalzamento del mare, altre modifiche al clima globale – come il regime di onde e venti – e gli effetti della tettonica locale dobbiamo investire in attività di ricerca scientifica e condividerne in modo globale i risultati. Una maggiore conoscenza è infatti l’unico percorso che ci consentirà di realizzare piani di gestione in grado di guidarci verso politiche di adattamento e di minimizzazione degli impatti economici e politici che già caratterizzano la nostra generazione.
Per saperne di più
- Hybris. I limiti dell’uomo tra acque, cieli e terre, a cura di A. Camerotto e S. Carniel, Milano-Udine, 2014.
Le cause dell’innalzamento dei mari
- 1. Dilatazione termica delle acque dovuta al riscaldamento climatico. A seguito dell’aumento dell’energia di movimento accumulata dalle molecole di acqua, aumenta la distanza tra esse e nel complesso il volume dell’oceano si accresce con lo stesso meccanismo che vediamo all’opera in un comune termometro a dilatazione.
- 2. Scioglimento dei ghiacciai e delle calotte glaciali. In particolare in Antartide e in Groenlandia lo scioglimento dei ghiacci si sta manifestando a una velocità
preoccupante.
- 3. Subsidenza ovvero abbassamento di porzioni più o meno ampie di terreno, da attribuirsi al compattamento naturale di strati compressibili sotto l’azione di carichi o dovuta all’attività dell’uomo rivolta all’estrazione di sostanze dal sottosuolo. L’abbassamento delle superfici emerse può avvenire, ovviamente su scale di tempo ben maggiori, a causa dei movimenti tettonici della crosta terrestre.
Quando a lanciare l’allarme è la Banca mondiale di Alessandro Albanese
Alcuni anni fa, uno studio pubblicato sulla rivista Nature climate change, effettuato per conto della Banca mondiale e dell’OCSE, ebbe sui mezzi di informazione una notevole risonanza. Vennero infatti prese in considerazione 136 città costiere a rischio, quelle che in seguito all’innalzamento del livello dei mari provocato dai cambiamenti climatici avrebbero probabilmente subito i maggiori danni. Le conclusioni a cui arrivò lo studio furono che, per assicurare un’efficace protezione a queste città, si sarebbero dovuti investire 50 miliardi di dollari l’anno. Ove non si fossero presi provvedimenti, le città costiere prese in considerazione avrebbero potuto subire danni da un minimo di 6 miliardi di dollari l’anno, valore riferito a questa decade, fino ai 1000 miliardi di dollari annui previsti nel 2070, quando l’innalzamento potrebbe assumere dimensioni assai più preoccupanti. Tra le città più esposte al rischio associato all’innalzamento dei mari figurano Guangzhou, Miami, New York, New Orleans e Mumbai: nell’elenco figura, ma con rischi più contenuti, la nostra stessa Napoli.
Quest’anno la Banca mondiale ha accentuato la sua opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui rischi ambientali. A maggio 2016 ha pubblicato un rapporto interamente dedicato a questi temi, nel quale vengono presi in considerazione i cambiamenti estremamente repentini dei rischi di catastrofe globale. I danni totali annui causati dalle catastrofi sono aumentati nel corso dei decenni e i modelli matematici dimostrano che entro il 2050 la crescita della popolazione e la rapida urbanizzazione potrebbero mettere a rischio 1,3 miliardi di persone e risorse per un valore pari a 158.000 miliardi di dollari a seguito dello straripamento dei fiumi e di alluvioni costiere.
Per la Banca mondiale il punto cardine di un’efficace gestione del rischio di catastrofi è costituto dall’avere informazioni affidabili e accessibili. In questo senso, il Fondo mondiale per la riduzione e la risposta alle catastrofi (Global facility for disaster reduction and recovery, GFDRR) insieme alla Banca mondiale stessa hanno lanciato sul web il portale ThinkHazard!, una piattaforma open source che fornisce informazioni sui pericoli e consigli su come ridurre i rischi in relazione a eventi catastrofici, tra cui terremoti, inondazioni, tsunami e cicloni in 196 paesi.
Sempre quest’anno, la Banca mondiale ha approvato il Piano d’azione sul cambiamento climatico. Destinerà infatti il 28% dei propri investimenti a progetti per contrastare il riscaldamento globale con una previsione di spesa che per il 2020 arriverà a circa 29 miliardi all’anno, ovvero un terzo dei 100 miliardi annui promessi dai paesi ricchi a quelli poveri all’interno degli accordi internazionali sul clima sottoscritti a Parigi nel dicembre del 2015.