Ecoarchitettura
Metamorfosi verdi
E se ci impegnassimo davvero?
di
1° febbraio
La Commissione Europea premia il progetto di edilizia residenziale sociale a basso impatto ambientale SHE (Sustainable Housing in Europe), che vuole dimostrare come sia realizzabile un’architettura rispettosa dell’habitat. È quanto sostiene da decenni Paolo Soleri, con il suo laboratorio urbano di Arcosanti in Arizona.
Riforma e riformulazione
Parliamo di ‘architettura’, cioè di come lo spazio trasforma le sue geometrie per creare un nuovo tipo di realtà: lo sviluppo dell’intelligenza dalle leggi della natura. Noi ‘siamo’ quello che le geometrie del cervello creano. L’architettura è dunque un’intelligenza postorganica, autocosciente, che ‘gioca’ con le geometrie dello spazio. La ‘grande architettura’ è la parte del mondo sensibile generata da homo dramatis, homo faber, homo sapiens. Mentre una trasformazione realmente traumatica si sta manifestando nell’evoluzione delle scienze e della tecnologia, la professione dell’architetto non ha ancora mostrato di aver colto in pieno quanto è determinante la sua posizione all’interno dell’‘innovazione del nuovo’. La libertà d’immaginazione degli urbanisti e degli architetti nell’entrare in questa era scintillante è formalmente eccitante, spesso magnifica, ma il suo contenuto è viziato dall’inadeguatezza di fronte all’enorme responsabilità dell’architetto come creatore dell’habitat per una popolazione di 6-7 miliardi di persone. Noi architetti rimaniamo ‘provinciali’ e bigotti perché il significato planetario e cosmico di eccitante sovvertimento proprio del nostro tempo non ha ancora una piena riflessione all’interno della nostra professione. La mia insistenza sulla differenza tra mera riforma e radicale riformulazione è una distinzione di natura critica. Storicamente, l’architettura ha attraversato una serie di riforme e di sviluppi stilistici, interpolati da riformulazioni di contenuti e novità strutturali e tecniche.
Il problema fondamentale con il quale mi confronto è il modo in cui oggi vengono progettate le città, ingestibili distese di casette a pochi piani che si estendono per chilometri. Come risultato del loro espandersi, modificano letteralmente la Terra, trasformano campagne in parcheggi, con un enorme spreco di tempo ed energia per trasportare persone, cose e servizi per tutta la loro estensione. Il mio progetto è un’implosione urbana, piuttosto che un’esplosione. La città deve aderire alle linee guida dell’evoluzione della vita, che sono: autocontenimento, logistica sofisticata, riduzione dello spreco (il processo minimale), interazione con il mondo esterno, ricchezza di processi, fiducia in sé stessi e creazione di una luce interiore, la persona urbana.
La complessità è un obiettivo che vale la pena di perseguire nella progettazione e costruzione delle città, perché gli organismi a tutti i livelli dell’evoluzione sono capolavori di complessità, indissolubilmente legata alla miniaturizzazione. Una società composta di individui complessi è una società che definisce sinergie sempre più complicate, come ci è chiaro osservando le nostre vite. Quello che è necessario non è una simulazione alla Disney o un’Arcadia, ma un movimento verso città e metropoli complesse, che si raggruppano in sé, inserite coerentemente nell’ambiente: se ci mettessimo, le potremmo inventare.
Probabilmente la più drammatica dimostrazione della perdita di coerenza è la progressiva costruzione di quello che chiamo l’‘eremo planetario’, cioè la segregazione di fatto del gruppo sociale più ridotto, la famiglia (se ne è rimasto qualcosa), all’interno della sua privata enclave murata, difesa se necessario con le armi. Per molti anni ho sostenuto che lo sviluppo della cosa sbagliata – come uno strumento di tortura, un casinò, una tecnologia per lo sviluppo delle armi, un’industria automobilistica, un sistema di progettazione dello spazio improntato a una cultura eremitica, una pratica medica che indebolisca il sistema immunitario con rimedi a pronto effetto, una teologia con lo scopo di sterminare gli infedeli – vada scoraggiato, e con convinzione. Ma mentre persegue un tipo peggiore di sbaglio, l’architettura è ricompensata dall’agiatezza e dal prestigio, adescata dal dinamismo e dalla sinergia. Questo modo di fare architettura deve la sua pervasività al comfort che distribuisce, assecondando le abitudini consumistiche degli utenti: consumatori incalliti, alla continua ricerca di un miglior gingillo, un miglior elettrodomestico, un miglior gadget da aggiungere ai gadget acquistati il giorno prima per riempire spazi, ripostigli, soffitte, cantine, case, box, parcheggi, e infine discariche.
Così l’enfasi maggiore nell’odierna progettazione dell’habitat viene data alla ‘metastasi extraurbana’, sostenuta aggressivamente dal marketing dell’industria iperconsumistica che propone case modello. La metastasi della città nella forma degli sviluppi suburbani-extraurbani – la più dannosa delle nostre intrusioni nell’ambiente – è l’industria del tipo peggiore di sbaglio trasposta su scala planetaria. Insieme a tutte le altre cose della vita, soffriamo di questa ottusità. Perciò trovo necessario collocarmi ‘dentro’ il modello che sto sviluppando all’incirca da quarant’anni. È una ricerca all’interno di quello che io penso potrebbe essere la realtà, ben consapevole di quanto limitata sia questa percezione. Avanzo delle ipotesi, non sto vendendo delle verità.
Un discorso in nove punti
L’articolazione del mio discorso è sintetizzata nei nove punti elencati nello schema.
1. Il mistero tremendo
Il mistero fondamentale stabilisce la posizione minimale: all’origine della realtà c’è una presenza, cioè la negazione di un’assenza.
2. La lean hypothesis
La lean hypothesis, l’ipotesi minimalista, interpreta lo spazio come una realtà nel suo divenire, che a sua volta si consegna al suo essere, il passato come durata. Il big-bang privo di dimensione esplode nella realtà dello spazio e nel suo divenire. Se in ciascuna e in tutte le circostanze e gli eventi, cosmici e terreni, lo spazio è presente, allora è lo spazio stesso la piena circostanza.
3. Evoluzione L’evoluzione è il modo in cui un sistema non vivente, un sacchetto di polvere di stelle contenente composti organici, innesca al suo interno una volontà, una volizione, resa possibile da combinazioni virtualmente infinite tra particelle e subparticelle dentro allo stesso sacchetto, miliardi di invisibili esseri nel loro ‘folle’ agitarsi. Ciò che tiene insieme queste combinazioni è la religio: in questo atto volizione e religione non sono separabili. L’evoluzione è questa eterna autocreazione, questa ‘follia’ di volizione e religione di svilupparsi in qualcosa di diverso, il processo autocreativo della realtà vivente che impiega i meccanismi della nanotecnologia per generare gli organismi viventi, l’howness, il ‘come’ nanobiotecnologico che inventa il ponte tra l’inorganico e il vivente.
Siamo polvere di stelle, ci hanno detto scienziati e menestrelli. L’intera evoluzione della vita è stata un magico spettacolo di polvere di stelle. Noi ci siamo in mezzo. Non lasciamo che lo spettacolo finisca in un fiasco a causa del lato più opaco della nostra umanità: la nostra invidia, l’avidità, l’odio, l’intolleranza e l’insensibilità. Sospese come sono le società high-tech sulla soglia dell’intelligenza di silicio e di una delle più traumatiche evoluzioni mai sperimentate dalla vita e dall’uomo – l’evoluzione della effimeralizzazione (la realtà virtuale) –, noi siamo prigionieri delle tecnologie che si basano sul gigantismo e lo foraggiano.
4. Riformulazione
La riformulazione si riferisce all’imperativo di porre su presupposti diversi intenzioni non più coerenti in sé stesse, ma che costituiscono una corsa verso il capriccio, la contraddizione, l’ingiustizia, la distruzione, il collasso, la nemesi. Per una realtà autocreativa, la nozione di ‘verità eterna’ è il rigetto del processo stesso che genera la novità, qualcosa che non esisteva prima. Penso che ‘durata’ sia un termine più adatto di eternità per descrivere la trascendenza del presente. Qualsiasi cosa accada nell’autocreazione – la genesi di una stella, di un sonetto, di un insetto e del suo lavoro – non può essere annullata; le cose che accadono sono per sempre. È questo il significato del verbo ‘durare’. La durata è la piena memoria del passato. Cerchiamo o no la vita eterna, per il fatto stesso che siamo accaduti, siamo automaticamente ‘eterni’.
L’oggettivarsi dell’autocreazione è la contestualità del divenire che genera l’essere. L’animismo, al contrario, è l’insieme delle illusorie credenze architettate dal cervello, che è la macchina miracolosa di homo sapiens. Il prodotto più importante dell’animismo è la teologia, che è l’iconizzazione dell’animismo, una conquista dell’homo dramatis al suo meglio. In termini di tempo, mentre la ‘religione’ – intesa come religio, una ‘rilegatura’ della volontà – è sempre stata presente dalla prima manifestazione di vita sulla Terra, cioè 5 miliardi di anni fa, la teologia è una novità che risale all’apparizione di homo erectus (autoconsapevole), a circa un millesimo della vita della religione. La teologia si è andata articolando attraverso la graduale iconizzazione degli avvenimenti comuni sentiti come importanti dall’homo erectus che, soggetto alle forze della natura, drammatizzava la sua vita rendendo icone le cose tangibili: la montagna, la fonte d’acqua, l’uragano, l’arcobaleno, le stagioni, le eclissi, il serpente, l’orso, la mummia, e tutti gli avvenimenti favorevoli o malefici che capitano nella vita. L’usurpazione della religione da parte della teologia ha prodotto gli inganni animistici in homo opportunus.
5. La lean alternative
La lean alternative, l’alternativa minimalista, della quale si avverte l’assonanza con la lean hypothesis, trova il suo punto di forza nell’esiguità dei mezzi necessari a raggiungere coerenza e armonia. La natura spreca attività, ottenendo un successo ogni mille fallimenti. Ma in ogni specie che riesce a spuntarla, ciò che trionfa è l’essenzialità. Barriere coralline, foreste amazzoniche, ‘città’ di termiti, branchi di bestie selvagge e insediamenti umani sono tutte comunità viventi essenziali. Sopravvivono, si riproducono e prosperano con una dieta ultraessenziale di luce solare e minerali di riserva (inclusa l’acqua). L’intero processo di interiorizzazione del cosmo – il regno minerale che diventa autocosciente – è un’evidente manifestazione della potenza e del potenziale dell’essenzialità. Questo è ciò che io chiamo la lean alternative, degna di eterna celebrazione.
Accade che il momento storico in cui viviamo sia alla disperata ricerca di essenzialità perché la nostra specie ha avuto, con l’homo faber, l’irresistibile spinta a trasformare l’ambiente alla ricerca di comfort, sicurezza e felicità, mancando però di esperienza, percezione del contesto, senso di equità, saggezza, determinazione e cosmica consapevolezza di una vita che trascende la legge della giungla. L’homo sapiens è un animale dotato, ma non innocente. È un opportunista pieno di idiosincrasie, non sempre amabile e che spesso nasconde la nobiltà della sua parte migliore. L’homo faber è sul punto di trasformare il mondo basandosi su comandi ambigui: se ti serve e ce la puoi fare, allora procedi. Ingordigia è il nome del gioco, e il materialismo è il suo prodotto.
Al contrario, il credo minimalista è: «Fai di più con meno». L’habitat essenziale riduce la dipendenza dagli apporti massicci di macchine, mobili, attrezzature, congegni e dal fascino del comprare solo per il gusto di comprare, mentre due miliardi di persone sono prive di cibo, di abitazioni e di dignità. Lo squallore non si trova soltanto in un ambiente fisico impoverito, degradato. Lo squallore è ben presente anche nelle società più opulente, sta dove la dignità umana è calpestata. Mentre ci applichiamo con impegno a risolvere le disfunzioni tecniche, troppo facilmente passiamo sopra le disfunzioni etiche. Anche quando la disfunzione deriva da ignoranza, ciò non giustifica il caso specifico, ne offusca solamente le cause.
Data la natura della specie umana – razionale, passionale e comunque personale nel variare delle gradazioni –, il nostro rapporto con il passato può essere prevalentemente informativo e statistico oppure emotivo, a seconda delle propensioni intellettuali o sentimentali di ciascuno. Ciò che non è d’aiuto è l’ignoranza sulle nostre origini, recenti e remote. Maggiore è l’ignoranza sul cosa ci ha plasmato, maggiore sarà l’incoerenza del nostro lavoro, il suo distacco dall’onda del divenire.
Una similitudine rende più chiaro questo punto. Io come ciclista sono infastidito da un terreno accidentato. La levigazione della strada è proporzionale all’ampiezza della livellatrice che vi è passata. Più grande è l’interasse della livellatrice, più liscia e levigata sarà la superficie dell’asfalto. È una legge fisico-meccanica. Trasferendo la similitudine alla professione dell’urbanista e dell’architetto, più lungo è il periodo storico passato preso in considerazione e maggiore l’anticipazione delle cose future, migliore è l’approccio a un presente più ‘levigato’, intelligente e utile. Questo significa la conoscenza infusa nel campo dell’architettura.
6. Howness, il ‘come’
Il nobile infinitesimale indistinto accenno di vita incapsulato negli esperimenti umani ha la forma di un punto interrogativo, che reclama l’eternità. Se il cosa e il perché ci sfuggono, noi cerchiamo rifugio nel come. Questo è il genio dell’homo faber. Noi non abbiamo inventato la tecnologia: è la tecnologia che ha inventato noi! La realtà è un oceano di come, e noi siamo una microscopica particella all’interno di questo immenso processo tecnologico. Noi siamo la particella del come tecnologico che si adopera per rendersi cosciente, per darsi un significato. La triade cervello-laringe-mani ha aperto la porta a un numero quasi illimitato di come. Tutta questa tecnologia è spazio in metamorfosi: spazio e solo spazio demonizzato dalla sua stessa tecnologia, il come divenire questo, quello e quell’altro. Se lo spazio è la materia della realtà, la geometria ne è l’espressione. Il nostro cervello è una fantasmagoria di geometrie dello spazio che formano il nostro mondo, il mondo nel quale recitiamo nella nostra sequenza di presenti. È un’autoprogettazione che dal primo organismo universale, la cellula, ci ha portato fino al contesto urbano di ieri e di oggi. Autoprogettazione, la prima professione dei viventi.
I Romani facevano le leggi e le imponevano, costruivano strade e acquedotti, ed erano ‘urbanizzatori’. Le loro legioni costellarono l’Europa di innumerevoli centri urbani lungo itinerari strategici lastricati che, come arterie, portarono la cultura greca e romana attraverso tutta l’Europa e oltre. Diventarono una potenza mondiale grazie al come: come produrre, come legiferare, come costruire, come organizzare e come urbanizzare. Passiamo gran parte della nostra vita disseminando e recuperando cose: lo smaltimento e il riutilizzo di risorse necessarie per la vita. La vita è un problema logistico; cioè, la vita è come. Se il come costruisce per noi case e città automatizzate, verremo portati in giro come grassi rotoli di carne con niente di meglio da fare che preoccuparci di dove e quando la città ‘intelligente’ si trasformerà in un’inesorabile trappola mortale, a causa, per esempio, di un blackout energetico? O correremo all’infinito su un tapis-roulant come quelli che ci sono in palestra, un tapis-roulant per corpo e mente pavimentato di noia ed edonismo? Ci troviamo nel mezzo di un crescente vortice di come che potrebbe intorpidirci per generazioni. Abbiamo bisogno di tornare a correre con conoscenza e responsabilità e, se possibile, con saggezza. L’alternativa è un bruto materialismo.
Il come dell’autoprogettazione dà forma alla pianificazione logistica e all’habitat. Sono punti critici perché, insieme all’agricoltura, costituiscono la capacità di vivere della specie: la garanzia di nutrimento e rifugio. L’invasione dei terreni agricoli da parte dell’abitato, propria dei suburbi extraurbani, è una manifestazione di barbarie. Non solo non considera il nocciolo stesso del sostentamento e della perpetuazione della vita, ma fa crollare la conquista ottenuta dalla vita con l’urbanizzazione. Uno dei miracoli della vita è che tutti gli organismi sono sistemi ‘urbani’. La città è un iperorganismo: è il complesso spinto dalla volizione-religione nella realtà ipercomplessa del pensiero e della trascendenza. L’umanità, plasmata per migliaia di generazioni dall’ambiente planetario, ora sempre più pianifica il suo ambiente immediato. Questo rende l’architettura una chiave di volta culturale e sociale, e la storia lo testimonia.
La legge darwiniana della giungla ha comandato la biosfera fin dall’inizio. Sopravvivenza, riproduzione, gioco, regolati da circostanze passate e presenti, hanno sancito un avvio giusto e senza tentennamenti. Una crescente complessità autoregolamentata non lasciava spazio alla mancanza di leggi. L’‘errore’ avrebbe significato estinzione, quindi conformare le circostanze minuto per minuto decideva il sottile confine tra successo e fallimento, tra il troppo e il troppo poco. Mancando della dimensione intellettuale, la giungla era ed è autonoma. Il ‘diktat ambientale’ che si è autocreato ricalca praticamente senza distinzioni il moto cosmico dei pianeti e la sua autogenerazione non intelligente. Non essendo intelligente, la giungla è priva di emozioni; le sue violenze non dipendono dal bene o dal male. Non c’è simulazione di innocenza nella giungla perché lì non c’è raziocinio. Splendida e cruenta, la giungla è innocente; è l’incarnazione dell’innocenza.
Addentriamoci nella ‘foresta urbana’, un prodotto dell’intelligenza innestata sull’immenso lavoro della giungla e delle sue autocreazioni. La foresta urbana, l’habitat di homo sapiens pensante e razionale, conosce il bene e il male. La passione acquista il sapore della com-passione e il suo conflitto quando viene meno la coerenza è segno di un’infezione endemica (o pandemica): una squallida ragione prospera nella non più innocente legge della giungla. Poiché riconvertire una foresta urbana come New York in una giungla innocente non è possibile o pensabile, la foresta urbana, senza speranza in termini di riforma, troverà la ‘redenzione’ nella riformulazione soltanto quando la cultura e la civiltà sociali trasformeranno la gente in personae razionali e compassionevoli.
La biosfera può fare a meno della foresta urbana, ma la foresta urbana non può fare a meno della biosfera – la giungla – con la sua intrinseca disciplina. L’intelligenza è il mediatore necessario tra giungla e foresta urbana: un pensiero compassionevole fa risplendere nuova luce sulla follia planetaria, e sul suo artefice. La differenza più evidente tra giungla e foresta urbana è data dalla dimensione estetica, una facoltà peculiare dell’homo habilis-sapiens. La bellezza della giungla è una premonizione della potenziale ‘arte del vivere’ della foresta urbana. Le oggettivazioni estetiche sono frammenti di possibile ‘grazia divina’ .
L’imperativo in materia di habitat prevalente ai giorni nostri indica come primaria la foresta urbana. Quando 6 miliardi di persone hanno bisogno di una casa, miliardi di orchidee non servono; miliardi di mediocri orchidee diverrebbero il campo di morte dello ‘spirito’ umano. Il villaggio globale caldeggiato da architetti, urbanisti e speculatori si sta rivelando un eremitaggio planetario. Fintanto che si identifica come una democrazia che si muove attraverso la parcellizzazione fra privati del paesaggio reso eremitaggio, il movimento verde è in realtà ‘marroncino’. Non rientra nel grande disegno della consistenza e della coerenza evolutiva.
Gli organismi non sono fenomeni da privatizzare. Sono un fascio altamente sinergico di volizione e religio. L’iperorganismo della cultura e della civilizzazione non è la piatta estensione extraurbana, ma la città tridimensionale, dove lo spazio è utilizzato come una preziosa risorsa. L’aspetto ‘religioso’ dello spazio, con il suo passo accelerato di geometrie che si autogenerano, è la base del paesaggio urbano. La preminenza della città, definizione di civiltà, ora è sempre più indispensabile, dato il trend verso il materialismo avallato da sei e più miliardi di persone, abbagliate dal Sogno americano, che sta producendo tutte le crasse frenesie opportunistiche e tecnoplutocratiche che l’ingenuità umana e la sua ingordigia possono generare.
7. Nanotecnologia
Negli anni Cinquanta e Sessanta sviluppai il concetto di ‘arcologia’ (architettura + ecologia) che pubblicai in Arcology: City in the image of man (Cambridge, Mass., MIT Press, 1969). La prima pagina di quel libro recita: «Questo libro tratta di miniaturizzazione». Adesso, trascorso all’incirca mezzo secolo, nanotecnologia è diventata la parola del giorno. La nanotecnologia sviluppa quello spettro della realtà che è l’infinitamente piccolo, una realtà controintuitiva rispetto a quella stessa realtà infinitamente vasta che è il cosmo. Se sono stati necessari 14 miliardi di anni per sviluppare la nanotecnologia, 5 miliardi sono serviti per generare la nanobiotecnologia (la vita sulla Terra): l’innescarsi della vita all’interno della macrotecnologia del pianeta, che attraverso una creazione nanotecnologica ha portato alla vita una sua particella nanobiotecnologica. La novità della volizione nanobiotecnologica mostra il ruolo chiave della miniaturizzazione, e più in generale l’elevazione dello spazio a ‘supremo fattore’ della realtà in toto. L’enormità della nanotecnologia che genera la nanobiotecnologia potrebbe essere eguagliata in futuro dalla nanobiotecnologia che ‘ritorna’ nelle pieghe della nanotecnologia, questa volta attraverso l’intervento della coscienza umana, senza perdere il suo prezioso carico di volizione-religione. Verosimilmente questo potrebbe generare un mondo di intelligenza robotizzata, capace di andare al di là dei limiti del pianeta, rendendo il cosmo accessibile alla vita, mettendo in gioco una serie tutta nuova di geometrie dello spazio e rendendo la complessità-miniaturizzazione pienamente operativa. E invece, in maniera controproducente, noi immagazziniamo tutte le nostre attività intellettuali e imprenditoriali nelle nostre scatole private (le case), perfino dopo il loro presunto esser diventate ‘verdi’, nella segregazione fisica, la nemesi di ogni trascendenza nanobiologica che la religiosità spinta dalla volizione cercherebbe.
8. Arcosanti: un laboratorio urbano
Arcosanti costituisce uno strumento e un processo per applicare la lean alternative. È progettato secondo il concetto dell’arcologia, che propone una forma urbana altamente integrata e compattamente tridimensionale, esattamente l’opposto della città che si espande con spreco di terra, energia e tempo, isolando le persone le une dalle altre e dalla vita civilizzata. Nell’arcologia, l’ambiente costruito e i processi di vita degli abitanti interagiscono come fossero analoghi a organi, tessuti e cellule di un organismo altamente evoluto, un iperorganismo. Ciò significa che sistemi multipli lavorano insieme, coordinati e integrati per minimizzare lo spreco e al contempo massimizzare l’efficiente circolazione delle persone e delle risorse, utilizzando strutture multiuso e sfruttando l’orientamento solare per illuminare, riscaldare, raffreddare, produrre cibo e a fini estetici.
Lo scopo di Arcosanti, in quanto laboratorio, è esplorare un’alternativa urbana, dimostrando nella pratica un metodo per migliorare le condizioni di vita urbane, ma al tempo stesso ridurre il nostro impatto distruttivo sulla Terra. Le distese suburbane ed extraurbane, a causa di quanto richiedono a persone, risorse e biosfera, sono controproducenti. ‘Migliori’ diventano, peggiori sono le conseguenze fisiche e culturali. Il risultato che potrebbe prodursi sarebbe non un villaggio globale, ma un eremitaggio globale, in cui ogni unità abitativa (la casa) sarebbe virtualmente in connessione con il resto del mondo, ma solo nel campo astratto delle relazioni cervello-computer-cervello. Questa è una situazione estremamente pericolosa, segregante, costosa da un punto di vista ambientale e umano.
Arcosanti evidentemente non è una città, ma una strada proposta verso la riurbanizzazione della società, basata sulla premessa che la vita manifesta delle linee guida normative abbastanza chiare, se abbiamo voglia di ascoltarle e osservarle. La strada di Arcosanti, con le sue innumerevoli possibili incarnazioni, potrebbe diventare una città per tutti coloro che hanno abbracciato l’idea di una civiltà con un’attitudine minimalista. La società deve sviluppare un’alternativa all’avanzare del materialismo alimentato dall’iperconsumismo. Arcosanti ha visto per 40 anni l’esperienza di persone dalla mentalità minimalista che vivono in un habitat minimalista.
Il progetto Arcosanti vuole essere un’incarnazione delle preoccupazioni che abbiamo esposto e non un mondo assurdo, vuoto e utopico per una cerchia di eletti. Si fonda sulle piccole conquiste nella routine della vita che possono essere realizzate, ben consci della nostra dipendenza dagli altri e dalle altre cose. Respingere le iniquità sociali, culturali ed economiche è elemento fondamentale del progetto. Uomini e donne si dividono le responsabilità a tutti i livelli. Tutti hanno stipendi molto modesti. La partecipazione da numerose nazioni e da differenti scenari economici garantisce un’interazione produttiva di feconde amicizie ed esperienze interculturali tra i partecipanti.
Sviluppare una piccola città per lavorarci come in un laboratorio è stato, ed è ancora, un’impresa da far paura. Nessuna risorsa pubblica o privata è stata messa a disposizione a eccezione di sgravi fiscali, ciò significa che il progetto beneficia del suo stato di non profit e che rimane tale dopo circa quarant’anni di sviluppo. Per superare gli ostacoli, abbiamo ignorato la noncuranza della società e l’indifferenza dell’accademia. Attraverso un graduale sviluppo di produzione di ceramica e metallo, ci siamo autosovvenzionati la costruzione di Arcosanti, che credo il mercato non avrebbe mai accettato, avallato e finanziato. Nessuna delle 6000 persone che si sono impegnate nell’opera ha chiesto azioni, atti di proprietà, garanzie, assicurazioni, dibattiti pubblici o pareri decisivi. Sono venute, hanno lavorato, hanno imparato e sono andate via. Adesso abbiamo una sezione operativa della lean alternative. Un prototipo non può essere orientato al profitto, poiché cesserebbe di essere indirizzato alla scoperta nel momento in cui entrasse nella camicia di forza del profitto.
I cicli di attività ad Arcosanti sono di due tipi: pubblici e privati. I cicli pubblici comprendono: costruzione; progettazione, design e gestione; metalli e ceramiche; legno, metallo, plastica e manutenzione; terreni e vegetazione; cibo; istruzione, intrattenimento ed eventi; ospiti e visitatori, concerti. Questi cicli pubblici sono gli avvenimenti nei quali le personae, gli individui che si trovano ad Arcosanti, inseriscono le proprie dimensioni private. Il voluto mescolarsi di attività in ogni struttura rende difficile una chiara esposizione di come si svolge la vita. Molti cicli si sviluppano in più di una struttura. L’intrattenimento, per esempio, è disseminato dappertutto, dal caffè al teatro, dalla biblioteca al giardino e così via.
Tutte le pagine dedicate alla descrizione di Arcosanti dovrebbero restare immuni da raffigurazioni esoteriche, metafisiche, spirituali, astrologiche e teologiche. Il progetto è interamente e solamente rivolto alla metamorfosi dello spazio e alla sua forza creativa virtualmente infinita. I pantheon sono vuoti. Il Nirvana li ha ingoiati, ed è stata una liberazione. Torniamo a preparare assi e a miscelare cemento. Ogni cosa è spazio in costante metamorfosi. Basandoci sulle esperienze di Arcosanti, possiamo andare oltre applicando questo strumento a un posto di vita reale, una vera città, conducendo ‘ricerca urbana’ e sperimentando all’interno del più ampio spettro
di operazioni di cui è fatta la vita. Con l’assistenza dell’accademia e del mercato, il laboratorio urbano potrebbe ancora sorprenderci, distribuendo una nuova e più grande ricchezza. Questa vita potrebbe ancora essere essenziale, prototipo di un’equità applicabile alle società di tutto il mondo. Ciò potrebbe alla fine costruire un ponte verso i poveri. Il motivo che sottostà al progetto è la necessità di ‘rendere frugale’ il frenetico rullo compressore del consumismo, che se esteso fino a inglobare i gusti di 10 miliardi di persone potrebbe rivelarsi letale per l’uomo e per la vita. La frugalità e l’essenzialità tuttavia non sono soltanto una necessità; rappresentano anche la virtù dell’interiorizzazione, che in pratica è l’essenza della vita: la realtà fatta persona.
9. SOLARE: la lean linear city
Migrazioni, invasioni e spostamenti per lungo tempo hanno caratterizzato la presenza umana sul pianeta, fino a quando si sono affermati modelli di popolazioni stanziali. Sembra, tuttavia, che il sistema prevalente delle popolazioni stanziali stia subendo un mutamento dovuto alla tecnologia. La mobilità diventa di moda. Milioni di persone volano ogni giorno per centinaia e migliaia di chilometri per lavoro, per riunioni e per piacere. Il turismo sta assumendo proporzioni enormi. Quando India, Cina e Africa saranno turisticamente del tutto attive, si aprirà una nuova dinamica socio-politico-finanziario-culturale, una fase determinante per il ‘destino’ della Terra. Nella prossima era saremo ‘trasportati’, cioè ci sposteremo con un po’ di bagaglio da un posto all’altro, non più soltanto spinti dalla curiosità o alla ricerca di esperienze, ma anche come modo di vivere. Viaggiare per vivere. È un modello al quale la città dovrebbe adattarsi e che dovrebbe adottare? La città come un fenomeno di trasporto urbano: la città lineare. È ora di indirizzare l’autocoscienza umana in canali urbani di autocoscienza: la proposta SOLARE, una fusione ottimale se la riformulazione del paesaggio umano riesce a provare di essere un altro passo verso una ‘noosfera’ ottimizzata.
Uno dei compiti ai quali SOLARE si dedica è la necessità di sbrogliare la congestione della città in fluidità di prestazioni e logistiche. Nella costruzione essenziale dell’organismo, ogni cellula del corpo è
nutrita e depurata da una sorprendente rete simmetrica di arterie e vene; così migliaia di miliardi di cellule sono tenute in vita e in funzione dall’ordito a rete di un sistema di rifornimento e smaltimento inimitabile. Seguendo l’esempio della natura, il progetto e la rappresentazione del nastro urbano essenziale di SOLARE mettono in connessione piccoli e grandi habitat esistenti e aiutano a salvaguardare la Terra dalla dispersione, attraverso una pratica sostenibile di riduzione dello spreco, dell’inquinamento e dell’impoverimento sociale e culturale. Il movimento implica dispendio di energia, quindi il pendolarismo provoca un doppio effetto di inquinamento e spreco di energia, al tempo stesso minacciando anche il benessere fisico e biologico degli organismi che si muovono. Il tempo sperperato in spostamenti inutili è una delle principali corruzioni del tempo determinata da ricchezza e iperconsumo. L’effetto più promettente del nastro urbano essenziale è una rete di habitat distribuiti logisticamente, capace nel tempo di ripulire la Terra attraverso la sostanziale riduzione dell’enorme dipendenza da combustibile fossile, così da ripristinare gli ecosistemi e arricchire la vita della campagna adesso minacciata dall’espansione urbana.
In SOLARE, tutti i sistemi interni di arterie si aprono verso due sistemi analoghi, a destra e a sinistra. All’improvviso le cose prendono movimento. L’intelaiatura delle arterie interne di una città, con i suoi vicoli ciechi e la griglia di percorsi in tondo, si mette in moto lungo i moduli urbani interconnessi di SOLARE. La rete aperta di arterie di rifornimento, a cui fa riscontro la rete depurante delle ‘vene’ di smaltimento, si compone di ‘treni’ locali, regionali e continentali. La popolazione in viaggio può attraversare molteplici manifestazioni locali di vita modulare nel giro di minuti e può, se lo gradisce, fermarsi a quelle che più l’attraggono in quel momento. SOLARE incanala sia la presenza fisica sia quella iperfisica (civiltà-cultura) in complessi indipendenti e in densi nastri urbani in grado di allinearsi sul continente nel modo più essenziale possibile. Ciascun modulo della città lineare può stabilire le proprie caratteristiche: prodotti, strutture, composizione etnica, salute, tecnologia, moda, cucina e intrattenimento, allineati in sequenza lungo percorsi regionali e continentali. Le variazioni possibili per il singolo modulo (lungo 200 m) sono illimitate, in rapporto all’ingegnosità e alle intenzioni di disegnatori e progettisti e della popolazione coinvolta.
Il parco che corre sull’asse centrale della città lineare è in pratica un ininterrotto paesaggio verde con un clima esente dagli estremi del caldo e del freddo, poiché si tratta di una serra multipiano con un tetto trasparente alla luce del Sole nella stagione fredda e con una specie di parasole nella stagione calda-temperata. Nel frattempo, alle estremità inferiori della serra si sviluppano le brevi fasce suburbane. Rigorosamente contenuta, l’espansione suburbana dovrebbe svilupparsi su una fascia non più larga di un chilometro, così da permettere gli spostamenti con mezzi pubblici o con biciclette o a piedi. L’automobile privata sarebbe rigorosamente riservata solo a funzioni ausiliarie (escursioni, ricerche ecc.). Dentro SOLARE, cinque minuti di treno più cinque minuti di cammino ti portano dove vuoi o dove devi andare (cicli giornalieri). In cinque minuti di treno si attraversano dieci ‘mini province’ (moduli), ciascuna con le sue distinte peculiarità, come i quartieri etnici di New York. Le caratteristiche del modulo non potrebbero essere assegnate d’autorità; piuttosto sorgerebbero nel momento in cui SOLARE cominciasse ad apparire come un essenziale e continuo habitat umano.
Trovare il modo di canalizzare l’energia del Sole, ora che le riserve di combustibile fossile stanno cominciando a dare segni di esaurimento, è essenziale per la morfologia strutturale e funzionale del nastro urbano proposto. La sua inclinazione verso una natura pulita ed essenziale comporta anche l’immagazzinamento sul posto dell’energia solare e l’attenzione alle logistiche dei consumatori moderni. SOLARE propone un nastro urbano continuo sensibile alle radiazioni solari, attraverso sia pannelli fotovoltaici sia serre, e disegnato in modo da intercettare le correnti del vento della regione. Quindi, dal punto di vista dell’energia, è più indicata per le regioni ventose o soleggiate. SOLARE offre schemi e volumi energetici predisposti che possono essere ‘personalizzati’ con il ‘vestiario’ che meglio si addice alle necessità locali. Quando viene offerta una forma, come nel caso dei moduli tridimensionali, essi possono essere riempiti dalle funzioni attinenti al loro specifico punto di contatto nel continuum di SOLARE.
Propongo, inoltre, SOLARE come un campo di ricerca di metodi per far fronte alle catastrofi naturali. Dopo lo tsunami del 2004, la ricostruzione dell’habitat umano ha messo in atto un identico sistema di precarietà, adottato dappertutto. Dalle più povere bidonville africane o asiatiche alle opulente distese extraurbane statunitensi, ogni volta reagiamo ai piccoli o grandi capricci della natura ricostruendo ciò che ‘madre natura’ ha, magari non sistematicamente, ma comunque certamente, distrutto. Con SOLARE, al contrario, durante le condizioni di emergenza meteorologica, con un preavviso di mezzora, l’intera popolazione della regione potrebbe ritirarsi nell’habitat sopra il livello del terreno. Le interruzioni logistiche e gli isolamenti sarebbero ridotti al minimo, la distruzione dell’habitat sarebbe praticamente inesistente e il suolo non sarebbe ingombro dei detriti lacerati dei collegamenti socioculturali.
Le cose sono più fattibili quando sono disposte attorno a un progetto minimale. Noi apparteniamo al pianeta, siamo stati plasmati per secoli da esso ed è facile vedere la sua essenziale indifferenza verso l’evoluzione della vita. Allo stesso tempo, c’è un’alternativa alla brutale instaurazione di sistemi urbani di enormi dimensioni, indifferenti, di fatto ostili, a quella ‘natura amorevole’ che ipocritamente proclamiamo. La sola risposta strutturale ai capricci di ‘madre natura’ – terremoti, tsunami, tifoni, uragani, inondazioni, incendi ecc. – è cemento armato, acciaio e vetro. Ricostruendo la vita verso l’alto quando è necessario, cioè componendo i tessuti urbani a tre dimensioni (da 10 a 50 piani) attraverso la tecnologia e l’impegno progettuale, possono essere sviluppate reti continentali dove un’indispensabile presenza umana e logistica si uniscono, resistenti agli attacchi di ‘madre natura’, grazie a infrastrutture che anche in condizioni di emergenza garantiscono l’essenziale rifornimento e smaltimento di persone e cose (assicurando acqua, cibo, energia e ricoveri). Per questo, tuttavia, abbiamo bisogno di conoscenza, concentrazione, dedizione, coerenza, autodisciplina e di un contesto che finora non siamo stati capaci di mettere insieme.
repertorio
Principi dell’architettura bioclimatica
di Chiara Alippi
Il problema dell’esaurimento delle risorse energetiche e dell’inquinamento atmosferico è presente e sentito in Italia fin dagli anni Settanta del 20° secolo, anche in seguito alla crisi energetica causata dalle guerre del petrolio. Per fare fronte alle necessità immediate di ridurre i consumi, allora ci si mosse in due direzioni differenti e complementari: quella degli edifici a conservazione di energia (curando soprattutto l’isolamento termico dell’involucro) e quella dell’utilizzazione della fonte rinnovabile più diffusa e accessibile, la solare, per il riscaldamento dell’acqua a uso sanitario. Queste due tendenze presero corpo con la promulgazione della l. nr. 373 del 1976 («Norme per il contenimento del consumo energetico per usi termici negli edifici») e con il boom dei ‘pannelli solari’ (collettori per il riscaldamento dell’acqua sanitaria), agevolato da incentivi economici dello Stato. Poiché l’esperienza dimostrò che entrambe le strade non portavano a sensibili cambiamenti degli usi civili, l’attenzione degli studiosi e dei progettisti si spostò sui sistemi solari passivi, basati sul concetto che l’edificio stesso può costituire un elemento globale di captazione e accumulo dell’energia termica. Nella progettazione erano presi in considerazione parametri climatici prima trascurati, che incidevano sensibilmente sulla posizione e sulla forma dell’edificio e sul linguaggio dell’architettura. Sperimentazioni di questo genere erano già state effettuate negli anni Cinquanta-Sessanta in America e più tardi in Francia e Australia. Si iniziò dunque a parlare di ‘architettura bioclimatica’, un concetto che si concretizzava in un nuovo modo di progettare l’edificio, considerandone in forma più estesa e compiuta i rapporti con il clima e con il complesso sistema ambientale nel quale esso si colloca; tale sistema comprende i fattori climatici (e più propriamente quelli meteorologici) e quelli fisici del luogo, e quindi comporta la concezione dell’edificio quale organismo ‘vivente’, configurato in maniera adatta e mutevole in certi suoi aspetti nelle varie stagioni. L’attenzione viene posta non soltanto sul singolo edificio o sull’insediamento urbano, ma sull’intorno topografico e geografico, sulla sua morfologia, sui materiali che lo caratterizzano (ivi compresa la vegetazione). In questo senso la progettazione dell’architettura bioclimatica risulta particolarmente complessa, per la maggiore quantità di variabili e per i rapporti che le legano fra loro, per la quantità e la qualità dei problemi da affrontare e per le possibilità che si offrono al progettista di risolverli.
Clima e microclima
Costruire in rapporto alle condizioni climatiche locali è un uso molto antico che, insieme con l’utilizzo dei differenti materiali da costruzione, ha dato origine alla diversità delle espressioni architettoniche che troviamo nel mondo: per rifarsi a esempi solo italiani, si va dal trullo pugliese ai sassi di Matera, alle case alpine in pietra e legno dai tetti molto inclinati. La progettazione bioclimatica ha spinto architetti e specialisti del settore a rifarsi al passato, ispirandosi a scelte progettuali condizionate dal clima del luogo e dalle sue variazioni stagionali, per sfruttare al massimo l’energia solare per il riscaldamento e il vento per ottenere condizioni di frescura: risorse che non costano niente e non comportano inquinamenti. Tali accorgimenti bioclimatici sono particolarmente evidenti nelle architetture tradizionali delle regioni con climi estremamente caldi o molto rigidi. Nelle regioni con climi caldi e umidi, le case sono aperte su tutti i lati per offrire la massima ventilazione, mentre in zone con climi caldi e secchi le abitazioni hanno muri di elevato spessore che riparano dal sole e sono dotate di accorti sistemi di ventilazione; nel passato nelle regioni molto fredde e battute da forti venti le case venivano quasi interrate, lasciando visibile solo la parte orientata verso sud.
Per progettare un edificio si devono quindi conoscere le condizioni climatiche del luogo, valutarle e stabilire l’importanza dei singoli fattori. In regioni con inverni freddi e lunghi, la maggior parte dell’energia serve per il riscaldamento e perciò l’edificio deve essere progettato come una ‘trappola di calore’, tale da sfruttare al massimo gli apporti solari ed evitare le dispersioni termiche. Nelle regioni del Mezzogiorno il raffrescamento estivo è spesso più importante del riscaldamento invernale e si dovrà prestare grande attenzione all’ombreggiatura e alla ventilazione naturale.
I parametri climatici, quali le temperature medie mensili, l’eliofania (media giornaliera delle ore di effettiva permanenza del sole, dal sorgere al tramonto), la piovosità media, l’irradiazione solare, la frequenza e la direzione dei venti vengono regolarmente registrati dagli osservatori meteorologici; il testo di riferimento è Dati climatici per la progettazione edile ed impiantistica (Roma, CNR, 1982). Un’indicazione generale sulle condizioni climatiche dei vari luoghi è offerta dalla tabella dei gradi-giorno, contenuta nell’allegato A del d.p.r. 26 agosto 1993, nr. 412, per i singoli Comuni italiani. I gradi-giorno (GG) sono la somma delle differenze positive tra la temperatura ambiente, convenzionalmente fissata a 20 °C, e la temperatura media esterna, estesa a tutti i giorni del periodo annuale di riscaldamento. Quanto più alto è il numero dei gradi-giorno, tanto più freddo è il clima locale e più importanza ha il riscaldamento.
Trattandosi di valori medi, riferiti al luogo dell’osservatorio, i parametri climatici possono variare sensibilmente rispetto a quelli rilevabili in uno specifico sito, il cui microclima dipende dall’altitudine, dall’esposizione al sole e ai venti, dalla vegetazione, dai corpi d’acqua di superficie ecc. Le temperature medie sono di solito più elevate in pianura rispetto a quelle riscontrabili in collina, ma la pianura è più frequentemente oggetto di nebbia, che si forma in particolare lungo i corsi d’acqua e riduce le ore di sole. Le temperature medie variano anche in rapporto all’altitudine: poiché ogni 100 m di differenza d’altitudine si ha una diminuzione pari a 0,5 K, a un’altitudine di 1000 m esse saranno di circa 5 K inferiori rispetto a quelle rilevabili a livello del mare. Un lago ha normalmente un effetto mitigante sul clima, in quanto l’acqua perde lentamente il calore assunto in estate, quindi le escursioni di temperatura risultano meno rilevanti. Il microclima di un sito può essere anche modificato tramite, per es., l’impianto di alberi e siepi frangivento e la costruzione di specchi d’acqua la cui evaporazione ha un effetto rinfrescante. Differenze di temperatura si registrano tra campagna e aree urbane, dove gli edifici frangono i venti e trattengono il calore. Un fattore che influisce molto sul microclima è poi l’insolazione del sito in dipendenza della sua esposizione: l’orientamento in direzione tra sud-est e sud-ovest garantisce i più alti apporti di energia solare e permette una buona illuminazione degli ambienti.
Le scelte progettuali
Orientamento. - L’orientamento di un edificio viene definito mediante l’angolo azimutale, che indica di quanto una facciata è inclinata rispetto alla direzione Est-Ovest. L’orientamento che reca maggiori apporti solari all’edificio è quello con la facciata rivolta verso sud (angolo azimutale = 0°). In inverno, quando il sole è basso, le facciate orientate verso sud ricevono una quantità di energia irradiata spesso sufficiente per riscaldare i locali; in estate, quando il sole è alto, ricevono invece meno radiazioni di quelle orientate verso est e/o ovest. Per evitare il surriscaldamento dei locali su questi ultimi fronti, sono necessari adeguati dispositivi di ombreggiatura e di ventilazione. Le facciate orientate verso est e ovest, inoltre, ricevono in inverno pochi apporti, in quanto il sole sorge a sud-est e tramonta a sud-ovest. Il massimo di radiazione è ricevuto dalle falde del tetto esposte verso sud in estate, a mezzogiorno: esse hanno normalmente un’inclinazione di circa 20° e ciò significa che alle nostre latitudini i raggi solari vi incidono quasi perpendicolarmente, comportando il possibile surriscaldamento della struttura dei tetti. In primavera e in autunno gli apporti sono distribuiti in misura quasi uguale su tutte le superfici verticali, a eccezione di quelle orientate verso nord.
Forma. - Sui consumi energetici incide in particolar modo la compattezza dell’edificio, cioè il rapporto tra superficie e volumetria (S/V). Tanto più piccola è la superficie di una casa in rapporto alla sua volumetria, tanto meno energia si disperde attraverso i muri e il tetto.
Esposizione ai venti. - I venti più freddi provengono da nord e da nord-est e raffreddano notevolmente l’involucro dell’edificio: in estate comportano freschezza, mentre in inverno fanno perdere molto calore. L’isolamento termico delle pareti sui lati più esposti ai venti freddi, dunque, dovrebbe essere più efficace e le aperture dovrebbero essere limitate a quanto serve per la ventilazione trasversale dell’edificio. In zone collinari e montuose, per ripararsi dai venti freddi, si possono scegliere siti su versanti sottovento, esposti verso sud o sud-ovest, che godono anche dei più alti apporti solari. In pianura le case possono essere protette da siepi, alberi (sempreverdi) o da altri edifici.
Finestre. - La luce diretta, che entra attraverso superfici trasparenti nella casa, riscalda gli oggetti sui quali incide (i più importanti sono le pareti e i pavimenti) e comporta un guadagno diretto di calore. La disposizione e la dimensione delle vetrate sono perciò fattori importanti che devono essere ben studiati, tenendo conto del clima locale. Nelle zone con frequenti nebbie al mattino, conviene orientare le finestre non direttamente verso sud, ma leggermente verso ovest, mentre in zone in cui si verificano spesso degli annuvolamenti pomeridiani, leggermente verso est. Il dimensionamento delle finestre deve tener conto anche della capacità delle superfici di accumulare calore. In inverno, le finestre esposte a sud dovrebbero permettere alla luce diretta di incidere anche sulle pareti in profondità delle stanze, così che pure queste vengano riscaldate: alti parapetti e architravi riducono sensibilmente gli apporti. Le finestre orientate verso est e ovest, invece, contribuiscono poco al riscaldamento passivo in inverno e d’estate possono rivelarsi una fonte di surriscaldamento, soprattutto se non dotate di adeguate ombreggiature.
Disposizione dei locali. - Allo scopo di risparmiare energia, sarebbe conveniente suddividere l’edificio in zone climatiche differenti, più calde e più fredde. I locali che si vogliono più caldi e più illuminati devono essere orientati verso sud e possedere grandi finestre. I locali non riscaldati, o poco riscaldati, si devono disporre invece sul lato settentrionale, dove formano un cuscinetto termico tra quelli più caldi e l’esterno. Tipiche zone cuscinetto sono verande e balconi vetrati, trombe di scala, scantinati, dispense e garage.
Sistemi solari attivi e passivi. - Lo sfruttamento dell’energia solare senza l’impiego di speciali impianti è detto passivo e comprende tutti quegli accorgimenti architettonici e costruttivi idonei a captare gli apporti solari e ad accumularli in forma di calore. I sistemi passivi più semplici sono le finestre e i muri esposti al sole. Sistemi passivi più elaborati sono i muri Trombe, i collettori ad aria e quelli a finestra. Attivi sono detti invece i sistemi che impiegano impianti tecnologici, come collettori solari ad acqua, pannelli fotovoltaici, generatori eolici o semplici ventilatori che convogliano l’aria al luogo di destinazione. I sistemi attivi includono anche il recupero del calore prodotto dall’illuminazione, da apparecchiature e di quello emesso dalle persone. Molti sistemi solari sono ibridi, sono cioè una combinazione di sistemi attivi e passivi e l’ottimizzazione del loro impiego può rendere un edificio energeticamente quasi autosufficiente.
Un semplice sistema passivo è il muro massiccio semplice. Lo si può osservare nelle case antiche: i pesanti muri in pietra o mattoni non possiedono particolari caratteristiche termoisolanti, ma quando vengono riscaldati nelle giornate di sole trasmettono il calore verso l’interno e, per effetto dell’inerzia termica della loro massa, lo accumulano e lo mantengono più a lungo rispetto ai muri più sottili e meno pesanti. L’effetto è naturalmente di breve durata, in quanto il muro si raffredda nuovamente nel corso della notte e per effetto del vento. Per questa ragione si è cercato di migliorare il sistema, per esempio con la soluzione del cosiddetto muro Trombe. Si tratta di un tipo di collettore solare a parete, che consiste in un muro massiccio (mattoni pieni, calcestruzzo) con una superficie esternamente annerita e protetta da una lastra a doppio vetro posta a 5-10 cm di distanza. La luce del sole attraversa il vetro e riscalda il muro, il quale, grazie alla sua inerzia termica, accumula il calore assorbito, lo diffonde con un certo ritardo all’interno e lo irradia negli ambienti. Il vetro impedisce anche che il muro venga raffreddato dal vento. Tra il muro e il vetro si forma dell’aria calda, che può essere convogliata negli ambienti retrostanti attraverso aperture regolabili poste nella parte alta del muro. Altre aperture poste in basso permettono l’afflusso di aria più fredda nell’intercapedine. Con questo dispositivo di convezione si ottiene nelle stanze un effetto riscaldante più rapido rispetto alla pura radiazione del calore. Inoltre, prevedendo aperture di ventilazione in basso e in alto nella vetrata, si ottiene anche il raffrescamento dei locali nelle ore notturne, in quanto il muro durante il giorno assorbe il calore della casa e durante la notte lo disperde verso l’esterno. Usando un isolamento termico notturno (serranda esterna) si possono ottenere guadagni energetici relativamente alti. L’isolamento esterno avvolgibile serve anche per prevenire il surriscaldamento del muro in estate. L’aria calda che si forma tra la parete vetrata e il muro può essere convogliata, anche tramite un ventilatore, direttamente nei locali adiacenti o in altri luoghi, per riscaldare delle strutture adatte ad accumulare calore (per esempio una massicciata di pietrisco, posta sotto il pavimento o tra due paramenti verticali murali, che mantiene a lungo il calore).
Basandosi sul principio di utilizzare aria calda, il collettore solare ad aria non possiede un muro accumulatore come il muro Trombe; la parete interna può essere perciò sottile, ma termicamente ben isolata per evitare la dispersione del calore. Molto simile a quello ad aria è il collettore solare a finestra, che consiste in una doppia vetrata (vetro termico o a camera d’aria) attraverso la quale anche la luce può entrare nei locali. Pure in questo caso l’aria calda può essere convogliata in un corpo accumulatore. Normalmente la doppia vetrata non è apribile e quindi si ha bisogno anche di normali finestre per la ventilazione. Occorre inoltre un’adeguata ombreggiatura esterna per il periodo estivo.
I collettori solari per la produzione d’acqua calda sono di due tipi: a piastra (pannelli) e a tubi sottovuoto. I più diffusi sono quelli a piastra, composti da una cassa termicamente isolata all’esterno, nella quale si trova l’assorbitore, ossia una lastra metallica scura che ha la funzione di captare la radiazione solare; a questa lastra sono saldati dei tubi, all’interno dei quali circola un liquido termovettore che viene riscaldato dal calore trasmesso dall’assorbitore e a sua volta tramite uno scambiatore cede il calore all’acqua sanitaria. Il rendimento dei collettori si riduce sensibilmente alle alte temperature, che rallentano la circolazione del liquido termovettore, e in caso di bassi apporti solari (nuvole) o di perdite d’energia. Per ovviare a quest’ultimo inconveniente in alcuni collettori l’assorbitore è isolato attraverso uno schermo termico trasparente (ITT) dall’esterno, così da evitare le dispersioni di calore per convezione: in tal caso si possono verificare solo dispersioni a causa della riflessione del vetro e della conduzione attraverso i materiali. In alcuni collettori è già integrato un serbatoio per l’acqua calda, che abbassa notevolmente i costi dell’impianto.
Gli impianti fotovoltaici si basano sulla trasformazione diretta della radiazione luminosa del sole in energia elettrica per effetto fotovoltaico. Le celle fotovoltaiche sono costituite da due sottili strati di materiale semiconduttore, il silicio; uno strato tende a raccogliere elettroni (-), l’altro a raccogliere cariche positive (+) e questo fa sì che nella zona di contatto si formi un campo elettrico. Quando i fotoni (la luce solare) colpiscono la zona di contatto, si genera un movimento delle cariche da uno strato all’altro. Collegando i due strati con un circuito elettrico esterno, si genera una corrente elettrica continua a 12 o 24 V, che viene immagazzinata in batterie dalle quali si preleva l’energia. Normalmente si utilizza un convertitore che trasforma la corrente continua in corrente alternata a 220 V per evitare di utilizzare cavi di sezione elevata e per ovviare alla richiesta di corpi illuminanti che funzionino a tensioni così basse. Tramite un invertitore e un contatore speciale l’energia elettrica prodotta in proprio può anche essere ceduta alla società erogatrice, cioè essere immessa nella rete, in modo da garantirsi la fornitura di energia anche nei periodi in cui l’impianto fotovoltaico non ne produce abbastanza (‘conto energia’). Il costo degli impianti fotovoltaici è ancora relativamente elevato e la produzione conviene nel caso di piccole utenze isolate o per illuminazioni esterne.
I materiali
Impiegare nella costruzione di un edificio materiali che rispondano a requisiti ‘ecologici’ vuol dire valutare il loro impatto sull’ambiente e sulla salute delle persone da diversi punti di vista e in varie fasi del loro ciclo di vita. Essi devono essere: ottenuti da materie prime rigenerabili o abbondantemente disponibili; prodotti in processi sicuri per i lavoratori e sostenibili per l’ambiente e con poca energia non rigenerabile; privi di sostanze tossiche e inquinanti; idonei a garantire condizioni di comfort stabili all’interno; riutilizzabili e riciclabili o smaltibili con metodi sicuri. Da diversi anni, anche in Italia, sotto la spinta di normative sempre più precise ed esigenti, la ricerca di materiali che rispondano a questi requisiti si è molto evoluta.
L’attenzione di produttori e progettisti è rivolta ad approfondire soprattutto la tematica del comportamento termico di un edificio e dei suoi elementi costruttivi, comprendendo tutti quei processi fisici mediante i quali esso scambia energia termica con l’esterno e regola quindi le condizioni climatiche dell’interno. Le variabili che influenzano il comportamento termico di un edificio e il suo bilancio energetico si possono riassumere in: accumulo di energia termica e isolamento termico. Alla capacità dei corpi di accumulare calore per innalzare la propria temperatura sono legate l’inerzia termica di un involucro e la sua capacità di funzionare come ‘volano termico’ rispetto alle variazioni di temperatura dell’ambiente esterno e interno. La capacità di isolare è legata invece allo spessore del materiale utilizzato nella direzione di trasmissione del calore; così una parete, a parità di materiale con cui è realizzata, si oppone al trasferimento del calore quanto più è spessa (il parametro in questo caso è la resistenza termica). L’architettura tradizionale utilizzava pareti omogenee in muratura e affidava allo spessore il contenimento delle dispersioni di calore; i forti spessori delle pareti poi conferivano a queste una grande capacità di accumulo che permetteva di attenuare e sfasare nel tempo le oscillazioni della temperatura ambiente. Oggi si guarda a queste soluzioni come risposte intelligenti ai problemi posti dall’uso indifferenziato dei sistemi di climatizzazione e dei materiali isolanti. Un altro vantaggio notevole nella costruzione di muri portanti omogenei in mattoni è la maggiore continuità nell’esecuzione dei lavori, a fronte della necessità di interromperli nel caso di un edificio a telaio, dove la costruzione delle pareti di tamponamento può iniziare solo quando il calcestruzzo ha acquisito una certa solidità. Naturalmente, per conferire all’edificio le proprietà termoisolanti richieste gli spessori devono essere piuttosto consistenti, il che serve anche ad abbattere i rumori provenienti dall’esterno. Muri con uno spessore maggiore di 30 cm vengono però costruiti poco volentieri, perché tolgono spazio all’interno degli ambienti; si preferiscono muri più sottili cui si applica uno strato termoisolante, posto all’esterno (a cappotto) o in un’intercapedine opportunamente ventilata, nel caso in cui il materiale debba assorbire umidità. Diversi materiali con ottime caratteristiche termoisolanti sono però poco sostenibili dal punto di vista ecologico; per esempio, i materiali termoisolanti sintetici (polistirene e poliuretano) non sono praticamente riciclabili e il loro smaltimento in discarica è sconsigliabile, perché l’eventuale liberazione di sostanze tossiche può inquinare le falde idriche.
La necessità di materiali che combinino capacità di accumulo e isolamento ha portato all’evoluzione di prodotti in laterizio alleggeriti nell’impasto (laterizi alveolati), ottimizzati nella foratura (fori stretti, sfalsati e verticali), conformati in dimensioni maggiori e con facce a incastro per permettere montaggi con il minimo impiego di malta per i giunti, che costituiscono nella muratura punti di discontinuità anche dal punto di vista delle prestazioni termiche.
Un materiale dalle buone prestazioni dal punto di vista ecologico è il legno: naturale, rigenerabile, riciclabile e biodegradabile, possiede anche vantaggiose caratteristiche tecniche in quanto è di facile lavorazione e ha un peso modesto. La produzione e la lavorazione non comportano un eccessivo consumo di energia, né rilevanti emissioni di sostanze nocive. Inoltre il legno presenta buone caratteristiche termoisolanti, avendo una conducibilità termica piuttosto bassa grazie alla sua struttura cellulare; nonostante il suo peso modesto, il legno possiede poi una discreta inerzia termica e quindi è un buon accumulatore di calore. In Italia le costruzioni in legno sollevano però diversi problemi: non facendo parte della tradizione locale, non vengono contemplate dalla maggior parte dei regolamenti edilizi e urbanistici e molto spesso di fronte alle richieste delle licenze per costruire una casa in legno i tecnici comunali sono indecisi e titubanti, anche perché non si conoscono in maniera approfondita i necessari accorgimenti di sicurezza.
Una tecnica praticata prima solo in alcune regioni italiane, come la Sardegna, e oggi riproposta è la costruzione di muri e interi edifici in terra argillosa, vantaggiosa per vari motivi: l’abbondanza della materia prima, la salubrità e le caratteristiche igrotermiche del materiale, la semplicità di lavorazione e i bassi consumi energetici connessi alla costruzione. I muri costruiti in terra cruda conferiscono agli ambienti un clima interno equilibrato (umidità relativa: 50% quasi costante), accumulano il calore e possiedono buone proprietà fonoisolanti dovute al loro elevato spessore e peso. Dopo la demolizione il materiale è riutilizzabile o può essere smaltito senza causare problemi ambientali. Esistono due tecniche di costruzione in terra cruda: l’adobe e il pisé. L’adobe, con cui si possono costruire edifici fino a tre piani, utilizza blocchi ottenuti pressando l’impasto argilloso e plasmabile in appositi stampi di legno ed essiccati poi all’aria aperta. La tecnica del pisé consiste invece nella costruzione di muri, portanti e non, usando casseforme in cui viene immessa la terra cruda, opportunamente preparata. Si utilizza una terra piuttosto magra (sabbiosa) e poco umida che viene impastata ed è pronta all’uso quando tutti i suoi componenti sono bene amalgamati. Il materiale viene poi inserito nelle casseforme in strati di 5-12 cm e battuto a mano o con l’ausilio di una macchina fino ad arrivare a strati alti circa 80 cm. La tecnica consente la costruzione di edifici alti fino a due o tre piani.