Economia e politica agraria
Agli inizi degli anni settanta Wassily Leontief, riflettendo con qualche pessimismo sulla rilevanza delle analisi economiche, sottolineava il primato dell'economia agraria, in quanto essa rappresentava una delle aree di maggiore successo dell'economia applicata: "Un esempio d'eccezione per sano equilibrio fra analisi empirica e teorica e disponibilità degli economisti di professione alla collaborazione con gli esperti delle discipline confinanti c'è offerto dal modo in cui si è sviluppata [...] l'economia agraria nel corso degli ultimi cinquanta anni. [...]. Gli economisti agrari, pur incentrando la loro attenzione su una parte sola del sistema economico, hanno dimostrato l'efficacia di una combinazione sistematica dell'approccio teorico all'analisi dettagliata della realtà" (v. Leontief, 1972, p. 14). Questo giudizio, forse un tantino troppo lusinghiero, può essere visto come il punto di approdo di un complesso e non lineare rapporto d'interdipendenza tra la storia del pensiero economico e l'evoluzione disciplinare dell'economia agraria. All'interno di tale rapporto, che ha avuto inizio con la nascita stessa dell'economia, possiamo distinguere, in estrema sintesi, tre periodi.
Durante il primo, che si estende fino a circa la metà del XIX secolo, l'analisi dell'agricoltura, del ruolo produttivo e distributivo ch'essa svolge all'interno del sistema economico e delle politiche relative, di fatto coincide con la stessa evoluzione del pensiero economico. Sostanzialmente ignorata dal pensiero mercantilista e dalle strategie di politica economica e commerciale che ne derivano, con l'affermarsi della scuola fisiocratica l'attenzione si concentra sull'agricoltura e sul suo potenziale ruolo propulsivo. François Quesnay, il più autorevole esponente della scuola fisiocratica, nel proporre una lettura analitica del sistema economico, fortemente innovativa e antimercantilista, attribuiva agli agricoltori il ruolo di 'classe produttiva' e ai proprietari fondiari quello di 'classe distributiva'. Il sovrappiù generato dal settore agricolo rappresentava la premessa della 'naturale' capacità del sistema economico di riprodursi e di crescere, capacità che sarebbe risultata esaltata in un regime di laissez faire.
Anche nel pensiero degli economisti classici, Adam Smith, Thomas Malthus e David Ricardo, l'analisi del settore agricolo rimane al centro del dibattito sulla struttura della produzione e degli scambi e sull'accumulazione. Può essere sufficiente ricordare come, pur nella varietà di impostazioni, la 'legge dei rendimenti decrescenti' e la 'teoria delle rendite e dei profitti' non solo rappresentino dei capisaldi del pensiero classico, ma siano anche alla base di formulazioni interpretative dei processi di produzione e di distribuzione in agricoltura che hanno retto a lungo nel tempo travalicando l'orizzonte temporale di questa scuola di pensiero. In John Stuart Mill, d'altro canto, rinveniamo due elementi tuttora rilevanti per l'analisi dei processi di trasformazione in agricoltura: il ruolo dello sviluppo tecnologico come elemento in grado di contrastare la legge dei rendimenti decrescenti e la superiorità organizzativa e funzionale dell'impresa agraria a gestione familiare.
Sotto quest'ultimo profilo una visione del tutto opposta, com'è noto, era quella avanzata da Karl Marx: nel quadro complessivo delle linee evolutive di un'economia capitalistica, anche l'agricoltura non si sarebbe potuta sottrarre ai processi di differenziazione sociale che il modo di produzione capitalistico avrebbe inevitabilmente portato con sé. La diffusione e la preminenza anche in agricoltura della produzione su larga scala avrebbero determinato la scomparsa della piccola produzione familiare: la proletarizzazione delle masse contadine e la formazione di una élite di capitalisti agrari avrebbero rappresentato lo sbocco ultimo di questo processo. Verso la fine dell'Ottocento, Karl Kautsky avanzava una lettura molto più articolata dei processi di trasformazione capitalistica nelle campagne, mettendo in evidenza le forti capacità di resistenza e di adattamento delle imprese familiari, basate anche sul dualismo funzionale tra imprese contadine e capitalistiche nei riguardi del mercato del lavoro e di quello fondiario.
Con il tramonto dell'economia classica si conclude il primo periodo, contrassegnato, come si è detto, da una piena identità tra storia del pensiero economico e analisi economica dell'agricoltura. Nel corso della seconda metà dell'Ottocento, l'identità s'incrina e l'economia agraria gradualmente emerge come un corpo analitico e disciplinare autonomo rispetto alle linee di tendenza della scienza economica. Due fattori principali concorrono a determinare questo processo di divaricazione. Il primo è da ravvisare nella stessa evoluzione del pensiero economico. Con la rivoluzione marginalista e il consolidamento del sistema teorico neoclassico, l'accento si sposta nettamente: la ricerca economica assume come tema centrale l'individuazione di un principio di validità universale capace da solo di abbracciare l'intera realtà economica e di spiegare la molteplicità delle scelte degli individui, indipendentemente dalla loro collocazione all'interno del sistema economico.In netta contrapposizione a questa linea di crescente astrattezza, acquista consistenza il secondo fattore che alimenta il processo di divaricazione tra economia ed economia agraria. I processi di modernizzazione e intensificazione dell'attività agricola da un lato generano una domanda di analisi di carattere operativo rivolte all'efficiente gestione dell'azienda agraria, dall'altro sollevano interrogativi circa il ruolo da affidare all'intervento dello Stato nel generare assetti istituzionali e contesti infrastrutturali idonei a stimolare l'iniziativa privata in agricoltura. A questa duplice domanda, che si va manifestando in maniera sostanzialmente uniforme in Europa e negli Stati Uniti, vengono date risposte altrettanto uniformi. Si assiste, anzitutto, a una diversificazione tematica delle scienze agronomiche, all'interno delle quali attenzione crescente viene rivolta agli aspetti economici della gestione delle aziende agrarie.
Circoscrivendo l'attenzione all'Italia, Piero Cuppari, Oreste Bordiga e Vittorio Niccoli sono gli studiosi ai quali si deve l'inaugurazione di un corposo filone di ricerca volto a esplorare i vari aspetti dell'economia aziendale. Quest'area di indagine raggiunge compiutezza di formulazione e di sistemazione teorica con l'opera di Arrigo Serpieri, senza dubbio la figura di maggiore spicco nell'economia agraria durante la prima metà di questo secolo. Il consolidamento teorico ed empirico dell'economia dell'azienda agraria porta con sé lo sviluppo collaterale dell'estimo agrario che, sotto il profilo disciplinare, riceve un contributo sistematorio con l'opera di Giuseppe Medici.
La genesi della politica agraria avviene in modo forse meno sistematico di quella dell'economia aziendale, ma altrettanto vigoroso, ed è indubbiamente stimolata dalla complessità dei problemi connessi all'inserimento dell'agricoltura nel sistema economico dopo l'unificazione. A porre le basi della politica agraria concorrono uomini di diversa provenienza e formazione intellettuale: se il periodo antecedente al 1860 è dominato dalla figura di Carlo Cattaneo, in quello immediatamente successivo primeggia la personalità di Stefano Jacini. La Relazione finale dell'inchiesta agraria che porta il suo nome non solo fornisce un quadro realistico e approfondito dell'Italia agricola, ma individua, con grande acutezza, le linee politiche per il suo miglioramento. Sul piano della elaborazione teorica, nell'opera di Ghino Valenti rinveniamo le fondamenta di molti aspetti della moderna politica agraria: dalla scottante questione del dazio sul grano alle modalità d'intervento dello Stato nella regolamentazione dei contratti agrari e di lavoro e nei processi di trasformazione dell'agricoltura. Sotto quest'ultimo profilo altrettanto rilevante è, durante la prima metà del Novecento, il contributo di Arrigo Serpieri, le cui riflessioni teoriche e operative nei riguardi della bonifica conservano un'immutata attualità. Figure di notevole spicco sono anche quelle di Mario Bandini e Manlio Rossi-Doria. Nell'alveo del pensiero meridionalista, l'opera di Rossi-Doria è sistematicamente rivolta all'analisi dell'agricoltura del Mezzogiorno e all'individuazione delle linee di politica agraria atte a promuoverne la modernizzazione.
Una lettura alternativa dei problemi strutturali dell'agricoltura e delle conseguenti strategie di politica economica è quella proposta dagli studiosi di formazione marxista. Sulla scia delle analisi di Antonio Gramsci, nell'immediato dopoguerra emergono, per acutezza di pensiero e profondità di preparazione, Ruggero Grieco ed Emilio Sereni. In quest'ultimo le analisi di politica agraria si coniugano con straordinaria efficacia a un'originale e approfondita visione dell'evoluzione storica dell'agricoltura.
Se nei cento anni intercorsi tra la metà dell'Ottocento e il secondo conflitto mondiale la nascita e il consolidamento dell'economia e della politica agraria avvengono lungo un percorso concettualmente e metodologicamente autonomo rispetto all'evoluzione del pensiero economico, nell'immediato dopoguerra prende le mosse - dapprima negli Stati Uniti e nel giro di pochi anni in tutto il mondo occidentale - un processo di profondo rinnovamento teorico e metodologico che, proseguendo ininterrotto e vigoroso nell'ultimo quarantennio, si tradurrà in un sostanziale reinserimento dell'economia agraria nella mainstream della dottrina economica.
Concorrono ad alimentare questo processo due elementi centrali. Da un lato, nell'ambito degli affinamenti teorici della microeconomia neoclassica, si ravvisa la possibilità di applicarne gli schemi analitici e i criteri di scelta alle problematiche delle imprese e del settore agricoli. Alcune caratteristiche strutturali della produzione e del consumo, ben sposandosi con i postulati del modello concorrenziale, inducono a recepirlo come corpo teorico cui fare riferimento nell'analisi del comportamento dei singoli agenti (imprese e consumatori) e del mercato. Come passo ulteriore, le condizioni di ottimalità implicite nel mercato concorrenziale divengono il ponte teorico indispensabile per effettuare valutazioni rigorose delle variazioni di benessere associate agli interventi di politica agraria.
Dall'altro lato, la forte vocazione applicativa della ricerca economico-agraria, fedele in ciò alla tradizione consolidatasi nel periodo precedente, può beneficiare dei notevoli progressi conseguiti dall'econometria e dalla ricerca operativa. L'irrobustimento empirico dell'economia agraria è reso possibile dal fatto che le principali ipotesi di base della modellistica econometrica e degli strumenti di programmazione matematica appaiono ragionevolmente compatibili con la struttura atomistica della produzione e del consumo, nonché con le caratteristiche tecniche della funzione di produzione in agricoltura. Sono appunto i copiosi e diversificati frutti di questo sforzo teorico ed empirico a indurre Leontief a esprimere il giudizio di cui si è detto.
Anche se gli Stati Uniti hanno indubbiamente assunto e mantenuto un ruolo di leadership in questo processo di rinnovamento dell'economia agraria, esso, tuttavia, va ormai considerato frutto dell'impegno dell'intera comunità scientifica internazionale. Oggi è quindi possibile parlare di un'economia agraria neoclassica come di un corpo dottrinario diffuso e sostanzialmente unitario, i cui padri fondatori - per limitarci ai nomi più significativi - sono da considerare Earl Heady e Theodore Schultz. Al primo si deve, agli inizi degli anni cinquanta, il manuale che poneva le fondamenta della moderna economia della produzione; i contributi del secondo, premio Nobel per l'economia, hanno aperto la strada all'analisi del settore agricolo nelle economie industrializzate e in quelle in via di sviluppo.In una ricognizione ultraschematica delle posizioni dottrinali oggi rinvenibili nella ricerca economico-agraria, vanno anche ricordati, in posizione minoritaria ma tutt'altro che marginale, gli approcci analitici riconducibili alla scuola marxista, alla scuola strutturalista e a quella istituzionalista. Pur nella loro diversità - che è qui impossibile analizzare - i tre paradigmi appaiono accomunati da una critica radicale all'impostazione neoclassica, accusata di eccessiva astrattezza e, quindi, di scarsa rilevanza interpretativa e normativa. Le principali obiezioni riguardano: i postulati di completezza e perfezione dei mercati, di simmetria delle informazioni, di assenza di rapporti interpersonali tra i soggetti; l'inaccettabile separatezza tra giudizi di efficienza e giudizi di equità; l'esclusione dall'analisi dei rapporti di forza esistenti nella struttura socioeconomica e le conseguenti ipotesi di neutralità dello Stato nell'intervento pubblico. Per gli studiosi che si contrappongono all'approccio neoclassico, queste e altre caratteristiche strutturali e istituzionali non possono rimanere fuori dall'analisi e i benefici di maggior realismo, associati alla loro inclusione, compensano largamente le pressoché inevitabili perdite in termini di rigore formale e generalità del modello.
Il rinnovamento teorico e metodologico dell'economia agraria è andato di pari passo con un processo di profonda differenziazione delle sue aree tematiche, sia sul piano della ricerca che su quello della didattica. Alla triade disciplinare costituita dall'economia dell'azienda agraria, dall'estimo rurale e dalla politica agraria, emersa e consolidatasi lungo il periodo dell' 'autonomia', si contrappone oggi un ventaglio tematico quanto mai ampio e articolato.
In termini estremamente schematici, ma avendo presenti sia i contenuti della letteratura internazionale sia l'articolazione dell'insegnamento a livello universitario e post-universitario, i numerosi campi di indagine possono essere ricondotti a quattro grandi capitoli: 1) microeconomia agraria; 2) macroeconomia agraria; 3) politica agraria; 4) economia delle risorse naturali e dell'ambiente.In analogia alla ripartizione tradizionale della teoria economica, nella microeconomia agraria rientrano due grandi campi d'indagine: l'economia della produzione e l'economia dei mercati. La prima, incorporando le aree tradizionali dell'economia dell'azienda agraria, rivolge altresì una specifica attenzione alla teoria della produzione e del progresso tecnico, ai criteri e ai metodi per l'analisi dell'allocazione delle risorse e la gestione aziendale, alle modalità di conferimento delle risorse terra, capitale e lavoro nelle imprese agrarie e alle soluzioni contrattuali relative. Una trattazione della teoria e dei metodi di analisi dell'economia dell'azienda agraria si trova nel manuale curato da Michele De Benedictis e Vincenzo Cosentino. L'estimo rurale, pur conservando una forte autonomia concettuale e metodologica, sotto diversi profili può anche venir considerato una branca specialistica della microeconomia agraria.
L'economia dei mercati agricoli risulta di norma articolata in una serie di aree riguardanti: 1) l'analisi della domanda, dell'offerta e dell'equilibrio di mercato del singolo prodotto; 2) l'analisi dell'efficienza del mercato, valutata con riferimento alla localizzazione degli impianti di trasformazione, conservazione e distribuzione dei prodotti; 3) l'analisi della struttura e della performance dei mercati, sia a livello di singolo paese che a livello internazionale; 4) le diverse forme d'integrazione dei mercati e il coordinamento delle decisioni dei produttori.
Dall'angolo visuale macroeconomico il livello di analisi si sposta alla considerazione dei problemi strutturali e di performance del settore agricolo. Le principali aree d'indagine riguardano: 1) il ruolo dell'agricoltura nello sviluppo economico; 2) i problemi di adattamento del settore, nel breve e lungo periodo, ai processi evolutivi dell'economia; 3) l'analisi delle interdipendenze settoriali con particolare riferimento alla struttura del sistema agroalimentare; 4) la distribuzione territoriale delle produzioni agricole e i legami d'interdipendenza con le altre attività produttive.
Nel grande capitolo della politica agraria ricadono le seguenti aree: 1) l'analisi degli obiettivi dell'intervento pubblico in agricoltura; 2) i criteri e le istituzioni per la programmazione dell'uso delle risorse agricole; 3) l'analisi degli strumenti: gli interventi sul mercato interno e internazionale volti al sostegno e alla stabilità dei prezzi e dei redditi; la politica del credito e degli investimenti; la politica delle strutture e degli investimenti pubblici; la politica fiscale; la politica della ricerca e dell'assistenza tecnica; la politica previdenziale.
Una discussione aggiornata dei problemi dell'economia del settore agricolo e della politica agraria si può trovare nei manuali curati da Francesco de Stefano e da Ottone Ferro. Un'illustrazione formalizzata delle possibilità di analisi delle politiche con gli strumenti della microeconomia neoclassica è fornita da Bruce Gardner.
La recente attenzione alla molteplicità di problemi connessi all'economia delle risorse naturali va ora coinvolgendo, in misura crescente, anche la ricerca economico-agraria, sollecitata dal ruolo centrale che l'agricoltura e i settori connessi assumono nei riguardi di questioni quali, ad esempio, l'analisi dei conflitti tra ottimo privato e ottimo sociale nell'uso delle risorse o le valutazioni d'impatto ambientale e l'individuazione delle strategie ottimali di politica economica e agraria.Alla fine degli anni settanta l'American Agricultural Economics Association ha promosso una ricognizione a largo raggio della letteratura nelle diverse aree tematiche (v. Martin, 1977-1981). Sebbene circoscritta ai contributi in lingua inglese, e soprattutto a quelli statunitensi, essa fornisce una valutazione articolata e approfondita dello stato dell'arte nei vari campi d'interesse dell'economia e della politica agraria.
L'ampiezza dell'arco tematico coltivato dall'economia e dalla politica agraria non ne consente un'illustrazione esaustiva, sia pure in termini schematici. Tuttavia, soffermandoci su quello che può esserne considerato il punto centrale - le connessioni tra sviluppo economico e trasformazioni dell'agricoltura e le relative implicazioni di politica agraria - riteniamo sia possibile dar conto di una parte largamente significativa dei temi di riflessione teorica e di ricerca empirica di questa branca dell'economia.
In una prospettiva secolare, le grandi trasformazioni dell'agricoltura che accompagnano lo sviluppo di un determinato sistema economico si manifestano con caratteri di accentuata uniformità. In primo luogo, alla crescita del reddito pro capite si associano, in maniera sistematica, il declino della quota di forza lavoro occupata in agricoltura e la contrazione della quota di PIL proveniente dal settore primario. Il carattere strutturale di questa tendenza emerge con evidenza sia sotto il profilo temporale, in quanto uniformemente presente nello sviluppo delle economie occidentali dalla rivoluzione industriale in poi, sia sotto il profilo spaziale, manifestandosi, con pari uniformità, nei più recenti processi di sviluppo in Asia, Africa e America Latina. Nella tab. I sono riportate le variazioni dei due parametri sopra indicati nel ventennio 1960-1981 con riferimento a quattro classi di paesi.
La seconda regolarità riguarda il ruolo cruciale che compete all'agricoltura lungo l'intero processo di sviluppo economico: di propulsione nelle fasi iniziali e di riequilibrio settoriale e territoriale nelle economie mature. L'esperienza storica ha inoltre dimostrato, in ogni stadio, come l'efficacia di tale ruolo dipenda dal complesso e delicato equilibrio tra forze di mercato e intervento pubblico.
Vi è, infine, una terza regolarità alla quale occorre dedicare qualche parola in più: la persistenza, nel tempo e nello spazio, di alcune caratteristiche tecnologiche e istituzionali nell'impiego dei fattori della produzione in agricoltura.
In agricoltura, la trasformazione tecnica dei fattori in prodotti - la funzione di produzione, nel gergo degli economisti - appare contraddistinta da alcuni caratteri uniformi, largamente dipendenti dalla natura biologica degli stessi processi produttivi. Da questa, infatti, discendono: il vincolo rigido dell'impiego del fattore terra e, quindi, la dispersione geografica dell'attività agricola; il vincolo, altrettanto rigido, dell'ampio arco temporale necessario per la trasformazione dei fattori in prodotti; la distribuzione difforme, durante il ciclo produttivo, dei fabbisogni di lavoro; l'aleatorietà dei risultati produttivi in funzione dell'andamento climatico.
Queste caratteristiche portano con sé implicazioni rilevanti, a livello di singola impresa e di settore, nei riguardi dell'efficienza tecnica ed economica della produzione. Le rigidità associate ai fattori spazio e tempo richiedono, in primo luogo, una rete capillare di strutture e di servizi in grado di effettuare con efficienza e tempestività le indispensabili operazioni di trasporto, conservazione, trasformazione, distribuzione dei fattori produttivi e dei prodotti.
Altrettanto importante è il ruolo che compete al progresso tecnico quale elemento catalizzatore della crescita della produttività delle risorse. Anche se con impatti estremamente differenziati nelle diverse realtà, la funzione di produzione agricola, pur conservando inalterate le caratteristiche di cui si è detto, ha subito modifiche profonde nel corso dell'ultimo secolo, e in maniera fortemente accentuata negli ultimi decenni. Il flusso massiccio di innovazioni messe a punto dalla ricerca e dalla sperimentazione in ambito pubblico e privato ha determinato incrementi sostenuti della produttività della terra e del lavoro. Una classificazione convenzionale delle innovazioni individua due principali categorie: da un lato quelle che concorrono ad aumentare la produttività della terra e, quindi, a ridurne il fabbisogno per unità di prodotto (prevalentemente innovazioni biologiche - miglioramento genetico delle coltivazioni e degli allevamenti - e innovazioni chimiche - fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi), dall'altro quelle che sostituiscono il lavoro animale e umano (innovazioni meccaniche). Naturalmente, la produttività del lavoro risulta influenzata da entrambe le categorie. Se con Y, L e A indichiamo rispettivamente la quantità di prodotto, di lavoro e di terra, la seguente identità:
pone in evidenza che la produttività media del lavoro (Y/L) può risultare accresciuta da innovazioni che innalzano la produttività della terra (Y/A) nonché da quelle che, riducendo i fabbisogni di lavoro, aumentano la dotazione di terra per lavoratore (A/L).
Come sottolineato da Y. Hayami e V. Ruttan, è quindi necessario che le strategie di sviluppo tecnologico dei diversi paesi tengano conto e si differenzino a seconda delle scarsità relative tra i fattori: le realtà ad alta densità demografica e, quindi, con bassi valori del rapporto A/L, dovranno puntare su soluzioni tecnologiche in grado di aumentare in maniera sostenuta la quantità di prodotto per unità di superficie; quelle in cui è il lavoro a essere il fattore relativamente scarso avranno necessità di innovazioni che ne consentano un'efficiente sostituzione nella funzione di produzione.
Riportiamo nella figura un raffronto, a livello internazionale, dell'andamento della produttività per ettaro e per addetto - espressa in unità grano - tra il 1960 (il punto iniziale del vettore corrispondente a ciascun paese) e il 1980 (il punto di arrivo). Tre linee di tendenza appaiono evidenti. Pressoché tutti i paesi hanno registrato incrementi in entrambi i parametri (solo nel Bangladesh si è avuto un abbassamento della produttività del lavoro e in Cile della terra). Va tuttavia notato che una rappresentazione analoga riferita agli anni ottanta e che includesse anche i paesi dell'Africa subsahariana presenterebbe senza dubbio un quadro molto meno ottimistico.
In secondo luogo, la maggior parte dei paesi sviluppati ha avuto incrementi nella produttività del lavoro superiori a quelli nella produttività della terra: in essi, essendo la pendenza del vettore minore di quella della retta a 45° corrispondente a valori costanti del rapporto A/L, la tendenza è verso un aumento delle dimensioni aziendali. I paesi in via di sviluppo, infine, mostrano per lo più una tendenza inversa, corrispondente a una riduzione della superficie per addetto e dell'ampiezza media delle aziende.
Un'ulteriore grande regolarità che, in un'ottica mondiale e in una prospettiva storica, caratterizza l'esercizio dell'agricoltura, è la netta predominanza dell'impresa familiare. Caratteristica centrale di questa forma di impresa è il conferimento da parte dell'imprenditore e della sua famiglia di una quota prevalente del lavoro necessario per la conduzione dell'azienda. Anche se, ovviamente, altre forme di impresa (capitalistica, cooperativa, pubblica) sono presenti in agricoltura, la prevalenza dell'impresa familiare si riscontra con notevole uniformità nelle agricolture ai più diversi livelli di sviluppo. Se è fuor di dubbio che le imprese dell'Europa occidentale o degli Stati Uniti nulla hanno da spartire, in termini di dimensioni aziendali, tecnologia, produttività, redditi e di molte altre caratteristiche, con la piccola impresa contadina asiatica, africana o latinoamericana, tuttavia, secondo gli orientamenti più recenti (v. Ellis, 1988), le innegabili differenze presenti nell'amplissimo spettro di questa forma d'impresa - da quella contadina del tutto isolata dal mercato a quella commerciale ad altissima intensità di capitale - sono in sostanza riconducibili alle differenze strutturali e istituzionali dei contesti economico-sociali in cui le imprese stesse si trovano a operare. Su un piano analitico, invece, esse appaiono accomunate dalla presenza contemporanea, all'interno dell'unità familiare, delle attività di produzione e di consumo e dalla stretta interdipendenza tra queste stesse funzioni.
La prevalenza dell'impresa familiare, sotto il profilo del numero delle aziende e della frazione di forza lavoro impegnata in imprese gestite da lavoratori autonomi, associata al numero dei consumatori di beni alimentari, ha una implicazione analitica di tutto rilievo. Si è infatti portati ad affermare che, in virtù della struttura atomistica presente nelle fasi di produzione e di consumo, nonché dell'omogeneità merceologica di molti comparti produttivi, i mercati agricoli sembrano soddisfare, sia dal lato dell'offerta che da quello della domanda, le principali condizioni di perfetta concorrenzialità specificate dalla teoria economica. Se è fuor di discussione che nella stragrande maggioranza dei casi il singolo produttore e il singolo consumatore offrono e domandano frazioni così minuscole dell'offerta e della domanda complessive da non avere alcuna possibilità di influenzare il prezzo, limitandosi, appunto, al ruolo di price takers- l'affermazione secondo cui l'agricoltura, più di ogni altro settore, opera in condizioni assai prossime a quelle della concorrenza perfetta, è eccessivamente sbrigativa e superficiale. Un paio di precisazioni appaiono indispensabili per meglio comprendere il grado di rispondenza della natura e del funzionamento dei mercati reali ai modelli proposti dalla teoria economica.In primo luogo, se allarghiamo l'attenzione all'intera catena agro-alimentare, dalla fase iniziale di produzione dei mezzi tecnici a quella finale del consumo dei beni alimentari, ci si rende immediatamente conto di come - sotto il profilo delle forme di mercato - la struttura degli anelli che la compongono non sia affatto riconducibile a un unico modello.
Se i segmenti relativi alla produzione e al consumo dei beni alimentari hanno, come si è detto, carattere atomistico, la parte rimanente della catena appare invece costituita da robusti anelli nei quali la concorrenza è tutt'altro che perfetta. Poche imprese, dotate di notevole potere di mercato, caratterizzano, infatti, sia l'offerta di quei fattori indispensabili per l'esercizio di un'agricoltura ad alta intensità di capitale (fertilizzanti, pesticidi, diserbanti, ecc.), sia la domanda dei prodotti da parte dell'industria di trasformazione. Né va dimenticato che i processi di modernizzazione del comparto agro-alimentare tendono ad accentuare ulteriormente i fenomeni di concentrazione, generando un sistema a 'pelle di leopardo' in cui le isole concorrenziali della produzione e del consumo finale appaiono nettamente subordinate agli obiettivi e alle strategie di imprese a carattere oligopolistico e dotate di strutture produttive e distributive sempre meno vincolate ai singoli ambiti nazionali.In secondo luogo, affinché un mercato sia dotato delle caratteristiche di efficienza associate alla concorrenza perfetta, è necessario, oltre alle ipotesi circa il numero degli agenti economici e l'omogeneità dei beni scambiati, che risultino soddisfatte alcune altre condizioni. Dal punto di vista dell'analisi delle transazioni che assicurano la produzione e la distribuzione dei beni provenienti dall'agricoltura, particolare rilievo assumono le ipotesi relative alla perfetta anonimità degli operatori, all'indipendenza dei singoli mercati e all'unicità del prezzo. Come l'esperienza storica ha dimostrato, l'aderenza della realtà a queste ipotesi varia notevolmente in funzione del livello di sviluppo dell'economia e del grado d'integrazione tra l'agricoltura e gli altri settori. Se in contesti avanzati le transazioni hanno luogo con modalità non troppo lontane da quelle specificate dal modello teorico, ciò non vale certamente per le economie tradizionali, nelle quali è la struttura dei rapporti sociali, fondata su una fitta rete d'interrelazioni tra i soggetti economici, a determinare le condizioni che regolano lo scambio dei beni e dei servizi.
Sotto il profilo della stretta interdipendenza tra sfera sociale e sfera economica, un caso analitico di tutto rilievo è costituito dalle società contadine, nelle quali il raggio delle relazioni di scambio non assume di norma dimensioni maggiori di quelle dell'economia di villaggio, e la ripartizione del potere e della ricchezza, condizionando pesantemente le forme istituzionali con cui le diverse figure sociali interagiscono nella sfera economica, entra direttamente in gioco nella determinazione degli assetti produttivi e distributivi.
Non deve sorprendere se il particolare sistema di organizzazione e di funzionamento dell'agricoltura, che - con riferimento alla figura sociale su cui è imperniato - viene denominato 'contadino', è stato, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, costante oggetto di analisi da parte di economisti, sociologi e antropologi. Ciò che - lungo linee di tendenza sostanzialmente uniformi - è avvenuto in Europa a partire dalla rivoluzione industriale e ciò che, dal dopoguerra a oggi, sta avvenendo nei paesi in via di sviluppo, ha messo in chiara evidenza - sotto il profilo delle trasformazioni economiche e sociali - il ruolo cruciale dei processi evolutivi del settore contadino. Le modalità con cui si sono andati manifestando i fenomeni di crescita e di differenziazione sociale dell'agricoltura contadina hanno infatti inciso non poco sia sulla crescita complessiva del settore primario sia sui meccanismi e sulla velocità di integrazione tra agricoltura e resto dell'economia. È appunto da questo contesto analitico - per il quale, più di un secolo fa, Karl Kautsky coniava il termine di "questione agraria" - che scaturiscono gli interrogativi di ricerca connessi all'inserimento e all'eventuale sopravvivenza dell'agricoltura contadina in un'economia capitalistica. E da allora, come è forse superfluo ricordare, intorno agli stessi interrogativi studiosi di diverse branche delle scienze sociali hanno proseguito ininterrottamente a indagare e a riflettere.Il nocciolo teorico della questione agraria è costituito dal comportamento dell'impresa contadina analizzato nel quadro delle interrelazioni con il contesto economico-sociale in cui essa è chiamata a operare. Negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d'ottobre, l'economista russo Aleksandr Čajanov formulava un modello volto a spiegare gli obiettivi e la strategia di comportamento dell'impresa contadina, contributo destinato a divenire una pietra angolare dell'edificio populista e, in ambiti teorici più ampi, della scuola di pensiero che, fino ai giorni nostri, tende a sottolineare la peculiarità dell'impresa contadina e, al limite, l'esistenza di un modo di produzione contadino. Semplificando all'estremo, i punti nodali del modello di Čajanov e dei successivi affinamenti (v. Servolin, 1974; v. Schejtman, 1980) possono essere schematizzati come segue.
1. La nozione di profitto - centrale per l'impresa capitalistica - non ha rilevanza alcuna per l'impresa contadina e a essa va sostituito, come parametro da massimizzare, il reddito aziendale, composto da un coacervo di redditi da lavoro, reddito fondiario e, in misura di norma marginale, redditi da capitale. Il reddito aziendale è, per definizione, un reddito residuale, risultante dalla differenza tra i ricavi e il costo dei fattori acquistati sul mercato: ne consegue che il salario del contadino e della sua famiglia non è determinato esplicitamente dal mercato, ma si configura, per l'appunto, come un salario implicito.
2. Alle variabili demografiche della famiglia spetta un ruolo determinante nei riguardi di alcune caratteristiche strutturali e organizzative dell'azienda: a) il livello d'intensità con cui il lavoro del contadino e della famiglia è impiegato in azienda, nell'intento di soddisfare le esigenze di consumo e di riproduzione, è in sostanza riconducibile al rapporto tra unità consumatrici e unità lavorative; b) l'unità familiare riesce a occupare in azienda, con una qualche produttività, frazioni di forza lavoro (vecchi e bambini) il cui costo di opportunità sul mercato del lavoro è molto basso o nullo; c) in un contesto di relativa abbondanza del fattore terra (come, del resto, era quello analizzato da Čajanov), la stessa dimensione fisica dell'azienda è legata direttamente al ciclo vitale della famiglia, registrando fasi di espansione e di contrazione commisurate alle variazioni del rapporto tra unità consumatrici e lavorative.
3. Le scelte produttive della famiglia sono dettate da un'accentuata avversione al rischio in quanto la salvaguardia di un livello minimo di sussistenza e, quindi, la stessa sopravvivenza dell'unità azienda-famiglia, entrano direttamente in gioco.
Sulle orme dell'analisi čajanoviana, la formalizzazione del modello dell'impresa contadina, condotta con strumentazione d'impianto neoclassico (v. Sen, 1966; v. Nakajima, 1986; v. Ellis, 1988), porta a concludere che, in condizioni di isolamento dal mercato del lavoro, e nell'ipotesi che l'utilità della famiglia dipenda dal reddito e dal riposo e sia soggetta ai vincoli della funzione di produzione, di un livello minimo di reddito o di un massimo di tempo lavorativo disponibili, l'allocazione del lavoro nell'ambito dell'attività aziendale risulta determinata dalla condizione di equilibrio soggettivo dell'unità familiare (eguaglianza tra valore del prodotto marginale e salario implicito, corrispondente al saggio marginale di sostituzione tra riposo e reddito). In altri termini, l'equilibrio dell'impresa contadina, legando il livello ottimale della produttività del lavoro alla struttura demografica della famiglia, è diverso da azienda ad azienda, in quanto appunto determinato all'interno dell'unità familiare. Come è evidente, ciò contrasta nettamente coi dettami della massimizzazione del profitto nelle imprese capitalistiche che impongono, in ciascuna impresa, l'eguaglianza del prodotto marginale con il salario di mercato.Il secondo grande interrogativo sollevato dalla questione agraria riguarda il ruolo e le prospettive di sopravvivenza delle imprese contadine negli stadi iniziali dello sviluppo di un'economia capitalistica e delle imprese familiari negli stadi avanzati.
Se, alla luce dell'esperienza storica, non vi sono dubbi circa la capacità di adattamento e quindi di sopravvivenza dell'impresa familiare in agricoltura, le interpretazioni delle cause di questa straordinaria vitalità sono tutt'altro che univoche. Con estrema schematicità possiamo ricondurre la varietà d'interpretazioni a due letture analitiche. La prima, che si avvale di elementi desunti dall'ortodossia neoclassica e dalla scuola istituzionalista, ravvisa la ragione ultima della solidità tecnica e organizzativa dell'impresa nella presenza del lavoro familiare, in grado di soddisfare con particolare efficacia le esigenze di flessibilità temporale e tecnica imposte dalla funzione di produzione, nonché di contenere o azzerare i notevoli costi di supervisione e di monitoraggio del lavoro cui le altre imprese devono far fronte. Quanto poi alle robuste doti di sopravvivenza e di adattamento all'evoluzione delle condizioni esterne, un ruolo centrale è da attribuire al meccanismo di remunerazione del lavoro e delle altre risorse conferite dall'unità familiare. Infatti, a causa della già ricordata natura residuale del reddito aziendale, i compensi del lavoro e degli altri fattori possono scendere o permanere a livelli sensibilmente inferiori al costo di opportunità, senza che ne consegua una corrispondente fuoriuscita di risorse dall'impresa e, quindi, dall'agricoltura. In altre parole, l'indubbia capacità di resistenza dell'impresa familiare non si attua in condizioni di equilibrio (parità di remunerazione tra le imprese e tra i settori), come la logica economica vorrebbe, ma comporta l'accettazione, da parte della famiglia, di una condizione di 'autosfruttamento', anche sistematico, del proprio lavoro.
La seconda lettura, muovendosi in uno schema concettuale d'impianto marxiano, tende a sottolineare gli aspetti di funzionalità delle imprese basate sul lavoro autonomo nei riguardi di molteplici esigenze espresse dallo sviluppo capitalistico. In questa chiave, all'agricoltura contadina viene di norma assegnato il duplice ruolo di produttore a basso costo dei beni alimentari e di serbatoio di forza lavoro, utilizzabile, a seconda delle circostanze, dalla componente capitalista nella stessa agricoltura o da parte degli altri settori. Inoltre, come è stato di recente evidenziato da Alain de Janvry e da Carmen Deere (v., 1979), l'impresa contadina si presta, nelle economie arretrate, a una molteplicità di punti di 'estrazione' di sovrappiù: attraverso il funzionamento del mercato del lavoro (autosfruttamento e bassi livelli dei salari), del mercato fondiario, del mercato del credito; con la manipolazione delle ragioni di scambio tra prezzi ricevuti e prezzi pagati dagli agricoltori, nonché dei rapporti tra prezzi dei beni alimentari e dei prodotti destinati all'esportazione. In questo contesto la persistenza dell'impresa familiare attraverso le diverse fasi dello sviluppo capitalistico ha luogo attraverso un processo di differenziazione economica e sociale che comporta, in una direzione, la proletarizzazione di una frazione consistente del settore contadino e, nell'altro senso, la creazione di una fascia di imprese con caratteristiche strutturali e produttive orientate a un inserimento a pieno titolo nel mercato.
Nel quadro delle regolarità che accompagnano lo sviluppo economico, l'agricoltura va soggetta a profonde trasformazioni. Alla luce dell'esperienza delle economie dei paesi occidentali e di quelle, più recenti, dei paesi meno avanzati, possiamo individuare, con riferimento al ruolo che l'agricoltura è chiamata a svolgere nello sviluppo economico e alle trasformazioni ch'essa subisce, due scenari di fondo.
1. La crescita dell'agricoltura e il contributo allo sviluppo economico. - Ricadono nel primo scenario le fasi corrispondenti all'avvio e al consolidamento del processo di crescita dell'agricoltura. Nel contesto economico e istituzionale di partenza, l'agricoltura presenta sovente un accentuato carattere dualistico, con un settore contadino orientato prevalentemente all'autoconsumo e in cui si trova concentrata gran parte della forza lavoro, e un settore capitalistico composto da medie e grandi aziende orientate verso il mercato interno o estero, che impiegano lavoro salariato. L'agricoltura contadina opera di norma in condizioni di accentuato isolamento, dovuto sia alla carenza di infrastrutture sia al funzionamento 'primordiale' dei mercati, le cui mancanze vengono supplite da una fitta rete di transazioni interpersonali e interdipendenti, che coinvolgono spesso più fattori produttivi e prodotti.In un contesto siffatto, il conseguimento, in maniera duratura, di elevati tassi di crescita della produttività del lavoro e della terra è la condizione preliminare per l'avvio del processo di sviluppo e di modernizzazione dell'agricoltura. Questo obiettivo va perseguito con un insieme di azioni calibrate lungo tre direttrici: 1) una politica d'investimenti infrastrutturali (lo sviluppo dell'irrigazione si è spesso rivelato determinante) e di cambiamenti istituzionali volti a rimuovere le strozzature del contesto di partenza; 2) l'introduzione di pacchetti tecnologici in grado di aumentare la produttività del fattore più scarso; 3) l'adozione di una politica dei prezzi che assicuri gli incentivi idonei a stimolare la crescita dell'offerta agricola.L'esperienza degli ultimi decenni ha chiaramente dimostrato l'estrema importanza del giusto equilibrio e della simultaneità di queste tre linee di azione per il decollo del processo di crescita in agricoltura.
Sotto questo profilo un caso assai emblematico è rappresentato dalla cosiddetta 'rivoluzione verde', espressione con la quale si identifica il 'pacchetto' di innovazioni tecnologiche messe a punto tra gli anni sessanta e settanta e volte ad aumentare le rese delle produzioni cerealicole (frumento e riso in particolare) nei contesti di agricoltura contadina dell'Est e del Sudest asiatico. Una lettura positiva - nel complesso prevalente (v. Hayami e Ruttan, 1985) - della rivoluzione verde tende a sottolineare: a) gli apprezzabili risultati, sotto il profilo tecnico, dello sforzo di cooperazione internazionale nel settore della ricerca, che è sfociato nella messa a punto di processi produttivi basati sulla selezione di varietà particolarmente sensibili alla fertilizzazione e all'irrigazione; b) la velocità di diffusione delle nuove varietà in alcune realtà (Formosa, Filippine e Corea meridionale sono le situazioni di maggiore successo); c) il sensibile aumento delle produzioni per unità di superficie e, quindi, la creazione di un apprezzabile surplus produttivo. Non mancano, tuttavia, letture discordanti, che pongono in rilievo come a questi benefici si debbano contrapporre costi altrettanto significativi derivanti dall'aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito - con ulteriore concentrazione della ricchezza nelle mani dei proprietari fondiari e delle imprese di maggiori dimensioni - e da probabili guasti ambientali nel lungo periodo.
Non vi è comunque discordanza di opinioni sull'affermazione che, attraverso uno sviluppo diffuso e duraturo, l'agricoltura può, o meglio deve, concorrere in maniera determinante alla crescita e alla modernizzazione dell'intera economia. All'inizio degli anni sessanta Bruce Johnston e John Mellor (v., 1961) evidenziavano così i possibili contributi dell'agricoltura allo sviluppo economico: 1) l'aumento dell'offerta di alimenti per il consumo interno; 2) la cessione di forza lavoro al settore industriale; 3) l'ampliamento del mercato di sbocco dei prodotti industriali; 4) l'aumento dell'offerta interna di risparmio; 5) il contributo all'acquisizione di valuta estera.In questa fase dello sviluppo, in cui il mantenimento di una crescita bilanciata diviene condizione essenziale, politica economica e politica agraria devono fronteggiare e dare risposte appropriate a due dilemmi. Il primo, cruciale, interrogativo riguarda la gradualità con cui procedere all' 'estrazione' di sovrappiù dall'agricoltura. Non sono pochi i casi in cui i responsabili della politica economica, guidati dalla percezione errata della scarsa importanza strategica dell'agricoltura, in quanto ineluttabilmente destinata a un declino secolare, hanno fatto ricorso a strategie impostate secondo due direttrici principali: l'estrazione massiccia di surplus dall'agricoltura - indipendentemente dai livelli di produttività conseguiti - e la concentrazione degli sforzi sull'industrializzazione, spesso realizzata con tecnologie ad alta intensità di capitale e a basso impiego di lavoro. Come la recente esperienza dei paesi dell'Africa subsahariana sta a dimostrare, la penalizzazione prematura ed eccessiva dell'agricoltura ha molto spesso generato situazioni di ristagno o, addirittura, di arretramento lungo la strada dello sviluppo, frequentemente associate a contrazioni sensibili nell'approvvigionamento alimentare se non a vere e proprie carestie.
Il secondo dilemma è associato alla natura dell'intervento sul mercato dei prodotti alimentari e al perseguimento del 'giusto' livello di prezzo. La difficoltà della scelta proviene dalla duplice, contrastante funzione assolta da questa variabile: le esigenze di soddisfacimento del consumo alimentare delle classi povere, spesso concentrate nelle zone urbane, e di estrazione di surplus da parte dello Stato richiedono una politica di prezzi bassi; gli incentivi da fornire ai produttori per conseguire un aumento dell'offerta richiedono, invece, una politica dei prezzi di segno opposto.
Alla crescita dell'agricoltura si accompagnano cambiamenti strutturali che investono l'intero sistema economico. I mercati vanno perdendo le caratteristiche di arretratezza presenti nella fase iniziale e prende l'avvio il processo di crescente integrazione tra l'agricoltura e gli altri settori. Le crescenti connessioni tra il settore primario e il resto del sistema interessano contemporaneamente il piano della produzione, con la creazione di un sovrappiù e la cessione di forza lavoro e di risorse finanziarie agli altri settori, e il piano del consumo, sul quale operano due flussi principali: la domanda di alimenti da parte della realtà urbana e di manufatti da parte dell'agricoltura.
Come risulta dalle tendenze evolutive dei paesi in via di sviluppo a partire dal dopoguerra, l'esito di questo scenario è tutt'altro che univoco. All'interno di un panorama quanto mai articolato, nella vasta costellazione dei paesi in via di sviluppo sono oggi ravvisabili tre situazioni ben distinte. Sul gradino più basso si trovano quei paesi in cui il decollo dell'agricoltura è tuttora da avviare o, dopo un inizio promettente, si è ricaduti in una situazione di ristagno e di contrazione delle disponibilità alimentari. È questo il caso di una larghissima parte dell'Africa subsahariana, oggi presa inesorabilmente nella duplice morsa del ristagno produttivo e della povertà rurale e urbana.In posizione intermedia si rinvengono le situazioni, peraltro frequentissime, in cui lo sviluppo dell'agricoltura, il più delle volte diseguale e discontinuo (è il caso di gran parte dell'America Latina), non è stato accompagnato da un'adeguata crescita degli altri settori: la cessione di forza lavoro dall'agricoltura e la conseguente urbanizzazione hanno dato luogo alla formazione di larghe sacche di sottoproletariato e di povertà endemica.
Vi sono infine i non numerosi ma significativi casi dei paesi di nuova industrializzazione - Corea del Sud, Taiwan, Singapore sono gli esempi più citati - in cui una vigorosa e rapida crescita di settori industriali, decisamente orientati verso l'esportazione, ha fortemente attenuato i costi economici e sociali dei processi di aggiustamento intersettoriale. Le loro caratteristiche strutturali e le politiche agrarie da essi praticate già li rendono assimilabili alle realtà di più antica industrializzazione.
Un esame delle connessioni tra crescita dell'agricoltura e sviluppo economico non è pensabile senza un breve accenno al gravissimo problema della fame nei paesi del Terzo Mondo. Il primo aspetto da sottolineare è la dimensione stessa del fenomeno: con tutte le cautele associate a stime di questo genere, valutazioni della Banca Mondiale effettuate alla metà degli anni sessanta indicavano che il 56% delle popolazioni dell'America Latina, dell'Asia, del Medio Oriente e dell'Africa erano potenzialmente esposte all'insorgere di fenomeni di carenza alimentare. Stime più circoscritte condotte dalla FAO agli inizi degli anni ottanta individuavano nel 25% della popolazione del Terzo Mondo la parte coinvolta, in qualche misura, nel problema della fame.
Se il fenomeno è ben lungi dall'essere debellato, passi notevoli sono stati tuttavia compiuti rispetto all'accertamento delle cause e all'individuazione delle strategie possibili. Anzitutto è ormai chiaro che il fenomeno della fame coincide in larghissima misura con quello della povertà nelle zone rurali e che la causa ultima delle carestie non è tanto da ravvisare nell'assenza di disponibilità di alimenti quanto piuttosto nell'impossibilità di accesso economico al cibo da parte delle classi più povere. L'analisi di Amartya K. Sen (v., 1981) ha chiaramente evidenziato come, in una data società, la causa primaria dell'insorgere della fame sia da identificare nell'entitlement system, ossia nella rete di prerogative e diritti incorporati nelle leggi e nelle consuetudini e dalla quale, in ultima istanza, dipende l'accesso economico e sociale al cibo. In questo quadro il conseguimento di un volume di offerta di alimenti adeguato è condizione necessaria ma non sufficiente a eliminare il problema della fame. Le strade, non facili, attraverso le quali pervenire a una solida sicurezza alimentare sono le stesse con cui combattere la povertà rurale: un'attenta redistribuzione delle dotazioni di fattori, una riconversione delle strategie d'investimento, il trasferimento delle potenzialità produttive dell'agricoltura contadina dai settori in ristagno a quelli in espansione.
2. Ruolo e problemi dell'agricoltura nelle economie avanzate. - Due fenomeni principali concorrono a definire il secondo scenario: l'ulteriore e ormai irreversibile integrazione dell'attività agricola nel sistema economico e l'insorgere di uno squilibrio strutturale tra domanda e offerta dei prodotti alimentari. Come concordemente evidenziato dall'evoluzione delle economie occidentali, i tratti salienti delle trasformazioni dell'agricoltura possono essere così schematizzati: 1) si accentua l'inelasticità della domanda dei beni alimentari rispetto al reddito e al prezzo e si contrae progressivamente la quota della spesa alimentare sulla spesa totale delle famiglie; 2) il costo della materia prima proveniente dall'agricoltura incide in misura decrescente sul prezzo al consumo dei beni alimentari mentre aumenta quello relativo ai processi di trasformazione e distribuzione; 3) l'adozione massiccia e continua di progresso tecnico nella produzione agricola, oltre a portare con sé un incremento del rapporto capitale-lavoro e un impiego crescente dei mezzi tecnici prodotti all'esterno dell'agricoltura, determina un aumento continuo e consistente dell'offerta; 4) nell'ambito delle imprese familiari, in connessione con la sempre maggiore integrazione nel mercato del lavoro, assumono crescente importanza, in termini di occupazione e di reddito, le attività extragricole; 5) le interazioni tra agricoltura e ambiente vanno crescendo in intensità e complessità, con molteplici impatti subiti ed esercitati dall'attività agricola.
Come si è già accennato, guardando all'insieme di queste trasformazioni, ciò che si determina è l'insorgere di un complesso sistema integrato in cui l'agricoltura appare strettamente legata, sotto il profilo del flusso di beni e di servizi, con le industrie collocate a monte (fornitrici di mezzi tecnici) e con quelle che operano a valle (per la trasformazione dei prodotti agricoli di base e la distribuzione dei beni trasformati). In questa prospettiva, ai fini dell'analisi delle tendenze della produzione e del consumo dei beni alimentari, diviene sempre meno rilevante ragionare esclusivamente in termini di ciò che avviene in agricoltura, ma occorre guardare al complesso del sistema agro-industriale o dell'agribusiness, se si vuol usare il termine proposto alla fine degli anni cinquanta da Davis e Goldberg (v., 1957).
Cambiamenti strutturali di questa fatta hanno, anche sul piano della ricerca teorica e applicata, implicazioni non marginali, a partire da un ampliamento dello stesso campo d'indagine dell'economia e della politica agraria. È fuor di dubbio, infatti, che l'analisi degli obiettivi e della struttura dei 'nuovi' e potenti soggetti economici rappresentati dalle grandi imprese a carattere nazionale o multinazionale assume carattere di centralità per una corretta comprensione dei processi di produzione, trasformazione e distribuzione dei beni agroalimentari.La presenza di un eccesso di capacità produttiva è il secondo fenomeno che, con notevole uniformità, caratterizza l'agricoltura nelle economie avanzate. L'insufficiente trasferimento di risorse, soprattutto forza lavoro, dall'agricoltura agli altri settori, gli effetti del progresso tecnico in termini di crescita dell'offerta e i ben più modesti aumenti della domanda, concorrono congiuntamente a determinare e perpetuare una situazione di squilibrio, le cui manifestazioni più evidenti sono, a un tempo, una tendenza di lungo periodo all'abbassamento dei prezzi reali dei prodotti agricoli e la formazione di redditi che tendono a collocarsi a livelli strutturalmente inferiori a quelli dei settori extragricoli.
Una ulteriore, essenziale uniformità che caratterizza l'esercizio dell'agricoltura nel mondo contemporaneo è ravvisabile nell'universale presenza dell'intervento pubblico quale regolatore dei meccanismi di produzione e di consumo dei beni agroalimentari. Se la presenza di un complesso articolato di politiche agrarie è un dato costante, vi è peraltro notevole difformità nei riguardi degli obiettivi perseguiti e degli strumenti impiegati. L'ampio ventaglio è tuttavia riconducibile, sotto il profilo della natura e del ruolo dell'intervento pubblico, a due tipologie rappresentative, di fatto coincidenti con gli scenari evocati nei riguardi delle connessioni tra sviluppo economico e trasformazioni dell'agricoltura.
In una panoramica mondiale è agevole constatare come, negli stadi iniziali dello sviluppo, corrispondenti al primo scenario, l'agricoltura sia, di norma, penalizzata dall'intervento pubblico. Con lo sviluppo dei settori extragricoli la penalizzazione del settore primario si va, invece, attenuando fino a pervenire, come accade in larga parte delle economie industrializzate, a livelli elevati di protezione positiva. In altri termini, esiste, e l'analisi empirica ne dà conferma, una forte correlazione positiva tra i valori dei coefficienti di protezione e il livello del reddito pro capite, così come altrettanto robusta è la relazione inversa tra il grado di protezione accordato all'agricoltura e il peso ch'essa detiene in termini di occupazione e di reddito nazionale.Il rapido accenno che è qui possibile fare alla configurazione delle politiche agrarie negli scenari di protezione positiva e negativa può giovarsi di una preliminare riflessione sulle ragioni che stanno alla base dell'intervento pubblico in agricoltura.
Una ricognizione della letteratura pone in evidenza come non vi sia univocità interpretativa sulle cause e sugli obiettivi dell'intervento pubblico in agricoltura. Semplificando al massimo un quadro di notevole complessità, l'analisi teorica dei fondamenti delle politiche agrarie ruota intorno a due principali posizioni interpretative. La prima, che si muove nell'alveo del paradigma neoclassico, individua le motivazioni dell'intervento pubblico nella necessità di porre rimedio alle situazioni in cui il mercato non è in grado di fornire soluzioni soddisfacenti a determinati problemi di produzione e di distribuzione. I cosiddetti fallimenti del mercato in agricoltura non sono né pochi né marginali. L'ampia casistica viene di norma ricondotta alle seguenti categorie: 1) assenza o incompletezza di alcuni mercati (l'impossibilità dei produttori agricoli di assicurarsi contro tutti i rischi dell'ambiente naturale e del mercato); 2) produzione di beni pubblici (bonifica, ricerca, assistenza tecnica, ecc.); 3) presenza di esternalità (conservazione delle risorse e protezione dell'ambiente); 4) correzione di squilibri distributivi a livello intrasettoriale (il sostegno dell'impresa familiare) e intersettoriale (il sostegno dei redditi in agricoltura). Corollario fondamentale di questa lettura della ragion d'essere e delle finalità delle politiche agrarie è l'assoluta neutralità dello Stato. In quest'ottica le scelte dell'operatore pubblico appaiono guidate esclusivamente dall'intento di correggere o eliminare le carenze del mercato in quanto meccanismo allocativo e distributivo ed è impensabile che l'interesse di singoli o di gruppi, nonché dello stesso policy maker, possano orientarne la direzione e la portata.
La seconda interpretazione delle motivazioni e delle configurazioni delle politiche agrarie accantona l'ipotesi di neutralità dell'operatore pubblico e pone, viceversa, l'accento sull'esistenza e il funzionamento di un mercato politico. In questo quadro interpretativo, che si avvale di spunti della teoria delle scelte pubbliche e dei gruppi d'interesse, le finalità e le decisioni dei policy makers, in quanto volte primariamente al conseguimento e alla conservazione del potere, possono risultare influenzate dalle pressioni esercitate da coalizioni d'interesse. Con una presenza siffatta, senza escludere che i fallimenti del mercato possano costituire il substrato di razionalità economica dell'intervento pubblico, appare inevitabile che, alla prova dei fatti, esso venga concepito e di fatto funzioni come un gigantesco e insopprimibile meccanismo distributivo. In questa chiave, l'insorgere e l'evoluzione delle politiche agrarie vengono visti come le risultanti delle scelte di un operatore pubblico fortemente condizionato dal gioco degli interessi volti al conseguimento e alla difesa di posizioni di privilegio.Sebbene queste due letture dell'intervento pubblico siano fortemente contrapposte, è solo ricorrendo a uno schema concettuale capace d'integrarne le ipotesi di base che è possibile affrontare, in chiave positiva e normativa, l'analisi delle politiche agrarie nel mondo reale.
Nei paesi in via di sviluppo, soprattutto in quelli più poveri, alle politiche agrarie spetta un ruolo di assoluta centralità nelle strategie di politica economica di breve e lungo periodo. L'intervento pubblico in agricoltura, a causa del peso del settore primario nell'economia, è chiamato a dare risposte a una duplice esigenza: da un lato creare le condizioni affinché l'agricoltura possa recare il proprio, determinante contributo allo sviluppo economico, dall'altro lato assicurare che ciò avvenga in un contesto di piena sicurezza alimentare. Del resto, come si è già accennato, il fatto che sicurezza alimentare e distribuzione del reddito nella società altro non siano se non due facce dello stesso problema, accresce in misura notevole la complessità del compito delle politiche agrarie. Si è già detto che le politiche nei paesi in via di sviluppo sono, nel complesso, condotte sotto il segno di una pesante discriminazione nei confronti dell'agricoltura. A titolo di esempio, uno studio sui coefficienti di protezione condotto da Binswanger e Scandizzo agli inizi degli anni ottanta, e relativo a 17 paesi e a 57 combinazioni prodotto-paese, poneva in evidenza come solo 5 dei 57 coefficienti fossero positivi. In altre parole, in 52 casi su 57 i produttori agricoli ricevevano prezzi inferiori a quelli del mercato internazionale; in ben 13 casi la protezione negativa era pari o maggiore del 50%.
Una discriminazione di queste dimensioni, che si traduce in una politica di bassi prezzi degli alimenti, trae origine da due cause fondamentali: dalla necessità di estrarre dall'agricoltura un sovrappiù da destinare allo sviluppo degli altri settori e dal maggior potere contrattuale delle classi urbane, in grado di condizionare la stessa stabilità politica e sociale.
L'armamentario delle politiche agrarie nei paesi in via di sviluppo è altrettanto se non più complesso di quello messo in atto dai paesi industrializzati. L'obiettivo di determinare prezzi inferiori a quelli vigenti sui mercati mondiali viene perseguito con una molteplicità di strumenti, impiegati singolarmente o in qualche combinazione: la diffusa sopravvalutazione del tasso di cambio, le tasse sulle esportazioni e/o l'obbligo di conferimento del prodotto ad agenzie governative sono di norma gli strumenti con cui la penalizzazione dei produttori di derrate agricole si traduce in flussi di entrate per le casse dello Stato.Con una qualche incoerenza sul piano della logica economica, ma con piena plausibilità in una strategia condizionata dai gruppi d'interesse, alla penalizzazione sul fronte dei prezzi si accompagna spesso l'erogazione di sussidi per l'acquisto dei mezzi tecnici (fertilizzanti soprattutto).
Vi sono, infine, le politiche di sussidio dei consumi alimentari, sovente applicate in dimensioni tali da rappresentare una delle principali poste di uscita del bilancio pubblico.A partire dalla metà degli anni ottanta le politiche agrarie nei paesi del Terzo Mondo, anche in virtù delle posizioni assunte dagli organismi internazionali (FAO, Banca Mondiale), sono divenute oggetto di più attenta analisi e di non facili processi di riforma. L'orientamento complessivo, che diviene una scelta obbligata nei paesi dell'Africa subsahariana, si muove nella direzione del passaggio da una politica di discriminazione a una d'incentivazione dell'agricoltura. Nella ricerca delle strategie con cui perseguire questo obiettivo, riemergono le due scuole di pensiero che hanno da sempre orientato e condizionato le grandi scelte di politica agraria. La scuola liberista, che invoca una rimozione preliminare e massiccia della regolamentazione e degli interventi, individua nel gioco delle forze di mercato e nei più alti prezzi che ne scaturirebbero, incentivi sufficienti a stimolare una efficiente allocazione delle risorse e uno sviluppo sostenuto della produzione agricola. Per la scuola strutturalista, invece, una modifica profonda del contesto economico e istituzionale è condizione preliminare e indispensabile per una crescita duratura dell'offerta. In questo scenario, pur riconoscendo l'opportunità di un regime di prezzi più elevati, è il progresso tecnico, da promuovere con l'intervento dello Stato nella ricerca e nell'assistenza tecnica, la variabile cui viene affidato il compito primario di conseguire gli indispensabili aumenti di produttività.
Né va dimenticato che, qualunque sia la strategia prescelta, le politiche agrarie dei singoli governi sono fortemente condizionate dai vincoli imposti dal contesto internazionale e, in particolare, dall'andamento dei mercati mondiali, a sua volta pesantemente influenzato dalle politiche agrarie dei paesi industrializzati.
Un elevato livello di protezione e di sostegno dell'agricoltura è, come si è già detto, una caratteristica comune alle economie industrializzate. Il fenomeno è tutt'altro che recente: con la sola parentesi tra l'abolizione delle leggi sul grano in Inghilterra nel 1846 e l'insorgere della crisi agraria negli ultimi decenni dell'Ottocento, negli ultimi due secoli la storia economica dei paesi europei è stata contrassegnata da una stretta correlazione tra sviluppo dell'industria e protezione dell'agricoltura. Ma è nel ventennio tra le due guerre mondiali, e soprattutto dopo la crisi del '29 che, sia in Europa che negli Stati Uniti, vengono messi a punto gli strumenti d'intervento che tuttora ne caratterizzano le politiche agrarie. Nel secondo dopoguerra, con un crescendo a partire dalla metà degli anni cinquanta, la protezione dell'agricoltura, agendo sulla duplice leva dell'isolamento dai mercati mondiali e del sostegno di quello interno, raggiunge, con la sola eccezione di alcuni dei paesi esportatori (Australia, Canada, Nuova Zelanda), livelli inusitati. L'istituzione della Comunità Economica Europea e di una politica agricola comune concorre non poco all'instaurarsi di un clima di rigido ed elevato protezionismo e di conflittualità sui mercati mondiali.
Nella tab. II è riportato l'andamento del tasso nominale di protezione in agricoltura in un gruppo rappresentativo di economie industrializzate. Le cifre parlano da sole quanto a evoluzione del livello di sostegno e alle posizioni relative dei singoli paesi; non possono, comunque, non colpire i casi della Corea del Sud e di Formosa che, nell'arco di un trentennio, partendo da posizioni di protezione negativa, hanno raggiunto e superato i livelli dei paesi di più antica industrializzazione.
Se ci si interroga sulle cause che stanno alla base dell'elevato livello di protezione dell'agricoltura possiamo fare riferimento ai due modelli interpretativi menzionati poc'anzi. Dal punto di vista del fallimento del mercato, gli argomenti usualmente addotti a giustificazione di un diffuso e generoso intervento pubblico fanno riferimento alla necessità di correggere alcune tendenze naturali del mercato dei prodotti agricoli (in primo luogo l'instabilità dei prezzi generata dall'oscillazione dell'offerta lungo una domanda sempre più inelastica) e di ridurre gli squilibri nella distribuzione del reddito esistenti sia all'interno dell'agricoltura, sia tra i settori. Sotto questo profilo il conseguimento di una parità intersettoriale dei redditi viene spesso esplicitato come traguardo verso cui orientare l'applicazione degli strumenti delle politiche agrarie. Né va dimenticata l'esistenza di altri obiettivi di politica economica, quali un determinato livello di autoapprovvigionamento alimentare o di valorizzazione e conservazione delle risorse naturali, che concorrono a giustificare il carattere pervasivo delle politiche agrarie.
L'interpretazione dell'intervento pubblico in chiave di gruppi di interesse, pur senza negare la rilevanza dei fattori sopraindicati, tende a spiegare la persistenza di robuste e dispendiose politiche agrarie in virtù di due argomenti principali: in primo luogo, una volta che la ricchezza di un paese abbia raggiunto determinati livelli, il costo della protezione accordata all'agricoltura finisce con l'incidere in misura decrescente sul reddito nazionale e diviene, pertanto, economicamente e politicamente sostenibile; in secondo luogo, il declino numerico degli agricoltori ne facilita l'organizzazione e la conversione in potenti gruppi di pressione, il cui successo è anche imputabile alla frequente convergenza d'interessi con i settori a monte e a valle della produzione agricola.
Le ragioni che spiegano l'esistenza e le finalità delle politiche agrarie aiutano anche a comprendere le scelte dell'operatore pubblico nei riguardi degli strumenti di intervento, nonché il loro peso relativo. Anche sotto questo profilo si riscontra, nelle economie industrializzate, una notevole uniformità nelle strategie adottate e nel sistematico ricorso, come misura preferenziale, alla regolamentazione del mercato dei prodotti. In effetti, oltre al pur consistente corpo di misure orientate alla produzione di beni pubblici (bonifica, irrigazione, ricerca, assistenza tecnica, ecc.), la panoplia di strumenti escogitati attraverso il tempo dai responsabili delle politiche agrarie risulta composta in netta prevalenza da azioni con cui pervenire, in via diretta o indiretta, a una manipolazione del prezzo o della quantità dei prodotti.
In questo quadro, la politica agricola della Comunità Europea (PAC) può fornire un esempio illuminante dei benefici e dei costi dell'intervento pubblico nelle agricolture delle economie mature. Definita, in quanto a obiettivi e strumenti, nel corso degli anni sessanta, la PAC ha ereditato e di fatto accentuato il carattere protezionistico delle politiche agrarie esistenti nel nucleo costitutivo dei sei paesi membri, allineando il livello medio di sostegno a quello dei paesi a più alta protezione (Germania e Italia). Non è qui possibile effettuare una rassegna esauriente delle numerose misure di intervento né della loro differenziazione tra i prodotti. È essenziale, tuttavia, ricordare la distinzione tra le azioni rivolte al mercato internazionale e quelle destinate a influenzare il mercato interno. Ricadono nella prima categoria, oltre al tradizionale strumento del dazio, i prelievi variabili, le restituzioni alle esportazioni, le quote sulle importazioni, l'ampio spettro di barriere non tariffarie. Non meno articolato è l'armamentario per gli interventi sul mercato interno: si va dalla fissazione di un prezzo garantito alla integrazione di prezzo, dall'adozione di quote di produzione agli incentivi per la riduzione delle superfici coltivate, dall'integrazione del reddito dei produttori alle misure volte alla promozione della domanda (sussidi al consumo).
Un solo dato basta a evidenziare la rilevanza degli interventi comunitari sui mercati agricoli: nella seconda metà degli anni ottanta essi assorbivano ben il 65% del bilancio comunitario, dopo che, alla fine degli anni settanta, la quota aveva addirittura superato il 70%. Del tutto marginali, in quanto a spesa (4-5% del bilancio) e a strumenti d'intervento, sono invece sempre state le misure rivolte al miglioramento delle strutture produttive, tese, in linea di principio, ad accrescere l'efficienza delle aziende e ad agevolare i processi di aggiustamento del settore agricolo.
Alla luce degli obiettivi originari della PAC, un bilancio ultraschematico può annoverare tra le poste positive: a) l'aumento consistente della produttività dei fattori (il tasso medio annuo di crescita della produttività del lavoro in agricoltura tra il 1967 e il 1984 nella Comunità di nove paesi è stato del 5,0%); b) il conseguimento della piena, e persino eccessiva, autosufficienza alimentare (alla metà degli anni ottanta la produzione dei cereali superava del 27% i fabbisogni dei consumi interni); c) la stabilità interna dei prezzi agricoli, tradottasi, peraltro, in un'accentuazione dell'instabilità sui mercati mondiali.Nonostante questi risultati, ormai da diversi anni il giudizio complessivo sulla PAC è che questa politica è in crisi e assolutamente bisognosa di una riforma radicale. Concorrono alla formulazione di questo tipo di giudizio sia elementi interni, attinenti agli obiettivi di efficienza ed equità perseguiti dalla Comunità, sia fattori particolarmente rilevanti sotto il profilo dei rapporti internazionali.
Sul piano interno, i motivi d'insoddisfazione scaturiscono da una molteplicità di cause: la comprovata voracità finanziaria della PAC che, in assenza di freni, tenderebbe a far crescere la spesa agricola in forma esponenziale; i modesti risultati conseguiti in termini di andamento dei redditi agricoli; l'aggravarsi delle disparità intrasettoriali e interregionali; la distribuzione sperequata dei benefici erogati dalla PAC, con le imprese agrarie di maggiori dimensioni e l'industria alimentare come principali destinatari.
Sul fronte internazionale, la Comunità divide il banco degli accusati con un congruo numero di paesi industrializzati le cui politiche agrarie hanno anche contribuito ad accrescere il clima di conflittualità e d'instabilità sui mercati mondiali e a penalizzare fortemente le economie dei paesi in via di sviluppo (PVS). Come le vicende degli anni ottanta hanno chiaramente dimostrato, il passaggio della Comunità da una posizione di importatore netto a quella di secondo esportatore di prodotti agricoli (soprattutto frumento e prodotti lattiero-caseari), compromettendo su diversi mercati la posizione consolidata degli Stati Uniti, ha innescato un contenzioso commerciale i cui episodi ('guerra' degli ormoni, della pasta, ecc.) hanno certamente contribuito ad accentuare la spirale protezionistica sulle due sponde dell'Atlantico.
Per quanto concerne gli effetti della PAC e, in genere, del protezionismo agricolo sui PVS, occorre distinguere tra PVS importatori di alimenti e PVS esportatori. Nei riguardi del primo gruppo di paesi, il basso livello del prezzo degli alimenti, dovuto alle esportazioni delle eccedenze agricole dei paesi industrializzati, ha contribuito a ridurre in modo significativo i costi degli approvvigionamenti. Stime recenti indicherebbero che il numero dei malnutriti nei PVS si è ridotto del 25% come conseguenza della protezione accordata all'agricoltura nei paesi sviluppati. Occorre peraltro riconoscere che queste politiche di protezione rendono particolarmente difficile per i PVS il perseguimento di un grado di autosufficienza alimentare tale da permettere una sensibile riduzione del loro grado di dipendenza dai paesi sviluppati.
Ben diversa risulta la situazione dei PVS esportatori netti di prodotti alimentari. Le agricolture di questi paesi sono soggette, come abbiamo già evidenziato, a una duplice penalizzazione: quella interna, derivante dalla protezione accordata al settore industriale ai danni di quello agricolo, e quella esterna, imputabile in larga misura al protezionismo dei paesi sviluppati. Non vi è dubbio, pertanto, ch'essi trarrebbero notevole beneficio da una liberalizzazione del commercio agricolo internazionale, capace di consentire un'espansione delle loro esportazioni.
Non deve perciò sorprendere se la duplice crisi delle politiche agrarie dei paesi industrializzati - quella interna, dovuta prevalentemente al costo elevato, e quella esterna, che si traduce in un'escalation dei conflitti commerciali e in un ulteriore aumento degli esborsi finanziari - ha contribuito a creare le condizioni per portare sul tavolo delle trattative multilaterali la questione di un abbassamento delle barriere protezionistiche e di una riforma radicale e generalizzata delle politiche agrarie. È difficile prevedere quale possa essere l'esito delle negoziazioni condotte in seno al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) - il cosiddetto Uruguay Round - ma non è da escludere che l'ingresso nel terzo millennio possa avvenire, se non proprio in uno scenario di libero scambio, almeno in uno di meno esasperato protezionismo. Ciò che è indubbio è che la realizzazione di questo tipo di scenario non porterà con sé la scomparsa delle politiche agrarie. È illusorio infatti pensare che il conseguimento e il mantenimento di una posizione di minore protezionismo, o al limite, di libero scambio, possa essere raggiunta evocando le sole forze della concorrenza: essa può divenire, viceversa, concepibile nel contesto di un solido regime internazionale fondato su accordi negoziali che investano sia le politiche commerciali, sia quelle rivolte al mercato interno. Né può essere ignorato il fatto che i costi di aggiustamento a livello di imprese e di territorio associati a un sostanziale, anche se graduale, smantellamento delle barriere protezionistiche e del sostegno, non saranno certo di poco conto. Visto che, anche in questo caso, le forze della concorrenza non potranno assicurare, nel breve e nel medio periodo, soluzioni efficienti ed equitative, l'intervento pubblico sarà ancora una volta chiamato a dare risposta a questo ennesimo fallimento del mercato. (V. anche Agricoltura; Contadini; Economia; Sviluppo economico).
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