Economia e criminalità
Il nesso tra economia e criminalità può essere esaminato da diversi punti di vista: in queste pagine ne scegliamo due. Il primo consiste nell’analizzare quel che ha da dire la teoria economica per spiegare il comportamento criminale. Il secondo è per certi aspetti speculare al primo e consiste nell’analizzare quali sono gli effetti delle attività criminali su un sistema economico, per esempio sull’economia italiana. Per quan-to riguarda questo secondo aspetto, va fatta l’ulteriore distinzione tra attività criminali che hanno, in senso lato, un effetto distributivo, ossia che tolgono ad alcuni per dare ad altri (il furto e l’estorsione, ma anche la corruzione, la concussione ecc.) e attività criminali che consistono nella produzione, distribuzione e vendita di beni e servizi (la prostituzione, il contrabbando, il mercato della droga e così via). Infine, l’argomento degli effetti delle attività criminali può essere indagato, secondo una classica distinzione della teoria economica, tanto in una prospettiva di breve periodo quanto in una di lungo periodo.
Per procedere abbiamo bisogno di precisare il significato dei termini comportamento criminale e attività criminale. Coerentemente con l’approccio della teoria economica, le definizioni di cui faremo uso non hanno alcun connotato filosofico o morale. Semplicemente, l’aggettivo criminale va considerato sinonimo di illegale. Per es., per riprendere una definizione adottata dall’ISTAT (2008, p. 2), «le attività illegali sono sia le attività di produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione o possesso sono proibite dalla legge, sia quelle attività che, pur essendo legali, sono svolte da operatori non autorizzati (per es., l’aborto eseguito da medici non autorizzati)». Anche l’aggettivo illegale va inteso in senso lato. In esso faremo rientrare comportamenti che il linguaggio comune stenta talvolta a considerare ‘criminali’, come il parcheggio in divieto di sosta, l’evasione fiscale e contributiva o quella vasta e indistinta area dell’attività economica che va sotto il nome di economia sommersa. Per concludere su questo punto, la teoria economica etichetta come criminali tutti i comportamenti e le attività che sono proibiti dalla legge e che perciò, se scoperti, vengono sanzionati.
La teoria economica del comportamento criminale
Quanto appena detto aiuta a comprendere le possibilità e i limiti di una spiegazione dei comportamenti criminali (nel senso appena precisato) basata sugli strumenti della teoria economica (per una trattazione completa dell’argomento, v. Eide, Rubin, Shepherd 2006; per una più sintetica, v. Cooter, Ulen 20085, capp. XI, XII). Uno dei fondamenti della disciplina è l’ipotesi di razionalità delle decisioni, secondo la quale ogni soggetto effettua la scelta preferita (date le proprie preferenze) selezionandola all’interno delle alternative a propria disposizione. Questo approccio può essere applicato a molte scelte criminali per le quali ha senso utilizzare questa definizione di razionalità. Tuttavia è chiaro che procedendo in tal modo se ne mette a fuoco soltanto un aspetto, per quanto rilevante. Nelle scelte di qualunque soggetto, infatti, c’è in genere molto di più, nel senso che possono essere rilevanti elementi e motivazioni che non sono compresi all’interno dell’approccio della razionalità della decisione e che perciò non possono essere trattati dalla teoria economica. Richiamando la famosa distinzione di Albert O. Hirschman tra ‘passioni’ e ‘interessi’ (The passions and the interests. Political arguments for capitalism before its triumph, 1977; trad. it. 1979), si può dire che la teoria economica si occupa soprattutto delle conseguenze sulle scelte dei secondi e non delle prime. La teoria economica ha poco di significativo da dire sugli omicidi passionali, sulla violenza in famiglia, sugli stupri (ma cfr., per es., Walby 2004). Tuttavia, anche limitando il ragionamento alla considerazione dei soli interessi, può andare parecchio lontano per aiutarci a comprendere le azioni criminali.
Per applicare gli strumenti dell’economia allo studio del comportamento criminale, possiamo far ricorso alla teoria della scelta in condizioni di incertezza (rischio). Consideriamo un semplice esempio: la decisione di pagare o meno il biglietto dell’autobus. Non pagare il biglietto rientra nella nostra definizione di comportamento ‘criminale’ (di tipo distributivo). L’alternativa si pone nei termini seguenti. Nel caso che decida di pagare, il soggetto sopporta una spesa certa (il prezzo del biglietto); nel caso che scelga di provare a viaggiare gratis (di comportarsi da free rider), rischia di pagare la multa se passa il controllore. Il risultato della scelta di viaggiare gratis è appunto incerto (dipende dalla frequenza del passaggio del controllore). Se il soggetto è razionale e neutrale rispetto al rischio, la sua scelta dipenderà dal confronto tra le due alternative: se il costo atteso della scelta di viaggiare gratis è minore del costo (certo) dell’alternativa di pagare il biglietto, il nostro soggetto razionale si comporterà da free rider, ossia effettuerà una scelta ‘criminale’. Nel nostro esempio il calcolo è molto semplice, dipendendo da tre numeri: il costo del biglietto (c), l’entità della multa (m) e la probabilità che passi il controllore (p). Il costo della scelta non criminale (pagare il biglietto) è appunto c. Il costo atteso della scelta criminale (lo indichiamo con a) è una media tra zero (se il nostro soggetto riesce a farla franca) e m (se passa il controllore); i pesi della media sono rappresentati dalle due probabilità; precisamente abbiamo a=0×(1−p)+m×p=mp. Questo permette di identificare la condizione in cui è razionale comportarsi da criminale. Essa è appunto mp<c. L’applicazione dell’ipotesi di razionalità suggerisce perciò che il comportamento criminale è tanto più frequente quanto più basso è il livello della sanzione m, quanto più bassa è la probabilità p che il comportamento criminale venga scoperto, e infine quanto più alto è il costo c associato al comportamento non criminale.
L’esempio è semplicissimo, ma contiene gli elementi essenziali della teoria economica del comportamento criminale. Secondo tale teoria, un individuo decide di violare la legge se il beneficio che si attende di ottenere da tale azione supera il beneficio che si attende di ottenere dedicando la stessa quantità di risorse a un’attività alternativa, questa volta legale. Possiamo dire, citando il fondatore della teoria economica del comportamento criminale, il premio Nobel per l’economia Gary S. Becker, che «alcune persone diventano ‘criminali’ non perché le loro motivazioni di fondo differiscono da quelle delle altre persone, ma perché i loro costi e benefici sono diversi» (Crime and punishment: an economic approach, «Journal of political economy», 1968, 76, 2, p. 176). Ovviamente, questo non vale solo nel caso banale della decisione di pagare o meno il prezzo del biglietto. Vale in tutti i casi in cui un soggetto è di fronte all’alternativa di violare o non violare la legge: evadere o pagare le tasse, guidare in stato di ebbrezza, corrompere un funzionario pubblico, impegnarsi in un’attività economica illegale come la produzione e la vendita di stupefacenti o il contrabbando, o ancora effettuare un furto o una rapina, o mettere in piedi un’attività di estorsione nei confronti dei commercianti di un quartiere o di una città. E si possono fare moltissimi altri esempi. Per tutti, la teoria economica sottolinea la rilevanza, per effettuare la scelta, del confronto tra i due benefici attesi.
Un’implicazione importante di questa teoria è che essa suggerisce un criterio guida per la realizzazione delle politiche di contrasto. In altre parole è possibile influenzare le scelte criminali (in particolare, è possibile ridurne la frequenza e la rilevanza) se si riesce a influenzare i costi e i benefici che sono alla base di quelle scelte. Per riprendere l’esempio del (mancato) pagamento del biglietto dell’autobus, è possibile ridurre la frequenza del free riding semplicemente aumentando il valore della sanzione m oppure aumentando la probabilità che il free riding venga scoperto e perciò sanzionato, ovvero accrescendo il valore della probabilità p; quel che importa è che si arrivi a una combinazione di entrambi per cui si abbia mp>c, ossia una situazione in cui conviene pagare il biglietto.
Sappiamo tuttavia che, anche nelle situazioni in cui il beneficio atteso dall’azione criminale è maggiore del beneficio atteso dall’alternativa legale (in cui cioè si ha mp<c), non tutti i soggetti scelgono la prima. Ovvero molto spesso (e per fortuna) i soggetti decidono di non comportarsi da criminali anche quando converrebbe. La teoria economica spiega questo risultato facendo ricorso alla nozione di avversione al rischio. Un soggetto è avverso al rischio se preferisce un risultato certo a una scommessa che gli garantisce lo stesso risultato in media. Per es., preferisce tenersi un euro piuttosto che acquistare per quella cifra un biglietto di una lotteria che gli promette, con una probabilità dell’1%, una vincita di 100 euro. Il valore atteso di quel biglietto è appunto un euro, ma il soggetto preferisce non scommettere (invece, in questa situazione, un soggetto amante del rischio scommetterebbe). L’avversione al rischio non esclude che i soggetti non decidano di impegnarsi in comportamenti rischiosi, ma afferma che lo faranno solo se il premio atteso per la scelta rischiosa è sufficientemente elevato (tanto più elevato quanto più il soggetto è avverso al rischio). Nel nostro esempio, il soggetto potrebbe decidere di scommettere se la vincita fosse di 200 o di 1000 euro e/o se la probabilità di vincere fosse più alta. Ma altri soggetti, ancora più avversi al rischio, potrebbero rifiutare anche queste scommesse.
Vi sono vari motivi per cui le attività illegali sono rischiose (e comunque più rischiose di quelle legali). I principali sono l’assenza della tutela della legge per i risultati di quelle attività (un ladro che viene a sua volta derubato della refurtiva non può rivolgersi alla polizia) e la presenza di sanzioni nel caso che le attività criminali vengano scoperte. Esse, in compenso, garantiscono in caso di successo un rendimento più alto alle risorse investite; tenendo conto dell’efficacia delle politiche di contrasto e delle dimensioni delle sanzioni, anche il rendimento atteso può essere più alto (se così non fosse solo qualche soggetto amante del rischio potrebbe comportarsi da criminale). Le attività criminali rientrano perciò nel caso della scommessa descritta in precedenza. Questo non significa, appunto, che tutti i soggetti scelgano di impegnarsi in tali attività, nonostante esse risultino, in termini attesi, più convenienti. L’avversione al rischio funziona per molti soggetti da deterrente.
La teoria delle decisioni in condizioni di incertezza permette di spiegare un’altra caratteristica osservata del comportamento criminale, ossia il fatto che un soggetto che può scegliere tra due attività, una legale e una illegale, spesso decide di distribuire le sue risorse in entrambe. Un esempio tipico è quello dell’evasione fiscale. Molti contribuenti dichiarano tutto il dovuto e qualcuno non dichiara nulla (si comporta come evasore totale), ma c’è una vasta area grigia di evasori parziali, di soggetti che dichiarano solo una parte dei propri redditi. Questi soggetti si comportano come quegli investitori che distribuiscono il proprio patrimonio in diverse attività, e attraverso questa diversificazione riducono il rischio del proprio portafoglio. Anch’essi effettuano una scelta razionale, che tiene conto delle sanzioni associate alla scoperta dell’evasione e della probabilità dell’accertamento: si evade tanto di più quanto minore è la sanzione m e quanto minore è la probabilità p di essere scoperti (per una trattazione più ampia dell’analogia tra comportamento criminale e scelta di portafoglio, v. Giacomelli, Rodano 2001, pp. 37 e segg.). Si notino le somiglianze con il caso del pagamento del biglietto d’autobus sul quale ci siamo soffermati in precedenza.
Torniamo così al punto centrale del discorso. La teoria economica tratta il soggetto criminale non come una persona deviante, affetta da tare psichiche o altro, ma come una persona ‘normale’ che sceglie di impegnarsi (in tutto o in parte) in un’attività illegale perché il calcolo razionale delle proprie convenienze gli suggerisce di effettuare quella scelta. In questo senso tutti siamo, almeno potenzialmente, soggetti che potrebbero comportarsi, in qualche occasione, da criminali (e del resto, a tutti noi è capitato qualche volta di non pagare la sosta al parcheggio e, forse, di trascurare di dichiarare qualche voce, magari molto marginale, del proprio reddito).
Come abbiamo visto, il calcolo delle convenienze dipende da alcune grandezze, sintetizzate nei nostri esempi con le variabili m (l’ammontare della sanzione) e p (la probabilità che il comportamento criminale venga scoperto), variabili che dipendono dalle scelte delle autorità impegnate nel contrasto alla criminalità. Se i valori di m e di p fossero tali da far pendere la bilancia dei benefici (tenendo conto delle diverse avversioni degli individui al rischio) dalla parte dei comportamenti e delle attività legali, i comportamenti e le attività criminali non sarebbero più razionali, con conseguenze ovvie sulla rilevanza del fenomeno: la criminalità (per lo meno quella basata sugli ‘interessi’) verrebbe estirpata e cesserebbe di essere un fenomeno di rilevanza sociale.
Sappiamo che così non è. Il che significa che le combinazioni di m e p scelte dalle autorità impegnate nel contrasto non sono sufficienti a impedire la diffusione delle attività e dei comportamenti criminali. Di nuovo possiamo ricorrere alla teoria economica per cercare di comprenderne i motivi. Ne esiste più d’uno. Cominciamo dal primo, ossia dal fatto banale che le attività di contrasto sono costose e perciò competono con altre attività per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse (scarse) complessivamente disponibili. Per tornare al nostro primo esempio, se si vuole aumentare la probabilità di cogliere sul fatto i viaggiatori free riders, occorrono più controllori in servizio sugli autobus. Ma i controllori costano.
La teoria economica ci permette di approfondire la comprensione di questo punto facendo ricorso al principio marginale. L’idea è che ogni azione che ha una dimensione quantitativa (la quantità acquistata di un bene da parte di un consumatore, la quantità prodotta del bene da parte di un’impresa ecc.) viene accresciuta se il beneficio in più che si ottiene (il beneficio marginale) supera il costo addizionale che si deve sopportare (il costo marginale); dato che in genere il primo tende a diminuire e il secondo ad aumentare, l’azione raggiunge la sua dimensione ottima quando il beneficio marginale diventa uguale al costo marginale. Questa considerazione può essere applicata anche alle attività di contrasto alla criminalità: ogni euro in più speso per accrescerne le dimensioni (assumere poliziotti o magistrati, spendere per dotarsi di strumenti più efficaci per condurre le indagini, costruire prigioni ecc.) dà sicuramente un beneficio addizionale; ma, appunto, al crescere della spesa il beneficio addizionale tende a diminuire, fino a quando non conviene più accrescerla. Torniamo ancora una volta all’esempio del free rider. Un controllore in ogni autobus (p=1) risolve alla radice il problema ma costa più del beneficio che se ne ricava. Più in generale, il beneficio marginale associato a un incremento dell’azione di contrasto va confrontato con il beneficio marginale sociale associato alla conseguente riduzione delle attività criminali. Se il primo è minore del secondo, il gioco non vale la candela.
Più avanti dovremo occuparci a lungo del tema dei costi sociali associati alle attività criminali (e perciò dei benefici sociali associati alla loro diminuzione). Intanto, però, possiamo anticipare una conclusione. Stando all’approccio della teoria economica, una politica di contrasto razionale può porsi l’obiettivo di ridurre la dimensione della criminalità, non quello di estirparla completamente. Il livello ‘ottimale’ delle politiche di contrasto (e, di conseguenza, il livello ‘ottimale’ di criminalità) è appunto quello identificato dall’uguaglianza tra beneficio marginale sociale e costo marginale sociale di quelle politiche.
Va precisato subito che, in genere, le politiche di contrasto non sono socialmente razionali. Di nuovo, la teoria economica può aiutarci a capire perché. Le politiche di contrasto sono il risultato di decisioni pubbliche e perciò sono il punto di arrivo di una catena decisionale lunga e complessa, in cui interagiscono diversi soggetti: gli elettori, il Parlamento, il governo, gli uffici competenti e, non ultimi, i soggetti che sono chiamati a realizzare e a gestire nella pratica quotidiana le azioni rese possibili da quelle politiche. Ciascuno di questi soggetti persegue propri obiettivi, spesso in contrasto o comunque non compatibili con quelli degli altri soggetti. C’è un ramo dell’economia (la teoria dei giochi) che è in grado di analizzare situazioni in cui la scelta è il risultato di un’interazione come quella appena descritta. Anche se ciascuno dei soggetti coinvolti nel gioco si comporta in modo razionale (nel senso precisato sopra), questo non garantisce che la decisione cui alla fine si arriva (il risultato del gioco) sia efficiente. L’espressione usata dalla teoria dei giochi per descrivere questo esito è appunto ‘fallimento del coordinamento’.
Nel caso delle politiche di contrasto alla criminalità, il fallimento del coordinamento è un esito molto probabile. Un esempio può rendere l’idea. Assumiamo che gli elettori percepiscano una situazione di grave insicurezza nei confronti delle minacce della criminalità. Assumiamo anche che questo dato percepito sia in contrasto con il dato effettivo risultante dalle statistiche, le quali mostrano invece che tali minacce appaiono sopravvalutate dagli elettori. In questo caso il Parlamento e il governo, in coerenza con i propri obiettivi, cercheranno di venire incontro alle istanze espresse dagli elettori e ‘gonfieranno’ le spese per le attività di contrasto al di là del necessario. Si tratta solo di un esempio, anche se piuttosto realistico. Ma ci sono anche altri meccanismi.
Uno di questi va sotto il nome di ‘teoria economica della burocrazia’ (William A. Niskanen, Bureaucracy and representative government, 1971). Essa afferma in sostanza che nel decidere le dimensioni di una certa politica (e perciò anche di una politica di contrasto alla criminalità) un peso rilevante è costituito dall’interesse dell’ufficio che deve gestire quella politica a massimizzare il proprio ruolo e perciò il proprio budget. In genere l’ufficio dispone di un vantaggio di informazione sulle dimensioni del fenomeno con cui si confronta, ma, per quel che abbiamo appena detto, tende a enfatizzarle. Questo atteggiamento è largamente presente nelle agenzie contro il traffico di droga, nelle forze di polizia, nella magistratura ecc., e influenza positivamente i flussi di risorse che tali soggetti e istituzioni sono chiamati a gestire. I principali motivi per cui le risposte dei soggetti decisionali a monte (i governi, i Parlamenti) sono accomodanti, sono innanzitutto il citato vantaggio di informazione posseduto dagli uffici, e poi le azioni di lobbying esercitate da questi ultimi.
Il tema delle lobby ci conduce a un altro motivo di inefficienza nelle spese e, più in generale, nelle gestioni delle politiche di contrasto. Non sono solo gli uffici a premere sul legislatore, o, meglio, sul soggetto decisionale a monte; si attivano come gruppi di pressione anche le imprese (o i loro rappresentanti) che dovranno fornire le attrezzature e i servizi utilizzati nelle politiche di contrasto. La pressione può essere esercitata direttamente sul legislatore, oppure può assumere una forma indiretta, cercando di influenzare l’opinione pubblica, ossia l’elettore. Tutti questi meccanismi all’opera nei vari snodi del processo decisionale pubblico fanno sì che il confronto tra beneficio marginale sociale e costo marginale sociale (la condizione che, come abbiamo visto, garantisce l’efficienza della decisione) venga sistematicamente trascurato.
Non è infrequente, come sappiamo, che le pressioni sui vari soggetti della catena decisionale pubblica assumano a loro volta la forma di un’attività criminale. Parliamo ovviamente della corruzione, ossia del pagamento del soggetto decisore da parte di un soggetto interessato a influenzare a proprio favore le caratteristiche della decisione, e della sua controparte speculare, la concussione, che si verifica quando è il soggetto decisionale pubblico che prende l’iniziativa della transazione illecita. Sappiamo bene che la corruzione non è limitata solo a questo campo. Essa è molto diffusa anche all’interno delle attività economiche legali. Dovremo riprendere l’argomento quando affronteremo il tema degli effetti economici delle attività criminali. Intanto notiamo come la corruzione del soggetto che deve decidere sulle politiche di contrasto alla criminalità si configuri come un’attività criminale che non avrebbe motivo di esistere se non ci fossero le politiche di contrasto. Il che, naturalmente, non la giustifica (sulla teoria economica della corruzione, v. Shleifer, Vishny 1998, pp. 91-108).
Non si tratta, del resto, dell’unica attività criminale la cui esistenza consegue dalla presenza delle politiche di contrasto. Un esempio ovvio e scontato è costituito dalle attività di ricettazione. Un altro notissimo esempio, che in un certo senso si configura come una forma di ricettazione sui generis, è costituito dal riciclaggio del denaro ‘sporco’ (che risulta, cioè, dal provento di attività economiche criminali), un’industria fiorente con un larghissimo giro d’affari a livello mondiale e che a sua volta viene affrontata con specifiche politiche di contrasto (sugli aspetti economici del riciclaggio e delle politiche antiriciclaggio, v. Masciandaro 1998, 1999 e 2000). La ricettazione e il riciclaggio sono due fattispecie di una categoria più generale di azioni illegali che possiamo etichettare come attività di ‘protezione’ della criminalità. Come abbiamo accennato in precedenza, i risultati delle azioni criminali, a differenza di quelle legali, non sono tutelati dalla legge, che anzi tende a contrastarle. Esse, perciò, hanno bisogno di una duplice protezione: nei confronti degli altri criminali e nei confronti della legge. Lo sviluppo delle grandi organizzazioni della criminalità organizzata è spesso legato alla produzione di servizi di protezione di questo tipo, anche se poi le economie di scala hanno fatto estendere il loro campo d’azione in molte altre direzioni, dal contrabbando al traffico di stupefacenti, dalla prostituzione al gioco d’azzardo, per non parlare che dei più noti.
Gli effetti economici delle attività criminali
Una distinzione di cui ci siamo serviti nelle pagine precedenti è quella tra attività criminali di tipo distributivo e attività criminali che prendono la forma di produzione, distribuzione e vendita di beni e servizi. Esempi classici di attività del primo tipo sono il furto, la truffa, l’estorsione. La presenza di questi crimini impone dei costi non solo a chi ne subisce le conseguenze ma all’intera società, ovvero ha degli effetti allocativi: distorce l’uso complessivo delle risorse rispetto a quello che si avrebbe in assenza di criminalità. Innanzitutto abbiamo una vera e propria distruzione di risorse associata all’esercizio delle attività criminali, come, per fare un esempio ‘piccolo’, quella provocata dal ladro che rompe un vetro per entrare a rubare in un appartamento. Le principali distorsioni allocative sono determinate, tuttavia, proprio dalle scelte che i privati e il pubblico effettuano per difendersi dalle azioni criminali.
Cominciamo dalle spese effettuate dai privati per la propria difesa (sbarre alle finestre, sistemi di allarme, armi da difesa, sorveglianti e così via). Esse hanno in genere una finalità di deterrenza. Il soggetto le effettua allo scopo di scoraggiare l’azione criminale nei propri confronti. La teoria economica della criminalità distingue al riguardo tre fattispecie (v. Cooter, Ulen 20085, pp. 470 e sgg.): a) l’effetto di ‘deterrenza privata’, che si verifica quando la scelta riduce la probabilità di essere colpiti dall’azione criminale (le sbarre alle finestre); b) l’effetto di ‘deterrenza pubblica’, che si verifica quando la scelta scoraggia il comportamento criminale anche nei confronti degli altri soggetti (l’illuminazione di una strada); c) l’effetto di ‘redistribuzione del crimine’, che si verifica quando l’azione di deterrenza effettuata dal privato sposta le scelte del criminale verso altri obiettivi (la pubblicizzazione dell’antifurto sull’automobile).
Tali effetti mettono in luce che, nell’effettuare le loro scelte di deterrenza, i privati si basano sui propri obiettivi, trascurando gli effetti (positivi o negativi) che le loro azioni possono avere sugli altri soggetti. Incontriamo così un tema tipico della teoria economica, che è quello delle esternalità, le quali si verificano tutte le volte che c’è una discrepanza tra benefici privati (che sono quelli considerati nelle scelte dei singoli) e benefici sociali, che per essere soddisfatti comporterebbero scelte di deterrenza diverse da quelle spontaneamente effettuate dai singoli. È proprio questa discrepanza che giustifica l’adozione di politiche pubbliche di contrasto e deterrenza, anche se, come abbiamo già visto in precedenza, non ci sono sufficienti garanzie che anche a questo livello si riesca a tener conto in modo adeguato dei costi e dei benefici sociali delle politiche di contrasto.
Quanto detto finora riguarda gli effetti economici di quelle che abbiamo chiamato azioni criminali con finalità distributive. Riportiamo qui le cifre di fonte ISTAT relative al numero di crimini appartenenti ad alcune tipologie di natura distributiva in Italia nel 2005. Si tratta, è bene precisarlo subito, solo dei crimini denunciati all’autorità, sicché le cifre riportate sottostimano largamente il fenomeno. Con questi caveat, ecco le cifre: i furti denunciati sono stati 1.503.712, le rapine 45.935, le estorsioni 5559, i danneggiamenti 305.172, le truffe 90.523, le ricettazioni 30.795, e, infine, le attività di usura 393.
Più complessa e delicata è la valutazione degli effetti economici di altri tipi di azioni criminali. Consideriamo innanzitutto azioni come l’evasione fiscale e contributiva. Anche in questo caso le cifre sono tutt’altro che trascurabili (per es., l’Agenzia delle entrate ha stimato che in Italia, nel 2007, quasi un quinto del PIL è sfuggito al fisco per quanto riguarda il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, il che significa che oltre un terzo del gettito è mancato all’appello). Un sentire comune (anche se erroneo) è che questo tipo di azione criminale avvantaggia chi la effettua e non svantaggia nessuno. Perciò si tratta di azioni che non comportano alcuna forma di deterrenza privata e spesso, anzi, suscitano forti meccanismi collusivi. Tuttavia, l’azione dell’evasore ha l’effetto sociale di far crescere la pressione fiscale sui contribuenti onesti. Da questo punto di vista possiamo concludere che l’evasione fiscale va etichettata tra le attività criminali di tipo distributivo, nel senso che ha l’effetto di danneggiare pro quota tutti quanti i contribuenti. Di conseguenza, è socialmente ottimale contrastare tali comportamenti, ma, per quel che si è detto, il loro contrasto è affidato soltanto all’azione pubblica.
All’inizio di queste pagine abbiamo accennato come una componente significativa delle azioni criminali che hanno rilevanza economica assuma la forma di produzione, distribuzione e vendita di beni e servizi illegali. Queste attività condividono con l’evasione fiscale il fatto di non suscitare alcun incentivo all’adozione di forme di deterrenza da parte dei privati, salvo sporadiche eccezioni. Si pensi all’economia sommersa, che secondo la definizione adottata in queste pagine fa parte a pieno titolo dell’economia illegale. Il fenomeno ha dimensioni rilevanti: in Italia, nel 2006, stando a stime dell’ISTAT (2008), il valore aggiunto prodotto complessivamente dal sommerso oscillava tra il 15,3% del PIL (ipotesi minima) e il 16,9% (ipotesi massima). Anche se le attività del sommerso possono configurare forme di concorrenza sleale nei confronti delle corrispondenti attività legali, le iniziative private contro tali attività sono sporadiche, e si traducono soprattutto in pressioni sulle autorità pubbliche perché queste ultime intervengano. Pertanto, la diminuzione osservata nel peso dell’economia sommersa (circa tre punti di PIL tra il 2000 e il 2006, stando sempre alla stessa fonte ISTAT) va imputata, oltre che alle normali dinamiche del mercato, alle sole azioni di contrasto esercitate dal pubblico.
Un discorso analogo va fatto per altre attività economiche, alcune borderline, come la prostituzione, altre propriamente illegali, come il contrabbando e il mercato degli stupefacenti. Al riguardo, l’ISTAT non ha ancora prodotto cifre ufficiali, ma le loro dimensioni hanno comunque rilevanza macroeconomica (complessivamente, il loro peso sul PIL italiano può essere stimato attorno al 4-5%).
Sorge allora il problema di valutare gli effetti economici di tali attività. Come si è accennato all’inizio di queste pagine, la questione può essere impostata in un’ottica di breve periodo o in una di lungo periodo. Nella prima le grandezze rilevanti sono il livello di attività e la domanda aggregata. Nella seconda l’accento si sposta su altre variabili: il tasso di crescita dell’economia e le sue determinanti.
Cominciamo dal breve periodo. Il modo più semplice per impostare la questione è considerare il complesso delle attività economiche criminali (produzione, distribuzione e vendita di beni e servizi illegali) come un settore dell’economia che interagisce con quello costituito dal complesso delle attività legali. Per certi versi, la situazione del settore ‘legale’ è equivalente a quella di un sistema che intrattiene relazioni economiche con l’estero, qui rappresentato dal settore ‘illegale’. Visto dal lato dell’economia legale, l’acquisto di beni e servizi illegali da parte dei soggetti i cui redditi provengono dalle attività legali, può essere considerato come spesa per ‘importazioni’; al contempo, l’acquisto di beni e servizi legali da parte dei soggetti i cui redditi provengono dalle attività illegali, assume la natura di ‘esportazioni’. Impostando il problema in questi termini, a esso possono essere applicati i risultati della teoria macroeconomica delle economie aperte agli scambi con l’estero.
Gli effetti di una variazione della spesa autonoma sul livello di attività sono più piccoli in mercato aperto che in mercato chiuso (nel nostro caso, una parte della domanda aggregata esce dal meccanismo moltiplicativo della variazione iniziale della spesa autonoma, andando ad alimentare la spesa per prodotti illegali). Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia: un aumento del livello di attività nel settore illegale si traduce (appunto come farebbero le esportazioni) in un aumento della spesa autonoma che sostiene il livello di attività del settore legale. Si può dimostrare (v. Giacomelli, Rodano 2001, pp. 81 e sgg.) che, a certe condizioni, emerge la presenza di un feedback positivo tra economia criminale ed economia legale, nel senso appunto che la crescita autonoma di un settore si ripercuote, attraverso un noto meccanismo moltiplicativo, sull’altro settore. Tuttavia questo risultato può rovesciarsi nel suo contrario se si assume che i due settori competano per un ammontare dato della spesa autonoma totale. Si tratta di un’ipotesi limite, che però ha un certo realismo, se non altro per quanto riguarda la spesa pubblica, che almeno in parte può essere ‘catturata’ dal settore criminale (si pensi, per es., agli appalti).
La presenza di effetti di retroazione positiva tra l’attività criminale e la domanda aggregata che si rivolge all’economia legale, effetti che possono anche alimentarsi a vicenda, può aiutare a spiegare come mai si osservi, in alcune regioni a forte presenza di attività economiche che fanno capo, direttamente o indirettamente, alla criminalità organizzata, una certa acquiescenza nei confronti di tali attività, quasi si abbia il timore, contrastandole, di danneggiare l’economia legale deprimendone il livello di attività. Ovviamente non c’è solo questo. Anche in questo caso è rilevante il tema, precedentemente citato, della corruzione (Shleifer, Vishny 1998, pp. 91-108).
Va sottolineato che tale atteggiamento accomodante della politica nei confronti di certe attività criminali è pesantemente condizionato da un’ottica schiacciata su un orizzonte temporale di breve periodo. Infatti, gli effetti economici di lungo periodo provocati dalla presenza delle attività criminali sono univocamente negativi: le attività criminali deprimono la crescita aggregata dell’economia. La teoria economica ha messo in luce diversi meccanismi che provocano questo risultato. Qui ne riportiamo, e molto sommariamente, soltanto alcuni. Essi sono collegati, direttamente o indirettamente, a una caratteristica di tutte le attività criminali (anche se non solo di esse) ossia di essere attività rent seeking.
La nozione di rent seeking è stata introdotta nella scienza economica da Gordon Tullock (Rent seeking, in The new Palgrave. A dictionary of economics, 1987, 4° vol., pp. 147-49), che tra l’altro è stato uno dei primi studiosi ad aver affrontato il nesso tra economia e criminalità (The welfare costs of tariffs, monopolies, and theft, «Western economic journal», 1967, 5, 3, pp. 224-32). Il rent seeking descrive le situazioni in cui un individuo, un’organizzazione o un’impresa cercano di ottenere un reddito non attraverso la normale attività di produzione e di scambio ma attraverso la manipolazione del sistema economico e di quello legale. La nozione di rent seeking è stata introdotta originariamente per spiegare le pratiche miranti alla costituzione di monopoli, ma è stata successivamente estesa per descrivere un numero molto ampio e variegato di attività. In sostanza, questa nozione descrive tutti i comportamenti che hanno la finalità di appropriarsi, con pratiche legali ma anche (quel che qui più ci interessa) con pratiche illegali, di quote della ricchezza prodotta da altri.
È chiaro che le attività criminali rientrano a pieno titolo entro questa definizione. La cosa è ovvia per le attività che abbiamo chiamato di tipo ‘distributivo’ (il furto, l’estorsione, la truffa ecc.), ma è vera anche per le attività che abbiamo chiamato di tipo ‘produttivo’ (il contrabbando, il traffico di droga, l’usura). I mercati in cui vengono esercitate le attività produttive criminali sono infatti molto lontani dalla concorrenza. Anche l’organizzazione di queste attività produttive è molto lontana rispetto a quella delle imprese competitive. Per es., è molto rilevante il ricorso alla violenza, sia come strumento di penetrazione nei mercati (o di difesa delle proprie quote di mercato), sia come strumento per disciplinare e regolare la propria organizzazione interna. In merito alle caratteristiche delle imprese criminali risultano ancora oggi molto stimolanti le pagine scritte a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta da un altro premio Nobel per l’economia, Thomas C. Schelling (Economics and the crimi-nal enterprise, «The public interest», 1967, 7, pp. 61-78; What is the business of organized crime?, «Journal of public law», 1971, 20, pp. 71-84).
Per completare il nostro ragionamento, non rimane che mostrare la rilevanza del rent seeking come elemento che deprime il tasso di crescita aggregato dell’economia. Si tratta di un risultato messo in luce all’interno della teoria della crescita endogena, un filone di analisi iniziato nel 1986 con un innovativo lavoro di Paul M. Romer (Increasing returns and the long-run growth, «Journal of political economy», 1986, 94, 5, pp. 1002-37) e che ha dominato la ricerca in tema di crescita nei decenni successivi. Semplificando drasticamente un discorso quanto mai ricco, complesso e carico di technicalities, possiamo dire, seguendo Romer, che il tasso di crescita dell’economia è positivamente correlato con il progresso tecnico, o meglio con il flusso e la diffusione delle innovazioni, che a loro volta dipendono dal numero delle imprese e dal grado di competitività dei mercati.
Dato che le attività rent seeking servono ad allontanare i mercati dalla concorrenza, questo chiarisce il loro nesso negativo con il tasso di crescita aggregato. Ma se si considerano le specifiche forme di rent seeking associate alle attività criminali, allora emerge anche un nesso più specifico. L’idea, studiata nei primi anni Novanta da Kevin M. Murphy, Andrei Shleifer e Robert W. Vishny (The allocation of talent. Implications for growth, «Quarterly journal of economics», 1991, 106, 2, pp. 503-30; Why is rent-seeking so costly to growth?, «American economic review», 1993, 83, 2, pp. 409-14), anche se con riferimento al rent seeking in generale, è che il flusso delle innovazioni dipende dal numero dei soggetti dotati di ‘talento’ che scelgono di divenire imprenditori. Ma se per un soggetto con queste caratteristiche le attività rent seeking risultano più attraenti perché promettono una maggiore remunerazione del talento stesso, allora quanto più diffuse sono queste attività tanto minore sarà il flusso di innovazioni e perciò tanto minore il tasso di crescita dell’economia (per un approfondimento, si veda Giacomelli, Rodano 2001, pp. 72 e segg.).
Queste ultime considerazioni suggeriscono che la questione dei costi delle attività economiche criminali, e perciò la connessa valutazione dei benefici sociali delle attività di contrasto, va impostata secondo una logica sistemica, considerando non solo gli effetti delle attività criminali sui soggetti che ne subiscono le conseguenze (ricordiamo, del resto, che molte attività si configurano come ‘crimini senza vittime’), ma anche e soprattutto le conseguenze che tali attività provocano sulla performance dell’intera economia e sulle sue capacità dinamiche.
Bibliografia
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D. Masciandaro, Money laundering. The economics of regulation, «European journal of law and economics», 1999, 7, 3, pp. 225-40.
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S. Giacomelli, G. Rodano, Denaro sporco. Economie criminali, politiche di contrasto e ruolo dell’informazione, Roma 2001.
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Webgrafia
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ISTAT, La misura dell’economia sommersa secondo le statistiche ufficiali – Anni 2000-2006, Roma, 18 giugno 2008, http:// www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080618_00/testointegrale20080618.pdf.
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