ebraico
Lingua del gruppo semitico. Nella Bibbia è chiamata " lingua di Canaan " (Is. 19, 18) oppure " lingua giudaica " (Il Reg. 18, 26), ma già nel Nuovo Testamento (Ioann. 19, 17 e 20; Act. Ap. 21, 40; Apoc. 9, 11; 16, 16,) appare ordinaria la denominazione " lingua ebraica " (o " ebraico ").
La prima denominazione si riferisce alla regione (Canaan = Palestina) in cui era usata, la seconda e la terza al popolo (Giudei o Ebrei) che la parlava. Oltre alla comunanza di numerose radici, molteplici caratteristiche distinguono le lingue semitiche da quelle di altri gruppi. Esse si classificano secondo l'area geografica in orientali (accadico o - con termini più accessibili - assiro-babilonese), occidentali (ugaritico, aramaico, cananeo-ebraico, fenicio) e meridionali (arabo, etiopico) con non poche suddivisioni per mettere in rilievo i singoli dialetti. Tali lingue, di cui si conoscevano specialmente l'ebraico e l'arabo, sino ad alcuni decenni fa s'indicavano con il termine generico " orientali "; ora si preferisce l'aggettivo " semitiche " dal nome del patriarca biblico Sem (Gen. 10, 21; 11, 10 ss.).
Oltre a riportare talune parole ebraiche, ben note ai cristiani perché passate attraverso la Bibbia nella liturgia, D. parla dell'e. in VE I VI; cfr. oltre: Teoria della Lingua ebraica. Quanto afferma D. sull'e. si può leggere ancora in scrittori posteriori di parecchi secoli. Non è facile determinare la fonte diretta da cui dipende il poeta; qui basta osservare che simili idee compaiono già in antichi scrittori rabbinici e in non pochi padri della Chiesa. In un'opera certamente nota a D., ossia nel De Civitate Dei (XVI 11) di s. Agostino, si possono leggere le stesse affermazioni. Tale teoria contrasta, in molti punti, con quanto si legge in Pd XXVI 124-132, ove - con un argomento più consono alla mentalità moderna - si afferma che la lingua usata da Adamo si spense prima della torre di Babele (La lingua ch'io parlai fu tutta spenta, ecc.) e che il tramonto e il sorgere di una lingua si devono non a interventi diretti di Dio, ma alla tendenza naturale dell'uomo che predilige cambiare quanto è frutto dell'intelligenza: ché nullo effetto mai rgionabile, / per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile. / Opera naturale è ch'uom favella; / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi secondo che v'abbella.
Partendo da un giudizio letterario sull'inadeguatezza di una traduzione, D. presupponeva una straordinaria bellezza poetica nell'originale ebraico, almeno per i Salmi: nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia... E questa è la cagione per che li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d'armonia; ché essi furono transmutati d'ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima transmutazione tutta quella dolcezza venne meno (Cv I VII 14-15).
Naturalmente D. non conosceva l'e.; non valgono a provare il contrario alcune parole ebraiche (alleluia, amen, osanna, sabaoth, Satàn, El, Elì) che si leggono nella Commedia. Non è e. il verso iniziale del VII dell'Inferno; tutt'al più si può scorgere il nome della prima lettera dell'alfabeto e. (" alef ") nell'enigmatico aleppe. Ed è vano ogni tentativo d'interpretare come e. la lingua, dichiarata inesistente dallo stesso poeta, di If XXXI 67, nonostante una certa apparenza semitica dei singoli vocaboli. Ma su tutta la questione v. la voce EBRAISMI.
Di solito, e giustamente, è giudicato positivamente il miscuglio di latino e di e. (le due lingue sacre, quella della religione e quella dell'Impero) all'inizio del c. VII del Paradiso: Osanna, sanctus Deus sabaòth, / superillustrans claritate tua / felices ignes horum malacòth. Sono le ultime parole poste sulla bocca di Giustiniano. Il primo verso è composto con parole desunte dalla liturgia; gli altri due hanno uno sfondo biblico (per claritate tua cfr. Ioann. 17, 22), ma sono opera di Dante. Dal punto di vista linguistico è interessante l'ultimo verso: malacòth è un autentico plurale ebraico, ma è di genere femminile, quindi bisognerebbe leggere - ammesso che D. conoscesse il genere del vocabolo - harum invece di horum. Quanto al significato, il contesto esige quello di " regni ". La radice ebraica indica senza dubbio l'idea di ‛ regnare ', ‛ regno '. La forma esatta, però, sarebbe mamlakòth oppure malkujjòth, " regni "; il termine che compare nelle edizioni (malachòth) è molto simile a quello (melakôth) che vuol dire " regine ". Il vocabolo non compare mai nella versione latina della Bibbia; probabilmente D. lo prese dal prologus galeatus di s. Gerolamo, ossia dalla prefazione al libro di Samuele; essa era notissima, perché si usava trascriverla nei manoscritti biblici. Ivi il santo, che conosceva l 'e., spiega - fra l'altro - che i libri dei Re (III e IV Regum della Volgata) sono intitolati in ebraico Malachîm (" Re ") e che alcuni, con minore proprietà, li chiamano Malachoth, id est Regnorum (cfr. Bibbia Sacra, edizione critica dei Padri Benedettini, V, Roma 1949, 6).
Teoria della lingua ebraica. - Stabilito (VE I IV-V) che il primo parlante fu Adamo e che in lui Dio ‛ concreò ' certam formam locutionis (Ve I VI 4), D. passa a indicare il rapporto tra questa lingua adamitica e i successivi usi linguistici dell'umanità. Senza la culpa praesumptionis humanae, cioè l'edificazione della torre di Babele, tutta l'umanità continuerebbe a servirsi della lingua di Adamo: in essa si sono espressi tutti i posteri eius fino all'episodio babelico, dopo il quale la ereditarono i filii Heber, qui ab eo dicti sunt Hebraei; a essi soli rimase (remansit) l'idioma adamitico, affinché il Redentore qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratiae frueretur. Donde la conclusione: Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt.
Così in VE I VI 4-7. Nel capitolo successivo, dopo aver descritto l'edificazione della torre di Babele e la relativa punizione divina, con l'immediata confusione delle lingue, D. precisa (§ 8) che una minima pars, quanto al numero, dei presenti alla peccaminosa impresa non aveva partecipato a essa ma l'aveva esecrata: questi pochi, a cui pertanto sacratum idioma remansit, erano della stirpe di Sem, come si può congetturare (sicut conicio), dalla quale ha avuto origine il popolo ebraico (populus Israel), che ha usato l'antica lingua originaria fino alla sua dispersione. E in questo passo, come in tutto l'episodio della costruzione della torre, è notevole l'animazione e drammatizzazione del dato culturale (nec aderant, nec exercitium commendabant; sed graviter detestantes, stoliditatem operantium deridebant): " l'innocenza degli Ebrei, di fronte a quelli che parteciparono alla costruzione della torre " Si trasforma " nella fantasia di D. in un vero e proprio episodio, come in un bassorilievo: gli Ebrei guardano, scandalizzati, l'opera empia, senza prendervi parte " (Terracini).
Non pare che la ricostruzione dantesca si discosti dalle linee comuni dell'esegesi medievale del testo sacro, e conseguenti concezioni di storia del linguaggio (cui presta spunti lo stesso conciso dettato del Genesi), nonostante il parere contrario del Marigo che in particolare ritiene " affermazione fondata sopra una esegesi biblica, che pare tutta personale " quella per cui fino alla costruzione della torre tutti i discendenti di Adamo avevano continuato a parlare la sua lingua. Che il linguaggio di tutti gli uomini prima della confusio fosse uno era, sulla scorta del Genesi (11, 1 " erat autem terra labii unius, et sermonum eorundem "; cfr. § 6), nozione comune: basti ricordare s. Agostino CIV. XVI 11; Isidoro IX I 1; Glossa ordinaria in Gen. II 19; Pietro Comestore Hist. schol., Gen. 16; Vincenzo di Beauvais II 62; Brunetto Latini Tresor III I 3. Che esso coincidesse con l'idioma adamitico era per lo meno sottinteso, ma a volte detto chiaramente (p. es., oltre che dal Comestore, da Rabano Mauro Comm. in Gen.. I 14; De Univ. XVI 1); lo stesso s. Agostino, che pur altrove oscilla o si mostra incerto, afferma (Gen. ad litt. IX 12): " Unam sane linguam primitus fuisse didicimus antequam superbia turris... in diversos signorum sonos humanam divideret societatem. Quaecumque autem illa lingua fuerit quid attinet quaerere? Illa certe tunc loquebatur Adam ". Così era ordinaria la concezione secondo la quale, differenziate le lingue di tutti gli altri gruppi umani per la punizione divina, l'originario sermo unitario restò appannaggio della famiglia di Heber, da cui il nome di Ebrei (cfr. per tutti Uguccione da Pisa: " ex ipso [Heber] orti sunt Hebraei et dicti sunt Hebraei "), processo generalmente espresso con lo stesso verbo remansit che torna due volte in Dante. Basti citare, tra le varie auctoritates concordanti, ancora Agost. CIV. XVI 11 " Quia ergo in eius [di Heber] familia remansit haec lingua, divisis per alias linguas ceteris gentibus, quae lingua prius humano generi non inmerito creditur fuisse communis, ideo deinceps Hebraea est nuncupata ecc. "; in maniera simile si esprime la diffusa enciclopedia di Vincenzo di Beauvais (loc. cit.), e lo stesso Tresor di Brunetto identifica perentoriamente lingua comune pre-babelica ed ebraico (loc. cit.).
Quanto finalmente al nesso tra la lingua originaria e quella che parlerà Cristo, cfr. Rabano Mauro Comm. in Gen. II 11 " Si quis quaerat in qua familia permansit lingua quae primitus Adam data fuit, sciat credibile esse quod in familia Heber, ex quo Hebraei dicti sunt, in ea parte hominum qua Dei portio permansit, in qua et Christus nasciturus erat " (e v. pure Agost. CIV. XI 11 cit.); ma la spiegazione teologico-finalistica di D. poggia su una deduzione diversa da quella di Rabano, che asserisce: " Oportuit enim ut in ea lingua salus mundo praedicaretur primo, per quam primum intraverat mors in mundo " (e per la nozione di lingua adamitica come lingua di grazia, v. in particolare VE I V 2).
Si può dunque dire che D. stringa in una sua sintesi sillogistica nozioni che, magari in forma più dispersa e cauta, appartenevano a una comune tradizione teologica. Si tenga poi presente che l'identificazione lingua di Adamo-ebraico era già implicitamente operante nel precedente cap. IV 4, dov'era asserito che la prima parola rivolta da Adamo al creatore in atto di riconoscenza era stata El, appunto il primo e più tipico dei nomi ebraici di Dio secondo una radicata tradizione. E abbastanza curioso che D. esprima sotto forma di congettura personale la tesi che il gruppo di Ebrei sottratti alla punizione babelica ed eredi del sacratum ydioma appartenesse alla stirpe di Sem (de semine Sem), anche se non è detto che l'uso della prima persona singolare anziché plurale, raro nell'opera, enfatizzi come vuole il Marigo il carattere personale dell'asserto. Infatti il Genesi stesso precisa il fatto in due diversi passi (10, 21 ss; 11, 10 ss.), e di qui la nozione della discendenza di Heber dal terzo figlio di Noè, e proprio in rapporto al problema della formazione del popolo ebraico e della conservazione della lingua originaria, passa alla tradizione patristica e medievale, ivi compresi testi comunemente consultati da D., come il solito s. Agostino (CIV. XVI 11; e cfr. Uguccione da Pisa: " Heber fuit pronepos Sem "). Dato ciò, sembra superflua l'ipotesi del Marigo, piuttosto complicata: " Che essa [minima pars] fosse originata de semine Sem Dante lo deduce da questo, che la genealogia di Sem fino ad Abramo, cioè quella del popolo eletto, si trova subito dopo le parole (Gen., XI, 9): 'dispersit eos Dominus super faciem cunctarum gentium ', che paiono appunto riferirsi a tutti i popoli, colla sola eccezione di quei discendenti di Sem " (nota a I VII 8).
Infine l'accenno al fatto che la dispersione del popolo ebraico, dopo la distruzione di Gerusalemme voluta dalla vindice giustizia divina (cfr. Pg XXI 82-84, Pd VI 92-93 e VII 19-51), abbia messo fine all'uso compatto dell'antiquissima locutio da parte degli Ebrei, appare deduzione ovvia, e metodicamente del tutto congrua con la dialettica colpa-punizione-dispersione in cui s'inquadra il precedente episodio della confusione babelica. Ciò non esclude, osserva il Marigo, che D. sapesse che l'ebraico era " risorto nel medio evo come sporadica lingua culturale, fondata sui testi religiosi "; pertanto, contrariamente all'avviso dello stesso Marigo, nulla impedisce che gli Ebrei siano compresi, come hanno suggerito altri studiosi e consentono taluni testi medievali, nella categoria dei popoli che, oltre ai Romani e ai Greci, possiedono una lingua secundaria e artificiale, una gramatica, di cui si accenna in VE I I 3 (e V. Gramatica).
L'inalterabilità del primitivo linguaggio adamitico, per cui esso si continua in tutta l'umanità fino alla crisi babelica e nel popolo eletto usque ad suam dispersionem, consegue alla concezione di esso come dono divino al primo uomo, e pertanto perfetto e sottratto al logoramento e alla mutevolezza che ineriscono a ogni linguaggio quando sia prodotto del beneplacitum umano. Tale tesi dell'identità tra idioma adamitico ed ebraico sarà ritrattata più tardi da D., in seguito a un approfondimento della sua concezione del linguaggio, in Pd XXVI, dove sarà detto chiaramente che l'ebraico (sempre rappresentato dalla parola-simbolo El) costituisce uno stadio linguistico diverso e successivo rispetto alla primitiva lingua di Adamo che, in quanto concepita anch'essa, ora, come prodotto umano, è pure soggetta ad alterazione costituzionale. Ma v. Meglio Adamo: Lingua.
Bibl. - F. D'Ovidio, D. e la filosofia del linguaggio (1892), rist. in Studi sulla D. C., II, Napoli 1931, 296 ss.; ID, Se l'ipotesi dell'originaria disparità dei linguaggi umani sia contraria alla dogmatica cristiana, in L'ultimo volume dantesco, Roma 1926, 356 ss.; P. Rotta, La filosofia del linguaggio nella Patristica e nella Scolastica, Torino 1909, passim; B. Nardi, Il linguaggio (1921), rist. in D. e la cultura medievale, Bari 19492, 241 ss.; Marigo, De vulg. Eloq., LX, 8, 34-38, 43-44; B. Terracini, Natura ed origine del linguaggio umano nel De vulg. Eloq., in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 240 ss.; A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen und Vielfalt der Sprachen und Völker, Stoccarda 1957-1963, passim.