Economia e criminalità
Motivi economici sono spesso alle origini di comportamenti criminali orientati al profitto. Il comportamento criminale, a esclusione di quello provocato da disturbi della personalità o da spinte emotive irrazionali, obbedirebbe alla regola della razionalità. Il delinquente, cioè, sarebbe sensibile sia ai benefici che ai costi stimati del suo comportamento, e molti di questi appartengono all'area del rischio di punizione. La teoria microeconomica può spiegare alcuni comportamenti criminali e aiutare a diminuirne la quantità contribuendo alla formazione di politiche che ne riducano i benefici e ne aumentino i costi. È questa una prima relazione tra economia e criminalità.
Una seconda relazione riguarda i veri e propri comportamenti criminali definiti 'economici'. Se molti sono i comportamenti criminali orientati al profitto, non tutti possono essere definiti economici. Nella categoria di criminalità economica si comprendono, infatti, tutti quei comportamenti criminali che sono commessi da autori di 'elevata posizione sociale' (criminalità dei colletti bianchi o white collar crime) all'interno di un'attività economica legittima, e con l'abuso della fiducia di terzi, vittime di questi comportamenti. Si tratta di reati che possono essere compiuti da professionisti o dai responsabili di imprese per accrescere in modo criminale i profitti di impresa (criminalità societaria o corporate crime o organizational crime), oppure dai responsabili o addetti di un'impresa contro di questa (criminalità occupazionale). Tutte definizioni concettuali che seguono le diverse evoluzioni dei rapporti economici dove la soglia tra lecito e illecito ha come criterio le norme giuridiche esistenti in un dato contesto di spazio e di tempo.Una terza relazione tra economia e criminalità riguarda le relazioni tra criminalità e mercati. Economia e criminologia ci aiutano a capire le relazioni tra ciclo economico e criminalità, così come ci forniscono elementi per capire in che modo la criminalità distorce i diversi mercati, facendo affluire in essi una grande quantità di ricchezza che deve essere ripulita per non lasciare tracce identificabili (riciclaggio). Quando questa ricchezza viene investita nell'economia legittima essa altera le condizioni dei mercati (dei prodotti, del lavoro, dei capitali), facilitando le infiltrazioni dell'economia criminale in quella legittima.Nel presente articolo cercheremo di spiegare queste tre relazioni tra economia e criminalità, guardando ai contributi teorici che le hanno tematizzate e cercando di cogliere i cambiamenti che, sia nell'economia come nella criminalità, si sono andati sviluppando. Ai reati occupazionali, e cioè alla criminalità della quale sono vittime le imprese a causa di azioni interne o esterne, tradizionalmente trascurata nelle analisi scientifiche sull'argomento, viene qui dedicato uno spazio rilevante per gli alti costi sociali ed economici che essa produce.
La più nota tra le teorie economiche della criminalità è quella formulata dal premio Nobel per l'economia Gary Becker (v., 1968). L'autore parte dal presupposto che i criminali siano esseri razionali spinti ad agire dalla massimizzazione del proprio benessere. Trasferendo sul comportamento criminale il paradigma della scelta razionale del consumatore in condizioni di incertezza, Becker individua i fattori che determinano la scelta del comportamento criminale: probabilità di essere scoperti e puniti, severità delle sanzioni, reddito disponibile per altre attività legali o illegali, valutazione dei benefici ricavabili, inclinazione personale a compiere reati e circostanze ambientali. Secondo Becker un individuo decide di violare una norma se l'utilità attesa da questa violazione eccede il livello di soddisfazione al quale può pervenire utilizzando il suo tempo e le sue risorse in maniera alternativa, e cioè dedicandosi a un'attività 'legale'. La formula base di questo ragionamento viene così espressa:
Oj = Oj (pj, fj, uj),
dove O è il numero dei reati commessi da una persona in un particolare periodo j, p la probabilità di essere individuato, arrestato e condannato per quel reato, f la sanzione prevista per quel reato, e u una variabile che cumula tutti gli altri fattori che al di là di quelli previsti influenzano la decisione. Un aumento in p ed f, cioè nel prezzo del reato, dovrebbe ridurre l'utilità attesa dal comportamento criminale e di conseguenza il numero dei reati. Nello stesso modo il cambiamento di alcune variabili u, come l'aumento del reddito percepibile svolgendo un'attività legale, un miglioramento dell'educazione a rispettare la legge, o altro, potrebbe costituire un disincentivo a commettere attività illegali riducendo anche in questo caso il numero dei reati.
La formula di Becker spiega il comportamento di un ipotetico criminale razionale informato sui costi e benefici delle sue decisioni, in grado cioè di valutare se e quando commettere un'azione criminale in alternativa a un comportamento legale. Un'astrazione necessaria dalla quale consegue un'implicazione di politica criminale, che per ridurre l'ammontare di questi 'comportamenti razionali' criminali occorrerebbe un sistema di giustiza penale altrettanto 'razionale'. Capace, cioè, di orientare la sua attività fatta di diritto penale, azione di repressione e attività giudiziaria al perseguimento dell'obiettivo della riduzione dei comportamenti criminali a minori costi economici, sociali e di libertà possibili. Su questo versante, quello dei costi, è fondata l'ipotesi della 'prevenzione penale' speciale o generale altrimenti chiamata 'deterrenza', secondo la quale il comportamento criminale tenderebbe a variare rispetto a un aumento della probabilità e severità della punizione. Si tratta di una conclusione generalmente condivisa, ma talmente generale da essere poco fruibile in termini di policy, se non si specifica il quantum di elasticità della criminalità rispetto al variare della punizione attesa. In sintesi, quanta sanzione per quanta riduzione della criminalità?
I problemi metodologici che sopravvengono nel misurare la sensibilità dei comportamenti criminali alle sanzioni attese sono di notevole portata e, per quanto si possano raffinare le metodologie usate, il problema della qualità dei dati e l'esclusione di alcune variabili che poi influenzano quelle inserite nel modello restano i due problemi più importanti. Se si considera poi l'elevato numero di variabili delle quali tenere conto, si comprende la difficoltà di arrivare a conclusioni certe. Per ogni reato infatti occorrerebbe individuare sia le variabili proxies della punizione attesa (cioè la probabilità di essere identificato, condannato e arrestato e la durata media della condanna ipotetica per quel reato), sia le altre variabili legate ai costi di opportunità del comportamento criminale (livello di disoccupazione, ammontare e distribuzione del reddito), sia altre variabili sociodemografiche come la composizione della popolazione per età, razza, percentuale residente in aree urbane, che hanno influenza nella decisione di commettere un reato.Tra le ricerche che hanno maggiormente approfondito il problema si possono segnalare quelle di Ehrlich (v., 1973), Blumstein, Cohen e Nagin (v., 1978), e Wolpin (v., 1978), tutte favorevoli, sia pur tra numerose precauzioni, a considerare la sensibilità del comportamento criminale alla sanzione penale. D'altronde questa ipotesi è stata poi confermata da studi su gruppi di criminali esposti a sanzioni di diverso tipo e per i quali i dati utilizzati erano più attendibili. Ed è proprio dopo uno studio longitudinale di tre anni di osservazione su un gruppo di 641 maschi con 32 anni di età media dopo la loro uscita dal carcere, che Witte (v., 1980) osservava che tra delinquenti ad alto rischio (condanne precedenti e carcere, disoccupazione, alcol) il fattore che più degli altri riduceva la probabilità di commettere nuovi reati era proprio la condanna precedente e il carcere.
Forse non si è sufficientemente colto l'altro aspetto della formula di Becker, quello della variabile u, cioè tutte quelle condizioni economiche, sociali e culturali che, se migliorate, potrebbero costituire incentivi a un'attività legale, diminuendo così la propensione all'attività criminale. È uno spazio lasciato alla prevenzione sociale, cioè a tutto quel complesso di situazioni modificabili attraverso la creazione di opportunità di reddito e la sua distribuzione, opportunità educative e formative, sostegno psicologico, che portano a sostenere l'individuo nei suoi comportamenti legali e a scoraggiarne la devianza. Agendo su questo fronte si possono limitare i comportamenti criminali? Si può affermare che un miglioramento delle condizioni economiche scoraggia la criminalità? Le risposte sembrano essere prevalentemente negative, almeno alla luce delle ricerche sulle relazioni tra condizioni economiche e criminalità. È difficile se non impossibile isolare queste relazioni per capire se la povertà costituisce la variabile dipendente della criminalità. Infatti fino a che punto si è criminali perché si è poveri? Si può essere poveri perché si è criminali poco capaci, ma anche si è diventati criminali perché costretti dalla povertà, oppure ci può essere una terza variabile sconosciuta che non rende questa relazione significativa.
Forse i risultati delle ricerche fin qui condotte sono deludenti per chi si aspettasse la conferma del luogo comune che la criminalità è il prodotto di condizioni economiche svantaggiate. La prevalenza degli studi sui rapporti tra disoccupazione e criminalità conferma al contrario l'assenza o quasi di significatività nella relazione tra andamento della disoccupazione e criminalità (v. Orsagh e Witte, 1981). Una relazione, questa, sempre controversa e ripetutamente analizzata, ma mai chiarita fino in fondo (v. Wilson e Cook, 1985). Lo stesso vale per i rapporti tra ciclo economico e comportamenti criminali. Se nel breve periodo si possono trovare relazioni tra alcuni reati e l'andamento del ciclo economico, la ricerca di Cook e Zarkin (v., 1985) ha dimostrato come nel lungo periodo l'andamento dei tassi di criminalità non sia imputabile all'andamento del ciclo economico. Un'affermazione che forse oggi viene messa in discussione negli Stati Uniti, dove si cerca di comprendere i fattori che hanno determinato la diminuzione della criminalità e tra i quali, sia pure in modo controverso, si includono il miglioramento delle condizioni economiche e la riduzione della disoccupazione (v. Barbagli, 2000).In queste ricerche si è rimasti probabilmente a grandi aggregati, approfondendo meno i diversi aspetti delle singole variabili. Non si è considerato il momento del ciclo lavorativo nel quale è intervenuta la disoccupazione e la sua durata: aspetti importanti per capire da vicino un tessuto di relazioni tra condizioni economiche e criminalità che i grandi aggregati statistici non potevano rappresentare. Forse proprio la componente strettamente economica di questi studi ha fatto perdere di vista l'influenza di altre variabili collaterali, come quella dell'istruzione, che possono modificare i livelli di disoccupazione e quindi, indirettamente, ridurre l'ammontare di criminalità prodotto accrescendo i costi di opportunità per il criminale.
L'analisi economica del comportamento criminale riguarda anche le implicazioni di policy. I suoi sviluppi hanno indirettamente influenzato la necessità di accrescere la razionalità nei sistemi di giustizia penale migliorandone l'efficacia e ottimizzandone efficienza e giustizia. Un problema discusso più nei paesi di common law che in quelli di civil law, dove le rigidità dei codici, dei processi decisionali delle corti e delle pene comminate mal si adattano a parametri di efficacia e di efficienza. È forse anche per questa ragione culturale, oltre che sistemica, che l'analisi economica del diritto penale e della criminalità e dei sistemi di giustizia penale è stata trascurata nei paesi di civil law (v. Savona, 1990).
Il problema di quale punizione applicare a un dato reato è un problema economico, se si considera che la scelta della sanzione è anche un problema di allocazione delle risorse e non soltanto di giustizia. Ci si va, cioè, convincendo che il diritto e la sua amministrazione, sia giudiziaria che penitenziaria, costano molto e che questo costo deve essere proporzionale ai benefici che la società ottiene dalla loro applicazione. Il che vuol dire che la scelta di quale sanzione applicare al comportamento criminale di un dato soggetto deve corrispondere, oltre che a criteri di giustizia (protezione dei diritti umani, garanzie processuali), anche a criteri di efficacia (raggiungimento dell'obiettivo di ridurre l'ammontare della criminalità) e di efficienza (minimo costo possibile). Quali sono allora le sanzioni che ottimizzano la massima efficacia, efficienza e giustizia (intesa come il massimo rispetto per i diritti delle persone, cioè degli autori del crimine e delle vittime)?
La risposta pone immediatamente la necessità di valutare i costi e i benefici delle attuali sanzioni disponibili e degli attuali meccanismi della loro applicazione, tenendo in considerazione anche alcune soglie definite da quel complesso di diritti umani che sono conquiste della civiltà moderna e che escludono metodi come la tortura e sanzioni come la pena di morte indipendentemente dalla loro efficacia. La soluzione della reclusione in carcere va valutata alla luce delle possibili misure alternative, come la reclusione domiciliare, o il controllo elettronico a distanza (braccialetto elettronico), ma soprattutto il ricorso alle sanzioni pecuniarie. L'analisi delle funzioni e dei relativi costi economici e sociali di queste sanzioni è il presupposto necessario per scegliere quella più adeguata a raggiungere l'obiettivo desiderato.Il carcere è la sanzione più diffusa la cui crisi sta nella difficoltà di adeguare il ristretto spazio disponibile alla domanda di carcerazione in crescita. La sua funzione è molteplice: da quella di impedire al criminale di commettere altri reati perché recluso (incapacitazione), alle funzioni retributiva, riabilitativa e deterrente. Perché ciascuna di queste funzioni venga assolta occorrono alcune condizioni. Per l'incapacitazione, ad esempio, occorre che i reclusi abbiano una propensione alla recidiva, che rispetto ad altre misure la carcerazione sia capace di ridurre l'ammontare di reati nel tempo di una carriera criminale, che i criminali reclusi non vengano sostituiti da altri (come nel caso di organizzazioni criminali succede spesso) e che proprio la reclusione non costituisca una 'scuola di criminalità', migliorando cioè la performance del criminale alla sua uscita e quindi accrescendo il costo sociale. Il maggior beneficio si raggiungerebbe attraverso l'incapacitazione selettiva, cioè orientata a quei criminali che hanno la maggiore probabilità di commettere un reato grave. Il problema dell'incapacitazione selettiva sta proprio nella difficoltà, se non impossibilità, di prevedere chi ha maggiori probabilità di recidiva e quindi di amministrare la durata della carcerazione sulla base di una previsione incerta, con scarsa considerazione per principî di equità.
L'effetto retributivo viene raggiunto attraverso la negazione della libertà e l'etichettamento infamante della reclusione. Il peso di queste due funzioni dipende dalla sensibilità del criminale a questi due effetti e va confrontato con le conseguenze prodotte dalle misure alternative alla reclusione. Saranno i costi e i benefici di ambedue le strategie a dire quale sia da preferire, in che occasione e per quale tipologia di criminale.
L'ultimo beneficio dell'incapacitazione è quello della riabilitazione, intesa come tentativo di preparare il recluso a un suo migliore inserimento nel mondo del lavoro attraverso la formazione professionale e la rimozione di quelle cause psicologiche che ne hanno determinato la reclusione. Contrariamente a quanto creduto per molto tempo sull'inutilità della riabilitazione, questa può funzionare a certe condizioni (v. Sherman, 1998).Questi sono i benefici dell'incapacitazione, ma a quali costi? Costi diretti come il costo del recluso e costi di opportunità legati al tempo improduttivo del recluso costituiscono seri elementi da valutare nel confronto con i benefici. Purtroppo mancano analisi scrupolose che permettano tale confronto. Occorrerebbe proprio una valutazione dei benefici marginali che derivano alla società dall'incarcerazione in modo da poter calcolare i suoi benefici marginali netti. Ma ancora di più dovremmo conoscere i benefici delle alternative alla reclusione e le loro capacità deterrenti. Senza questi elementi essenziali il dibattito sul carcere, le sue funzioni e le alternative a esso, rischia di essere soltanto il risultato di opzioni ideologiche totalizzanti che non guardano alla grande diversità di situazioni alle quali la soluzione del carcere deve essere indirizzata. Con il rischio che proprio il carcere continui a funzionare per inerzia in una routine burocratica che cancella le libertà senza produrre alcun risultato in termini di riduzione della criminalità e con un grande spreco di risorse umane ed economiche.
La distinzione tradizionale tra criminalità violenta e appropriativa riguarda il rapporto mezzi-fini. L'omicidio fine a se stesso è violenza mentre la rapina è violenza con fini appropriativi. Il furto invece è soltanto un reato appropriativo se non comporta elementi di violenza. Altre distinzioni tra i comportamenti criminali riprendono le categorie giuridiche che li descrivono e le fattispecie penali che li individuano: reati contro la persona, reati contro il patrimonio o reati contro la pubblica amministrazione, oppure omicidi, rapine, furti e così via. Il concetto di criminalità economica non è giuridico ma criminologico. Con esso si indicano tutti quei reati che hanno un contenuto economico e una qualche relazione con un'attività imprenditoriale o professionale. Si tratta cioè di reati che per i soggetti che li commettono, per il loro contenuto e per le tecniche usate sono riferiti direttamente a un'impresa economica o a un'attività professionale. Se un imprenditore falsifica il bilancio della sua impresa commette un reato economico, se un'impresa inquina le acque di un fiume per risparmiare nel costo di smaltimento degli scarichi industriali commette un reato economico, e un reato economico commette anche il singolo impiegato di una banca quando froda la sua stessa banca per arricchirsi, o il funzionario che accetta di essere corrotto, oppure la banca che aiuta a riciclare il denaro sporco. Per la criminalità economica i concetti che ricorrono più frequentemente nella letteratura anglosassone, dalla quale provengono in prevalenza, sono quelli di: white collar crime, corporate crime, organizational crime, occupational crime.
White collar crime è il concetto usato dal criminologo americano Edwin H. Sutherland (v., 1940) per spiegare la criminalità economica con particolare attenzione agli autori di reato e alla loro posizione nella struttura sociale e produttiva di appartenenza. Si tratta, senza dubbio, di un'innovazione significativa nella riflessione criminologica del tempo, dove era prevalente la riduzione dei comportamenti criminali esclusivamente a quelli violenti e appropriativi; con la conseguenza che erano considerati criminali soltanto coloro che erano reclusi in carcere e che appartenevano in prevalenza alle classi sociali più disagiate (v. Sutherland, 1939; tr. it., p. 12). Le stesse rilevazioni statistiche, secondo Sutherland, soffrivano di questo stereotipo, seguendo modalità di rilevazione delle attività criminali di per sé discriminatorie, perché riferite ai reati violenti e appropriativi commessi dalle classi povere trascurando i reati economici commessi da soggetti socialmente privilegiati. Per quanto riguarda le tipologie, Sutherland le indica come segue: "falsità di rendiconti finanziari di società, aggiotaggio in borsa, corruzione diretta o indiretta di pubblici ufficiali al fine di assicurarsi contratti e decisioni vantaggiose, falsità in pubblicità, frode nell'esercizio del commercio, appropriazione indebita e distrazione di fondi, frode fiscale, scorrettezze nelle curatele fallimentari e nella bancarotta" (ibid., pp. 62-63).
In un momento successivo delle sue ricerche sulla criminalità dei colletti bianchi, Sutherland sposta l'attenzione dall'individuo che commette reati di natura economica al contesto imprenditoriale e professionale nel quale questi reati vengono commessi. La conclusione cui giunge l'autore, dopo uno studio compiuto su 70 imprese, è che gli uomini d'affari e la grande impresa sono molto simili ai ladri professionali. Le violazioni commesse nel mondo degli affari sono veri e propri reati e gli autori dell'illecito (singoli o imprese) delinquono non perché affetti da patologie o spinti da povertà, ma perché apprendono questo comportamento, così come si apprende qualunque altro comportamento conforme. Infatti la definizione di Sutherland si riferisce più agli autori del reato e al loro status sociale, che al tipo di reato commesso. Il "delinquente dal colletto bianco è: una persona rispettabile, o almeno rispettata, appartenente alla classe superiore, che commette un reato nel corso dell'attività professionale, violando la fiducia formalmente o implicitamente attribuitagli" (ibid., p. 65). Proprio questo contesto di impresa ha permesso uno sviluppo delle teorie di Sutherland e un'estensione della sua definizione alla criminalità dell'impresa definita come corporate oppure organizational crime.Schrager e Short (v., 1977) definiscono il crimine imprenditoriale come l'insieme dei comportamenti illeciti che vengono adottati all'interno di un'organizzazione legale in conformità con il suo ordinamento normativo, producendo un danno ai dipendenti, ai clienti o a un pubblico in generale. Questa definizione è stata specificata da Box (v., 1983), che introduce la distinzione tra 'crimini per l'impresa' e 'crimini contro l'impresa', in relazione ai soggetti che traggono benefici dall'attività criminosa: le imprese stesse o i singoli individui. I 'crimini per l'impresa' attuati dalla stessa sono detti anche corporate crime, intendendo quei reati commessi dall'impresa per ottenere un beneficio economico per sé. Braithwaite (v. 1989, pp. 333-358) estende questo concetto e parla di organizational crime, riferendosi alla struttura di organizzazione di cui fa parte l'autore del reato, indipendentemente dalla sua condizione di soggetto pubblico o privato.
I reati occupazionali si possono definire come tutti quei comportamenti posti in essere da dipendenti dell'impresa a danno della stessa. In tale categoria rientra una varietà di atti commessi sia da lavoratori comuni che da colletti bianchi. Sono però proprio gli illeciti di quest'ultimi che, meglio dei primi, possono essere qualificati come criminalità economica.Quinney (v., 1964) sviluppa il concetto di occupational crime, intendendo con ciò quei comportamenti che si configurano come devianti rispetto alla struttura normativa dell'organizzazione dove vengono messi in atto. Con tale definizione l'autore va oltre la collocazione dei singoli criminali nella struttura sociale, ampliando l'estensione del concetto di crimine occupazionale.Green (v., 1990) introduce una specificazione importante rispetto alla definizione di Quinney. Solo i soggetti impegnati in attività legali possono essere autori di un occupational crime, e debbono essere distinti da quanti sono dediti ad attività di natura illegale.
Cools (v., 1991) specifica un particolare tipo di occupational crime, che definisce come employee crime, riferendosi a quelle situazioni in cui un soggetto, lavoratore dipendente di un'impresa, mette in atto comportamenti illeciti ai danni della stessa, che diviene, in tal modo, vittima di reati come furto, frode, diffamazione, diffusione di informazioni segrete, spionaggio, uso illecito di computer. Un elemento che distingue i reati occupazionali economici da quelli comuni consiste nelle tecniche impiegate per commetterli, spesso complesse e non semplicemente appropriative. Per questo si parla di frodi, corruzione e crimini informatici, lasciando invece alla categoria dei furti tutta la varietà di reati appropriativi a danno delle imprese da parte dei loro dipendenti.
I reati occupazionali si possono dividere in almeno tre tipi: il furto, la corruzione e la frode. I furti contro le imprese da parte dei loro dipendenti sono i reati prevalenti. Il contesto nel quale questo reato viene commesso potrebbe assimilarlo a un reato economico, ma sarebbe preferibile considerare l'impresa come la dimensione situazionale nella quale il reato viene commesso (lo stesso autore potrebbe commetterlo in un'altra situazione) e quindi escludere i furti contro le imprese dalla tipologia dei reati economici, includendoli in quella dei reati comunemente definiti appropriativi.
Per frode in senso stretto si intende una falsa rappresentazione della realtà posta in essere intenzionalmente da un soggetto individuale o da un'organizzazione per ottenere un vantaggio personale. Questo vantaggio può essere diretto (una somma di denaro o un bene) o indiretto (promozione, benefici lavorativi, potere). Perché il reato si configuri completamente è necessario che la vittima creda alla falsa rappresentazione della realtà e agisca in base alla stessa.Il reato di corruzione si definisce come il dare o ricevere denaro o altra utilità per indurre un soggetto a compiere atti contrari ai propri doveri o a omettere o ritardare un atto del proprio ufficio. Si tratta di tutti quei comportamenti in cui l'autore abbia tenuto una condotta dannosa per l'azienda, con lo scopo di ottenere un beneficio da un soggetto terzo. Nel contesto aziendale si parla di corruzione 'privata' per distinguerla da quella pubblica che caratterizza i comportamenti dei funzionari dello Stato o di enti pubblici. La corruzione privata si può definire come il dare o ricevere beni per influenzare una decisione nel campo degli affari senza che la vittima (un'azienda) ne sia a conoscenza o lo consenta. È corruzione la illegal gratuity, cioè il dare o ricevere beni di valore perché un atto ufficiale sia compiuto. In questa categoria sono compresi i comportamenti di coloro che, nel trattare con i fornitori o altri soggetti, ricevono regali o benefici, senza l'autorizzazione dell'impresa per cui lavorano o contrariamente a un divieto della stessa.
C'è una più generale tipologia di reati contro le imprese commessi dall'esterno, legata ai problemi di sicurezza, costituita dalle minacce della criminalità organizzata e dai movimenti terroristici e dai relativi comportamenti estortivi. A volte le imprese, prima di avviare un'attività in zone o paesi a rischio di criminalità, effettuano una valutazione (risk assessment) per comprendere il grado e il tipo di rischio al quale potrebbero essere sottoposte se quell'attività fosse condotta in quella zona (v. Aromaa e Lehti, 1996, p. 27). Per rischio si intende sia quello per le imprese che quello per i dirigenti. La finalità di questi atti, spesso economica, li differenzia da quelli terroristici, anche se i soggetti che li compiono e i metodi che vengono usati sono spesso gli stessi.
Un'altra minaccia alle imprese è costituita dalla criminalità informatica. Tra gli autori ci sono coloro che comunemente vengono definiti hackers, un concetto che non rispecchia le diverse tipologie di soggetti che fanno pirateria informatica. È più opportuno distinguere tra hackers e crackers. I primi possono essere considerati soggetti poco pericolosi per la sicurezza aziendale perché non si prefiggono la distruzione dei sistemi informatici o l'acquisizione di informazioni riservate. Il loro fine è più tecnologico e in certi casi etico (garantire la libertà di uso della rete), spesso una sfida e il desiderio di comprovare le proprie capacità con i sistemi di sicurezza del sistema oggetto di attacco. Verso queste categorie vi è una forte attenzione da parte delle società di consulenza e delle imprese, che mirano a coinvolgere gli hackers nella prevenzione dei crimini informatici (v. Clarke, 1996). I crackers, al contrario, sono i veri criminali informatici dai quali le imprese devono difendere l'integrità delle loro reti informatiche. Essi sono definiti come: "[...] quegli specialisti che manipolano le insicurezze che esistono all'interno dei sistemi digitali per copiare, alterare e/o distruggere le informazioni [...]" (v. Haine e Johnstone, 1999). La loro finalità principale è quella di distruggere i sistemi in cui riescono a penetrare. La mancanza nei crackers di un'etica paragonabile a quella degli hackers rende tali soggetti disponibili a offerte criminali. La loro abilità di penetrazione nei sistemi informatici delle imprese può essere sfruttata da organizzazioni criminali che vogliono commettere una frode verso una banca, oppure da un'impresa concorrente che vuole conoscere segreti industriali che la possono direttamente interessare.Lo spionaggio industriale è un reato economico diffuso e difficile da prevenire. Rubare informazioni dai concorrenti non risulta particolarmente difficile, soprattutto nei confronti delle società di più ampie dimensioni caratterizzate da una maggiore vulnerabilità sia per il numero e le possibilità di collegamenti telematici, sia per il rilevante numero di soggetti che ricoprono mansioni di prestigio e che, quindi, possono conoscere dati segreti.
La criminalità connessa con l'uso del mezzo informatico, o cybercrime, comprende una varietà di tipologie criminali diverse tra loro. Lo sviluppo delle reti informatiche e i processi di globalizzazione dell'economia hanno delocalizzato, tra gli altri, il commercio e l'investimento finanziario incrementando il numero delle transazioni on line. L'inevitabile conseguenza è che la criminalità finanziaria, come il riciclaggio dei proventi illeciti, lascia il posto a quella appropriativa, come le truffe o frodi on line, dove le possibilità offerte dal mezzo informatico producono una vastissima tipologia di comportamenti criminali. Proprio la diffusione di questa criminalità sta mettendo in discussione le categorie tradizionali del diritto e della giustizia penale, e tra queste più di tutte quella della giurisdizione. Sono già in atto processi di rinnovamento delle tradizionali categorie giuridiche, sia civili che penali, con frequenti scambi tra le due sfere del diritto, necessari per una maggiore efficacia nella repressione dei comportamenti fraudolenti. L'high tech law sta diventando la risposta giuridica necessaria all'evoluzione delle tecnologie e alle loro distorsioni per fini appropriativi e fraudolenti. L'efficacia di questa risposta dipende dalla capacità di rivedere sia i processi di formazione che quelli di reclutamento del personale addetto sia alla regolazione civilistica ed amministrativa che al controllo e alla giustizia penale.
La difficoltà di spiegazioni eziologiche del crimine, in generale, aumenta per la criminalità economica, per la quale le stesse definizioni sono incerte. Le teorie di stampo positivistico che cercano una causa per spiegare l'atto criminale appaiono quanto meno superate, tanto per ciò che riguarda la criminalità tradizionale, quanto per quella di natura economica e organizzata. Resta il facile ricorso a teorie marxiste, oggi però sempre meno convincente.
Secondo Young (v., 1981) l'esistenza della criminalità economica è connaturata all'economia stessa, che cerca in ogni modo di spingere verso un accrescimento dei profitti (valenza criminogenetica del capitalismo). Una prospettiva, questa, che ha origini nella riflessione marxista. Bonger (v., 1969), che di questa riflessione è l'autore più conosciuto, prende in considerazione alcuni reati economici e giunge alla conclusione "secondo la quale molti di tali crimini si verificherebbero nei periodi di crisi economica, a causa dell'impossibilità per taluni individui, in tali difficili congiunture, di mantenere il livello di vita anteriormente raggiunto".Forse la criminalità economica è legata a cause strutturali che riguardano da vicino lo sviluppo dell'economia. L'esistenza di imprenditori legali che commettono reati nell'ambito della loro professione non è una novità, anche se nuova è l'attenzione della criminologia e delle autorità di regolazione e di giustizia per questa categoria. A questa attenzione giustificata dagli alti costi sociali ed economici della criminalità economica non corrisponde spesso un'adeguata attrezzatura fatta di regole, di sanzioni, di capacità investigative e giudiziarie. C'è una difficoltà psicologica, e in certi casi culturale, a considerare veri e propri criminali i corrotti e i truffatori, e c'è anche la necessità di riformulare e adeguare i sistemi di regolazione delle attività d'impresa in una economia globalizzata dove ancora il parametro di riferimento è il singolo ordinamento giuridico nazionale. Lo shopping of jurisdiction diventa la regola tra le imprese multinazionali che vogliono sistemi di regolazione più leggeri e meno vincolanti, ma può diventare pericoloso per tutta la comunità internazionale, quando questo shopping è fatto per ricercare immunità e opacità nelle transazioni finanziarie illecite o in altre attività che producono costi sociali rilevanti.
Comportamenti in bilico tra legalità formale e criminalità sostanziale si hanno quando un'impresa sfrutta a proprio beneficio, trasferendone i costi ad altri, quelle zone di tolleranza finanziaria quali le giurisdizioni offshore o altre forme di tolleranza o carenza di regolazione, come nelle legislazioni sui rifiuti o nelle condizioni di lavoro. In un'economia che è globale per la domanda e l'offerta, e nazionale per la regolazione, lo sfruttamento di legislazioni arretrate sul piano dell'ecologia e dei diritti umani può diventare una opportunità 'legale' per commettere crimini economici senza commettere reati. La sfida, allora, è quella di ridurre questi comportamenti illegali sia sviluppando i disincentivi penali e reputazionali, sia accrescendo gli incentivi economici. La cooperazione internazionale su questo fronte diventa necessaria e urgente.
Le definizioni di criminalità economica sono incentrate sul paradigma di origine, quello del colletto bianco, cioè dell'autore del reato, e poco considerano le dinamiche organizzative e strutturali che caratterizzano oggi i comportamenti criminali di strutture societarie legali. Le stesse definizioni di corporate crime, che costituisce un'evoluzione sensibile della definizione del white collar crime, sono ancora insufficienti a cogliere i cambiamenti organizzativi e strutturali che stanno intervenendo. C'è un'ampia letteratura che sottolinea il continuum tra criminalità organizzata e criminalità economica, spiegando perché, dove e come il crimine organizzato tradizionale e i criminali del colletto bianco si muovano nella medesima direzione, caratterizzata da una sempre maggiore razionalizzazione e organizzazione (v. Savona, Social change..., 1990).
La zona grigia in cui il crimine organizzato e il crimine economico si sovrappongono va ulteriormente approfondita e spiegata. Si tratta di un'area in cui le attività criminali e i criminali stessi si confondono con attività legali, imprese e professionisti che operano nell'ambito della legalità. L'ampliarsi di tale area aumenta i livelli di corruzione e inquina i sistemi economici nazionali. Tutto questo solleva il problema dell'obsolescenza degli strumenti che quotidianamente usiamo per combattere la criminalità e pone l'esigenza di adottare strategie e politiche adeguate a questi fenomeni e alle loro trasformazioni. Si tratta di una sollecitazione che sta dando i suoi frutti. Diversi autori, e tra questi Nelken (v., 1994), propongono di studiare più a fondo i rapporti che intercorrono tra i white collar crimes e la criminalità organizzata, soprattutto alla luce degli ultimi sviluppi di transnazionalizzazione, specializzazione e professionalizzazione della criminalità organizzata, per cui si assiste a una commistione di servizi legali e illegali offerti dalle imprese del crimine sia alle organizzazioni criminali stesse sia a imprese nel settore legale dell'economia. Nelken, partendo da una serie di considerazioni sulle ambiguità del concetto di white collar crime, propone, appunto, di costruire una definizione di criminalità economica organizzata, che costituisce insieme una sintesi e un superamento dei concetti che la compongono.
La tendenza cui si assiste oggi permette di affermare che da un lato la criminalità organizzata compie sempre più spesso reati di natura economica, con lo scopo di aumentare i propri guadagni, e dall'altro i white collar criminals si organizzano, si specializzano e offrono la loro collaborazione al crimine organizzato tradizionale. Alla luce di recenti ricerche (v. Bertoni, 1997), sembra possibile riferirsi a questo tipo di criminalità, definendola come impresa criminale. In tal modo si vuole sottolineare non solo la capacità di integrarsi con l'economia legale, le risorse e le dimensioni del nuovo crimine organizzato, ma anche, e soprattutto, la capacità di attribuire alla struttura stessa dell'organizzazione un ruolo strategico.
Smith e Alba (v., 1979) riconducono il crimine economico e la criminalità organizzata alla variabile 'imprenditorialità', anziché alla variabile 'criminalità', ritenendo che in tal modo risulti più agevole spiegare i comportamenti illeciti considerati all'interno delle dinamiche del mercato. Si sviluppa così un parallelismo tra le attività economiche illegali e quelle legali dove si è infiltrata la criminalità organizzata. Anche Bini concorda sul fatto che "la criminalità organizzata prima ancora di essere un'associazione fra persone con intenti criminali è una formula organizzativa che il più delle volte assume la forma d'impresa" (v. Bini, 1997, p. 1, nota 46).
La struttura organizzativa della nuova criminalità economica è flessibile e frammentata; le imprese criminali sorgono e si disgregano velocemente. "Il modello di nuova criminalità organizzata si caratterizza proprio per una maggior rapidità di movimento, indicativa della capacità dell'impresa di anticipare le opportunità offerte dall'economia legale di riferimento (il modello di crescita dell'impresa criminale non segue più una logica push, ma sempre più una logica pull, propria del cosiddetto strategic opportunism) e di integrarsi in forma profonda con essa. La capacità dell'impresa criminale di integrarsi con l'economia legale di riferimento interessa alcune attitudini dell'organizzazione prima ancora che le risorse e la dimensione dell'organizzazione stessa" (ibid., p. 6, nota 48).
In definitiva, le imprese criminali di seconda generazione fanno della struttura organizzativa il proprio punto di forza. Si occupano della produzione di beni e servizi illegali, spesso gestiscono anche attività nei settori legali dell'economia (come il riciclaggio), si infiltrano nei circuiti finanziari e commerciali a livello locale, nazionale e internazionale. La criminalità organizzata si trasforma da soggetto passivo/istituzione a soggetto attivo/impresa (che crea le opportunità per un incremento della domanda di attività criminali), rompendo i vincoli etici e culturali che caratterizzavano la tradizionale criminalità organizzata di stampo mafioso.
Altre ricerche effettuate da Transcrime-Università di Trento (v. Savona, 1997 e 1998; v. Savona e Mezzanotte, 1998) evidenziano come i soggetti e le attività dei gruppi criminali organizzati tendano verso una maggiore professionalità e complessità. Indicatori significativi sono le interdipendenze tra tre reati economici: frode, riciclaggio e corruzione. Qual è il loro significato e in quali ambiti le ritroviamo?
Quando si parla di interdipendenze tra reati economici come frode, riciclaggio e corruzione (altri potrebbero essere aggiunti), si fa riferimento al fatto che questi tre reati sono spesso funzionalmente correlati tra loro nell'ambito dello stesso schema criminale. Uno di essi rappresenta il risultato finale mentre gli altri due sono reati intermedi necessari per realizzarlo. L'analisi dei casi in cui le frodi al bilancio dell'Unione Europea sono l'obiettivo finale spesso evidenzia la corruzione del personale di dogana e di pubblici impiegati della Commissione europea o di Stati membri come reato strumentale. I proventi di queste frodi sono spesso riciclati per nasconderne l'origine illecita e per evitare il rischio, in caso di scoperta della frode, che la somma venga recuperata. Quando è il riciclaggio a costituire il principale obiettivo di un'organizzazione criminale, la necessità di rivolgersi frequentemente a professionisti e consulenti crea una catena di attività fraudolente, come la falsificazione di fatture e la corruzione di impiegati di banca. Quando lo scopo ultimo è invece la corruzione, frodi e riciclaggio rappresentano gli strumenti per realizzarla, le prime all'inizio della catena, il secondo alla fine. L' 'operazione mani pulite' a Milano, ad esempio, ha dimostrato che la corruzione ad ampio raggio della classe politica italiana a opera delle imprese private era realizzata attraverso la creazione - tramite conti e fatture false - di fondi neri. Il denaro così ottenuto veniva poi riciclato e reinvestito.Il fenomeno delle interdipendenze tra reati economici è la manifestazione tangibile della specializzazione, professionalizzazione e organizzazione della criminalità economica dei nostri giorni. Infatti, quanto più il contesto in cui i criminali si trovano a operare diviene complesso, tanto più essi necessitano di esperienza professionale e di ampie strutture organizzate per commettere reati. Chi compie reati economici su larga scala ha bisogno di molte informazioni concernenti leggi, tecniche e pratiche al fine di poter valutare opportunità e rischi. Frodi, corruzione e riciclaggio, per poter essere commessi su larga scala, hanno sempre più bisogno di professionisti capaci di 'consigliare'. Questi professionisti possono essere parte di una più ampia organizzazione criminale alla ricerca di specifiche capacità tecniche, oppure un gruppo di colletti bianchi che operano per conto proprio o offrono servizi ad altri gruppi criminali. Connivenze e scambi tra mercati legali e illegali, tra imprese che operano nell'ambito della legalità e criminalità organizzata tradizionale si intensificano sempre di più.Per quanto concerne i gruppi criminali organizzati tradizionali, essi s'indirizzano verso i reati economici per massimizzare le opportunità e, allo stesso tempo, minimizzare i rischi. Infatti, scelgono un campo d'azione in cui i vantaggi in termini di profitto superano gli svantaggi in termini di law enforcement (il rischio di essere identificati, arrestati e processati e di vedere i propri beni confiscati). Le autorità di law enforcement sono diventate molto esperte nell'investigazione delle attività del crimine organizzato tradizionale, le quali, pur rimanendo molto vantaggiose in termini economici, implicano tuttavia un sempre maggior rischio, il che contribuisce a renderle meno allettanti. La criminalità economica, d'altro canto, è generalmente difficile da investigare ed è spesso sanzionata con pene meno severe rispetto a quelle applicate ai più tradizionali reati della criminalità organizzata.
Vi sono parecchi mercati vulnerabili all'influenza di imprese criminali: essi sono caratterizzati da un alto livello di corruzione nell'ottenimento di licenze ed autorizzazioni che precludono la partecipazione di imprese che usano metodi legali (v. Savona, 1993, p. 208). Sempre secondo queste considerazioni, la criminalità economica sarebbe assente nel settore manifatturiero, mentre sarebbe presente nel settore delle costruzioni, nelle attività commerciali, nei trasporti e nei servizi alle imprese e alle famiglie, ossia nei settori protetti, a bassa produttività, con modesta accumulazione e modesta innovazione tecnologica (ibid., p. 209).
L'infiltrazione di attività illegali nell'economia legale priva quest'ultima di risorse, abbassa le prospettive di sviluppo di un paese, diminuisce la produttività del lavoro e fa aumentare i prezzi dei beni di consumo. Inoltre, dal momento che l'impresa illegale non paga le tasse, danneggia anche il sistema legale.Il potere dell'impresa non è solo economico, ma si basa sull'uso della violenza e della intimidazione. Le regole di mercato sono cioè violate. Questo può avvenire in diversi modi: attraverso le estorsioni, l'usura e una concorrenza scorretta. Inoltre la produzione viene falsata quando si garantisce la sopravvivenza di aziende fantasma per coprire attività criminali.
L'uso dell'intimidazione e della violenza da parte delle imprese criminali verso altre imprese concorrenti tende a produrre condizioni di monopolio che escludono le imprese legali. Ma non è solo con la violenza che si può eliminare la concorrenza e acquisire posizioni monopolistiche. Basta disporre di capitali a costo zero o di forza lavoro sottopagata per riuscire a ottenere in un dato momento prezzi nettamente inferiori a quelli di mercato. Dopo aver monopolizzato il mercato sarà allora possibile rialzare i prezzi e accrescere gli utili, magari mantenendo le posizioni monopolistiche con l'aiuto di corruzione, intimidazione, violenza. Il mercato degli appalti di opere pubbliche oscilla tra regolazione e deregolazione, limitando la partecipazione delle imprese per difendersi dalle infiltrazioni criminali, o allargandone la partecipazione per accrescere i livelli di concorrenza tra le imprese e rompere i monopoli e cartelli che via via si sono andati formando. Il grado di regolazione e di deregolazione necessario per questo mercato dipende dalle situazioni di contesto nelle quali esso si trova. Occorre esaminare caso per caso per poter scegliere quella più adeguata a produrre gli effetti desiderati in un dato momento.
La criminalità economica influenza anche il mercato del lavoro, soprattutto in luoghi che soffrono di 'disoccupazione strutturale'. Infatti in zone caratterizzate da scarse alternative occupazionali legali e da una forte presenza criminale è facile reclutare forza lavoro che, proprio per l'assenza di offerta di occupazione legale, è disponibile a essere retribuita a basso costo (caporalato) o inserita direttamente in attività criminali. In ciascuno dei due casi il controllo criminale della forza lavoro costituisce uno strumento di controllo del territorio e di pressione sulle imprese legali con il conseguente rafforzamento delle organizzazioni criminali.
Le stime sulla dimensione dei capitali frutto di attività illecite sono poco attendibili. Le cifre variano e sono ancor più il risultato della messa a punto di modelli econometrici piuttosto che stime effettive da cui trarre conclusioni. Si tratta comunque di miliardi di dollari che transitano dall'economia criminale a quella legale per essere ripuliti e perdere così le tracce dell'origine criminale ed essere investiti anche nell'economia legale. Tra le tecniche più diffuse di riciclaggio c'è proprio il commingling, cioè la miscela di capitali illeciti con capitali leciti dentro la stessa impresa legale. Ciò serve sia a nascondere l'origine illecita dei capitali che a finanziare l'impresa legale con capitali a costo zero. Si tratta di un'alterazione sensibile del mercato dei capitali e un vantaggio notevole per l'economia criminale e per le sue infiltrazioni in quella legale. Infatti l'impresa che viene finanziata con capitali criminali è avvantaggiata rispetto a quella che deve acquisirli sul mercato dei capitali e che alla fine rischia di essere esclusa perché meno concorrenziale della prima, la quale può permettersi, proprio per i costi inferiori, prezzi più bassi. Anche questa distorsione del mercato dei capitali è funzionale a un rafforzamento delle organizzazioni criminali e del loro controllo del territorio, soprattutto tra le piccole imprese. Spesso si produce un circuito perverso per cui la disponibilità di capitali criminali investiti in imprese legittime indebolisce le imprese legali rendendole facile preda dell'imprenditore criminale e predisponendo tutti gli elementi per un monopolio criminale di alcuni prodotti in alcune aree. Un processo, questo, che può essere addirittura rafforzato dalla difficoltà dell'impresa legale di ottenere credito legale e quindi dalla sua necessità di ricorrere a capitali illeciti attraverso l'usura. La conclusione frequente di tale processo è l'acquisizione criminale dell'impresa che non riesce a pagare le rate del prestito usurario, con l'effetto di moltiplicare il numero delle imprese 'infiltrate'. Un circuito perverso per il quale la disponibilità di capitali criminali costituisce l'origine dell'infiltrazione criminale nell'economia legale, con tutte le conseguenze inevitabili in termini di costi economici e sociali per l'intera collettività.
Aromaa, K., Lehti, M., Foreign companies and crime in Eastern Europe, Helsinki 1996.
Barbagli, M. (a cura di), Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti?, Bologna 2000.
Becker, G.S., Crime and punishment. An economic analysis, in "Journal of political economy", 1968, LXXVI, pp. 169-217.
Bertoni, A. (a cura di), La criminalità come impresa, Milano 1997.
Bini, M., Il polimorfismo dell'impresa criminale, in La criminalità come impresa (a cura di A. Bertoni), Milano 1997, pp. 1-14.
Blumstein, A., Cohen, J., Nagin, D. (a cura di), Deterrence and incapacitation: estimating the effects of criminal sanctions on crime rates, Washington 1978.
Bonger, W., Criminality and economic conditions, Bloomington, Ind., 1969.
Box, S., Power, crime and mystification, London 1983.
Braithwaite, J., Crime, shame and reintegration, Cambridge 1989.
Clarke, C.T., From criminet to cyber-perp: toward an inclusive approach to policing the evolving criminal mens rea on the Internet, in "Oregon law review", 1996, LXXV, 10.
Cook, P.J., Zarkin, G.A., Crime and the business cycle, in "Journal of legal studies", 1985, XIV, pp. 115-128.
Cools, M.J.M., Crime by employees in large corporations: the concept of employee crime, in "Security journal", 1991, II, 1.
Ehrlich, I., Participation in illegitimate activities: a theoretical and empirical investigation, in "Journal of political economy", 1973, LXXXI, 3, pp. 521-565.
Green, G.S., Occupational crime, Chicago 1990.
Haine, J., Johnstone, P., Global cybercrime hackers and crackers, http://www.pwcglobal.com/n 1999.
Nelken, D. (a cura di), White collar crime, Dartmouth 1994.
Orsagh, T., Witte, A., Economic status and crime: implications for offender rehabilitation, in "Journal of criminal law and criminology", 1981, LXXII, pp. 1055-1071.
Quinney, R., The study of white collar crime: toward a reorientation of theory and research, in "Journal of criminal law, criminology and police science", 1964, n. 55, pp. 208-214.
Ruggiero, V., Economie sporche. L'impresa criminale in Europa, Torino 1996.
Savona, E.U., Social change, organisation of crime and criminal justice systems, in Essays on crime and development (a cura di U. Zvekic), Roma 1990, pp. 103-117.
Savona, E.U., Un settore trascurato: l'analisi economica della criminalità, del diritto penale e del sistema di giustizia penale, in "Sociologia del diritto", 1990, n. 1-2, pp. 255-277.
Savona, E.U., Sviluppi delle attività criminali ed i riflessi nel sistema economico nazionale ed internazionale, in AA.VV., Economia e criminalità, Roma 1993, pp. 203-213.
Savona, E.U. (a cura di), Responding to money laundering international perspectives, Amsterdam 1997.
Savona, E.U., European money trails, Amsterdam 1998.
Savona, E.U., Mezzanotte, L., La corruzione in Italia, Roma 1998.
Schrager, L.S., Short, J.F., Toward a sociology of organizational crime, in "Social problems", 1977, n. 25, pp. 407-419.
Sherman, L.W., Preventing crime: what works, what doesn't, what's promising, Washington 1998.
Smith, D.C., Alba, R.D., Organised crime and American life, in "Society", 1979, XVI, pp. 32-38.
Sutherland, E.H., Principles of criminology, Chicago 1939 (tr. it: La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti, Milano 1986).
Sutherland, E.H., White collar criminality, in "American sociological review", 1940, V, pp. 1-12.
Wilson, J.Q., Cook, P.J., Unemployment and crime. What is the connection?, in "Public interest", 1985, LXXIX, pp. 3-8.
Witte, A.D., Estimating the economic model of crime with individual data, in "Quarterly journal of economics", 1980, XCIV, 1, pp. 57-84.
Wolpin, K.I., An economic analysis of crime and punishment in England and Wales, 1894-1967, in "Journal of political economy", 1978, LXXXVI, 5, pp. 815-840.
Young, T.R., Corporate crime: a critique of the Clinard Report, in "Contemporary crises", 1981, n. 5, pp. 323-335.
Zamagni, S. (a cura di), Mercati illegali. L'economia del crimine organizzato, Bologna 1993.