Economia e felicità
Una nuova scienza?
Gli studi sulla felicità sono uno degli elementi di maggiore novità e interesse nell’ambito della ricerca economica, psicologica e sociale contemporanea. Essi rappresentano anche un’importante critica al modello di sviluppo capitalistico e alla società di mercato. Questo è quanto credono coloro che coltivano questo nuovo campo di studi. Altri, invece, ritengono che studiare ‘scientificamente’ la felicità sia un’operazione metodologicamente poco seria, e considerano quanto sta accadendo nella nuova ‘scienza della felicità’ qualcosa di poco rilevante, e forse fuorviante.
Scopo di questo scritto è mostrare gli elementi di novità e di autentico interesse nell’attuale dibattito, ma anche evidenziarne i punti di debolezza.
Anche se a molti economisti contemporanei il tema felicità suona come qualcosa di inedito e magari postmoderno, se guardiamo la storia delle idee ci accorgiamo che la felicità è una parola da tempo utilizzata, anche in economia. Essa è centrale nel pensiero filosofico antico, come anche nell’opera degli umanisti civili del Quattrocento italiano. La storia del pensiero economico incontra l’espressione e il concetto di pubblica felicità nell’Italia e poi nella Francia illuminista. In particolare la tradizione dell’economia civile della Napoli di Antonio Genovesi e della Milano di Pietro Verri definì la nascente scienza economica come la «scienza della pubblica felicità» (Bruni, Zamagni 2004), indicando nella felicità pubblica l’obiettivo della nuova scienza economica, differenziandosi così dalla tradizione scozzese e inglese loro contemporanea che invece scelse la ricchezza delle nazioni come l’oggetto della nuova political economy (The wealth of nations, è il titolo, e non a caso, della celebre opera di Adam Smith del 1776).
Quindi più di una novità assoluta, gli attuali studi sulla felicità in economia rappresentano un ritorno alle origini, almeno per la tradizione italiana che, da questa prospettiva, detiene davvero un ‘primato’. Infatti, dopo circa due secoli di eclisse, negli anni Settanta del Novecento la felicità è tornata di nuovo alla ribalta in economia. Ma invece della ‘pubblica’ felicità, oggi gli economisti, assieme ad altri scienziati sociali, studiano e misurano la felicità ‘soggettiva’ e individuale, confrontandola con i tipici indicatori economici, quali reddito, ricchezza, disoccupazione, e altro ancora. Secondo l’economista Giacomo Becattini gli studi sulla felicità rappresentano una rivoluzione «silenziosa» (Felicità ed economia, 2004, p. 9). Di rivoluzione parlano anche i principali studiosi della felicità, tra cui l’economista inglese lord Richard Layard, il quale è, con Richard A. Easterlin, un punto di riferimento indiscusso nel panorama dell’economics of happiness. Layard parla addirittura di nascita di una «nuova scienza», la scienza della felicità, che comporta «una radicale riforma della teoria su cui si basa la politica economica» (Economics and psychology, 2007, p. 165).
Perché gli studi sulla felicità rappresenterebbero una nuova scienza, diversa dall’attuale scienza economica o dalla psicologia? Innanzitutto perché è interdisciplinare (non solo economia, ma anche psicologia, sociologia, scienza politica, filosofia ecc.), e perché usa nuovi metodi, in particolare l’indagine diretta, attraverso questionari, della felicità soggettiva delle persone. Da questa nuova scienza della felicità derivano poi importanti conseguenze per la politica economica, alcune delle quali verranno prese in considerazione più avanti.
Il paradosso della felicità
Il primo dato empirico da cui si è partiti negli studi sulla felicità, presto divenuto noto come il paradosso della felicità in economia, o paradosso di Easterlin, è stata l’inesistente o troppo esigua correlazione tra reddito e felicità, o tra benessere economico e benessere generale.
Il pioniere di questi studi, però, non è stato un economista, ma uno psicologo sociale, Hadley Cantril (1906-1969), che nel 1965 immaginò qualcosa che per gli economisti del suo tempo risultò semplicemente ingenua se non provocatoria: misurare quantitativamente la felicità (da lui usata, diversamente dagli attuali studi, come sinonimo di life satisfaction) e, soprattutto, confrontare tra di loro i livelli di felicità di diversi individui in diversi Paesi. Cantril rivolse a persone di quattordici Paesi del mondo, dalla Nigeria agli Stati Uniti, dal Brasile al Giappone, dei questionari sulle paure, speranze, aspirazioni e felicità. Riguardo a quest’ultima nel questionario era contenuta la seguente domanda: «Alcune persone sembrano essere felici e soddisfatte con la propria vita, mentre altre sembrano infelici e insoddisfatte. Ora, guarda la scala di valutazione [0-10]. Supponi che chi è interamente soddisfatto con la propria vita sia al top della scala [10], e una persona che è estremamente insoddisfatta con la propria vita sia in fondo alla scala [0]. Dove collocheresti te stesso, in termini di soddisfazione e insoddisfazione con la tua vita personale, lungo questa scala di valutazione in questo momento della tua vita?» (The pattern of human concerns, 1965, p. 265). La ‘provocazione metodologica’ di Cantril – e dopo di lui di tutti gli economisti della felicità – fu quella di pensare che un ‘7’ di un nigeriano fosse comparabile con un ‘7’ di un americano (operazione del tutto estranea all’economia, da cento anni a questa parte), sulla base dell’ipotesi che quelle operazioni sono ‘primitive’, tali da non essere alterate significativamente da elementi culturali. Una tesi forte, ma che ha dato vita a un filone di studi, basato sulla valutazione soggettiva della felicità. Cantril trovò che la media mondiale si attestava attorno a 7,6, mentre quella degli statunitensi era di 6,6: è questo il primo dato da cui è partito il dibattito sul rapporto tra reddito e benessere soggettivo, o sul paradosso della felicità, come fu chiamato qualche anno dopo.
Per alcuni anni lo studio di Cantril rimase praticamente sconosciuto tra gli economisti, fino a quan-do, nel 1974, l’economista e demografo americano Easterlin, riprendendone i dati, aprì ufficialmente il dibattito attorno al paradosso della felicità in economia. Anche i dati studiati da Easterlin si fondavano su autovalutazioni soggettive della felicità sulla base della risposta alla seguente domanda: «presa la tua vita nel suo insieme, ti consideri: molto felice, abbastanza felice, infelice, molto infelice?». Oggi i questionari (per es., quelli del World values survey, il più grande database attualmente disponibile) riportano anche una seconda domanda (sulla life satisfaction) e utilizzano la scala 1-10 simile a quella di Cantril.
Le prime analisi statistiche di Easterlin arrivarono sostanzialmente ai seguenti risultati. Mentre all’interno di un singolo Paese, in un dato momento, le persone più ricche si dichiarano più felici di quelle più povere, l’aumento di reddito nel tempo non produce incrementi di felicità soggettiva nei Paesi con un livello medio di reddito elevato (oggi Layard stima che questa soglia corrisponda a un reddito pro capite medio maggiore di 20.000 dollari annui). Inoltre, nel confronto tra Paesi, non emerge correlazione significativa tra reddito e felicità, e i Paesi più poveri non risultano essere significativamente meno felici di quelli più ricchi. In altre parole, quando si è poveri (sia individualmente sia come Paese) l’aumento di beni si traduce subito e facilmente in aumento di benessere; quando si supera una soglia di ricchezza, quella che consente di soddisfare i bisogni ordinari della vita, l’aumento di reddito non si traduce più in felicità.
L’economia capitalistica, quindi, sembra essere arrivata a un punto di saturazione, ma non in termini di crescita economica o del PIL, quanto piuttosto in aumento di felicità: da qualche decennio il benessere delle persone nei Paesi capitalisti non cresce più. È questo il senso del messaggio lanciato oggi dagli studi su economia e felicità. Quali ne sono le ragioni?
A questo proposito, un altro importante autore, l’economista americano Robert H. Frank, scrive: «Molta evidenza empirica suggerisce che se usiamo un aumento del nostro reddito semplicemente per comprare case più grandi e auto più costose, non ci ritroviamo dopo questi acquisti più felici di prima. Ma se usiamo l’aumento di reddito per acquistare più beni non vistosi (unconspicuous goods) – come liberarsi da lunghi spostamenti per lavoro o per cambiare un lavoro noioso –, allora l’evidenza empirica mostra un quadro ben diverso. Meno spendiamo in beni vistosi, più riusciamo a ridurre ingorghi nel traffico, più tempo dedichiamo alla famiglia, agli amici, al sonno, ai viaggi, e ad altre attività interessanti. Sulla base della migliore evidenza empirica, possiamo affermare che riallocare il nostro tempo e denaro in queste e simili attività ci renderebbe la vita più sana e più felice» (2004, p. 69).
Espresso in questi termini, il paradosso della felicità risulta semplice da comprendere con il solo senso comune. In realtà la storia è più complessa. Prima di addentrarci nell’analisi può essere utile una considerazione di carattere preliminare. Abbiamo accennato a un afflato riformista presente negli studiosi sulla felicità (oggi e nel Settecento), e avremo modo di approfondirlo in seguito. Al contempo, gli stessi dati sulla felicità possono portare anche a politiche molto conservatrici. Se le persone più povere non sono meno felici di quelle più ricche, se i Paesi economicamente meno sviluppati non sono mediamente meno felici di quelli economicamente più sviluppati, perché allora preoccuparci di redistribuire il reddito, o di porre in essere la cooperazione internazionale allo sviluppo? A quale scopo? Quello di rendere infelici e tristi anche le persone nei Paesi più poveri?
Spiegazioni del paradosso
Le principali spiegazioni del paradosso della felicità offerte dagli studiosi ruotano attorno alla metafora del treadmill (tappeto rullante): la felicità non aumenta perché l’aumento del reddito porta con sé l’aumento di qualcos’altro, esattamente come in un tappeto rullante, dove corriamo restando fermi, perché con noi corre in direzione opposta anche il tappeto sotto i nostri piedi. Daniel Kahneman nei suoi lavori distingue tra due tipi di treadmill effects: il rullo edonico e il rullo delle aspirazioni. Il rullo edonico deriva dalla teoria del livello di adattamento (o set point theory), che può essere così sintetizzata: l’essere umano si adatta alle mutate circostanze, e gli aumenti di reddito e i miglioramenti degli standard di vita producono variazioni di benessere (o felicità) solo nel breve o brevissimo periodo, dopo di che si torna presto a un livello base di felicità (set point), che dipende sostanzialmente dai geni e dalla cultura. Per fare un esempio, quando percepiamo un reddito basso acquistiamo un’automobile utilitaria, che, nella scala di Cantril, ci dà un livello di soddisfazione pari, poniamo, a 5; quando il nostro reddito aumenta acquistiamo una nuova auto berlina, che determina un miglioramento di benessere per qualche mese (per es., pari a 7), ma presto si torna al livello 5, proprio a causa dell’adattamento. Kahneman spiega questo meccanismo psicologico (che distrugge, di fatto, buona parte degli sforzi per migliorare con il consumo il nostro benessere soggettivo), legando la felicità (che, in realtà, potremmo semplicemente chiamare piacere) all’attenzione a sua volta legata alla novità. Tornando all’esempio dell’automobile, quando guidiamo un’auto nuova tutta la nostra attenzione è concentrata sulle caratteristiche tecnologiche, di comfort, della nuova macchina, e ciò fa sì che la soddisfazione alla guida sia maggiore rispetto a quella che ci procurava la vecchia auto. Dopo poco tempo, però, l’attenzione non sarà più concentrata sull’auto, e probabilmente ascolteremo la radio esattamente come nella vecchia auto. L’attenzione e la novità sono esperienze per loro natura transitorie, e con esse passa presto anche l’extra-soddisfazione associata all’acquisto del nuovo bene (di comfort).
Il rullo delle aspirazioni (o satisfaction treadmill), invece, dipende dal livello di aspirazione, che segna il confine fra i risultati soddisfacenti e quelli insoddisfacenti. Quando aumenta il reddito, con il miglioramento delle condizioni materiali aumentano anche le aspirazioni sui beni che vorremmo consumare, e ciò induce i consumatori a richiedere continui e più intensi piaceri per mantenere lo stesso livello di soddisfazione precedente. Il rullo delle aspirazioni – che normalmente si somma al rullo edonico – opera dunque in modo che la felicità soggettiva (l’autovalutazione della propria felicità) rimanga costante, nonostante la felicità oggettiva (la qualità dei beni che consumiamo) possa migliorare. Così, per tornare all’esempio dell’auto, probabilmente con la nuova auto il benessere oggettivo è maggiore (per es., la sicurezza) ma, poiché con le nuove circostanze reddituali le mie aspirazioni circa l’auto ‘ideale’ sono soggettivamente aumentate, sperimenterò lo stesso livello di soddisfazione di prima. Anche qui, l’aumento delle aspirazioni di fatto distrugge gli effetti sul benessere dell’aumento dei consumi.
È interessante notare che nell’ambito dei beni materiali l’adattamento e le aspirazioni tendono ad annullare l’effetto sul benessere dovuto all’incremento del reddito: gli aumenti di comfort vengono riassorbiti, dopo un tempo più o meno breve, interamente. Ci sono, invece, altri ambiti, non economici, nei quali l’adattamento e le aspirazioni agiscono meno, come l’ambito familiare, affettivo o civile (v. oltre).
Una terza spiegazione del paradosso, molto diffusa oggi tra gli economisti, pone l’accento sugli effetti posizionali o su una sorta di ‘rullo posizionale’. Questa teoria – che storicamente risale ai lavori sul «consumo vistoso» di Thorstein Bunde Veblen (1857-1929) alla fine del 19° sec. – afferma che il benessere che traiamo dal consumo dipende soprattutto dal valore relativo del consumo stesso o dal confronto con gli standard di consumo degli altri, cioè da quanto il livello assoluto del nostro consumo differisce da quello degli altri con i quali normalmente ci confrontiamo. Se il mio reddito, per es., aumenta del 10% ma quello del mio collega d’ufficio aumenta di più (15%), potrei ritrovarmi con un maggior reddito accompagnato da maggiore insoddisfazione. L’essere umano, sembra, tende a valutare le cose che ha con l’occhio degli altri.
L’aspetto rilevante di questa teoria consiste nella constatazione che questi meccanismi chiamati posizionali portano a dei fallimenti della razionalità economica – per come l’economia l’ha intesa. È la dinamica nota, nella tradizione economica (soprattutto nell’economia pubblica e in quella dell’ambiente), con l’espressione esternalità negativa: il consumo degli altri condiziona, ‘inquina’ il mio benessere, più o meno inintenzionalmente. I beni posizionali sembrano quindi condividere alcune caratteristiche dei beni che gli economisti chiamano demerit goods (beni di demerito), cioè quei beni privati che producono esternalità negative (per es., fumo, superalcolici ecc.), e che quindi richiederebbero che un giudice imparziale, esterno al consumatore, intervenisse con le tasse allo scopo di ridurre il consumo, a tutto vantaggio del bene comune.
Va notato che tutte queste spiegazioni, soprattutto il treadmill delle aspirazioni e il consumo posizionale, hanno bisogno del presupposto di una certa socialità: nell’isola di Robinson Crusoe non avremmo questi fenomeni, che richiedono la vita in comune (almeno la presenza dell’indigeno Friday). Tuttavia è una socialità declinata essenzialmente come rivalità o invidia. Per questa ragione, potrebbe essere più corretto denominare molta parte del dibattito contemporaneo relativo al paradosso di Easterlin come economia e infelicità. Per una teoria positiva della felicità occorre guardare altrove.
Una valutazione critica del dibattito sul tema
Occorre a questo punto porre una domanda: quale felicità hanno in mente gli studiosi e soprattutto gli economisti che oggi cercano di spiegare il paradosso della felicità in economia? In linea generale le teorie appena esposte soffrono, in gradi diversi, di un forte riduzionismo antropologico. L’individuo oggetto di quelle teorie è sostanzialmente invidioso e ama rivaleggiare con gli altri attraverso i beni.
Nessuno nega che l’essere umano non sia anche questo; l’errore, però, consiste nel pensare che l’invidia e la rivalità possano essere le caratteristiche antropologiche fondamentali per spiegare la felicità umana. Mentre non è difficile essere d’accordo con molti economisti sul fatto che la frustrazione e l’insoddisfazione siano spesso procurate dalle elevate aspirazioni (alimentate dalla pubblicità) e dal confronto posizionale con gli altri, non possiamo considerare la felicità umana una faccenda tutta declinata sugli assi dell’invidia e della competizione. In altre parole, le teorie attualmente prevalenti sono buone spiegazioni dell’infelicità e delle frustrazioni, ma non convincono in quanto teorie positive della felicità umana, che è qualcosa di più e di diverso dall’avere l’auto o l’abitazione più o meno grandi di quelle dei vicini. Infatti, il confronto con gli altri spesso ci frustra, ma difficilmente consideriamo la nostra vita felice o realizzata perché consumiamo più del collega d’ufficio. Ciò non vuol dire che gli studi attuali sulla felicità non rappresentino un’importante innovazione, ma occorre qualcosa in più proprio sul terreno dell’inserimento della dimensione relazionale all’interno dell’analisi della felicità.
L’approccio degli economisti alla felicità resta edonista (basato sul piacere) e non eudaimonista (basato sulla felicità, nel senso aristotelico di «vita buona»): non esiste, infatti, una vera distinzione tra piacere e felicità, e la completa valutazione della felicità è affidata al soggetto che deve autostimare il proprio livello di benessere soggettivo (à la Cantril). Dov’è allora il problema?
Il primo problema lo potremmo chiamare l’effetto Scitovsky, dal nome dell’economista Tibor Scitovsky (1910-2002) che è stato tra i primi a studiare il rapporto tra economia e felicità attorno alla metà degli anni Settanta. Se il piacere percepito da un bene è affidato solo all’autovalutazione, dobbiamo allora tener presente che esiste una forte tendenza a sostituire i beni di creatività con i beni di comfort, i quali sul piano del piacere immediato possono apparire equivalenti. Tuttavia nel lungo periodo la felicità oggettiva procurata dai due tipi di beni è ben diversa: commettiamo sistematici errori di ‘miopia’ nel consumo, come vedremo.
Il secondo, invece, potremmo chiamarlo l’effetto Kahneman: esistono importanti errori cognitivi nell’operazione di autovalutazione della felicità soggettiva. Kahneman con i suoi studi ha mostrato che le persone quando debbono esprimere una valutazione di un’esperienza cadono in due errori sistematici: attribuiscono troppa importanza all’ultima fase dell’esperienza (end) o al momento emotivamente più forte (peack). Scrive a tale proposito: «Si pensi a un amante di musica classica che ascolta ad alto volume una lunga sinfonia, al termine di essa, a causa di un graffio sull’estremità del disco, viene prodotto un fastidioso e forte rumore. Un incidente di tale genere è spesso descritto dall’affermazione di come la conclusione difettosa “abbia rovinato l’intera esperienza”. Di fatto non è l’intera esperienza a essere stata rovinata ma solo la memoria di essa. L’esperienza dell’ascolto della sinfonia è quasi interamente perfetta e il finale, seppur danneggiato dal difetto del disco, non ha inficiato la qualità di ciò che è stato ascoltato nella precedente mezz’ora» (Kahneman, Riis in Felicità e libertà, 2006, p. 61).
Allo scopo di evitare o ridurre questi errori cognitivi, lo psicologo-economista americano ha proposto la sua nuova metodologia DRM (Day Reconstruction Method). Essa utilizza le misurazioni della felicità soggettiva, quasi in tempo reale, che gli individui in esame effettuano nell’arco di un giorno attraverso dei computer palmari sui quali riportano (sempre con la solita scala quantitativa) il livello di soddisfazione che quella data attività che stanno svolgendo (per es., lavoro, incontro, pranzo ecc.) procura loro.
Con le misurazioni della felicità soggettiva esiste quindi l’importante problema dell’adattamento: le persone si adattano ai beni e, a causa dei treadmill effects, nel giro di poco tempo non percepiscono soggettivamente un miglioramento della felicità, anche se oggettivamente stanno meglio. Questo adattamento produce un’eccessiva (cioè non efficiente) tendenza al cambiamento e all’acquisto di nuovi prodotti, che oggettivamente non ci fanno star meglio, ma soggettivamente ci ‘ingannano’.
Appare rilevante focalizzare l’attenzione su un punto: prendere atto che anche i beni relazionali (per es., coniuge, figli, amici ecc.) sono sottoposti a effetto adattamento, come ormai anche gli studi più sofisticati sulla famiglia mettono in luce. La domanda diventa quindi: possiamo delegare alla sola percezione soggettiva la valutazione della qualità della nostra vita, della nostra felicità? Probabilmente no, e proprio perché l’effetto adattamento può pesare molto: se il principale o unico indicatore di felicità diventa l’autovalutazione soggettiva, si corre il rischio di commettere molti errori. Possiamo, per es., sottovalutare beni civili come diritti e libertà che vengono difficilmente tradotti in termini di felicità soggettiva, ma che invece pesano molto in quella oggettiva (basta vedere che cosa accade quando vengono meno). Se oggi in Italia qualcuno offrisse ai cittadini un contratto in cui si offre la riduzione del 5% delle imposte sul reddito in cambio di un’equivalente diminuzione di libertà o di democrazia, qualcuno potrebbe non stupirsi se la maggioranza barattasse la ‘primogenitura’ della democrazia con l’aumento percentuale di reddito. In secondo luogo, prendendo troppo sul serio gli effetti adattamento finiremmo per considerare una vita familiare affettivamente stabile e ‘adattata’ meno felice della vita di colui/colei che cambia partner appena si ‘adatta’ al precedente, in cerca di nuovi stimoli ed emozioni.
I beni relazionali
Alla luce delle considerazioni precedenti, proporremo ora una lettura del paradosso della felicità ricorrendo al concetto di bene relazionale, per abbozzare una spiegazione del paradosso di Easterlin basata su un’idea positiva di felicità, legata alle motivazioni e alle relazioni non strumentali.
Negli ultimissimi anni, infatti, si sta sviluppando una crescente letteratura empirica che mostra l’importanza delle relazioni non strumentali nella felicità soggettiva (Bruni, Stanca 2008). Persone che attribuiscono ai rapporti interpersonali ‘a motivazione intrinseca’ un’importanza relativamente maggiore, riportano una felicità soggettiva maggiore e, fatto significativo, sono considerati felici anche dagli altri (Economics and psychology, 2007).
Nelle scienze sociali contemporanee è ormai largamente riconosciuto il ruolo chiave che occupano le relazioni interpersonali, quelle genuine o non strumentali in particolare, nello sviluppo di una vita buona. Le ricerche attorno al paradosso della felicità mostrano che la qualità della vita relazionale non-strumentale è quella che più pesa (anche rispetto al reddito) nella stima del benessere soggettivo delle persone. In particolare, negli studi psicologici, abbondante è oggi l’evidenza empirica e sperimentale a riguardo. Kahneman e il suo gruppo di collaboratori stanno conducendo numerose ricerche dalle quali risulta la rilevanza della relazionalità nella felicità degli esseri umani. Da un recente esperimento svolto su 900 donne texane con l’innovativo DRM (Kahneman, Krueger, Schkade et al. 2004), è emerso che in 14 attività su 15 svolte in una giornata (in tutte tranne la preghiera) quelle donne riportavano un’autovalutazione del proprio benessere maggiore quando le attività erano effettuate in compagnia di altre persone. Due economisti, Stephan Meier e Alois Stutzer (2004), sulla base dei dati del GSOEP (German Socio-Economic Panel), relativi al periodo 1985-1999, hanno mostrato una forte correlazione tra lo svolgere attività di volontariato (scelta come segnale di relazionalità nascente da motivazioni intrinseche) e il benessere soggettivo. Inoltre, quando gli psicologi analizzano le caratteristiche delle persone che si considerano più soddisfatte (e che sono considerate tali anche dagli altri), emerge, senza eccezioni, che queste hanno rapporti interpersonali significativi e positivi.
Gli studi psicologici ci offrono quindi molti dati circa l’importanza della relazionalità per la felicità e la soddisfazione delle persone. In particolare, gli scienziati che si riconoscono all’interno della scuola neoaristotelica sostengono che ci sia un nesso universale tra la qualità delle relazioni umane e il benessere soggettivo. E i dati lo confermano (Economics and psychology, 2007). A tale proposito, recentemente sta facendo il suo ingresso nella scienza economica, e nelle altre scienze sociali, la categoria teorica di ‘bene relazionale’, che sta lentamente cambiando il modo di studiare le relazioni umane in economia; secondo questa categoria la relazionalità presa in considerazione è stata tradizionalmente quella strumentale. I beni relazionali, invece, hanno bisogno di motivazioni intrinseche e di gratuità.
L’espressione bene relazionale compare alla fine degli anni Ottanta, ma solo in questi anni sta entrando nella letteratura internazionale delle scienze sociali, economia inclusa (Economics and social interaction, 2005). Esistono svariati approcci al concetto di bene relazionale, anche in base ai diversi statuti epistemologici delle differenti scienze. Secondo gli economisti, i beni relazionali sono quelle dimensioni delle relazioni umane che non possono essere né ‘prodotte’ né ‘consumate’ da un solo individuo, perché dipendono dalle modalità e dalle motivazioni delle interazioni tra persone, e quindi possono essere goduti solo se condivisi nella reciprocità. Nel linguaggio della scienza economica il bene relazionale assomiglia dunque (anche se non coincide) a un bene pubblico locale.
In particolare, l’approccio economico ai beni relazionali porta, a differenza di quello più propriamente filosofico (Martha Nussbaum) o sociologico (Pierpaolo Donati), a considerarli come realtà indipendenti dalla relazione stessa, o quanto meno non coincidenti con essa. Nussbaum (1986), sulla scia di Aristotele, definisce infatti l’amicizia, l’amore reciproco e l’impegno civile beni relazionali, denominandoli beni di relazione, beni cioè nei quali è la relazione a costituire il bene: essi nascono e muoiono con la relazione stessa. Per la filosofa americana i beni relazionali sono quindi quelle esperienze umane dove è il rapporto in sé a essere il bene. La scienza economica, invece, tratta i beni relazionali diversamente. Per gli economisti (per es., Benedetto Gui e Carol Uhlaner), essi non sono la relazione stessa: l’amicizia non è definita come un bene relazionale, ma come una serie di incontri e di stati affettivi, di cui il bene relazionale è solo una componente (sebbene coessenziale).
In tutte le definizioni che oggi è possibile trovare in letteratura, la dimensione della reciprocità è comunque fondativa. Inoltre, il ‘perché’, cioè la motivazione che muove l’altro, è un secondo elemento essenziale che ritroviamo sempre (come già ricordava Aristotele, l’amicizia più alta che contribuisce maggiormente all’eudaimonia non può essere mai strumentale, perché è una virtù).
Importante è poi il discorso circa la ‘fragilità’ dei beni relazionali, messa in luce dalla Nussbaum: essendo essi beni di reciprocità non è possibile controllarli pienamente, e per questo sono fragili e vulnerabili.
Alla luce di quanto detto, e senza tentare di conciliare le diverse posizioni e proporre una ‘metateoria’, si possono individuare le caratteristiche di base di un bene relazionale: identità, reciprocità, simultaneità, motivazione, fatto emergente, bene e gratuità.
L’identità delle singole persone coinvolte è un elemento fondamentale. Per questo motivo, i beni che compaiono negli incontri dove ognuno può offrire in maniera anonima non sono relazionali. Vi è poi la reciprocità, perché in quanto beni costituiti da relazioni, essi possono essere goduti solo nella reciprocità; sono beni di reciprocità, una reciprocità che non può essere ricondotta a un contratto. Un terzo elemento è la simultaneità, in quanto a differenza dei normali beni di mercato, siano essi privati o pubblici, dove la produzione è tecnicamente e logicamente distinta dal consumo, i beni relazionali (come molti servizi alla persona) si producono e si consumano simultaneamente; il bene viene coprodotto e consumato insieme, al tempo stesso, dai soggetti coinvolti. Anche se la contribuzione alla produzione del bene relazionale può essere asimmetrica (si pensi all’organizzazione di una festa tra amici, alla vita famigliare o alla gestione di una cooperativa sociale), nell’atto del consumo del bene non è possibile il free rider (opportunismo) puro perché il bene relazionale per essere goduto richiede che ci si lasci coinvolgere in una relazione personale.
Essenziali sono anche le motivazioni, perché nelle relazioni di reciprocità genuine la motivazione che è dietro il comportamento costituisce una componente imprescindibile. Lo stesso ‘incontro’ – per es., una cena – crea anche beni relazionali o unicamente beni economici standard (informazioni, comfort ecc.), in base alla motivazione che muove i soggetti. Se il rapporto non è un fine ma solo un mezzo per qualcos’altro (per es., fare affari) non possiamo parlare di beni relazionali. Occorre inoltre aggiungere il fatto emergente: il bene relazionale ‘emerge’ all’interno di una relazione, anzi, forse la categoria di fatto emergente coglie meglio di tutte le altre la natura di questo bene. Dire che si tratta di un fatto emergente pone l’accento sulla questione che il bene relazionale è un terzo che eccede i ‘contributi’ dei soggetti coinvolti, e che in molti casi non era neanche tra le intenzioni iniziali. Ed è per questa ragione che un bene relazionale può ‘emergere’ anche all’interno di una normale transazione di mercato, quando i soggetti coinvolti riescono ad andare oltre la motivazione strumentale di un incontro di affari, e lasciarsi sorprendere e superare dal rapporto umano. Il leggere il bene relazionale come fatto emergente mette l’accento sulla non strumentalità del bene stesso. Il bene è un’ultima caratteristica del bene relazionale che ha a che fare con il sostantivo: esso è un bene ma non è una merce (nel linguaggio di Marx), ha cioè un valore (perché soddisfa un bisogno) ma non ha un prezzo di mercato (per la gratuità). Infine, una caratteristica sintetica è possibile individuarla nella gratuità, nel senso che il bene relazionale è tale se la relazione non è ‘usata’ per altro, se è vissuta in quanto bene in sé, se nasce da motivazioni intrinseche. Il bene relazionale richiede motivazioni intrinseche nei confronti di quel particolare rapporto che si sta generando.
Felicità relazionale
Il concetto di bene relazionale consente di offrire nuovi elementi per risolvere il paradosso di Easterlin. Se, alla luce del discorso fin qui fatto, poniamo che la felicità di una persona dipenda (1) dal suo reddito e (2) dai rapporti genuini con gli altri (i beni relazionali), si può trovare in letteratura una spiegazione ulteriore della felicità, che, pur non negando le altre, aggiunge nuovi elementi, che sono in linea anche con la ricerca empirica (Felicità e libertà, 2006).
La felicità di un soggetto dipende senz’altro dal suo reddito: l’aumento del reddito, infatti, normalmente aumenta le alternative a disposizione, la libertà di scelta. È questa la principale ragione in base alla quale gli economisti hanno sempre guardato, e guardano, al PIL come a un indicatore di benessere o di felicità. Ma non c’è solo questo primo effetto diretto del reddito sulla felicità, ne esiste anche un secondo indiretto attraverso i beni relazionali. E mentre nessuno – neppure i dati empirici – mette in dubbio che l’effetto diretto del reddito sulla felicità sia, di per sé, positivo, l’effetto del reddito sui beni relazionali (e quindi indirettamente sulla felicità, che dipende anche dalla qualità delle relazioni) è invece di segno incerto, un segno (e qui sta il punto) che cambia quando si supera una soglia critica.
Questa ambivalenza del segno dei beni relazionali sulla felicità può far sì che oltre una data soglia di reddito si possa verificare – e di fatto si verifica – un conflitto tra reddito e beni relazionali. Quando le relazioni diventano scarse, e il reddito, invece, abbondante, l’aumento ulteriore di reddito può essere‘pagato’ con un peggioramento della vita relazionale, che retroagisce sulla felicità soggettiva, determinando una combinazione di crescita economica e stallo o diminuzione di benessere soggettivo, come mostrano i dati del paradosso di Easterlin. Tali dati ci mostrano, quindi, che il miglioramento di benessere dovuto al reddito (l’effetto 1) sia completamente annullato, o addirittura superato, dal peggioramento del benessere dovuto al deterioramento dei beni relazionali (l’effetto 2). Se, quindi, l’impegno per aumentare il reddito produce sistematicamente effetti negativi sulla qualità e quantità delle nostre relazioni non strumentali (famigliari, amicali, e in generale le relazioni di gratuità), l’effetto totale (diretto [1] + indiretto [2]) di un aumento di reddito sulla felicità diventa negativo, una volta superata una certa soglia di reddito.
Quando il reddito è basso (per es., perché si è disoccupati) il suo aumento produce effetti positivi sulla felicità sia direttamente (accrescendo l’accesso ai beni e al mercato), sia indirettamente (il maggior reddito, quando si è poveri, mediamente migliora anche la qualità delle relazioni). Infatti i dati empirici mostrano che l’effetto totale del reddito sulla felicità è positivo per bassi livelli di reddito, ma che dopo aver superato una certa soglia – come già detto – questo diviene negativo. Da queste considerazioni è immediato dedurre che un tale modello si applica perfettamente anche al tema ambientale (basta sostituire nel discorso appena fatto i beni relazionali con i beni ambientali).
Inoltre, i beni relazionali hanno caratteristiche di beni pubblici (pur non identificandosi, come detto, con essi), e quindi il loro valore non dipende unicamente dall’impegno e dalle motivazioni personali, ma anche dall’impegno di coloro con cui si è in rapporto. Quindi, in una società dove solo un famigliare lavora molto e quando torna a casa trova gli altri famigliari che lo aspettano, il valore dei beni relazionali sarà complessivamente maggiore rispetto a una società nella quale entrambi i coniugi lavorano e si danno il cambio nella cura dei figli. Anche da questo punto di vista la felicità è ‘pubblica’, come ben sapevamo gli economisti illuministi italiani.
Le trappole di infelicità dello sviluppo economico
Una domanda fondamentale resta ancora aperta: perché agenti razionali (come li immagina l’economia), che apprendono dal passato e dagli errori propri e degli altri, dovrebbero ripetutamente investire energie in modo da non ottimizzare il loro benessere? Perché, in altre parole, se l’evidenza empirica mostra che nelle società opulente il benessere soggettivo aumenterebbe investendo di più in vita relazionale e meno nel consumo di beni di comfort, si persiste in sentieri esistenziali non ottimali?
Una prima possibile risposta è negare l’assunto di razionalità della scienza economica, e constatare semplicemente che le persone sbagliano sistematicamente nel fare i conti circa il proprio benessere. I condizionamenti del mercato (per es., la pubblicità e i media in generale) falsano i nostri conti circa il benessere; quindi, potremmo star meglio, ma non riusciamo a vedere le possibilità di uscita dalle trappole della cultura del consumo. In realtà, quella appena accennata non è una vera risposta, almeno per la scienza economica, in quanto si arresta proprio laddove dovrebbe incominciare. La domanda più fondativa sarebbe pertanto un’altra, e cioè: perché la gente sbaglia sistematicamente? Quali sono i meccanismi, individuali e sociali, che entrano in gioco?
Le spiegazioni che cercano di dirci perché la gente è irrazionale nelle scelte di consumo, di allocazione del proprio tempo, sono quelle che derivano, più o meno direttamente, dalla teoria di Scitovsky. Nella sua The joyless economy. An inquiry into human satis-faction and consumer dissatisfaction l’economista ungherese introdusse, già nel 1976, la distinzione tra beni di comfort e beni di creatività. I beni di comfort danno stimoli immediati, sensazioni piacevoli, ma hanno la caratteristica che la soddisfazione che conferisce il loro consumo non si protrae nel tempo. I beni di comfort – dalla TV al plasma all’automobile di lusso, dal comodo divano all’idromassaggio – producono un’utilità che decresce fortemente con l’uso, portando subito alla noia. Inoltre i beni di comfort durevoli quando invecchiano generano disutilità e, se non riusciamo a sbarazzarcene, l’«averli tra i piedi», come si esprime Scitovsky, produce fastidio. I beni di creatività presentano invece la caratteristica opposta: la loro utilità marginale (l’utilità arrecata da un atto di consumo addizionale) è crescente, più sono consumati più arrecano benessere. Esempi classici sono i beni culturali (per es., musica, lettura, teatro ecc.). I beni relazionali sono di questo tipo. Scitovsky sostiene che consumiamo troppi beni di comfort e pochi beni di creatività perché le esigenze delle moderne economie, e in particolar modo le esigenze delle economie di scala sostenute dalla pubblicità, spingono nella direzione di rendere molto poco accessibili, o estremamente cari, i beni di creatività, e soprattutto tendono a rimpiazzarli con beni di comfort che vengono spacciati per beni di creatività.
È qui infatti che inizia la spiegazione di Scitovsky (anche se nel suo libro è solo accennata) del paradosso di Easterlin. Consumiamo troppo comfort anche perché questo si presenta sempre più sotto le mentite spoglie di bene di creatività, ma venduto a un costo molto più basso del bene di creatività vero.
L’ascolto di musica classica, per es., è un tipico bene di creatività. Oggi nelle società occidentali questo bene ha un costo molto maggiore rispetto a quello della musica folk, un costo che non va calcolato in termini monetari quanto in termini di investimento di tempo e di energie per poter provare utilità dal suo ‘consumo’. Ecco allora il mercato che offre beni sostitutivi che richiedono un minor ‘costo di attivazione’: opere liriche eseguite da cantanti pop, musiche apparentemente classiche ma con strutture melodiche semplici e orecchiabili e così via. Se non siamo consapevoli – e questa consapevolezza è un fatto culturale – che i due beni sono diversi (la musica di qualità è bene di creatività mentre il sostituto è bene di comfort), e li consideriamo sostituti perfetti, tenderemo ad acquistare molto il bene che costa meno. Due sono le conseguenze: il benessere di chi consuma questi pseudo beni di creatività sarà alla lunga basso (perché minore sarà la creatività), e chi offre musica classica di qualità farà fatica a sopravvivere nel mercato.
La distinzione proposta da Scitovsky tra beni di comfort e beni di creatività offre altri elementi importanti per una spiegazione relazionale del paradosso di Easterlin. I beni relazionali, infatti, sono tipici beni di creatività, e, anche in questo caso, il mercato tende a offrire beni di comfort che li simulano, presentati come beni pseudorelazionali. Pensiamo ai prodotti televisivi. Il tempo trascorso davanti alla TV agisce contro i beni relazionali in due modi: è tempo sottratto ai rapporti con gli altri, ma è anche un consumo di beni relazionali simulati. Infatti, se i programmi televisivi offrono sempre più prodotti che assomigliano ai rapporti umani veri e propri (si pensi, per es., ai talk show o ai reality show, che si presentano come forme di beni relazionali, tendenza che si nota anche guardando i titoli ‘relazionali’ che vengono scelti per tali programmi), questi finiscono per ‘spiazzare’ i beni relazionali veri. Non stupisce quindi che da una ricerca sui dati della World values survey risulti che in tutti i Paesi del mondo il numero di ore passate davanti alla TV è inversamente correlato all’indice di felicità (Bruni, Stanca 2008); come non meraviglia che nei Paesi OECD (Organization for Economic Cooperation and Developement) le ore trascorse davanti alla TV crescono assieme alle ore di lavoro: più in un Paese si lavora, più tempo si passa davanti alla TV. Come mai ci si potrebbe domandare? Non dovrebbe essere vero il contrario? Le considerazioni sui costi di attivazione ce lo fanno comprendere: persone più stanche per il lavoro tenderanno a consumare finti beni relazionali perché costano meno, richiedono meno energie della coltivazione di amicizie vere. Un’altra spiegazione, intuita da Scitovsky, fa leva sulla dipendenza (addiction): i beni di comfort creano dipendenza, quindi per ottenere lo stesso piacere di ieri, oggi dovrò consumare più beni di comfort e, a parità di altre condizioni, meno beni relazionali.
Altre spiegazioni del poco o insufficiente investimento in beni relazionali pongono in luce la loro non ‘salienza’ (Economics and psychology, 2007): sulla base degli studi psicologici di Kahneman, quando dobbiamo scegliere tra due modi alternativi di investire il nostro tempo e risorse (per es., uscire con la famiglia o vedere un reality show), basiamo la scelta sul ricordo delle esperienze passate. Gli studi mostrano che la valutazione delle esperienze passate risente molto dei momenti di picco (peack), cioè dei momenti più salienti. I beni relazionali non sono normalmente salienti perché fanno parte delle dimensioni più quotidiane della vita, e quando li confrontiamo con altre esperienze emotivamente più eccitanti, risultano più ordinari e tranquilli. Ecco anche perché si tende sempre più a preferire il reality show alla gita con famiglia. Ex post, però, la felicità ne risente poiché mentre il tempo passato davanti alla TV è solo ‘consumo’, il tempo trascorso con famigliari e amici è anche un investimento, che continua a produrre frutti di vita buona nel tempo. Ma di questa differenza non è facile, cognitivamente, prendere coscienza nell’attuale società dei consumi.
Quanto discusso finora, però, non è ancora una vera e propria spiegazione alternativa al paradosso di Easterlin, il quale, giova ricordarlo, ha a che fare con il rapporto reddito-felicità nel corso del tempo. Per spiegare i dati sul paradosso dovremmo trovare una giustificazione di un consumo sempre crescente nel tempo di beni standard, e decrescente di beni relazionali. Si possono abbozzare altre considerazioni a riguardo.
Lo sviluppo tecnologico agisce in due direzioni rilevanti per il discorso che stiamo facendo. In primo luogo tende a ridurre i costi (in termini monetari e di tempo d’uso) dei beni di mercato standard, mentre non fa altrettanto con i beni relazionali, la cui ‘tecnologia’ è più o meno la stessa dei secoli passati. Come conseguenza, il costo relativo dei beni relazionali tende ad aumentare nei Paesi a tecnologia avanzata, come sono quelli dove si verifica il paradosso di Easterlin. Più questo divario nei costi relativi di beni di mercato e beni relazionali cresce nel tempo, meno investiamo in rapporti e meno aumenta la felicità.
In secondo luogo, la crescente capacità che hanno i mercati nel personalizzare il consumo genera una forte tendenza a separare il bene relazionale dai beni di consumo standard. Alcuni decenni fa, per ‘consumare’ i beni musicali era necessario recarsi nei teatri, all’Opera, in una casa da ballo o anche in una festa a casa di amici. In quel contesto culturale (che è ancora presente in molte aree culturali del pianeta) il bene musicale non poteva essere dissociato dal bene relazionale: per ascoltare musica si doveva farlo insieme agli altri. Oggi il mercato consente sempre più una tale separazione, e il consumo di musica viene separato dal consumo di beni relazionali. Un discorso analogo vale per tutti i beni ricreativi e culturali, ma la tendenza alla dissociazione del bene relazionale dal bene di consumo individuale la possiamo osservare in tutte le forme di consumo, dal cinema alle partite di calcio. Infine, una considerazione più di tipo sociologico: l’offerta di beni di consumo di mercato è sostenuta da industrie e sistemi economici con grandi mezzi finanziari e comunicativi, che hanno tutto l’interesse ad aumentare questo tipo di consumo, laddove sono ben poche le azioni o le campagne pubblicitarie a sostegno dei beni relazionali.
Valutare una vita buona
La felicità soggettiva è importante, ma da sola non basta per valutare la ‘bontà’ della vita o l’aristotelica eudaimonia, né per gli individui né per le comunità. In società complesse come le nostre, se da una parte non possiamo più prescindere dalle valutazioni soggettive del benessere, dall’altra non possiamo affidare la valutazione del nostro benessere alla sola autovalutazione soggettiva. Dobbiamo riconoscere, per es., che una volta appurato che il PIL è insufficiente come indicatore di benessere, non basta soltanto sostituirlo con un indicatore alternativo di felicità soggettiva. Ci sono, infatti, valori civili imprescindibili per la vita individuale e per quella collettiva che non si traducono facilmente in punti del PIL; ma è pure vero che questi stessi valori non si traducono facilmente neanche in felicità percepita soggettivamente dai cittadini. Non è raro – e la storia lo documenta – che una maggiore libertà possa essere emotivamente costosa e non tradursi in sensazioni piacevoli (almeno nel breve periodo), e può richiedere grandi sofferenze; se, poi, bastassero le sensazioni piacevoli, allora tutta la questione della felicità umana potrebbe essere risolta un giorno da adeguati psicofarmaci o da macchine.
A questo proposito è sempre di grande attualità la tesi del premio Nobel dell’economia, Amartya K. Sen: «È piuttosto facile convincersi che essere felici sia una conquista dotata di valore […]. La questione interessante che riguarda questo approccio concerne non tanto la legittimità del considerare dotata di valore la felicità, cosa di per sé sufficientemente convincente, quanto la sua legittimità esclusiva. Si prenda in considerazione una persona molto svantaggiata che sia povera, sfruttata, di cui si abusi lavorativamente e che sia malata, ma che le condizioni sociali hanno reso soddisfatta della propria sorte (per mezzo per es. della religione, della propaganda politica o dell’atmosfera culturale dominante). Possiamo forse credere che se la cavi bene perché è felice e soddisfatta?» (Sen 1993, pp. 39-40). Per Sen la vita buona si misura dunque sulla base di quanto la gente fa e può fare (capacità e funzionamenti), e non in base a che cosa sente (felicità soggettiva).
Le moderne democrazie hanno bisogno di un maggior numero di indicatori di benessere poiché qualunque reductio ad unum mette sempre in pericolo la democrazia e la libertà. Perché, parafrasando Platone, la felicità è una, ma le felicità sono molte.
Bibliografia
T. Scitovsky, The joyless economy. An inquiry into human satisfaction and consumer dissatisfaction, New York 1976 (trad. it. L’economia senza gioia. La psicologia della soddisfazione umana, Roma 2007).
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