Eckhart (o Eckart, latinizz. Aychardus; ital. Eccardo) di Hochheim Filosofo e mistico (Hochheim, presso Gotha, 1260 ca
Colonia 1328 ca.), detto anche Meister «maestro» Eckhart. Di nobile famiglia, entrato nell’ordine domenicano, fu priore e vicario in Turingia (1290-98), maestro a Parigi, provinciale di Sassonia (1303) e di Boemia (1307), poi ancora a Parigi (1311-13), quindi a Strasburgo e a Colonia. Nel 1326 l’arcivescovado di Colonia aprì un processo contro E. dalle cui opere furono estratte 49 proposizioni. E. si difese (1326) e ricorse al papa (1327), ma ad Avignone Giovanni XXII condannò con la bolla In agro Domini 28 proposizioni a lui attribuite (1329, un anno dopo la morte del filosofo). L’opera di E. è molto vasta: in tedesco abbiamo trattati e prediche; in latino molte Quaestiones, parte dell’Opus tripartitum, il Tractatus super oratione dominica, numerosi commenti scritturali. Svolgendo motivi caratteristici della tradizione neoplatonica (soprattutto sotto l’influenza dello pseudo-Dionigi, ma anche di Giovanni Scoto, dei maestri di Chartres, del Liber de causis e di Proclo, conosciuto nelle versioni di Guglielmo di Moerbecke), E. sente il concetto di essere come troppo angusto e limitato per potersi applicare a Dio, superiore, nella sua infinità, alle distinzioni categoriali (onde piuttosto Dio sarà «non essere»): più alto dell’esse, e più proprio di Dio, sarà invece l’intelligere, ossia l’intendere, l’intelletto. Se poi si volesse predicare l’essere di Dio, allora egli risolve in sé la pienezza dell’essere (plenitudo essendi) sicché non potrà più predicarsi della creatura, nulla esistendo fuori dell’essere: la molteplicità altro non sarà se non l’esprimersi di Dio. E. legge il prologo del Vangelo di Giovanni, «in principio era il Verbo», differenziando il Verbo, in quanto intelletto e intendere, dall’essere: «Dio che è creatore non creabile, è dunque intelletto e intendere, non è essere o ente» (Sermones, ed. E. Benz, B. Decker, J. Koch, 1987). A differenza dell’essere che è determinato (ens est aliquod determinatum) mediante generi e specie, l’intelletto è indeterminato e perciò non è ente (est aliquod indeterminatum et ideo non est ens). Tale intendere è fondamento dell’essere divino, e non viceversa. Analogamente, E. commenta il primo versetto del Genesi, «In principo Dio creò cielo e terra», come creazione di Dio in sé stesso, essendo Dio il principio dell’essere («la creazione conferisce l’essere»; «creò tutte le cose nell’essere, che è il principio e Dio stesso»). Fra l’ente determinato, che appartiene al molteplice, e l’ente infinito sussiste una differenza fondamentale e insormontabile, come anche avviene per il vero, per il bene o per l’uno. Gettato fuori dall’essere di Dio (Dio-Uno), l’essere della creatura è nulla: «fuori di Dio, cioè fuori dell’essere, è il nulla». La divinità non è attingibile mediante concetti, ma utilizzando le modalità proprie della teologia negativa. Tornano, in tale prospettiva immagini tipicamente neoplatoniche: Dio come sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo; Dio come fonte di luce da cui «emana» la molteplicità, ecc. In partic., la riduzione della totalità dell’essere a Dio e l’affermazione della presenza di Dio negli esseri come radice e attualità della loro esistenza hanno sollevato molte polemiche già tra i contemporanei che trovavano il linguaggio di E. notevolmente estraneo al linguaggio scolastico e non intendevano la prospettiva neoplatonica che ne regge il pensiero. La metafisica di E. ha il suo corrispondente nella psicologia e nella mistica: l’anima scopre Dio nella radicale negazione di ogni essere e di sé medesima, al di là di ogni discorso, in un contatto immediato che si realizza nell’apex mentis, nella «scintilla dell’anima»: progressivo rendersi dio (deiformatio), reso possibile dall’opera mediatrice del Cristo, ove la teologia della grazia si congiunge con la teologia dell’incarnazione. Mediante un’attività speculativa superiore alla ragione discorsiva, e dunque distaccata dalla molteplicità, l’anima si fa una e diventa capace di intelligere, abbandonando il proprio essere e «stabilendosi nell’essere e nell’unità propria di Dio». Al culmine di tale processo si realizza un’unione in cui l’uomo si annichila in Dio aprendosi completamente alla presenza di Dio in lui e unendovisi con un atto d’amore in cui l’amante diviene l’amato. Nonostante tale unione però la trascendenza divina continua a sussistere: «L’anima che Dio attira a sé è trasformata in Dio, diviene divina, benché Dio non divenga l’anima».