Economia e politica
di Guido Tabellini
Economia e politica
sommario: 1. Introduzione. 2. L'impostazione dell'analisi. a) Chi trae beneficio dall'intervento pubblico? b) Quando viene scelto l'intervento pubblico? 3. La competizione elettorale. a) Il modello dell'elettore mediano. b) Il voto probabilistico. c) Gruppi di pressione e finanziamenti alla campagna elettorale. 4. La politica dei governi. a) iI controllo degli elettori sull'operato dei governi. b) Istituzioni politiche e politica economica. 5. Miopia collettiva e razionalità individuale. 6. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nelle moderne democrazie i governi sono gli operatori economici di gran lunga più importanti. A metà anni novanta, nella media dei 14 principali paesi OCSE la spesa pubblica assorbiva quasi metà del prodotto interno lordo. Anche nella restante metà non intermediata direttamente dal settore pubblico, l'attività economica privata è disciplinata da regolamenti e vincoli imposti da agenzie pubbliche o da leggi dello Stato. Come si comportano i governi, le assemblee legislative, le agenzie indipendenti? Quali criteri ispirano gli interventi pubblici nell'economia? Come possiamo spiegare le decisioni di politica economica? Rispondere a queste domande è una delle priorità di un ampio filone di ricerca, che si è sviluppato negli ultimi decenni, a cavallo tra economia e scienze politiche.
Fino a non molto tempo fa, l'analisi dell'economia pubblica aveva un approccio quasi esclusivamente normativo e ignorava questi interrogativi. Nell'impostazione tradizionale, i governi erano visti come 'dittatori benevoli' e si dava per scontato che l'obiettivo dell'intervento pubblico nell'economia fosse il perseguimento del benessere generale. Compito dell'analisi economica era suggerire lo strumento di politica economica migliore per raggiungere questo obiettivo. Politiche economiche sbagliate e interventi pubblici inefficienti erano considerati il frutto di errori dovuti all'ignoranza: all'analisi economica spettava pertanto il compito di aiutare a correggere questi errori, spezzando i vincoli conoscitivi nelle scelte pubbliche in campo economico.
I limiti di questa impostazione furono denunciati in maniera sistematica a partire dalla metà degli anni cinquanta dalla scuola di public choice, e in particolare da James M. Buchanan, i cui contributi in questo settore furono premiati con il Nobel per l'economia nel 1986. Buchanan, per la verità, non fu il primo ad adottare un approccio positivo nell'analisi dell'economia pubblica; egli stesso si richiama apertamente a una tradizione italiana in scienza delle finanze che risale all'inizio del Novecento e include i nomi di Amilcare Puviani e Giovanni Montemartini. Lo studioso statunitense parte dall'ipotesi realistica secondo la quale i governi perseguono obiettivi opportunistici: la vittoria alle elezioni, il soddisfacimento di ambizioni personali o, più in generale, la massimizzazione del tornaconto individuale di coloro che ricoprono incarichi politici. Come questi obiettivi si traducano in scelte di politica economica dipende dal contesto istituzionale e sociale: dalle informazioni di cui dispongono i cittadini, dai vincoli istituzionali, dalla situazione economica.
La scuola di public choice è la prima a studiare la politica economica e l'intervento pubblico nell'economia dal punto di vista positivo, anziché normativo. L'aspetto normativo è riservato all'analisi delle istituzioni: ci si chiede quali vincoli istituzionali (ad esempio, il pareggio di bilancio) siano opportuni per correggere le scelte sistematicamente distorte operate dal sistema politico. Il compito dell'analisi economica è quello di studiare il comportamento dei governi per proporre correttivi istituzionali che consentano di sfuggire alle ambizioni dei rappresentanti, non quello di fornire puri strumenti conoscitivi.
I contributi di Buchanan e dei suoi collaboratori furono inizialmente trascurati dagli economisti, forse anche perché formulati con strumenti analitici non molto raffinati; solo con il diffondersi della teoria dei giochi e della teoria delle scelte razionali, l'intervento pubblico nell'economia è divenuto oggetto di indagine positiva e non solo normativa da parte di molti economisti. Oggi, l'impostazione suggerita dal paradigma della scuola di public choice è data quasi per scontata, ma gli strumenti di indagine sono diventati più sofisticati e le conclusioni degli studi più recenti non sempre danno ragione alle intuizioni originali di Buchanan e della sua scuola.
In questo articolo saranno riassunti i principali risultati di questo nuovo filone di ricerca che studia l'intervento pubblico nell'economia dal punto di vista positivo, soffermandosi in particolare sui progressi compiuti nel corso degli ultimi due o tre decenni. Nel cap. 2 si descriverà brevemente l'impostazione analitica più recente, mentre nei capitoli successivi verranno illustrati i risultati con essa ottenuti.
2. L'impostazione dell'analisi
Il metodo dell'analisi economica è quello dell'individualismo metodologico: i fenomeni sociali ed economici sono spiegati correlandoli a decisioni individuali, nel presupposto che gli individui agiscano sempre nel modo migliore, data la situazione in cui si trovano. Per spiegare i fenomeni sociali, pertanto, occorre studiare le situazioni decisionali più rilevanti.
Le democrazie moderne sono tutte rappresentative. Le decisioni di politica economica, cioè, sono delegate ai rappresentanti politici dei cittadini. È dalle decisioni di costoro, quindi, che occorre partire. Ma i rappresentanti politici sono eletti dai cittadini e dunque anche essi hanno un ruolo centrale nell'analisi. Facendo riferimento alla teoria dei giochi, dobbiamo pensare a un 'gioco di delega': i cittadini sono i mandanti, gli uomini politici sono gli agenti; i mandanti controllano gli agenti attraverso le elezioni o con altre forme di partecipazione politica; i rappresentanti politici scelgono la politica economica. Entrambi si comportano in modo razionale, o comunque appropriato alla situazione decisionale in cui si trovano. Questa impostazione è comune a quasi tutta la letteratura economica che studia l'intervento pubblico in economia; ed è anche adottata da un ampio filone di ricerca in scienze politiche che parte dalla teoria delle scelte razionali per spiegare i fenomeni politici (per un dibattito tra politologi sulla correttezza di questa impostazione analitica, v. Friedman, 1996). Essa si dirama poi in diverse linee di ricerca, a seconda dei problemi studiati e delle ipotesi specifiche circa le situazioni politiche ed economiche più rilevanti.
a) Chi trae beneficio dall'intervento pubblico?
Una prima distinzione riguarda il tipo di intervento pubblico (o lo strumento di politica economica), e in particolare chi ne sia il beneficiario. L'intervento pubblico può infatti beneficiare molti, pochi o nessuno (eccetto gli uomini politici). Ognuno di questi diversi tipi di intervento induce un particolare tipo di conflitto economico.
L'offerta di beni pubblici universali (come la difesa), o i programmi ridistributivi tipici dello Stato sociale (come le pensioni e la sanità) sono esempi del primo tipo di intervento pubblico. Esso non può essere facilmente adattato alle esigenze di gruppi ristretti di cittadini, ed è valutato in maniera analoga da ampi gruppi di beneficiari. Per questo, il conflitto economico sottostante è riconducibile a un numero esiguo di dimensioni di eterogeneità tra i cittadini (le altre dimensioni di eterogeneità non sono rilevanti): ad esempio, può instaurarsi tra ricchi e poveri, tra giovani e anziani, o tra lavoro e capitale. Spesso il conflitto si riduce a un'unica dimensione, riconducibile alla tradizionale distinzione ideologica tra destra e sinistra. Per semplicità, chiameremo questo tipo di conflitto politico 'conflitto tra interessi economici generali'.
Il secondo tipo di intervento pubblico (con pochi beneficiari) è esemplificato dai beni pubblici locali (ad esempio, le strade), o dai programmi ridistributivi disegnati appositamente per particolari categorie economiche o gruppi ristretti di individui (ad esempio, le politiche di sostegno all'agricoltura, o i sussidi a favore di specifiche imprese pubbliche o private). Qui le dimensioni di eterogeneità sono rilevanti e molteplici (proprio perché lo strumento di politica economica discrimina accuratamente tra gruppi di cittadini) e anche il conflitto economico sottostante è multidimensionale. Chiameremo questo tipo di conflitto politico 'conflitto tra interessi economici particolari'.
Infine, il terzo tipo di intervento pubblico ha il solo effetto di arrecare benefici ai politici, a scapito dell'interesse collettivo dei cittadini. L'esempio tipico è il finanziamento (lecito o illecito) ai partiti, ma, in maniera meno diretta, si può pensare a tante forme di inefficienza o di corruzione nel settore pubblico, che hanno principalmente lo scopo di beneficiare direttamente alcuni uomini o gruppi politici, a danno dei cittadini. Mentre l'intervento pubblico del primo o del secondo tipo induce conflitti tra i cittadini, questo terzo tipo di intervento pubblico è al cuore del conflitto di interessi tra governanti e governati - il cosiddetto 'conflitto di agenzia'. I cittadini sono unanimi nel voler limitare le rendite sottratte dagli uomini politici, ma non sempre hanno i mezzi o l'informazione per riuscire a farlo. Le risorse di cui essi direttamente si appropriano a danno di tutta la collettività sono generalmente di dimensioni molto ridotte nelle moderne democrazie. Ma poiché queste risorse arrecano benefici diretti a coloro che hanno la responsabilità di scegliere le politiche pubbliche, la lotta politica per appropriarsi di queste 'briciole' può esercitare un'influenza notevole su tante altre decisioni pubbliche.
La distinzione tra queste tre diverse tipologie di intervento pubblico è utile perché i conflitti economici sottostanti determinano situazioni decisionali diverse sia per i cittadini che per i rappresentanti politici. L'analisi politica dell'intervento pubblico, pertanto, in questi tre casi è differente.
b) Quando viene scelto l'intervento pubblico?
Una seconda distinzione importante riguarda il momento in cui viene deciso l'intervento pubblico rispetto alla data delle elezioni. Alcune decisioni politiche vengono prese prima delle elezioni e prima dell'insediamento al governo. Ad esempio, durante la campagna elettorale gli opposti schieramenti politici formulano promesse che poi - una volta eletti - vincolano le loro azioni. Oppure, sempre durante la campagna elettorale o poco prima che questa abbia inizio, i partiti politici scelgono i candidati per i più rilevanti posti di governo; anche queste scelte hanno precise conseguenze su ciò che i partiti faranno una volta al governo. Le decisioni politiche prese durante la campagna elettorale sono tipicamente guidate da uno scopo: vincere le elezioni. Per spiegare l'intervento pubblico, quando questo viene deciso prima delle elezioni, occorre pertanto soffermarsi sulla competizione elettorale. Per i rappresentanti politici è questa, infatti, la situazione decisionale rilevante quando devono scegliere gli interventi di politica economica.
In altri casi, le decisioni politiche importanti vengono prese dopo le elezioni, una volta avvenuto l'insediamento al governo. Le promesse fatte in campagna elettorale sono spesso vaghe e lasciano ampi spazi alle scelte discrezionali dei governi in carica. In questo caso, la preoccupazione di vincere le elezioni successive è solo una delle determinanti delle decisioni di politica economica. Altre determinanti importanti sono le istituzioni che regolano le procedure decisionali dei governi e delle assemblee legislative: ad esempio, se la proposta del governo è emendabile oppure no dal parlamento; se il governo è eletto direttamente dai cittadini (come in un sistema presidenziale), oppure se può essere costretto alle dimissioni da un voto di sfiducia del parlamento (come in un sistema parlamentare); se la decisione di politica economica è presa da un governo di coalizione, oppure da un governo sostenuto da un unico partito che ha la maggioranza in parlamento; e così via. In altre parole, per spiegare le decisioni di politica economica quando queste sono prese dai governi in carica - e non durante la campagna elettorale - l'analisi delle istituzioni politiche assume un ruolo cruciale. Sono le istituzioni, infatti, assai più della competizione elettorale, che determinano la situazione decisionale rilevante per i rappresentanti politici.
Più in generale, possiamo pensare che in una moderna democrazia le elezioni politiche assolvano due funzioni. La prima è quella di consentire ai cittadini di scegliere tra le diverse promesse elettorali formulate dai candidati politici. Questa funzione è centrale in una visione 'populista' della democrazia, secondo la quale le decisioni politiche più importanti vengono prese durante la campagna elettorale: i candidati promettono cosa faranno una volta eletti, e i cittadini scelgono le promesse per loro più attraenti. Ne segue che l'intervento pubblico in economia è scelto (indirettamente) dai cittadini e riflette le preferenze della maggioranza degli elettori. Per spiegare i modi e le caratteristiche dell'intervento pubblico dobbiamo pertanto risalire alle preferenze della maggioranza degli elettori. Questa è la strada tradizionalmente seguita dalla prima letteratura economica sul funzionamento delle democrazie.
La seconda funzione delle elezioni è quella di consentire ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti politici e, in particolare, di punire con la mancata rielezione i rappresentanti politici che si sono comportati male (o perché hanno commesso errori, o perché hanno agito in modo disonesto, o semplicemente perché hanno deluso le aspettative). Questa funzione è centrale in una visione 'liberale' della democrazia, secondo la quale la costituzione politica è un 'contratto incompleto'. I rappresentanti politici sono eletti senza un mandato preciso e le decisioni politiche più rilevanti sono prese una volta al governo, non nel corso della campagna elettorale. Per spiegare le decisioni di politica economica non basta rifarsi alle preferenze degli elettori, occorre anche tener conto della posizione ideologica dei governi in carica e, soprattutto, di come l'insieme delle istituzioni influisca sugli incentivi dei rappresentanti politici. Una letteratura recente ma in rapida crescita segue questa seconda strada per studiare il funzionamento delle democrazie. (Sulla distinzione tra visione populista e visione liberale, v. Riker, 1982).
I capitoli che seguono riassumono brevemente i principali risultati di queste due linee di ricerca. Il cap. 3 si concentra sulla competizione elettorale, mentre nel cap. 4 si analizza il comportamento dei governi in carica, una volta eletti: in entrambi si esaminano le tre tipologie di intervento pubblico, che beneficia molti, pochi o nessuno. Infine, nel cap. 5 si riassume brevemente la letteratura recente che spiega l'emissione di debito pubblico da parte dei governi democratici.
3. La competizione elettorale
La letteratura esistente ha studiato soprattutto la competizione elettorale tra due soli candidati (o partiti politici) e così sarà fatto anche in questo capitolo. I risultati sulla competizione elettorale con più candidati sono meno generali e la derivazione è assai più complessa (v. Osborne, 1995).
Il 'gioco di delega', da cui sono ricavate le conclusioni riportate in questo capitolo, è formulato come segue. In un primo tempo, entrambi i candidati annunciano simultaneamente le loro promesse elettorali: l'obiettivo di ognuno dei due è quello di massimizzare la probabilità di vincere le elezioni. In un secondo tempo, avendo ascoltato le promesse dei due candidati, i cittadini votano: il candidato che ottiene più voti è eletto e attua la politica promessa. L'equilibrio della competizione elettorale è un equilibrio perfetto di Nash del 'gioco di delega' (v. giochi, teoria dei).
a) Il modello dell'elettore mediano
La letteratura ha studiato due tipi di competizione elettorale. Il più semplice e il più noto è il cosiddetto modello dell'elettore mediano, dovuto ad Anthony Downs (v., 1957), in cui i candidati sono identici tra loro e gli elettori votano esclusivamente sulla base delle promesse da essi enunciate. In equilibrio, entrambi i candidati scelgono la politica economica che corrisponde al 'vincitore nel senso di Condorcet', cioè quella che non può essere battuta da nessun'altra in un confronto bilaterale con voto a maggioranza semplice. Se l'equilibrio esiste, esso coincide con la politica economica preferita dall'elettore mediano (cioè dall'elettore che divide esattamente a metà la distribuzione delle preferenze individuali circa la politica economica), da cui il nome 'modello dell'elettore mediano'.
Ma l'esistenza dell'equilibrio è problematica: se non esiste il vincitore nel senso di Condorcet, non esiste neanche l'equilibrio del gioco di competizione elettorale (quanto meno non in strategie pure). E le condizioni per l'esistenza di un vincitore nel senso di Condorcet sono stringenti. Sostanzialmente, occorre che il problema politico sia unidimensionale, o perché la politica economica ha una sola dimensione (ad esempio, la scelta di un'unica aliquota d'imposta), oppure perché gli elettori differiscono tra loro per una sola caratteristica (ad esempio il reddito, oppure la posizione ideologica, destra vs. sinistra; v. Austen-Smith e Banks, 1999).
Si noti che le caratteristiche dell'equilibrio riflettono la distribuzione delle preferenze degli elettori, non l'intensità delle loro preferenze. Elettori con preferenze molto forti influenzano l'equilibrio scelto dai candidati tanto quanto elettori che sono quasi indifferenti. La ragione è che, nel selezionare le promesse elettorali, i candidati calcolano i voti a favore o contro le varie proposte e danno peso esclusivamente alla percentuale dei voti ricevuti da ognuna di queste.
L'equilibrio dell'elettore mediano è stato ampiamente usato dagli economisti per spiegare le caratteristiche dell'intervento pubblico. Una ragione è che, se l'equilibrio esiste, esso riflette le tendenze politiche di fondo di una società. Sebbene quasi nessuno approvi la scelta di equilibrio (tranne l'elettore mediano), tuttavia le opposizioni si bilanciano esattamente: metà elettorato vorrebbe spostare l'equilibrio in una direzione, ma l'altra metà vorrebbe spostarlo nella direzione opposta. Questa situazione di stallo è un riflesso delle preferenze dei cittadini, non delle caratteristiche istituzionali del sistema politico. In questo senso, l'equilibrio dell'elettore mediano assomiglia un po' all'equilibrio walrasiano in un'economia di mercato: una volta raggiunto l'equilibrio, vi sono delle forze fondamentali che impediscono di allontanarvisi. Una seconda ragione della popolarità del modello dell'elettore mediano è la sua semplicità. Per trovare l'equilibrio politico basta calcolare la politica economica preferita dall'elettore mediano. Questa semplicità consente di studiare le determinanti politiche dell'intervento pubblico anche in contesti economici relativamente complessi.
Poiché l'equilibrio dell'elettore mediano esiste se il problema politico è unidimensionale, le sue applicazioni più tipiche riguardano programmi ridistributivi o di intervento pubblico valutati in modo simile da ampi gruppi di cittadini, in cui il conflitto è riconducibile alla generica divisione tra destra e sinistra o, comunque, a poche dimensioni di eterogeneità individuale (che sopra avevamo chiamato 'conflitto tra interessi economici generali').
Un esempio tipico è la ridistribuzione tra ricchi e poveri, come nel modello classico studiato da Meltzer e Richard (v., 1981). Il governo sceglie un'aliquota d'imposta proporzionale al reddito e ne ridistribuisce i proventi in eguale misura tra tutti i cittadini (ovvero finanzia un bene pubblico che arreca lo stesso beneficio a tutti i cittadini, indipendentemente dal reddito). L'imposta scelta in equilibrio è quella preferita dall'elettore con reddito mediano. Poiché il reddito mediano è tipicamente più basso del reddito medio, l'elettore mediano, che non internalizza pienamente i costi della tassazione, generalmente sceglie un'aliquota d'imposta maggiore rispetto a quella ottimale per la collettività nel suo complesso (o più precisamente, rispetto all'aliquota che sarebbe scelta da un governo benevolo e utilitarista che pesi le utilità individuali di tutti i cittadini in rapporto alla loro frequenza nella popolazione). Inoltre, l'aliquota d'imposta scelta in equilibrio è tanto maggiore quanto più grande è la differenza tra il reddito medio e il reddito dell'elettore mediano. Generalizzando, il modello prevede che la dimensione della spesa pubblica sia maggiore nelle democrazie con una distribuzione più diseguale del reddito (nel senso della differenza suddetta tra medio e mediano). Esso prevede anche che l'estensione del suffragio a gruppi più poveri di cittadini si accompagni a un'espansione della spesa pubblica.
Versioni di questo modello sono state applicate anche alla scelta delle dimensioni dei sistemi pensionistici, o a quella delle istituzioni relative al mercato del lavoro (ad esempio, l'indennità di disoccupazione o di licenziamento). Nel caso delle pensioni, il conflitto è tra giovani e anziani, oltre che tra ricchi e poveri. L'invecchiamento della popolazione porta a un'espansione della spesa pensionistica sia perché aumenta il numero dei pensionati, sia perché cresce il numero degli elettori favorevoli a un sistema di ridistribuzione agli anziani. Nel caso del mercato del lavoro, l'elettore mediano è probabilmente un lavoratore con un'occupazione stabile o pressoché sicura; l'equilibrio politico, pertanto, probabilmente sarà connotato da un'assicurazione assai scarsa contro il rischio di disoccupazione (rispetto all'ottimo utilitarista), ma anche da un mercato del lavoro troppo rigido, in cui licenziare è assai costoso per le imprese.
Infine, il modello dell'elettore mediano contiene una previsione semplice per quanto riguarda il conflitto di interessi tra governanti e governati (il cosiddetto 'conflitto di agenzia'). Poiché gli elettori votano esclusivamente sulla base delle politiche annunciate, qualunque candidato che prometta una politica inefficiente dal punto di vista degli elettori è destinato a perdere le elezioni. In equilibrio, pertanto, tutti i candidati si asterranno dal prospettare scelte che avvantaggiano i politici a scapito dei cittadini. Secondo questo modello, cioè, la democrazia consente un controllo efficace contro l'abuso di potere da parte dei politici.
Le prove empiriche a sostegno del modello dell'elettore mediano sono piuttosto ambigue. Da un lato, vi è ampia evidenza che i sistemi impositivi e ridistributivi delle democrazie moderne tendono ad avvantaggiare le classi medie (cioè le classi di reddito cui appartiene l'elettore mediano). Tuttavia, la previsione specifica che una maggiore disuguaglianza del reddito sia associata a una maggiore spesa pubblica non è in genere suffragata dai dati emersi dal confronto tra paesi (v. Lindert, 1996), sebbene sia vero che l'ampliamento del diritto di voto è stato seguito da un'espansione della spesa pubblica (v. Husted e Kenny, 1997). Quanto a pensioni e mercato del lavoro, indagini a campione riferite ad alcuni paesi europei suggeriscono che la maggioranza dei cittadini preferisce sempre lo status quo a qualunque alternativa di riforma, un'altra previsione che appartiene al modello dell'elettore mediano (v. Boeri e altri, 2001).
b) Il voto probabilistico
La non esistenza dell'equilibrio è un problema grave per il modello dell'elettore mediano. Per porvi rimedio, all'inizio degli anni ottanta diversi contributi hanno cercato di generalizzare il modello di competizione elettorale di Anthony Downs (v. Enelow e Hinich, 1982; v. Ledyard, 1984; v. Lindbeck e Weibull, 1987). L'idea centrale è che, dal punto di vista dei candidati, il comportamento degli elettori è incerto (nel modello di Downs invece non vi è incertezza). Un candidato non sa esattamente quanti voti prenderà in funzione delle sue promesse elettorali; egli sa solo che la probabilità di ottenere il voto di un elettore è tanto più alta quanto più la politica da lui promessa appare preferibile rispetto alla politica promessa dal suo concorrente. Questa ipotesi può essere giustificata in diversi modi. Ad esempio, andare a votare può comportare dei costi, sicché la partecipazione al voto è incerta; elettori quasi indifferenti tra le alternative prospettate più probabilmente si asterranno dal voto, mentre quelli che più hanno a cuore l'esito delle elezioni affluiranno numerosi alle urne. Oppure, si può pensare che gli elettori abbiano preferenze intrinseche quanto ai candidati (ad esempio, perché non tutto si può decidere in campagna elettorale), oltre che per le politiche promesse; o che gli elettori che hanno particolarmente a cuore le scelte annunciate in campagna elettorale voteranno più probabilmente in base alle promesse piuttosto che all'identità dei candidati.
Quale che sia l'interpretazione data, la conseguenza di questa ipotesi è che ora viene a contare anche l'intensità delle preferenze degli elettori, non solo la loro distribuzione. Elettori con preferenze più marcate hanno maggiori probabilità di ricompensare con il proprio voto promesse elettorali a loro favorevoli. Essi pertanto riceveranno più attenzione da parte di entrambi i candidati, rispetto agli elettori più indifferenti. Ciò è auspicabile, in quanto avvicina l'esito della competizione elettorale alla politica socialmente ottima. Infatti, se il comportamento politico dei cittadini è sufficientemente simmetrico, nel senso che tutti i gruppi di elettori si comportano più o meno allo stesso modo, allora l'equilibrio della competizione elettorale coincide con l'ottimo utilitarista.
Più precisamente, l'equilibrio dei modelli con voto probabilistico può essere calcolato come la soluzione di un problema di ottimo sociale, in cui si pesa ogni individuo in rapporto alla sua 'mobilità elettorale', cioè alla probabilità che egli ricompensi i favori elettorali con il suo voto. Se tutti gli individui sono egualmente 'mobili' tra i due candidati, allora si ottiene l'ottimo utilitarista. Se invece alcuni gruppi o alcuni individui hanno minori probabilità di astenersi dal voto, oppure se hanno preferenze più decise per le politiche promesse, piuttosto che per le qualità intrinseche dei candidati, costoro saranno anche più 'mobili', e pertanto tenderanno maggiormente a ricompensare favori elettorali con il loro voto. Questi gruppi o individui saranno quindi politicamente più influenti e verrà dato loro più peso nella competizione elettorale.
Intuitivamente, in equilibrio entrambi i candidati indirizzano le promesse elettorali verso i gruppi più mobili, più attivi politicamente, ma anche meno fedeli e più facilmente conquistabili con promesse elettorali. Un piccolo cambiamento apportato a un'ipotesi apparentemente neutra circa il comportamento degli elettori ha portato a conclusioni profondamente diverse rispetto al modello di Downs, in cui l'unica cosa che conta è la posizione dell'elettore mediano.
Rispetto al modello dell'elettore mediano, questo modello di competizione elettorale - che è stato impiegato più raramente per spiegare l'intervento pubblico in economia, forse perché fino a poco tempo fa era poco noto agli economisti - ha il vantaggio che l'equilibrio esiste sempre, anche quando non esiste un vincitore nel senso di Condorcet; pertanto, può essere utilizzato per studiare politiche economiche multidimensionali, che inducono un conflitto tra 'interessi economici particolari', come, ad esempio, la concessione di favori a gruppi anche piccoli ma influenti. Secondo questo modello, l'influenza politica di un gruppo è data, appunto, dalla mobilità dei suoi elettori, e fra costoro quelli anziani sono più influenti di quelli giovani perché partecipano più massicciamente al voto (come è documentato), oppure perché, rispetto ai giovani, sono ideologicamente meno attaccati a un determinato partito politico.
Ma cosa determina la mobilità politica di un gruppo? Qui l'analisi economica non ha molto da dire. Un'idea plausibile è che gli elettori più mobili siano generalmente i più informati: se un elettore è poco informato, come può venire a conoscenza delle promesse elettorali fatte dai candidati? Alcune recenti ricerche empiriche effettivamente suggeriscono che i gruppi più informati sono anche quelli politicamente più influenti (v. Strömberg, 1998). Ma molta strada resta ancora da fare per capire da cosa dipenda questa importante caratteristica del comportamento degli elettori.
L'idea che gli elettori non siano tutti uguali e che alcuni siano più influenti degli altri, perché più mobili o politicamente più attivi, ha conseguenze importanti per il funzionamento di una democrazia. Ovviamente, gli elettori più influenti saranno favoriti dai programmi ridistributivi. Ma vi è una seconda conseguenza, meno ovvia. La competizione elettorale è associata a una deformazione sistematica: i candidati alle elezioni preferiscono destinare risorse a programmi ridistributivi che avvantaggiano solo i gruppi più influenti, piuttosto che a beni pubblici che arrecano uguali benefici a tutti.
Detto altrimenti, la democrazia ha una tendenza a ridistribuire troppo e a spendere troppo poco in beni pubblici universali (quali la giustizia, la difesa, la tutela dell'ordine pubblico). La ragione è che i soldi spesi in beni pubblici sono sprecati, dal punto di vista dei candidati politici. Per vincere le elezioni, un candidato ha bisogno di ottenere poco più del 50° dei voti. Lo strumento efficace per raggiungere questo scopo è favorire gli elettori più influenti, non spendere in beni pubblici che danno benefici a tutti, inclusi gli elettori meno mobili.
Questa deformazione è più marcata in un sistema elettorale maggioritario che in uno proporzionale. Con una legge elettorale maggioritaria, un candidato può vincere le elezioni con il consenso di meno del 50° degli elettori. L'incentivo a indirizzare la ridistribuzione verso gli elettori più influenti (e in particolare verso i distretti elettorali marginali e cruciali per la vittoria), a scapito della spesa in beni pubblici universali, è ancora più forte che non in un sistema elettorale proporzionale (per una discussione più approfondita in merito, v. Persson e Tabellini, 2000).
Infine, rispetto al modello di Downs, questo modello di competizione elettorale porta a conclusioni meno ottimistiche circa il 'conflitto d'agenzia'. Poiché i candidati sono incerti circa le conseguenze elettorali delle loro promesse, resta ampio spazio per l'abuso di potere. Un candidato che annunci una politica economica più contraria all'interesse di tutti gli elettori di quella prospettata dal suo concorrente non è sicuro di perdere le elezioni (anche se è sicuro di perdere voti rispetto al caso in cui annunci la stessa politica). Infatti, l'esito delle elezioni rimane incerto. Questa incertezza riduce gli incentivi dei candidati ad annunciare politiche consone all'interesse generale e implica che in equilibrio possa esservi abuso di potere da parte di entrambi, anche in presenza di un'accesa competizione elettorale.
c) Gruppi di pressione e finanziamenti alla campagna elettorale
L'influenza politica di un gruppo economico non dipende solo dalla sua partecipazione al voto o dalla sua mobilità elettorale da un partito all'altro. Un altro fattore cruciale è l'abilità del gruppo a organizzarsi per esercitare pressioni politiche, ad esempio con manifestazioni pubbliche a sostegno di un candidato o di un partito; oppure con finanziamenti alla campagna elettorale o interventi sui mezzi di informazione, o ancora con donazioni illecite o veri e propri atti di corruzione. Molte di queste forme di partecipazione politica diversa dal voto sono state analizzate dalla letteratura recente (tra i primi studi sull'influenza dei gruppi di pressione, v. Schattschneider, 1935; v. Olson, 1965; per la letteratura più recente, v. Grossman e Helpman, 2001).
Il caso più studiato è quello dei finanziamenti alla campagna elettorale dei candidati. Si consideri il modello di voto probabilistico descritto nel paragrafo precedente, ma si supponga che alcuni gruppi economici siano organizzati e in grado di finanziare la campagna elettorale dei candidati. Specificamente, si supponga che l'entità e la ripartizione dei finanziamenti elettorali siano decise dai gruppi organizzati dopo aver ascoltato le promesse dei candidati, ma prima del voto. L'effetto dei finanziamenti è quello di aumentare la popolarità relativa (e quindi la percentuale di voti) del candidato che ne ha ricevuti in maggior misura. Data la sequenza di eventi, entrambi i candidati avranno ora interesse a promettere favori politici ai gruppi organizzati per attrarre più finanziamenti. La politica economica di equilibrio può di nuovo essere calcolata come la soluzione di un problema di ottimo sociale modificato, in cui ai gruppi di pressione si assegna più peso che al resto della popolazione.
Anche in questo caso, quindi, come nella versione più semplice del modello con voto probabilistico, ciò che conta sono le asimmetrie: se tutti i gruppi economici sono organizzati e in grado di finanziare la campagna elettorale dei candidati, l'equilibrio raggiunge l'ottimo utilitarista e i finanziamenti sono irrilevanti perché l'azione di un gruppo vanifica l'azione di quelli contrapposti. Ma se solo alcuni gruppi economici sono organizzati, ciò li rende più influenti dei cittadini non organizzati. Le conclusioni sono le stesse se il gruppo esercita pressione in altro modo, ad esempio con donazioni e 'bustarelle' incassate dai rappresentanti politici.
Si noti che, sebbene i gruppi organizzati siano trattati meglio dei gruppi non organizzati, nel caso in esame (gruppi di interesse che finanziano la campagna elettorale) nessun finanziamento viene elargito in equilibrio. La ragione è che entrambi i candidati promettono gli stessi favori ai gruppi organizzati, sicché questi sono indifferenti circa l'esito delle elezioni. Ciò che conta, cioè, è l'ipotetica possibilità di esercitare pressioni politiche (nel caso specifico col finanziare la campagna elettorale), ma non necessariamente queste pressioni devono tradursi in atti concreti per influenzare l'esito politico. È sufficiente che la minaccia sia attendibile.
L'influenza politica di gruppi di pressione organizzati è più probabilmente rilevante quando la politica economica crea conflitti tra interessi particolari. Molte decisioni di politica economica arrecano a pochi e ben identificati gruppi economici benefici sostanziosi, i cui costi ricadono sulla collettività in generale. Esempi tipici sono la protezione commerciale, oppure i sussidi a particolari imprese o settori produttivi. In questo caso, i gruppi beneficiari hanno un forte incentivo a organizzarsi per esercitare pressioni politiche, perché per loro la questione è di vitale importanza. Al contrario, la maggioranza che sostiene i costi ha un incentivo a organizzarsi assai inferiore, perché questi sono ripartiti tra tanti individui. Questa asimmetria tra benefici concentrati e costi diffusi induce una naturale asimmetria nei meccanismi di partecipazione politica, con alcuni gruppi di interesse efficacemente organizzati e politicamente attivi, e altri cittadini non organizzati e quindi assai meno influenti.
4. La politica dei governi
Per quanto importanti siano le promesse elettorali, molte decisioni politiche sono prese dai governi e dai parlamenti una volta che sono stati eletti. Anche in questo caso le decisioni vengono prese con un occhio alle elezioni successive, ma poiché non si tratta di fare mere promesse elettorali, bensì di scegliere fra interventi specifici diversi, entrano in gioco anche altre considerazioni e altre determinanti. Inoltre, l'opposizione ha un ruolo più passivo e assai meno simmetrico che in campagna elettorale.
In questo capitolo si propone una sintesi della letteratura recente che ha studiato le determinanti dell'intervento pubblico in questo contesto. Rispetto ai modelli di competizione elettorale discussi nel cap. 3, l'approccio risulterà un po' meno sistematico e varierà a seconda del problema in esame.
a) Il controllo degli elettori sull'operato dei governi
Si consideri, per semplicità, una situazione di puro 'conflitto di agenzia': gli elettori sono unanimi nel valutare la politica economica e il governo è pronto ad agire in modo contrario all'interesse generale (ad esempio, appropriandosi di risorse pubbliche tramite forme di corruzione, oppure non impegnandosi sufficientemente a tutela del bene pubblico). Sempre per semplicità, si supponga che il governo sia un attore unitario (un presidente con poteri esecutivi, come negli Stati Uniti, oppure un primo ministro a capo di un partito che ha la maggioranza assoluta in parlamento). In che misura gli elettori possono costringere il governo in carica a operare secondo l'interesse generale, facendo leva esclusivamente sulle elezioni come strumento di controllo? Una letteratura recente ha cercato di rispondere a questo interrogativo, esplorando due strade alternative.
Una prima strada è quella seguita da John A. Ferejohn (v., 1986) e successivamente da altri. Il problema degli elettori è descritto come controllo 'dell'azzardo morale' in un rapporto mandante-agente. Il governo intraprende un'azione che gli arreca un utile, ma danneggia gli elettori; gli elettori guardano alla loro utilità (possono considerare o meno l'azione del governo, a seconda dei casi) e votano alle elezioni; essi possono rieleggere il governo in carica, oppure votare per l'opposizione. Poiché il governo vuole essere rieletto, gli elettori possono disciplinarne l'azione, ma solo entro certi limiti. Essi possono credibilmente punire un governo che si è comportato male (cioè che ha intrapreso un'azione contraria all'interesse generale) cacciandolo e votando per l'opposizione. Questa minaccia induce il governo in carica a rispettare la volontà degli elettori, almeno entro certi limiti. Ma il controllo elettorale è imperfetto: la punizione che gli elettori possono infliggere ai governi è limitata alla sconfitta elettorale. Vi possono pertanto essere delle situazioni in cui l'uomo politico al governo preferisce approfittare della sua posizione di potere per trarne beneficio personale, anche se questo può costargli la sconfitta elettorale.
Questo tipo di analisi aiuta a identificare le caratteristiche istituzionali e politiche che possono rendere più o meno efficace il controllo degli elettori sui governi. L'efficacia del controllo elettorale è rinforzata dai seguenti fattori: dall'informazione a disposizione degli elettori; da un buon sistema di separazione dei poteri che limita la sfera d'azione del governo; dall'abitudine degli elettori a votare sulla base di indicatori aggregati di performance dei governi, anziché sulla base di indicatori ridistributivi; dall'assenza di collusione tra maggioranza e opposizione.
Una seconda strada per studiare l'effetto delle elezioni sul comportamento dei governi è suggerita dalla teoria dell'impresa. Qui il meccanismo incentivante è la 'selezione avversa', anziché l'azzardo morale. Studiando il comportamento dei direttori di impresa, Bengt Holmström (v., 1982) ha mostrato che il desiderio di apparire competente nel proprio lavoro per ottenere altri incarichi remunerativi (per la 'continuazione della carriera') è una determinante cruciale degli sforzi individuali. Lo stesso meccanismo può rappresentare una molla importante per i ministri di un governo o i burocrati di un'amministrazione pubblica. Torsten Persson e Guido Tabellini (v., 2000) hanno adattato il modello di Holmström a un contesto elettorale. Gli elettori vogliono rieleggere i governi competenti, e mandare via quelli incompetenti, per ovvie ragioni. La competenza o incompetenza di un uomo politico è una qualità intrinseca ignota sia a lui medesimo che agli elettori (si può supporre, ad esempio, che la competenza o il talento si definiscano anche in relazione alle sfide che i governi devono affrontare, e che queste non siano note in anticipo). Per apparire competente, il politico cercherà di accontentare gli elettori, mettendo impegno nel suo lavoro e astenendosi da azioni contrarie all'interesse generale. Gli elettori valutano l'utilità tratta dall'azione di governo (o utilizzano qualche indicatore generale di efficienza dell'azione governativa) e rieleggono i governi che hanno agito bene o, al contrario, puniscono quelli che hanno agito male. Diversamente da quanto accade nel caso dell'azzardo morale, il comportamento degli elettori non è motivato dal desiderio di punire o premiare l'azione del governo, bensì da quello di selezionare i governi intrinsecamente migliori. Ma dal punto di vista degli incentivi per il governo in carica, l'effetto è analogo.
L'idea che le elezioni rinforzino gli incentivi dei governi ad apparire competenti agli occhi dei cittadini è alla base dell'ampia letteratura sul ciclo economico-politico. Per essere rieletti, i governi devono apparire competenti, soprattutto poco prima delle elezioni. Ma se gli elettori non sono pienamente e tempestivamente informati del loro operato, l'apparenza può contare più della sostanza. Ad esempio, per stimolare l'economia e apparire competente, un governo può essere indotto a ridurre le imposte in prossimità delle elezioni, o a procrastinare tagli di spesa fino a dopo le elezioni. Col senno di poi, questi stimoli artificiali sono inefficienti perché alterano l'andamento dell'economia; ma al momento delle elezioni, anche elettori razionali possono premiare stimoli siffatti non per scelta deliberata, ma magari perché basano il loro voto su indicatori aggregati, per quanto imperfetti, di efficienza economica. Si è empiricamente riscontrato nella politica fiscale dei governi che il ciclo elettorale assume dimensioni rilevanti: in un ampio campione di paesi democratici, infatti, si è visto che, rispetto agli altri anni, nell'anno in cui si svolgono le elezioni il disavanzo fiscale sale in media di mezzo punto percentuale, prevalentemente per via dei tagli alle imposte.
b) Istituzioni politiche e politica economica
Le elezioni politiche non sono l'unica istituzione che influisce sulle scelte dei governi in carica; anche quelle che regolano le procedure legislative e che disciplinano la formazione o lo scioglimento dei governi hanno un ruolo cruciale.
Diversi studi hanno sottolineato l'importanza del potere di iniziativa legislativa (v. Romer e Rosenthal, 1978; v. Baron e Ferejohn, 1989). I parlamenti democratici decidono a maggioranza semplice o qualificata generalmente dopo un confronto tra lo status quo e una proposta alternativa. Chi ha il potere di proporre tale alternativa o di stabilire l'ordine delle votazioni nel caso in cui vi siano più proposte, esercita una forte influenza sulle decisioni collettive della legislatura. I regimi democratici disciplinano questi poteri in maniera diversa: in quelli presidenziali, ad esempio negli Stati Uniti, il potere di iniziativa legislativa è in gran parte una prerogativa delle commissioni congressuali; in quelli parlamentari, invece, tale potere appartiene tipicamente ai governi. Ma esistono differenze rilevanti anche all'interno delle forme di governo parlamentare. Ad esempio, nel Regno Unito il ministro del Tesoro ha forti poteri in merito alla legge di bilancio, che il parlamento può approvare o rifiutare ma non emendare. In altri paesi, tra cui l'Italia, il parlamento può apportare emendamenti significativi e il potere di proposta del governo riguardo alla legge di bilancio è più debole.
Dai confronti tra le democrazie parlamentari è emerso che là dove i poteri di iniziativa del governo (e in particolare del ministro del Tesoro) sulla legge di bilancio sono più forti, la spesa pubblica e il disavanzo fiscale sono tendenzialmente più bassi (v. von Hagen e Harden, 1994). Questo risultato è in linea con le previsioni teoriche. Il ministro del Tesoro (o il primo ministro) tende ad avere una visione unitaria dell'azione di governo e a imporre il rispetto del vincolo di bilancio. Il comportamento collettivo del parlamento, invece, è più facilmente influenzabile da gruppi di pressione e da interessi particolari. Il singolo parlamentare è motivato a proporre una spesa maggiore nella voce che va direttamente a beneficiare i suoi sostenitori, senza preoccuparsi troppo del costo finanziario che ricade sull'intera collettività. Se il potere di iniziativa non è concentrato nel governo, è più probabile che l'esito complessivo sia una politica fiscale poco disciplinata.
Altri studi hanno sottolineato l'importanza della distinzione tra forme di governo parlamentari e forme di governo presidenziali. In un regime parlamentare, una crisi di governo ha l'effetto di trasferire tutti i poteri di cui godeva la vecchia coalizione di maggioranza alla coalizione che sostiene il nuovo governo. In un regime presidenziale, invece, i poteri esecutivo e legislativo sono attribuiti al governo e alle commissioni congressuali per tutta la durata della legislatura. Questa differenza fa sì che la condotta delle coalizioni legislative, nelle democrazie parlamentari, sia molto più cauta, dal momento che eventuali rotture interne porterebbero alla crisi di governo e, di conseguenza, alla formazione di un nuovo (e diverso) esecutivo. In un regime presidenziale, anche se la coalizione si rompe, non vengono rassegnati i poteri; in un regime parlamentare, invece, la minaccia della crisi di governo costringe la coalizione a votare compatta. Studi teorici e ricerche empiriche hanno messo in luce che queste differenze tra forme di governo sono rilevanti per la politica fiscale. I regimi parlamentari tendono ad avere una spesa pubblica maggiore e più indirizzata verso programmi che beneficiano ampi gruppi di cittadini (come i programmi ridistributivi tipici dello Stato sociale o i beni pubblici universali), rispetto ai regimi presidenziali (v. Persson e altri, 2000; v. Persson e Tabellini, 2003).
Nonostante questi recenti contributi, si sa ancora poco circa l'effetto delle istituzioni politiche sull'intervento pubblico e sulla politica economica. Naturalmente, la scienza politica ha da tempo studiato e confrontato le diverse istituzioni politiche. Ma la ricerca dei politologi si è generalmente soffermata sugli effetti politici delle costituzioni: l'effetto delle leggi elettorali sulla struttura dei partiti o sulla stabilità dei governi, l'effetto delle varie forme di governo sulla stabilità politica, e così via. L'analisi economica delle istituzioni politiche, e soprattutto dei loro effetti economici, è un campo d'indagine ancora abbondantemente da esplorare. Solo in alcuni studi recenti è stato esaminato l'effetto delle leggi elettorali sulle scelte di politica economica, mettendo a confronto sistemi proporzionali e sistemi maggioritari (v. Persson e Tabellini, 2003).
5. Miopia collettiva e razionalità individuale
Le teorie esposte nei capitoli precedenti sono sostanzialmente statiche, nel senso che non si stabilisce alcun legame tra gli strumenti di intervento pubblico di un dato momento e quanto avviene nel periodo successivo (essi non riguardano cioè una variabile di stato). Eppure, gli aspetti intertemporali hanno un ruolo cruciale in molte decisioni di politica economica, se non altro perché il debito pubblico accumulato in passato vincola gli indirizzi futuri. Quali variabili influiscono sulle scelte intertemporali dei governi e in particolare sulla dimensione del disavanzo fiscale? Diversi contributi teorici hanno cercato di rispondere a questa domanda, sottolineando l'importanza dell'interazione tra le istituzioni politiche da una parte e il conflitto tra interessi particolari dall'altra. Sebbene pongano l'accento su meccanismi politici diversi, tutti questi contributi spiegano perché il conflitto tra attori politici perfettamente razionali e lungimiranti possa sfociare in una politica fiscale miope e in scelte intertemporali inefficienti.
Una prima idea è che il disavanzo fiscale sia tendenzialmente più grande nei regimi in cui il potere politico è più disperso (come avviene con i governi di coalizione) o nei paesi in cui i gruppi di interesse organizzati sono particolarmente influenti e le procedure di bilancio poco gerarchiche (v. Velasco, 1999). In questo caso, il disavanzo fiscale riflette la difficoltà di imporre il rispetto del vincolo di bilancio a una moltitudine di decisioni di spesa prese in sedi decentrate, più che una precisa e consapevole volontà politica di indebitarsi. Supponiamo che la spesa pubblica sia ispirata a un criterio ridistributivo tra gruppi di interesse particolari, e ipotizziamo una procedura di bilancio debole. In particolare, si supponga che le decisioni di spesa siano decentrate (ad esempio, siano demandate ai ministri di un governo di coalizione), e che il finanziamento della spesa sia invece centralizzato ma residuale (cioè determinato a posteriori, una volta che siano note le decisioni di spesa). In questo caso, il diritto di attingere al gettito fiscale corrente e futuro non è ben definito. Pertanto, tutti gli attori pubblici che hanno potere di spesa hanno un incentivo ad anticipare le spese e a comportarsi in modo apparentemente miope, per appropriarsi di più risorse. Detto altrimenti, essi si rendono conto che le spese sono insostenibili e le anticipano proprio per far cadere i tagli futuri sulle spese altrui piuttosto che sulle proprie. Il disavanzo fiscale riflette quindi l'interazione tra il conflitto di interessi economici particolari e una particolare istituzione politica (una procedura di bilancio decentrata e poco gerarchica).
Non è detto, tuttavia, che il rimedio sia semplicemente quello di cambiare e rinforzare la procedura di bilancio, come emerge da una seconda linea di ricerca che spiega l'eccessiva accumulazione di debito in relazione all'instabilità politica, piuttosto che alla dispersione dei poteri all'interno di un governo di coalizione (v. Persson e Svensson, 1989; v. Alesina e Tabellini, 1990). Supponiamo, infatti, che continui a esservi conflitto di interessi particolari su come allocare la spesa pubblica, ma immaginiamo di rinforzare la procedura di bilancio e il sistema politico, in modo che la spesa e il suo finanziamento siano decisi da un attore unitario e lungimirante (ad esempio, da un governo sostenuto da un unico partito che ha la maggioranza in parlamento). Se il governo in carica si aspetta di essere rieletto, allora non ha ragione di indebitarsi; ma se ritiene, essendo l'esito elettorale incerto, che sarà sostituito da un governo con tendenze politiche diverse, allora l'emissione di debito pubblico può essere una strategia ottimale perché i costi dei futuri tagli di spesa non sono da esso pienamente internalizzati. Intuitivamente, l'emissione di debito è uno strumento con cui si influenzano le decisioni dei governi successivi. Se il disaccordo tra i governi che si succedono riguarda la composizione della spesa (e quindi vi è conflitto tra interessi particolari), allora tutti i governi avranno la tendenza a emettere troppo debito rispetto alla politica efficiente (tanto più quanto maggiore è l'instabilità politica); se invece il disaccordo riguarda la dimensione complessiva della spesa pubblica, allora i governi 'di destra' tenderanno a indebitarsi troppo, per costringere eventuali loro successori 'di sinistra' a tagliare la spesa, mentre i governi 'di sinistra' si comporteranno in maniera opposta, cioè accumuleranno eccedenze fiscali troppo grandi dal punto di vista dell'efficienza economica.
Infine, una terza linea di ricerca ha cercato di spiegare l'indebitamento pubblico (e in particolare il permanere di situazioni di finanza pubblica insostenibili) correlandolo all'incapacità di decidere, piuttosto che a decisioni consapevoli ed esplicite (v. Alesina e Drazen, 1991). In altre parole, si ritiene che in certi regimi democratici troppi attori politici abbiano diritto di veto. Di nuovo, un riferimento possibile è ai governi di coalizione, ma si può anche pensare che il diritto di veto sia associato al potere di gruppi di pressione o a un conflitto sociale troppo esasperato che impedisce decisioni collettive. In questi casi, se la situazione economica è favorevole e lo status quo è sostenibile, non vi è alcun problema di debito pubblico. Ma se la situazione economica peggiora, o se lo status quo diventa insostenibile, allora gli attori politici dotati di potere di veto iniziano una vera e propria 'guerra di logoramento' su chi deve sopportare i costi dei tagli di spesa o degli aumenti fiscali. Fino a quando dura questo conflitto politico, lo status quo non può essere cambiato e il paese continua ad accumulare debito con ulteriore grave danno.
6. Osservazioni conclusive
L'analisi economica dell'intervento pubblico è un campo di ricerca in rapida espansione sia in economia che in scienze politiche. Ormai ben pochi economisti prendono sul serio il paradigma del governo 'dittatore benevolo'; lo studio della fattibilità politica delle riforme, dei vincoli e degli incentivi politici dei governi è diventato parte integrante dell'economia pubblica e della teoria della politica economica. L'economia è una scienza sociale 'imperialista' e l'analisi economica del funzionamento delle democrazie è ormai ampiamente diffusa anche tra i politologi. Ma gli scambi tra discipline vanno in entrambe le direzioni, e stiamo assistendo a una rapida integrazione di due tradizioni di ricerca, in economia e scienze politiche, che fino a non molto tempo fa erano distanti e separate.
Questo non vuol dire che la teoria e l'analisi empirica abbiano dato risposte esaurienti alle domande più pressanti circa le determinanti dell'intervento pubblico in economia. Al contrario, questo campo di ricerca è giovane e molto resta ancora da fare. Ma i problemi aperti sono tra i più interessanti e rilevanti nelle scienze sociali, e vi è una concreta e fondata speranza che i progressi al riguardo possano essere rapidi.
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