EBRAISMO
(v. ebrei, XIII, p. 327; App. II, I, p. 811; ebraismo, IV, I, p. 616)
Cause diverse (quali per es. la diaspora del popolo ebraico) hanno praticamente congelato il processo evolutivo dell'esegesi giuridica tradizionale ebraica (Hālakhāh) che avrebbe consentito nuove forme di applicazione della Legge ebraica (Torāh) evitandone la fossilizzazione. Il perdurare di condizioni anomale ha dato luogo al formarsi, fin dal 19° secolo, di correnti religiose che caratterizzano l'identità di individui e comunità ebraiche: l'e. riformato, quello conservativo e quello ortodosso. Oggi è soprattutto negli Stati Uniti che agiscono, in comunità organizzate, queste tre forze dell'e. diasporico.
La corrente riformata ha dato particolare rilievo allo ''spirito del tempo'' per quanto concerne le modalità di applicazione della tradizione religiosa. Di fatto però ha negato l'autorità assoluta della Torāh scritta e del Talmûd, dando luogo ad ampie divergenze sul significato obiettivo dell'e. e delle sue norme da applicare alla vita. L'e. conservativo si pone tra l'ortodossia e la riforma. Esso, pur dichiarando di accettare la struttura della tradizione talmudica, pone in primo piano l'esigenza di dare spazio a certe convinzioni moderne, anche se ciò comporta la violazione di principi (mizvōth) essenziali nella disciplina religiosa talmudica. L'e. ortodosso, pur richiamandosi a una rigida applicazione in evoluzione delle norme tradizionali (Hālakhāh), in maniera corrispondente alle esigenze delle diverse generazioni ebraiche, dimostra di avere ancora, in nome della religione, una posizione di rigida conservazione che blocca l'interpretazione della Hālakhāh su temi di vitale importanza.
La questione si presenta con maggiore asprezza nello stato d'Israele, dove i problemi esistenziali dell'e. si prospettano in tutta la concretezza che conferisce loro la vita di una società nazionale a forte maggioranza ebraica. Tenuto presente che in Israele l'e. non è considerato ''religione di stato'', non si può non sottolineare che talune espressioni della vita civile, quali l'istituto del matrimonio, del divorzio e le trascrizioni anagrafiche, vengono tuttavia sostanzialmente amministrate dalle rispettive autorità religiose, sia per i cittadini ebrei che per i non ebrei. Così pure, mentre viene assicurata ampia libertà alle minoranze etniche e religiose, le strutture pubbliche si attengono alle norme ebraiche per quanto concerne il riposo settimanale (il sabato), le feste, il rispetto delle regole alimentari e altre normative tradizionali.
Il posto che tuttavia occupa la religione ebraica nella coscienza dell'opinione pubblica israeliana può essere valutato tra il 40% e il 60% di una ''maggioranza silenziosa'', che si considera legata alla propria tradizione religiosa, vuole proseguirla e tramandarla ai propri figli. Ciò nondimeno, il numero degli allievi che frequentano le scuole statali a indirizzo religioso non supera il 30% della popolazione scolastica. L'unica corrente religiosa ebraica che gode di riconoscimento ufficiale nelle funzioni pubbliche statali israeliane è l'e. ortodosso. Quest'ultimo, inoltre, si esprime in campo politico mediante i partiti religiosi. Pertanto la relazione esistente fra e. e stato democratico rimane ancora oggi un problema, la cui soluzione è affidata a un continuo compromesso determinato dalla dialettica politica e dai conflitti partitici.
Diversi sono gli attuali problemi nei rapporti tra opinione pubblica ed e. ortodosso. Basti citare l'annosa e spinosa questione di ''chi è ebreo''. I tribunali ortodossi, infatti, rifiutano di confermare come ebrei coloro che presentano la certificazione di ebraicità rilasciata da Comunità riformate e conservative. Va ricordato, tra l'altro, che un ebreo che non possa dimostrare la propria identità non può godere del diritto immediato di cittadinanza israeliana che gli deriverebbe in forza della cosiddetta ''Legge del ritorno'', secondo la quale ogni ebreo che voglia trasferirsi in Israele può invocare l'immediata concessione della cittadinanza del paese.
Alla base di questi contrasti in Israele tra le forze religiose e quelle laiciste, v'è una preoccupazione non ignorata dall'una e dall'altra parte, cioè il futuro e l'unità del popolo ebraico. Ci si domanda infatti se lo stato d'Israele, risorto per assicurare la sopravvivenza e la continuità del popolo ebraico, già seriamente minacciata dall'olocausto nazista, riuscirà ad assolvere il suo impegno innanzitutto sul piano della legittimità spirituale e culturale. Lo stato d'Israele rappresenterà una forza laicista che aggraverà la pericolante situazione degli ebrei della diaspora minacciati dall'assimilazione, o costituirà una carica spirituale e culturale per una rinnovata e originale creatività ebraica? La questione, naturalmente, è soprattutto di carattere interno e riguarda la popolazione ebraica dello stato, né si configura come un problema che possa avere una soluzione di carattere meramente confessionale postulando la creazione di uno stato teocratico.
Al di là delle conflittualità accennate, va rilevato che l'esistenza di un'entità statale ebraica in terra d'Israele permette oggi l'attuazione di norme tradizionali che le contingenze storiche avevano rese impraticabili da decine di secoli. Nel 1986, per es., ricorrendo l'anno sabatico, numerosi centri abitati e molti privati cittadini hanno potuto osservare le disposizioni di questo remoto e interessante istituto biblico che prescrive il ''riposo della terra'' (v. Es. 23, 10-11; Lev. 25, 1-18; Deut. 15, 1-11).
Bibl.: J. Cohen, Ba 'ioth Dat umdinàh betashlabt, in Shanà beshanàh, Gerusalemme 5733 (1973); Y. Leibowitz, Ebraismo, popolo ebraico e Stato d'Israele, Roma 1980; I. Landres, ha-Reformin be-Israel, in Hadoar, vol. 66, n. 19, New York 1987; Authority, power and leadership in the Jewish polity, a cura di D.J. Elazar, Lanham 1991; The quest for utopia: Jewish political ideas and institutions through the ages, a cura di Z. Gitelman, Armonk (New York) 1992.