ECCLESIA (gr. εκκλησία)
Adunanza popolare la cui più antica origine si ritrova nelle ἀγοραί dell'età omerica. In età storica il nome di ἀγορά passò alle adunanze delle tribù (ϕυλαί) e dei demi, mentre ecclesia significò l'assemblea generale. Ad Atene essa rappresentava il potere sovrano dello stato. Vi potevano prender parte tutti i cittadini che fossero nel pieno possesso dei loro diritti. Il diritto di prender parte all'assemblea è, infatti, uno dei tre diritti fondamentali di cui gode il cittadino (ἄρχειν, δικάζειν, ἐκκϕησιάξειν; v. città), che si consegue con l'acquisto del pieno stato di cittadinanza e si perde quando si è colpiti da diminuzione di capacità giuridica (ἀτινία).
Il diritto di prender parte all'assemblea porta con sé il diritto di parlare in pubblico. Sì ha, però, notizia di una forma di ἀτιηία parziale (Andoc., De myst., 75) che toglieva il diritto di parlare all'assemblea, ma non d'intervenirvi. Secondo una recente teoria (U. E. Paoli, Studi di dir. attico, Firenze 1931, p. 352 segg.) in una condizione simile venivano a trovarsi, di fatto se non di diritto, molti tra i cittadini αϕτιηοι; quelli in particolare a carico dei quali l'ἀτιηοι sorgeva direttamente dalla legge: "È facile scorgere come l'atimia, che in diritto ha così vasta portata, nella pratica si ristringa a un divieto di adire i tribunali e di parlare in pubblico. Mentre, infatti, l'atimia, con la decadenza dei diritti pubblici, toglieva anche il diritto di essere ἐκκλησιαστής, sembra che in pratica privasse il colpito piuttosto della possibilità di parlare in pubblico e di far proposte di decreti che non di intervenire all'assemblea e di votare.
Quantunque su coloro che prendevano parte alle adunanze venisse esercitata una strettissima sorveglianza perché fossero tutti in possesso dei requisiti richiesti, pure in alcuni periodi vi penetrarono moltissimi intrusi: p. es. secondo Filocoro, in una revisione di registri fatta durante il primo anno della 89ª olimpiade, si venne a trovare che ben 4760 cittadini erano iscritti abusivamente nel registro degli aventi diritto a intervenire all'assemblea (πίναξ ἐκκλησιαστικός); furono necessarî così, a diverse riprese, dei provvedimenti. Nonostante la quantità di persone che senza averne diritto riuscivano a farsi iscrivere nel πίναξ ἐκκλησιαστικός, pure solo eccezionalmente si aveva all'assemblea una grande quantità di partecipanti. Le sedute ordinarie non erano, in generale, troppo affollate, astenendosene i ricchi, secondo quanto afferma Aristotele, per non mescolarsi alla folla, i poveri perché la necessità di guadagnarsi da vivere impediva loro di spendere tanto tempo nel disbrigo degli affari cittadini. Fu così istituito il μισϑὸς ἐκκλϕησιαστικὸς, la cui Somma variò, secondo le fonti, da 1 a 2 e a 3 oboli.
L'istituzione della paga giornaliera ai partecipanti portò con sé, come naturale conseguenza, una più rigorosa sorveglianza per impedire Che godessero di questo beneficio coloro che non ne avevano il diritto. Il controllo veniva esercitato da sei ληξίαρχοι che avevano ai loro ordini 30 aiuti, tre per ogni tribù. Essi avevano anche l'ufficio di distribuire i σύμβολα perché i partecipanti potessero dare il loro voto quando questo doveva essere segreto. Generalmente però il voto veniva dato per alzata e seduta o per alzata di mano. Si crede che l'assemblea non abbia sempre tenuto lo stesso numero di sedute. Infatti, da quanto ci riferisce Aristotele, la costituzione di Solone attribuiva all'ecclesia ben poche mansioni ma in breve volger di tempo le attribuzioni dell'assemblea si ampliarono al punto di fare di essa l'organo dirigente dello stato.
Con ogni probabilità il numero delle sedute dell'ecclesia si mantenne molto basso sino al 510 (riforma di Clistene). Solo allora l'ecclesia divenne la vera sede della sovranità. A lei spettarono le decisioni a danno o a favore dei singoli individui (le cosiddette leggi ἐπ‛ ὰνδεί): esercitò, sebbene parzialmente, un potere legislativo ed ebbe attribuzioni giudiziarie (solo in casi straordinarî); le spettava, poi, con la cooperazione del Consiglio, la suprema decisione in tutti gli affari di stato. Guerre e paci, alleanze e trattati non si dichiaravano né si concludevano senza una deliberazione dell'assemblea. Da lei emanavano i pieni poteri dati agli ambasciatori; essa ne riceveva le relazioni e ne ratificava l'operato, come riceveva gli ambasciatori dei popoli stranieri. L'uso del denaro pubblico, i mutamenti nei tributi e nei dazî, le corone di premio e i privilegi (come il diritto di esser nutriti nel Pritaneo e simili benefici) erano tutte cose da deliberarsi nelle assemblee del popolo. Non potevano quindi più queste adunanze succedersi a distanza di tempo tanto grande come dapprima. Furono perciò stabilite delle adunanze regolari da tenersi ogni pritania: queste furono prima una, poi due, poi tre e finalmente quattro. La più importante fra tutte veniva detta κυρία ἐκκλησία, ed era quella in cui si trattavano le questioni più interessanti e più gravi per lo stato: p. es. paci e guerre. Le altre si chiamavano νόμιμοι ἐκκλησίαι, perché stabilite dalla legge. La confusione che troviamo nelle fonti nell'uso di queste parole sembra dovuta al fatto che, con l'andar del tempo, si resero più necessarie e numerose le sedute straordinarie (σύγκλητοι ἐκκλησία generalmente convocate dietro richiesta degli strateghi), che si potevano tenere obni pritania, e le prime, come più importanti, vennero normalmente chiamate κυρίαι ἐκκλησὶαι, mentre vennero dette νόμιμοι le altre, interpretando νόμιμοι come "permesse dalla legge".
Tranne la prima assemblea dell'anno, che si teneva regolarmente nel giorno della prima pritania, cioè l'11 del mese di Ecatombeone, e la ἐκκλησία ἐν Δυινύσου, che si teneva il giorno dopo la festa delle Pandie, cioè il 21 di Elafebolione, le altre assemblee erano tenute sì, ogni pritania, ma non in giorni fissi, perché per nessun motivo il popolo ateniese, così rispettoso delle norme sacrali, si sarebbe occupato di affari nei giorni dedicati agli dei.
Prima di adunare un'ecclesia i buleuti dovevano prepararne il programma che, per le assemblee ordinarie, era generalmente fisso. Così, p. es., nell'ἐκκλησία di ogni pritania si procedeva alla conferma (ἐπιχειροτονία) dei magistrati in carica: si teneva consiglio sui viveri, sulla sicurezza del paese, sulle proposte di εἰσαγγελία, si dava lettura dei beni confiscati e dell'apertura delle successioni a favore di incapaci; e si accoglievano le accuse (ποροβολεί) contro i sicoganti; inoltre, nella prima pritania si procedeva alla conferma, sembra (Demosth., C. Timocr., 20 segg.), delle leggi vigenti; nella sesta pritania, si decideva in via preliminaie se si dovesse o no applicare l'ostracismo. Le adunanze si tenevano in origine nell'agorà. Poi, tranne i casi in cui occorresse, per la validità del voto, la presenza di 6000 votanti, il popolo era convocato nella Pnice; più tardi nel teatro di Dioniso, p. es. l'adunanza solenne che seguiva le grandi Dionisie vi si teneva costantemente. Nella seconda metà del sec. IV si cominciò a tenere alcune di queste adunanze al Pireo, specialmente quando si trattavano questioni di armamenti marittimi.
Fossero queste assemblee ordinarie oppure straordinarie, la procedura era sempre la stessa: la mattina prestissimo veniva innalzato il σημεῖν che chiamava il popolo all'assemblea, e la seduta, con ogni probabilità, veniva dichiarata aperta abbassando questa bandiera. Il presidente, prima d'iniziare la seduta, procedeva al sacrificio, in generale di un porco, per vedere se gli dei fossero propizî all'adunanza. In caso contrario l'assemblea veniva senz'altro rimandata; in caso favoremle col sangue della vittima si cospargeva il terreno intorno al luogo in cui si doveva tenere l'adunanza e si dava inizio alla seduta. Il segretario leggeva la preghiera che veniva ripetuta dall'araldo. Uno dei pritani si alzava allora a dichiarare che gli dei, per mezzo di auspici, avevano dato favorevole il loro parere a che si tenesse l'assemblea e subito dopo incaricava l'araldo di leggere il progetto di decreto (προβούλευμα) preparato dai Consiglio. Il popolo, per prima cosa, procedeva a una votazione preliminare, per stabilire se fosse o no il caso di uniformarvisi. Se il voto era favorevole si redigeva senz'altro il decreto (ψήϕισμα, tale era il nome che si dava alle deliberazioni dell'assemblea, che s'imponevano obbligatoriamente a tutti i cittadini): nel caso contrario cominciavano le discussioni. L'araldo invitava a parlare, in origine, volgendosi ai più anziani, a coloro che avessero superato i cinquant'anni di età, i quali avevano così nelle discussioni diritto di precedenza. Più tardi quest'ordine non fu più rispettato, ma la libertà di parola fu sempre completa. Il diritto di presiedere le adunanze dell'ecclesia lo aveva dapprima l'ἐπιστάτης dei pritani. Più tardi, cioè dal 378 in poi, l'assemblea fu presieduta dai proedri, che erano i rappresentanti delle nove tribù che avevano la pritania ed erano scelti per sorteggio dell'ἐπιστάτης dei pritani. Fra questi veniva scelto, di nuovo per sorteggio, un ἐπιστότης τῶν προέδων, che era il presidente dell'ecclesia. Questi riceveva dall'epistate dei pritani l'ordine del giorno dell'adunanza e insieme coi proedri aveva il dovere di vegliare che tutto andasse regolarmente. Non si poteva essere epistate dei proedri che una volta per anno e non si poteva essere proedro che una volta per pritania. L'epistates aveva poi il diritto di togliere la parola all'oratore che non ne fosse degno o che parlasse di cose non rientranti nell'ordine del giorno, come poteva punire ogni disturbatore con una multa da 50 a 500 dramme. Essi stessi erano passibili di multa nel caso che non agissero secondo il loro dovere. Per es. i pritani che non convocavano l'assemblea κατὰ τὰ γεγραμμένα dovevano pagare una multa fino a 1000 dramme.
L'assemblea popolare fa parte dell'organismo statale, ora con maggiori ora con minori attribuzioni e diritti, anche fuori di Atene. A Sparta si chiamava apella, e si componeva di tutti i cittadini nella pienezza dei diritti civili aventi raggiunto il ventesimo anno. Si adunava d'ordinario una volta al mese, su convocazione dapprima dei re, dopo il sec. VI degli efori; ma, a differenza dalla democratica ecclesia ateniese, si limitava ad approvare o respingere le decisioni e le leggi propostele, ad eleggere i geronti e altri funzionarî, a decidere su questioni di successione, di pace e di guerra. Il diritto capitale di discussione e proposta di leggi le era negato, come anche, contro l'uso delle costituzioni democratiche, e persino di alcune oligarchiche, esulava dalla sua competenza ogni attività giudiziaria. Una "piccola ecclesia" spartana, di cui è cenno in Senofonte, doveva consistere in consigli di anziani raccolti dagli efori in casi speciali per deliberare; la mancanza di ogni altro accenno ci lascia all'oscuro su questo più ristretto organo del reggimento oligarchico.
Uguale limitazione di poteri dell'apella spartana ha l'assemblea popolare cretese, l'Agorà che accetta o respinge i provvedimenti propostile dai Cosmi; ma col sec. III, scossa la costituzione oligarchica, l'agorà si trasformò in una vera ecclesia democratica.
Di contro a questa assemblea dalla sovranità più nominale che reale, e continuamente ostacolata e limitata dalle tendenze accentratrici delle oligarchie, stanno, sul modello dell'ecclesia ateniese, le numerose assemblee delle città democratiche (Efeso, Rodi, Alicarnasso, Olinto, ecc.), in cui si ritrovano sparsi or l'uno or l'altro e talora quasi tutti i descritti caratteri della massima assemblea della democratica Atene.
Bibl.: C. G. Brandis, in Pauly-Wissowa, Real Encycl., V, coll. 2163-2199; G. De Sanctis, 'Ατϑίς, 2ª ed., Torino 1912, pp. 354 segg.; G. Glotz, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant., II, i, pp. 511-527; B. Haussoullier, La vie municipale en Attique, pp. 50, 79 segg.; J. H. Lipsius, Attisches Recht, I, Lipsia 1905; p. 163 e n. 96; II, Lipsia 1908, p. 364 e n. 29; U. E. Paoli, Legge e giurisd. in dir. attico, in Riv. di dir. proces. civ., III (1926), pp. 132-137; id., Studi di dir. attico, Firenze 1930, passim; A. Reusch, De diebus contionum apud Athenienses, in Dissert. philol. Argentorat., III, Strasburgo 1879, p. 1 segg.; G. F. Schömann e J. H. Lipsius, Griech. Alterthümer, Berlino 1897; G. Busolt, Griech. Staatskunde, I, Monaco 1920, p. 442 segg.; II, 1926, p. 986 segg.