Economia della cultura
Premessa
Il binomio cultura-economia è stato considerato dall’ortodossia accademica con sospetto, se non con disprezzo, fino a qualche decennio fa. Giocavano a suo sfavore l’idea che il prezzo o il denaro rappresentassero uno svilimento della cultura oppure, tra i più avveduti, che il paradigma analitico della nuova disciplina fosse ancora scientificamente inadeguato. Quarant’anni di studi e ricerche sull’economia dell’arte e della cultura (W.J. Baumol, W.G. Bowen, Performing arts: the economic dilemma, 1966; The economics of the arts, ed. M. Blaug, 1976; Handbook of the economics of art and culture, 2006) hanno ribaltato tale giudizio negativo accrescendo la conoscenza di un fenomeno, la cultura, assolutamente pervasivo di ogni attività umana. Se oggi l’economia della cultura non esistesse, bisognerebbe inventarla. Per ragioni diverse. Innanzitutto perché i beni d’arte e di cultura, come aveva ben compreso l’economista classico David Ricardo, che li escluse dalla sua analisi, hanno caratteri così peculiari che non si prestano, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, a una trattazione generale e sistematica. Pur non essendo questo il luogo per fare la storia del pensiero economico rispetto ai beni culturali, è evidente che gli strumenti analitici e gli assiomi dell’economia classica (teoria del valore-lavoro, teoria della distribuzione del reddito) e di quella neoclassica (ipotesi di rendimenti decrescenti, preferenze individuali date, scelte razionali), appaiono inadeguati di fronte all’irriducibilità della cultura e dei suoi prodotti a un modello in cui i beni perdono la loro specificità e personalizzazione.
In questo saggio si cercherà di delineare l’evoluzione futura, ragionevolmente attesa, dell’economia della cultura e delle materie che a essa afferiscono, trascurando di guardare troppo indietro a un passato comunque fecondo di grandi intuizioni e avanzamenti scientifici. Sarà un contributo a una definizione più aperta alle sfide della produzione di cultura e delle sue domande scientifiche attuali: che cos’è la creatività, cosa sono i beni simbolici, quali le conseguenze dell’aumento della componente intellettuale dei beni, quali le caratteristiche originali di un inatteso macrosettore economico culturale che vale, solo nel nostro Paese, quasi il 10% del prodotto interno lordo e impiega quasi due milioni di persone?
Il saggio analizzerà nella prima parte le principali politiche culturali, prevalentemente sotto il profilo funzionale. Nella seconda si presenterà un modello di creatività da cui derivare i principali mercati del macrosettore delle industrie culturali e creative. La terza parte sarà dedicata all’analisi di nuovi assi di ricerca. Le conclusioni avanzeranno la proposta di muovere la ricerca verso una definizione più aperta e interdisciplinare.
Evoluzione delle politiche culturali
L’economia della cultura, di solito, non si occupa delle politiche culturali sotto il loro profilo funzionale. Le politiche culturali sono più comunemente studiate sotto altri punti di vista, secondo la distinzione tra politiche commerciali private e politiche pubbliche oppure secondo la logica dell’intervento pubblico correttivo dei fallimenti del mercato (vedi due contributi pionieristici: A.T. Peacock, Welfare economics and the public subsidies to the arts, «Manchester School of economics and social studies», 1969, 37, pp. 323-35; R.A. Musgrave, Merit goods, in The new Palgrave dictionary of economics, 1987, 3° vol., ad vocem).
Basta scorrere i titoli della letteratura specialistica per averne una conferma (Throsby 2001). Nei fatti l’impostazione tradizionale, che si concentra sulle politiche di welfare e sulla giustificazione dell’intervento pubblico in campo culturale, comporta, come vedremo, una sopravvalutazione delle politiche di conservazione a scapito di quelle di produzione di cultura. L’inversione di questa relazione rappresenta uno dei compiti dell’economia della cultura nei prossimi anni.
Le politiche culturali si dividono in quattro categorie funzionali: a) quelle che rientrano nel modello della conservazione del patrimonio culturale; b) quelle che fanno parte del modello della produzione di cultura; c) quelle che appartengono al modello della distruzione della cultura tangibile e intangibile; e infine d) quelle che dipendono da un comportamento negligente. Una suddivisione di questo tipo sembra esaurire ogni possibilità perché la cultura o la si conserva o la si produce o la si distrugge, secondo un modello incivile, oppure la si trascura.
La negligenza e la distruzione di cultura sono politiche negative. Le politiche di conservazione e di produzione di cultura hanno carattere positivo. Da un altro punto di vista distruzione, negligenza e conservazione sono politiche che guardano al passato, legate sia positivamente sia negativamente al patrimonio culturale. La produzione è una politica orientata al futuro, il motore per lo sviluppo di nuove industrie culturali.
Distruzione di cultura
Ci sono fasi storiche durante le quali i popoli deliberatamente decidono di distruggere le loro maggiori opere d’arte o il loro stesso patrimonio culturale. Durante guerre, rivoluzioni (Viejo Rose 2007) e periodi coloniali città storiche sono saccheggiate e spogliate dei loro capolavori, interi musei vengono depredati e trasformati in bottino di guerra, mentre importanti monumenti vanno distrutti.
Si è anche assistito a un uso improprio e demolitore dei siti del patrimonio culturale (per es., quando si immagazzinano munizioni ed esplosivi in vecchie chiese e palazzi storici, o comunque se ne cambia irrispettosamente la destinazione). La distruzione per ragioni ideologico-religiose è un’opzione tragica appartenuta a molte culture. Vecchi simboli sono sostituiti da nuovi simboli.
La comunità internazionale è spesso stata investita dalla richiesta di un atto di assunzione di responsabilità nel garantire misure precauzionali contro la distruzione di cultura; tuttavia per quanto le intenzioni possano essere buone, andare oltre la retorica ufficiale è difficile e molte delle misure attualmente adottate riguardano principalmente la ricostruzione postconflitto.
Nelle moderne città e in molti Paesi sviluppati la distruzione di cultura assume la forma della distruzione del paesaggio. Questa politica ha effetti irreversibili: le azioni di riequilibrio sono costose e spesso impossibili.
Infine, la lotta per la supremazia sui mercati globali, la concorrenza internazionale e la guerra dei prezzi possono indurre alla pratica dei ‘prezzi di eliminazione’ per distruggere le industrie culturali locali. Essa consiste nell’applicazione di prezzi che nel breve periodo non consentono di coprire i costi e spingono quindi le imprese al fallimento. Questa opzione fortemente negativa sembra, tuttavia, appartenere soprattutto a un passato recente, piuttosto che a un mondo futuro più polifonico e policentrico.
Negligenza della cultura
Per quanto esista una grande differenza in termini di motivazioni tra la distruzione deliberata della cultura e la negligenza della cultura, i risultati delle due politiche possono essere entrambi devastanti. Non è un fenomeno nuovo. Nel corso della storia ci sono stati luoghi ed epoche in cui l’assenza di politiche ha rappresentato l’unica politica culturale. Le origini del modello, ovviamente negativo, possono ritrovarsi nell’ignoranza politica, nelle condizioni di povertà o nella dominazione straniera unicamente interessata alla sottomissione culturale del Paese vinto o allo sfruttamento delle sue risorse locali. Nel 20° sec. non pochi Paesi sono stati obbligati a trascurare il valore economico e sociale della loro cultura. Nell’era coloniale, la negligenza della cultura nazionale era imposta dall’esterno. Anche oggi pochi finanziamenti sono disponibili per la cultura, dato che altri settori hanno una più alta priorità nazionale e la cultura è classificata al fondo della scala dei valori da tutelare e valorizzare.
Altri esempi possono illustrare le politiche di negligenza. Quando le violazioni del copyright non sono sanzionate e i mercati illegali combattuti con rigore; quando assistiamo alla decadenza del capitale umano a cominciare da un sistema educativo di media e bassa qualità. Quale che sia la sua origine, la mancanza di politiche pubbliche danneggia irreversibilmente il patrimonio culturale nazionale, indebolendone l’identità futura e di conseguenza, come vedremo, anche la sua forza di impatto sullo sviluppo economico.
Conservazione della cultura
Il modello della conservazione della cultura nasce dall’autoritarismo della «tradizione giuridica conservativa, costruita su norme cogenti e su progressivi, sempre più ampi divieti» (A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, 1974, p. 5). Il modello sin dall’inizio s’identifica con il museo che conserva o, come diremmo oggi, nasconde/rivela. Tra il 1797 e il 1866 si ha la «massima occorrenza fisica della conservazione» (p. 5). Il museo era il luogo del rifugio e della preservazione.
La conservazione è indubbiamente un concetto molto discusso e dai contorni non sempre ben definiti. Se ne possono sintetizzare molte accezioni. Conservazione può voler dire, in primo luogo, tutela, intesa come pubblico servizio, in quanto si sottrae l’arte alla legge del mercato, alla sua mercificazione; si toglie dal mercato l’opera d’arte restituendola alla comunità e al pubblico. Si distolgono il patrimonio e il paesaggio dagli interessi privati, difendendoli dall’espansione edilizia, dalla logica dello sviluppo economico sconsiderato, distruttore dello stesso patrimonio che lo alimenta e lo sostiene. Conservazione può voler significare anche difesa contro la pauperizzazione di un territorio, attuata attraverso la mobilità della proprietà delle opere (divieto di esportazione), oppure attraverso l’impoverimento di un’area in corso di urbanizzazione o soggetta alle logiche di sfruttamento della rendita immobiliare (divieto di demolizione o permesso di distruzione). Una terza accezione riguarda poi il mantenimento dell’integrità originaria dell’opera d’arte (restauro e manutenzione): ricordiamo la Roma del 1624 quando un provvedimento del cardinale Ippolito Aldobrandini individuò un primo elenco di opere da tutelare e conservare, parte vitale del patrimonio storico. Infine, per conservazione, possiano intendere una gestione e una valorizzazione adeguate dell’opera d’arte: la conservazione deve essere a regola d’arte e anche gli aspetti di buona gestione e valorizzazione devono orientare la politica verso esiti di qualità. Conservare senza valorizzare rappresenterebbe comunque un segno di regresso. Il modello della conservazione guarda al futuro, ma è ispirato al passato, del quale rafforza l’identità storica e per il quale mantiene il valore del patrimonio culturale accumulato. Nel modello della conservazione, inoltre, prevale la priorità del valore di esistenza del bene culturale. Il valore d’uso e l’attenzione alla fruizione del pubblico vengono dopo, anche in termini storici. Bisogna aspettare la fine del 20° sec. per sentire parlare di buona gestione e di attenzione alle preferenze di chi domanda la cultura.
Produzione di cultura
Produzione vuol dire creare nuove espressioni d’arte nella loro forma tangibile (monumenti, musei, archivi, biblioteche e reperti archeologici), intangibile (musica, pittura, teatro, festival e paesaggio) e materiale (arti decorative e design), come sostiene Santagata (2007).
In teoria il modello della conservazione e della produzione non sono di pari importanza. Il modello della conservazione è senz’altro sottordinato a quello della produzione per il semplice fatto che senza produzione non è comunque possibile un uso o consumo culturale futuro. Tuttavia, siccome la conservazione del patrimonio accumulato è il prerequisito per una buona produzione, o meglio un input strategico per produrre nuova cultura, anche la conservazione è in qualche modo una politica assolutamente non trascurabile.
Nonostante il precedente gerarchico della produzione, se si osservano le politiche culturali, per es., nelle grandi città, si nota che un’impercettibile tendenza, un clinamen, ha opacizzato il modello produttivo a favore di quello della conservazione e reso il mondo dei consumatori, fatto di turisti e visitatori, arbitro delle principali scelte strategiche. Al contrario si riafferma oggi la necessità e il bisogno di tornare a interventi di struttura relativi alla riforma delle capacità produttive artistiche e creative del Paese.
L’ottica cambia radicalmente. Non più l’enfasi sulle funzioni di tutela, valorizzazione, conservazione, gestione e fruizione del patrimonio culturale, consacrate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (Codice Urbani) e interpretate in modo nobile e rigoroso da Settis (2002), ma il massimo di attenzione e di assistenza alla catena di produzione del valore di un bene d’arte.
La catena di produzione dei beni d’arte e di cultura
La catena o la filiera di produzione di un bene d’arte è un concetto di politica economica che illustra i ruoli e i compiti dei principali attori, pubblici e privati. Si può qui brevemente presentarne cinque fasi dalle quali traspare il cambiamento di prospettiva e di responsabilità istituzionali.
La prima fase della filiera di produzione dei beni d’arte e di cultura riguarda la selezione degli artisti e degli attori della creatività. Gli strumenti istituzionali di selezione, dal mecenatismo privato al mercato, ai concorsi pubblici e alle accademie, sono spesso inadeguati rispetto alla dimensione internazionale e alla globalizzazione del mondo dell’arte e dell’industria culturale. Questa fase include anche il processo formativo e a questo proposito va sottolineato che l’incremento della qualità delle accademie di belle arti, dei conservatori e dei programmi pubblici e privati per l’arte e la creatività (borse, premi, aiuti ecc.) è un compito gravoso che i decisori politici temono e lasciano volentieri in disparte.
La seconda fase è quella della creazione delle idee, essendo l’arte un bene eminentemente intellettuale. La creatività non è un’epifania, una rivelazione divina, ma in buona parte problem solving capacity: un processo che si può riprodurre e trasmettere alle generazioni future. I mercati sono sedotti dalla creatività espressa dai beni, al punto da modificare le regole della concorrenza internazionale che sempre più si fonda sulla qualità dei prodotti. Inevitabilmente questa fase pone la questione della tutela dei diritti della proprietà intellettuale e della lotta ai mercati della pirateria commerciale (Benghozi, Santagata 2001).
La fase della produzione è una complessa articolazione di attività coordinate. Costose strutture organizzative (si pensi ai teatri e all’industria cinematografica) sono strumenti di realizzazione delle idee degli artisti. Tipica della produzione culturale è la dimensione di sistema che trova esempi di valore internazionale nei distretti culturali italiani, museali, della cultura artistica materiale e urbani.
La distribuzione delle opere d’arte è la quarta fase della filiera. Assume sempre più importanza e, insieme alla fase della concezione, comanda l’intera catena di creazione del valore. La creatività imprenditoriale è esposta sempre più alla sfida di logiche distributive innovative che sappiano dare risposte alle preferenze dei consumatori. La distribuzione e la gestione del sistema dei beni culturali sono componenti importantissime di questa fase.
Infine la fase del consumo, che richiama i temi dello sviluppo delle industrie culturali e delle innovazioni a esse correlate, della qualità e allargamento, o democratizzazione, della domanda.
In queste cinque fasi, settore pubblico e settore privato ridefiniscono compiti, sforzi e terreni di collaborazione a un livello più alto che in particolare restituisce al mercato e all’iniziativa individuale responsabilità, autonomia e sfida del rischio in settori culturali vasti e strategici per lo sviluppo.
Il modello della conservazione dei beni culturali ha accumulato troppi difetti che ne appesantiscono il funzionamento e la spinta innovativa. Alla fine degli anni Ottanta il sentimento era quello di un colpevole ritardo storico rispetto a quanto si stava facendo in Francia e nei Paesi anglosassoni (G. Brosio, W. Santagata, Rapporto sull’economia delle arti e dello spettacolo in Italia, 1992). Oggi il modello della conservazione per il consumo è obsoleto soprattutto perché crea sinergie solo con pochi altri settori economici o parte di essi. Mi riferisco innanzi tutto al turismo, alla piccola impresa di restauro, alla piccola impresa edile, alla società di informatica specializzata in catalogazione, all’editoria specializzata e poco altro.
Ben altro è il valore sistemico della produzione di cultura. Attraverso la formazione e selezione di artisti, designer e altri mestieri creativi essa alimenta il mercato del lavoro di tutto il sistema Italia e ne riqualifica il segmento più strategico, quello che Florida (2002) ha chiamato «la classe creativa». Attraverso il concepimento di nuove idee e la loro realizzazione, la produzione di cultura si estende a un mondo produttivo in enorme crescita a livello mondiale.
Stime disponibili a livello europeo rivelano per i settori culturali e creativi un giro di affari di oltre 654 miliardi di euro, pari al 2,6% del prodotto interno lordo europeo nel 2003. L’anno seguente il settore occupava circa 5,8 milioni di addetti, pari al 3,1% della popolazione attiva (Commissione europea 2006).
Produrre cultura è dunque un’attività economica di frontiera nell’epoca della società della conoscenza e dei mercati globali ed è sempre più complessa, perché si deve adattare a beni e servizi molto diversi per contenuti e tecnologie, nonché a fruitori assolutamente eterogenei.
Un input primario della produzione di cultura è rappresentato dalla creatività, concetto di non agevole definizione (Santagata 2007), e l’analisi della sua influenza sui processi produttivi culturali è un passo obbligato per l’individualizzazione dei futuri ambiti di ricerca. Ripercorrendo nel prossimo paragrafo le linee della costruzione di un modello italiano di industrie creative e culturali cercheremo di delineare le priorità per lo sviluppo dell’analisi economica della cultura nei prossimi anni.
La produzione di cultura e il valore economico delle industrie culturali
Il futuro dell’economia della cultura si dovrà occupare soprattutto dei problemi legati ai mercati delle industrie culturali. Un ambito assai più vasto dei settori dei musei, dei beni culturali e dello spettacolo dal vivo. Un settore che influenza grandemente le economie nazionali, che crea identità, che posiziona i Paesi nello scacchiere internazionale e che genera livelli significativi di reddito e di occupazione.
La dimensione delle industrie culturali e creative italiane qui di seguito stimata non deriva tanto da una preventiva definizione ad hoc, quanto da un modello verificabile empiricamente. La differenza è significativa perché le definizioni tendono ad assumere valore universale e sono spesso accolte acriticamente. I modelli invece fanno riferimento alle relazioni tra gli agenti e tra i fenomeni e sono soggetti a continua verifica della loro validità euristica.
L’inarrestabile progresso delle industrie culturali e creative
Negli ultimi due decenni è cresciuta significativamente l’importanza delle industrie culturali e della produzione di cultura. In particolare la domanda mondiale dei loro prodotti è aumentata per almeno due ragioni. In primis, lo sviluppo dell’economia della conoscenza, che ha origine da alcune fondamentali innovazioni scientifiche nel campo delle comunicazioni e delle tecnologie dell’informazione, ha consentito di produrre strumenti e macchine per il consumo di cultura audiovisuale disponibili e accessibili a costi relativamente contenuti quasi in ogni parte del mondo. A sua volta la domanda di cultura ha registrato un rilevantissimo incremento a seguito dello sviluppo dei processi d’istruzione, dei nuovi fenomeni di urbanizzazione, di creazione di metacittà, di aumento dei redditi e della ricchezza. Questa tendenza di dimensioni mondiali ha trainato la domanda dei beni dell’industria dei contenuti (editoria, cinema, musica, audiovisivo, musei, biblioteche) delle altre industrie culturali. In secondo luogo anche il sistema del commercio internazionale ha sviluppato nuove tendenze sia in termini d’incremento degli scambi, sia di varietà dei prodotti scambiati. Le facilitazioni introdotte dai nuovi trattati hanno permesso di superare la vecchia logica dello scambio ineguale tra risorse naturali e/o forza lavoro a basso costo, provenienti dai Paesi emergenti, e beni ad alta tecnologia o valore simbolico, prodotti dai Paesi industriali avanzati. L’enorme mercato dei beni della cultura materiale, ossia di tutti i beni e servizi prodotti per la sopravvivenza, tutela, agio, divertimento, cultura e benessere della persona umana, non solo si allarga e consolida, ma diventa più fair e aperto. In particolare il mercato dei beni fondati sulla cultura materiale è in radicale cambiamento, passando dalla concorrenza fondata sui bassi costi di produzione alla competizione fondata sulla qualità dei prodotti, sul loro valore simbolico e sulla qualità dell’esperienza che essi consentono. Di conseguenza l’immenso settore produttivo dei beni della cultura materiale, che in Italia in gran parte corrisponde ai settori del made in Italy (quali, per es., design, moda, casa, stili di vita, turismo, industria enogastronomica, meccanica leggera) viene trainato da un aumento della domanda per prodotti di qualità, che si esprime nella cultura dell’estetica, decorazione, design e conoscenza tradizionale (traditional knowledge).
Modelli di creatività
La creatività, per usare qualche immagine evocativa, la ritroviamo nella nostra cultura, nel nostro territorio, nella qualità del nostro vivere quotidiano e dei nostri prodotti. Non è un fine in sé, ma un processo, un mezzo straordinario per produrre nuove idee. In questo senso creatività e cultura sono un pilastro della qualità sociale, intesa come un contesto di comunità libero, giusto, economicamente sviluppato, culturalmente vivo e di alta qualità della vita.
Cultura e creatività si combinano in modi diversi a seconda delle condizioni storiche dei vari Paesi, dando luogo a modelli in parte differenti. In alcuni dominano gli aspetti tecnologici e hanno un ruolo chiave le innovazioni tecniche, in altri prevalgono gli aspetti economici relativi allo sviluppo dei mercati e del business; in certi casi gli aspetti giuridici e l’applicazione e sviluppo del copyright, in altri gli aspetti culturali, i richiami alla tradizione e alla qualità sociale. A essi dedicheremo le osservazioni che seguono. Anche se le differenze tra modelli internazionali di creatività e di industrie culturali si esprimono molto più in termini di accentuazioni che di diversità di contenuti, si possono quantomeno disegnare due distinti profili. L’esercizio non è neutrale perché ogni profilo contribuisce in definitiva a identificare settori diversi dell’industria culturale nazionale (MiBAC 2008). Un primo profilo considera la creatività e la produzione di cultura come input della società della conoscenza, delle tecnologie della comunicazione, delle innovazioni e delle industrie del contenuto, concezione molto presente nell’elaborazione anglosassone e scandinava e in quella commissionata dall’Unione Europea (Commissione europea 2006). Chiameremo questo modello creatività per l’innovazione. Un secondo profilo concepisce la creatività e la produzione di cultura come input della qualità sociale. Chiameremo questo modello creatività per la qualità sociale. Senza trascurare il ruolo delle innovazioni, il suo riferimento principale è alle manifestazioni della cultura e del vivere sociale, nonché ai settori che le esprimono. Particolare considerazione è dedicata al mondo della cultura materiale, ossia a quell’insieme di beni e servizi che l’uomo ha prodotto dall’alba dell’umanità per modificare il suo rapporto con la natura e la società in divenire. In secondo luogo costituiscono importanti fattori di progresso della qualità sociale lo sviluppo delle industrie dei contenuti (cinema, radio TV, editoria, software, pubblicità) e la valorizzazione del patrimonio culturale (archivi, biblioteche, musei, monumenti, musica, arte e spettacolo). Questa impostazione porta verso l’individuazione di un modello italiano di creatività e di industrie culturali che si caratterizza non solo per la coerenza logica tra i settori inclusi nell’analisi, ma anche per la sua capacità di andare oltre l’impatto dell’industria culturale sui mercati e sugli affari, assegnando grande rilevanza alla qualità sociale.
I due modelli sono anche un esempio di distribuzione geografica N-S della questione creativa iscritta nell’agenda internazionale. Infatti, mentre il modello della creatività per l’innovazione e la sua insistenza sugli aspetti tecnologici è tipico dei Paesi del Nord d’Europa e del Nord d’America, il modello della creatività per la qualità sociale e il suo riferimento a cultura, territorio, società, distretti culturali e città creative sembra meglio interpretare la direzione dei processi creativi dei Paesi del Mediterraneo, africani, latino-americani e asiatici.
Il macrosettore delle industrie culturali e della creatività in Italia
Il modello di creatività e delle industrie culturali appena esposto trova riscontro sotto il profilo quantitativo in un macrosettore del sistema economico italiano di ingente importanza (MiBAC 2008) ed è costituito da tre comparti strategici.
Il primo concerne il patrimonio storico e artistico, che rappresenta il capitale culturale frutto della creatività delle generazioni passate, ma anche la produzione artistica delle generazioni presenti. Il patrimonio culturale, con i musei, i monumenti, gli archivi e le biblioteche è la vetrina della cultura italiana e può avere un notevole impatto sulle attività economiche a esso connesse, in particolare sul turismo culturale. Arte contemporanea e architettura sono altri due settori che esprimono beni ad alto contenuto simbolico, dove laboratori, atelier o studi producono merci non secondo le logiche del sistema industriale, bensì secondo una logica neoartigianale. Estetica, arte, forma e geometria sono i contenuti di fondo dei loro mestieri. Il settore della musica e dello spettacolo è incluso nella sfera del patrimonio storico e artistico soprattutto in riferimento alla produzione culturale dei compositori, dei teatri e dei festival. Anche in questo caso, l’espressione e la creazione artistica sono strettamente connesse ai processi economici che permettono una loro ampia diffusione e valorizzazione.
Nel secondo comparto, la creatività è un input per la produzione e comunicazione dei contenuti delle industrie culturali che forniscono beni e servizi ad alto contenuto simbolico. All’interno di questo secondo comparto troviamo le classiche industrie culturali, legate alla capacità di conservare, riprodurre e trasmettere, eventualmente in forma digitale, suoni e immagini (editoria, TV, radio, cinema). Inoltre sono in evidenza i settori della pubblicità e quello informatico. Quest’ultimo è fortemente caratterizzato dal contenuto creativo dei prodotti e dalla distribuzione di massa dei loro contenuti. Il valore del mercato è in forte espansione, come dimostra il fatto che la cifra d’affari mondiale dei soli videogame ha superato quella dell’industria cinematografica. Sebbene non sia mai stata considerata un’industria culturale tout-court, la pubblicità è un settore in cui creatività e produzione di cultura sono un aspetto determinante. Le tecniche di pubblicità e comunicazione richiedono, infatti, input e personale fortemente creativi e a loro volta producono e comunicano messaggi e contenuti ad alto valore simbolico.
Nel terzo comparto, il processo creativo è molto presente nella sfera della cultura materiale, espressione del territorio e delle comunità. I principali settori connessi alla cultura materiale in Italia sono la moda, il design industriale, l’artigianato e l’industria del gusto. Questi settori si fondano su un’esperienza storica, sull’accumulazione di saperi attraverso diverse generazioni di creativi e su sistemi industriali distrettuali. Allo stesso modo, l’industria del gusto è fortemente legata al territorio e alla sua storia. In questo settore sono considerati i prodotti enogastronomici di qualità e il turismo a essi relativo.
Per quanto si possano rilevare vaste sovrapposizioni, i tre principali raggruppamenti delle industrie culturali si caratterizzano sia in termini sia funzionali sia sostanziali.
Sotto il profilo funzionale: a) i beni e i servizi della cultura materiale sono prodotti e offerti per i bisogni della persona: i tessuti e gli abiti per vestirsi, i mobili e la casa per vivere protetti, le armi per difendersi, gli oggetti della scrittura per comunicare, i gioielli per ornare il corpo, gli strumenti musicali per suonare. Si potrebbe continuare a lungo perché la lista corrisponde a tutti quei manufatti e servizi che l’uomo ha prodotto per migliorare la qualità della vita; b) la funzione dei beni di contenuto è prevalentemente di comunicazione, d’informazione e divertimento: dal cinema alla pubblicità, dai libri ai videogiochi; c) la funzione dei beni culturali è, dal punto di vista intrinseco, creare identità, dal punto di vista estrinseco educare e divertire.
Sotto il profilo sostanziale: a) i caratteri peculiari ai beni della cultura materiale sono di grande interesse e costituiscono ciascuno importanti direzioni di ricerca: beni simbolici, identitari e relazionali; b) i caratteri peculiari ai beni dell’industria dei contenuti sono il rischio e l’incertezza. Trattandosi per la più parte di beni e servizi di informazione, il consumatore o l’acquirente può rendersi conto della qualità solo dopo averne fatto esperienza. In questo senso si dice che nel campo dell’industria dei contenuti ‘nessuno conosce alcunché’ e che l’unica inferenza possibile è che i grandi successi saranno pochi (De Vany 2004); c) i caratteri salienti del patrimonio culturale sono: tangibilità, intangibilità e diversità culturale. In base a questa classificazione è possibile individuare dodici settori economici caratterizzati da creatività e produzione di cultura e raggruppabili nei tre comparti descritti.
Il valore economico del macrosettoresecondo il Libro bianco
Il Libro bianco sulla creatività (MiBAC 2008) offre una stima del valore economico delle industrie culturali e creative. Se prendiamo in considerazione l’intera filiera produttiva, il macrosettore vale nel 2004 il 9,33% del PIL italiano e impiega più di 2,8 milioni di lavoratori (v. tabella).
La moda è il settore economicamente più rilevante delle industrie culturali e creative. Questo dato è anche confermato dal fatto che i settori della sfera della cultura materiale (moda, design industriale e artigianato, industria del gusto), toccando il 5,01% del PIL, contribuiscono per più del 50% al valore dell’intero macrosettore che, come si è visto, corrisponde a poco più del 9%.
Il settore che riguarda computer e software ha un peso considerevole tra le industrie dei contenuti, dell’informazione e delle comunicazioni. La sua importanza dimostra come l’economia italiana, sebbene con alcuni ritardi, sia orientata verso l’ICT (Information and Communication Technology) con l’1,17% del PIL. Gli altri settori dell’industria dei contenuti valgono l’1,53% del PIL.
Vengono poi il patrimonio culturale, l’architettura, la musica e l’arte contemporanea con l’1,62% del PIL.
Verso un’economia della cultura globale, interdisciplinare e aperta
I principali temi di studio che hanno dominato la fase iniziale dell’economia della cultura (1966-1990) sono chiaramente connessi con la politica di conservazione e con la giustificazione dell’intervento dello Stato nell’ambito della sfera economica privata (The economics of the arts, ed. M. Blaug, 1976; M. Trimarchi, Economia e cultura: organizzazione e finanziamento delle istituzioni culturali, 1993; D. Throsby, The production and consumption of the arts: a view of cultural economics, «Journal of economic literature», 1994, 32, pp. 1-29).
La cosiddetta legge di Baumol o dei costi crescenti (W.J. Baumol, W.G. Bowen, Performing arts, 1966) ha rappresentato la base teorica per un crescente intervento pubblico nel campo dello spettacolo e dei beni culturali. L’applicazione delle regole del mercato ai beni culturali e ai musei fu proposta con rigore da Bruno S. Frey e Werner W. Pommehrene (Muses and markets: explorations in the economics of the arts, 1989; trad. it. 1991). Le virtù di una buona gestione e marketing dei musei e delle performing arts furono studiate da Neil G. Kotler e Philip Kotler (Museum strategy and marketing, 1998; trad. it. Marketing dei musei: obiettivi, traguardi, risorse, 1999).
Si avviarono le prime stime sul valore economico dei beni culturali (Santagata, Signorello 2000) e si affinò la tecnica della contingent valuation. Si comprese il valore dei diritti della proprietà intellettuale e le loro inadeguatezze nel settore dell’arte contemporanea e della pirateria commerciale. Si studiarono il mercato del lavoro artistico e le funzioni di produzione degli artisti e la formazione del capitale umano (Handbook of the economics of art and culture, 2006).
Direzioni di ricerca sulla natura dei beni culturali
Esamineremo ora alcune delle principali direzioni di ricerca che nei prossimi anni potranno apportare nuovi contributi alla migliore conoscenza del mondo dell’economia della cultura. La ricerca è principalmente orientata dallo studio degli effetti economici derivanti dalla natura non standard dei beni culturali e dalle loro caratteristiche.
Beni simbolici
Non c’è razionalità (ratio, calcolo) senza conoscenza (cognitio). C’è emotività, c’è mito, c’è plagio, c’è generosità, c’è adesione simbolica, c’è casualità e azzardo. Senza conoscenza non c’è calcolo economico dei costi e dei benefici dell’azione. Ma produrre e usare la conoscenza costa. Un simbolo si crea quando il veicolo di comunicazione non è ciò che appare, ma segno di qualcos’altro. Il simbolo è qualcosa in cui ci si identifica e il processo di identificazione prescinde dai costi di informazione sugli attributi dei beni.
I simboli influenzano i comportamenti perché gli attori sociali reagiscono ai simboli. In questo senso i simboli orientano l’azione. I simboli rafforzano credenze comuni e sentimenti condivisi dai membri di un’entità collettiva e quindi, per estensione, influenzano anche i comportamenti di consumo, quando questo fenomeno si trasforma in rito.
La componente simbolica emerge in campi diversi; tuttavia se è chiaro il significato dell’identificazione simbolica in un personaggio o in una storia, in un rituale, o in un movimento artistico, musicale, figurativo, audiovisivo, può apparire più indiretta l’identificazione con un oggetto di consumo. Identificarsi significa appartenere. E riconoscere in un oggetto di design un segno di appartenenza a una cultura, a uno stile di vita, a una maniera di produrre senso esistenziale è un processo comprensibile.
Nel caso del bene in sé conta la capacità di trasmettere, senza costi di informazione per chi lo riceve, un segno che racchiude l’informazione rilevante. Il consumatore è indotto a una decisione di acquisto perché il bene simbolico identificante lo conquista e non c’è bisogno di un’indagine per valutarne la qualità e i contenuti quantitativi.
La dimensione simbolica e la sua capacità di catturare e sedurre lo spirito del consumatore, identificandolo con il messaggio che esso rappresenta, allontana molti beni della cultura materiale dal paradigma del consumatore razionale. La presenza di un simbolo modifica i termini classici dello scambio. Non solo scambio fondato sulla razionalità del meccanismo dei prezzi e sulla massimizzazione dell’utilità, ma anche scambio che presuppone una scelta emotiva e identitaria, fatta al di fuori di un calcolo dei costi e dei benefici dell’azione (W. Santagata, Simbolo e merce. I mercati dei giovani artisti e le istituzioni dell’arte contemporanea, 1998).
Beni con caratteristiche semiotiche
I beni culturali comprendono sempre più caratteristiche semiotiche. Oltre all’utilità diretta legata alle caratteristiche sostanziali del bene essi hanno anche un’utilità indiretta in quanto beni semiofori, portatori di significato, di senso. La domanda di abbigliamento è innanzi tutto una domanda legata alle caratteristiche dei vestiti in quanto tali: comfort, leggerezza, robustezza, estetica. Si può immediatamente osservare tuttavia che tali criteri, soprattutto quello estetico, variano con le epoche. Inoltre, a latere rispetto alle caratteristiche estetiche, o in collegamento con esse, esistono caratteristiche di espressione di significato. Alcuni modelli di scarpe sportive non servono solo in quanto scarpe, ma significano anche che sono giovane, dinamico, informale, informato e sono pensate per comunicare anche questi significati. La domanda di moda o la partecipazione a eventi culturali nel campo delle arti visive è una domanda di segno e di senso più ancora che di funzionalità.
Beni mimetici
Una convenzione che riduce i costi di informazione è un fenomeno che si ritrova nei comportamenti imitativi. Le nuove cattedrali del consumo attirano le famiglie come in un rito moderno, ripetuto senza calcolo o senza un perché. I grandi centri commerciali, i musei e i parchi a tema sono scelti e consumati in primo luogo per il loro valore simbolico, poi, se sono discriminanti, per l’effetto snob; se praticano prezzi bassi e competitivi, per ragioni meramente economiche; se diventano di moda, per il bandwagon effect, dunque ritualità collettiva, partecipazione ad azioni che, in quanto costose, dovrebbero essere razionalmente evitate. Il mimetismo, ossia ‘fare come fanno gli altri’, non è solo un modo di ridurre i costi di ricerca di informazioni sulla qualità del prodotto, ma è anche il meccanismo di scelta per accedere all’appartenenza a un gruppo sociale.
Beni generazionali
La creatività di una generazione di artisti si esprime nel tempo e nello spazio definiti da un’epoca e un luogo di riferimento. Questo ancoraggio alle generazioni e alla loro evoluzione prefigura il problema della successione generazionale come uno dei problemi fondamentali per il mondo dei beni d’arte e per quello del design industriale.
Beni a produzione congiunta
Nella produzione di molti beni fondati sulla cultura confluiscono diverse competenze. Prendiamo la moda e ritroviamo le competenze dello stilista che costruisce il valore simbolico, del designer dei tessuti, del designer che ricerca nuovi materiali e nuove tecnologie, del designer della confezione di massa, degli esperti della distribuzione esperienziale, dei costruttori di immagini medianiche, degli osservatori di tendenze e del consumatore.
Quest’ultimo partecipa alla produzione di moda, al suo atto finale, in molti modi, in particolare con l’assemblaggio di abiti e indumenti tipico dello street à porter e con l’innovazione nella funzionalità e nel riuso originale di componenti varie dell’abito. Questo è un caso di produzione congiunta tra creatore e consumatore con effetti di prolungamento della catena di produzione del valore e di rivalutazione del contributo attivo del consumatore.
Beni relazionali
I beni della cultura materiale sono anche beni relazionali, come lo sono i beni di distinzione. Non è l’individuo isolato che decide qual è la moda, essa è piuttosto il prodotto di un fenomeno sociale. Questo ancoraggio al sociale oltrepassa l’aspetto individuale dei beni semiotici. La domanda di moda è la domanda di un segno sociale che non può essere affermato a priori, ma che deve essere legittimato come bene di moda al termine di un particolare processo. Si richiede un bene non perché lo si considera un bene di moda, ma perché il contesto in cui si vive e in cui tale bene sarà utilizzato lo considera come un bene di moda.
Beni di appartenenza
Nelle società di individui i gusti non esprimono solo la socializzazione, ma anche la loro individualizzazione e quindi la loro identità specifica, che li differenzia da tutti gli altri. Accanto alla domanda di distinzione sociale e d’identità sociale si manifestano quindi domande di distinzione individuale e d’identità individuale. Ciò dona alla relazione individuo/bene un carattere idiosincratico.
A queste diverse caratteristiche se ne aggiungono, come vedremo, anche altre: i beni culturali come beni a contenuto etico, tecnologico, intellettuale.
Beni di esperienza
I beni fondati su arte e cultura sono beni di esperienza, ossia beni la cui qualità intrinseca può essere apprezzata solo ex post, dopo averne fatto esperienza. In particolare il loro consumo cresce in maniera cumulativa secondo uno speciale modello di formazione delle preferenze che è governato dal fenomeno dell’addiction. In base a tale fenomeno, e contraddicendo l’ipotesi economica dei rendimenti marginali decrescenti, più si è consumato in passato, maggiore è il consumo presente atteso.
Direzioni di ricerca in tema di sviluppo economico locale e globale
La cultura è una risorsa formidabile per promuovere lo sviluppo economico a livello locale. Si tratta normalmente di forme di sviluppo di qualità, fondato sulla sostenibilità della sua crescita. Non solo, ma anche di uno sviluppo rispettoso della diversità culturale e capace di attrarre forme di turismo culturale. Sviluppo economico, industrie culturali e creative e organizzazione industriale (Caves 2000; Guerzoni 2008) appaiono come importanti ambiti di applicazione dell’economia della cultura.
Un buon esempio è il tema dei distretti culturali. Sotto il profilo economico Alfred Marshall è stato il primo economista ad attirare l’attenzione sull’industria localizzata, attribuendo ai distretti industriali le grandi prerogative delle economie di agglomerazione. Giacomo Becattini (Mercato e forze locali: il distretto industriale, 1987) ha proposto una stimolante rilettura economica dei distretti industriali italiani, analizzati da Arnaldo Bagnasco (La costruzione sociale del mercato, 1988) e Carlo Trigilia (2002), sotto il profilo socioeconomico. I distretti culturali sono stati oggetto di molti studi in Italia (Santagata 2002, 2007; Valentino 2003). Con riferimento a essi si sottolinea il ruolo informativo e manageriale dei diritti collettivi della proprietà intellettuale che segnalano la qualità del prodotto, la reputazione dei produttori e favoriscono il rafforzarsi di un’identità territoriale.
Conclusioni
Negli ultimi trent’anni l’analisi economica della cultura ha accompagnato un processo internazionale di affermazione di nuovi beni e servizi scambiati su mercati molto diversi per caratteristiche e valore.
Grazie ai suoi progressi analitici oggi comprendiamo meglio come funzionano i mercati dell’arte, i musei, le gallerie, i teatri d’opera, i festival e i teatri di prosa. I contributi hanno rivelato meccanismi inattesi e logiche di mercato che hanno aiutato anche in pratica a elaborare politiche di governance e di gestione sempre più efficaci (Sacco in L’arte contemporanea italiana nel mondo, 2005; Handbook of the economics of art and culture, 2006).
L’attenzione alla produzione di cultura a sua volta ha aperto nuove vie di ricerca esplorando i meccanismi della creatività, dello sviluppo economico indotto dalle risorse culturali, delle preferenze individuali per la cultura e dell’accumulazione di cultura.
Paradossalmente più gli economisti hanno cercato una loro specificità più hanno dovuto avventurarsi in campi rischiosi, dove gli esperti erano altri; i cognitivisti e i neurobiologi per la creatività, i semiologi per la teoria dei beni simbolici, i valutatori per la stima della disponibilità a pagare per i beni pubblici culturali, gli storici per l’analisi dei mercati antichi, dei suq e dei bazar, i sociologi per svelare i processi di identificazione e i comportamenti di appartenenza, i giuristi per interpretare e regolare soprattutto l’emergere progressivo e incessante dei diritti della proprietà intellettuale, i designer per interpretare le nuove trasformazioni dei prodotti della cultura materiale.
Più gli economisti hanno cercato i segreti dell’arte più hanno perso contatto con il loro potente paradigma neoclassico. Homo oeconomicus massimizza la sua utilità, però spesso l’artista non massimizza, ma semplicemente si esalta in un comportamento creativo e in-utile. Homo oeconomicus è supposto computare nelle sue decisioni un calcolo dei costi e dei benefici dell’azione e scegliere di conseguenza; il più delle volte, invece, nell’arte della cultura materiale, come nella moda, la decisione viene presa secondo la logica dell’appartenenza simbolica a un gruppo. Spesso il consumatore riduce drasticamente i costi di transazione facendo quello che fanno gli altri e adottando comportamenti mimetici.
Le spiegazioni che cerchiamo nel mercato e nell’economia della cultura sembrano stare altrove, in un mondo più interdisciplinare in cui ogni disciplina contribuisce ad arricchire uno del lati dell’n-edro che è la cultura. Più ci si avvicina, più si constata il contributo specifico di una disciplina, ma più ci si allontana, più si percepisce in modo unitario forma e volume del mondo della cultura.
Insomma, confrontando gli avanzamenti recenti nella comprensione del fenomeno culturale con quelli interni alla disciplina economica, quali l’elaborazione del concetto di capitale culturale, qualche tentativo di applicare la logica economica all’analisi del linguaggio, ai processi di agglomerazione dei distretti culturali, alla gastronomia e alla moda, si ha l’impressione che il terreno della cultura si presti a diventare la piattaforma di una nuova aggregazione di discipline non solo economiche, che vanno dall’analisi del patrimonio storico-culturale ai processi di globalizzazione dei mercati, di sviluppo della creatività e delle moderne industrie culturali. Una tale piattaforma rappresenta l’accumulazione interdisciplinare dell’economia della cultura e dovrà cimentarsi in futuro con alcuni fondamentali assi di ricerca: come garantire un tasso sociale elevato di creatività e di produzione di cultura; come usare la cultura per migliorare la qualità sociale; come trattare l’aumento della componente intellettuale e intangibile dei beni e dei servizi prodotti.
Bibliografia
Economia dell’arte. Istituzioni e mercati dell’arte e della cultura, a cura di W. Santagata, Torino 1998 (in partic. D. Favaro, La legge di Baumol: un’applicazione al Teatro Regio di Torino, pp. 169-93).
R.E. Caves, Creative industries. Contracts between arts and commerce, Cambridge (Mass.)-London 2000.
W. Santagata, G. Signorello, Contingent valuation of a cultural public good and policy design: the case of «Napoli musei aperti», «Journal of cultural economics», 2000, 24, pp. 181-204.
P.-J. Benghozi, W. Santagata, Market piracy in the design-based industry: economics and policy regulation, «Economie appliquée», 2001, 3, pp. 121-48.
D. Throsby, Economics and culture, New York-Cambridge 2001 (trad. it. Bologna 2005).
R.L. Florida, The rise of the creative class and how it’s transforming work, leisure and everyday life, New York 2002 (trad. it. L’ascesa della nuova classe creativa: stili di vita, valori, professioni, Milano 2003).
W. Santagata, Cultural districts, property rights and sustainable economic growth, «International journal of urban and regional research», 2002, 26, pp. 9-23.
S. Settis, Italia S.p.A.: l’assalto al patrimonio culturale, Torino 2002.
C. Trigilia, Sociologia economica, Bologna 2002.
P.A. Valentino, Le trame del territorio, Milano 2003.
A. De Vany, Hollywood economics. How extreme uncertainty shapes the film industry, London 2004.
L’arte contemporanea italiana nel mondo. Analisi e strumenti, a cura di P.L. Sacco, W. Santagata, M. Trimarchi, Milano 2005 (in partic. P.L. Sacco, La giovane arte italiana nella prospettiva internazionale: problemi e opportunità, pp. 89-114).
Commissione europea, The economy of culture in Europe, Bruxelles 2006.
Handbook of the economics of art and culture, ed. V.A. Ginsburgh, D. Throsby, Amsterdam 2006 (in partic. F.R. van der Ploeg, The making of cultural policy: a european perspective, pp. 1183-221).
W. Santagata, La fabbrica della cultura. Ritrovare la creatività per aiutare lo sviluppo del Paese, Bologna 2007.
D.Viejo Rose, Conflict and the deliberate destruction of cultural heritage, in Conflicts and tensions, ed. H. Anheier, Y.R. Isar, The culture and globalization series, 1, London 2007.
G. Guerzoni, L’impatto economico degli eventi culturali in Italia, Bologna 2008.
MiBAC, Libro bianco sulla creatività, a cura di W. Santagata, Roma 2008.