ECONOMIA E SOCIETÀ
di Richard Swedberg
Intorno al 1800 il concetto di 'economia' divenne estremamente importante nell'ambito della riflessione teorica in Occidente e acquisì anche un nuovo significato. Dopo aver a lungo denotato più che altro la gestione degli affari domestici (οἰϰονομία), il termine 'economia' cominciò a essere usato anche per indicare una parte della società. Questo mutamento concettuale dipese da una pluralità di ragioni. Proprio in quel periodo, per esempio, grazie all'apporto di Adam Smith e di altri studiosi, nacque la scienza economica moderna. Contemporaneamente prese l'avvio anche il processo di industrializzazione, prima in Inghilterra e poi nel resto dell'Europa e negli Stati Uniti. Nella società sempre più secolarizzata che cominciava a emergere si scatenò ben presto un vivace dibattito su quale fosse il ruolo che questo nuovo settore - l'economia, appunto - era chiamato a svolgere nella società. Secondo alcuni il settore economico doveva essere lasciato completamente libero e la società non doveva mai limitarne l'azione. Altri, invece, erano dell'avviso che l'economia dovesse essere subordinata alla società e/o allo Stato. In questo articolo tratteremo solo occasionalmente degli aspetti direttamente politici di questo dibattito, anche se bisogna comunque tener presente che il dibattito sui rapporti tra economia e società - che vi partecipino uomini politici o sociologi - comporta spesso una componente ideologica. Il problema che affronteremo, però, è un altro: in che modo va inteso il rapporto tra economia e società dal punto di vista delle scienze sociali? La risposta a questa domanda verrà data contestualmente alla presentazione delle diverse tesi che economisti e sociologi hanno avanzato in proposito dalla fine del secolo XVIII ai giorni nostri.
Nelle scienze sociali il dibattito su economia e società è ruotato essenzialmente attorno a tre posizioni principali. Secondo la prima l'economia costituisce un universo a sé nella società e può essere analizzata soltanto in termini puramente economici o non sociali. La società è considerata estranea all'ambito economico e, al massimo, riveste per l'economista un interesse puramente marginale. Poiché esclude completamente l'analisi di tipo sociale, questa posizione non verrà analizzata dettagliatamente nel presente articolo (per una sua esposizione esauriente cfr., per esempio, Mark Blaug, Economic theory in retrospect, 1978). Per la seconda posizione l'economia è una parte integrante della società e funziona come il resto della società. Pochi studiosi hanno sostenuto questo punto di vista con convinzione, perché esso implica, in definitiva, un totale rifiuto dell'analisi economica standard. Alcuni studiosi, tuttavia, condividono questo punto di vista proprio perché esso si contrappone in modo radicale alla teoria economica dominante. Il terzo punto di vista, infine, vanta un maggior numero di aderenti, in quanto è meno estremistico; secondo questo punto di vista, le parti più importanti dell'economia dovrebbero essere studiate servendosi dei normali strumenti (non sociali) del pensiero economico, ma, dato che all'interno del settore economico vi sono anche istituzioni sociali, queste andrebbero analizzate in termini più sociologici. Molti economisti e altri esponenti delle scienze sociali hanno oscillato tra queste diverse posizioni, anche all'interno di un medesimo lavoro. Tuttavia, per ragioni di chiarezza, tali posizioni vanno tenute separate e così il lettore potrà tenerle presenti nel corso di questo articolo.
Si è spesso osservato che i primi economisti - gli esponenti dell''economia politica' - erano molto interessati alle istituzioni sociali e al comportamento sociale. È un'osservazione sostanzialmente giusta, ma bisognerebbe aggiungere immediatamente che la tendenza a considerare l'economia e la società come due sfere distinte era già presente nelle prime teorie economiche. Ciò è vero non soltanto per Ricardo o per John Stuart Mill, ma anche per Adam Smith. L'unico pensatore che abbia davvero cercato di fondere l'analisi dell'economia con quella della società è stato Karl Marx, che, però, intrecciò i due ambiti in un modo troppo stretto, dando origine a una serie di nuovi problemi (v. sotto). Quando, durante la prima metà del nostro secolo, la separazione tra teoria economica e teoria della società raggiunse il suo culmine, l'economia era considerata un settore autonomo e distinto della società, soggetto a leggi proprie; inoltre, dato che le categorie della teoria economica erano considerate atemporali e universalmente valide, non si vedeva la necessità di introdurre dati storici nell'analisi economica. L'immagine dell'economia presentata nella Ricchezza delle nazioni (1776) è invece completamente diversa: innanzitutto, in quest'opera, l'economia è considerata parte integrante della società. Probabilmente il motivo principale di questa concezione sta nel fatto che, per Smith, l'economia politica era una disciplina 'pratica', cioè destinata, in primo luogo, a essere concretamente utilizzata dagli uomini di Stato e dai legislatori. Secondo Smith, quando si parla di economia, si intende sempre l'economia di una nazione in particolare. Diversamente da molti altri economisti successivi, inoltre, Smith aveva un vivo senso della storia e spesso nelle sue analisi osserva come le stesse cose vengano fatte in un certo modo in Inghilterra e in modo diverso in altri paesi. Smith sottolinea continuamente il ruolo delle 'istituzioni' nell'economia e parla spesso dei 'costumi' e dei 'caratteri' delle persone, facendo così ricorso a categorie eminentemente sociali. È chiaro, comunque, che anche per Smith l'economia costituisce, fino a un certo punto, una realtà a sé stante, extrasociale. Questo punto di vista emerge con particolare chiarezza quando egli parla della propensione naturale degli uomini al "traffico, al baratto e allo scambio" (v. Smith, 1776). Invece di concepire le attività di scambio e affini come diverse forme di comportamento sociale (come avrebbero fatto più tardi sociologi e antropologi), Smith le considera caratteristiche biologiche. La tendenza allo scambio, al baratto, ecc. è - sostiene Smith - ciò che distingue l'uomo dagli animali. Tale tendenza diventa addirittura il motore della società, il fattore che permette alla società di passare da uno stadio al successivo della sua evoluzione. Anche le considerazioni svolte nella Ricchezza delle nazioni circa il fatto che le "istituzioni" spesso sopprimono le "inclinazioni naturali" delle persone, traggono origine da questa concezione 'biologica' dell'azione economica.
La tendenza a separare il comportamento economico dalle altre forme di comportamento sociale è ancor più accentuata nella successiva opera fondamentale dell'economia politica, i Principles of political economy and taxation (1817) di David Ricardo. Il tono dell'opera di Ricardo è molto diverso da quello della Ricchezza delle nazioni: i riferimenti alla storia e ad altri paesi sono estremamente rari; l'intera analisi segue piuttosto un'impostazione astorica e atemporale, ed è chiaro che l'ambizione di Ricardo era proprio quella di formulare un insieme di teoremi economici universalmente validi, indipendentemente dalle variabili di tempo e di spazio.Il modo di procedere di Ricardo, altamente astratto e del tutto indipendente da considerazioni di ordine sociale, è ben illustrato dalla sua celebre analisi del commercio estero. Ricardo presenta il suo tipo di analisi nel modo seguente: "Per semplificare il problema ho fatto l'ipotesi che il commercio tra due paesi sia limitato a due sole merci" (v. Ricardo, 1817). Nell'esempio di Ricardo i due paesi erano l'Inghilterra e il Portogallo e le due merci panno e vino, ma il discorso sarebbe stato egualmente valido per qualsiasi altra coppia di paesi e di merci. La società non viene presa in considerazione nell'ambito dell'analisi principale: essa compare soltanto come fattore esogeno, alla stregua della guerra, per esempio. L'idea di fondo è, quindi, quella di trattare l'economia come un'area autonoma e autosufficiente, circondata da varie istituzioni sociali cui non viene dedicata molta attenzione.
Anche a proposito degli elementi sociali presenti nell'economia Ricardo si discosta da Smith. Dopo aver sottolineato che per il Portogallo è vantaggioso, in certe circostanze, importare panno dall'Inghilterra (anche se produrre abiti direttamente in Portogallo costa di meno), Ricardo osserva, incidentalmente, che, se tutto funzionasse secondo le regole dell'economia politica, dovrebbe verificarsi un trasferimento di capitali dall'Inghilterra al Portogallo. Ciò, viceversa, non accade: gli imprenditori inglesi preferiscono un tasso di profitto più basso in Inghilterra a quello più alto che potrebbero realizzare in Portogallo. Per Ricardo le ragioni di questo particolare comportamento sono tutte di natura sociale: i capitalisti inglesi non vogliono abbandonare il proprio paese; essi hanno in Inghilterra tutte le proprie 'conoscenze' e le loro abitudini sono già fissate (v. Ricardo, 1817). Ciò che questo esempio sui capitalisti inglesi dimostra, comunque, è che Ricardo tende a considerare il comportamento sociale come un fattore che impedisce all'economia di funzionare efficientemente come dovrebbe. Questo ci riconduce a una delle posizioni standard nel dibattito su economia e società, e cioè alla tesi secondo cui per comprendere nel modo migliore il comportamento economico è necessario eliminarne la dimensione sociale.
Anche nella successiva grande opera dell'economia politica inglese - i Principles of political economy (1848) di John Stuart Mill - si riscontra una separazione fra economia e società. A prima vista il lettore può avere l'impressione di essere tornato indietro ai tempi di Adam Smith, poiché Mill inizia la sua esposizione in modo simile a Smith con una storia del genere umano, e fa diversi riferimenti alle usanze economiche di altri paesi. Ma si capisce presto che questa somiglianza è più apparente che reale. L'economia politica, secondo Mill, deve occuparsi della produzione della ricchezza, lungo un processo che si articola in due parti: la produzione vera e propria e la distribuzione. La prima è governata da leggi che hanno "il carattere di verità fisiche" (v. Mill, 1848). Gli individui sono costretti a obbedire a tali leggi, "che lo vogliano o meno". Le leggi della distribuzione, invece, sono diverse, poiché "dipendono dalle leggi del costume e della società". Si tratta dunque di leggi di ordine sociale e in linea di principio possono essere modificate, anche se non in modo arbitrario.La sezione sulla proprietà, nei Principles, contiene la più ampia analisi di un'istituzione economica mai condotta da Mill. La proprietà, secondo Mill, rientra nell'ambito della distribuzione della ricchezza e ha pertanto natura sociale; ma anziché cercare di studiare in che modo 'le leggi e i costumi' di un dato paese abbiano influenzato e modellato l'istituzione della proprietà, Mill si perde in una lunga disamina dei diversi progetti politici per modificare le vigenti leggi sulla proprietà. Mill, in altre parole, sostituisce a un'analisi sociale dell'economia una rassegna di diversi progetti di riforma sociale. Secondo Schumpeter questo modo di considerare le istituzioni sociali, come oggetto di riforme più che di analisi sociologica, ha esercitato una notevole influenza su altri economisti (v. Schumpeter, 1954).
Nei Principles c'è solo un punto in cui Mill supera l'artificiale separazione tra teoria economica e teoria della società, ed è là dove - nel capitolo intitolato Of competition and custom - egli osserva che l'economista può definire le leggi dei salari, della rendita, del profitto, ecc. solo in condizioni di concorrenza perfetta. "L'economia politica può assurgere al rango di scienza solo grazie al principio della concorrenza" (v. Mill, 1848). Il problema, però, come dice Mill, è che in realtà i prezzi vengono spesso decisi più dal costume che dalla concorrenza. Non è raro, per esempio, che una determinata merce abbia due prezzi nello stesso mercato. Tuttavia, dato che l'economia politica deve essere "una scienza astratta e ipotetica", è lecito trascurare tutti i fatti di questo genere e continuare a basarsi sull'assunto fittizio che esistano condizioni di concorrenza perfetta.
L'opera di Karl Marx rappresenta una critica feroce dell'economia politica inglese. Anche il punto di vista di Marx sui rapporti tra economia e società è radicalmente diverso da quelli di Smith, Ricardo e Mill. Secondo Marx la società è un'unità organica, e l'economia ne costituisce una componente. Inoltre Marx introduce per la prima volta il concetto di classe nell'analisi economica. Vero è che anche gli economisti inglesi parlano spesso di classi sociali, ma per loro il termine 'classe' indica solo una categoria economica astratta, mentre per Marx la classe è una distinta realtà sociale. In verità è impossibile in linea di principio distinguere nelle categorie di Marx gli elementi sociali da quelli economici. Al microlivello del suo sistema si trova l'individuo, che appartiene a una specifica classe sociale e produce plusvalore con il suo lavoro. Di questo plusvalore si appropria quindi la classe dirigente, che in diversi modi domina le altre classi. Al macrolivello si trova un sistema di classi, che fa parte di una specifica formazione sociale. Ogni formazione sociale si costituisce storicamente e fa ricorso a più di un modo di produzione. La società progredisce costantemente attraverso un processo dinamico che ha origine all'interno della sfera economica e si esprime a livello politico e sociale tramite la lotta di classe.
È chiaro che la sua posizione critica nei confronti dell'economia politica inglese condusse Marx a trattare in modo completamente nuovo i rapporti tra economia e società. Alla separazione piuttosto artificiale sostenuta dal pensiero borghese Marx contrappose un punto di vista decisamente più organico, secondo cui la società consiste in una 'struttura economica' e una 'sovrastruttura'. La prima include i 'rapporti di produzione' determinati dalle 'forze produttive' e costituisce - dice Marx - "la base reale su cui sorge la sovrastruttura giuridica e politica e a cui corrispondono determinate forme di coscienza sociale" (v. Marx, 1867-1894; v. anche Marx ed Engels, 1845-1846). Tra le forme di coscienza sociale Marx annovera essenzialmente la religione, la filosofia e il pensiero economico borghese (v. Marx, 1867-1894). L'eventuale impressione che questo schema basato sulla distinzione tra struttura e sovrastruttura sia semplicistico sfuma rapidamente all'atto di condurre uno studio concreto basato sui principî di Marx. Per far ciò si deve analizzare una 'formazione socioeconomica', che consiste in una mescolanza di modi di produzione. Un classico lavoro di questo genere è il saggio di Lenin Lo sviluppo del capitalismo in Russia, dove Lenin osserva che la Russia ha "due sistemi economici" contrariamente a quanto sostenuto dai populisti, per i quali la struttura socioeconomica della campagna russa era già essenzialmente borghese (v. Lenin, 1899). La presenza di questa duplice struttura economica, come Lenin mette in evidenza, genera un'infinità di complicate contraddizioni (v. anche Godelier, 1971).
A Marx va riconosciuto il merito di aver tentato di colmare il divario fra teoria economica e teoria della società, ma il tentativo fu prematuro, come ha chiarito, in particolare, Schumpeter in Capitalism, socialism and democracy (1942). Secondo Schumpeter il nesso istituito da Marx fra categorie economiche e categorie sociologiche è troppo stretto. Ciò che per necessità presenta un carattere analitico e astratto, sottolinea Schumpeter, non è facilmente traducibile in qualcosa di empirico e concreto: "Un valido teorema economico, tradotto in termini sociologici, anziché acquisire un più profondo significato, può rivelarsi erroneo, e viceversa" (p. 46). La sola precisazione che va aggiunta alla critica di Schumpeter è che l'intenzione di Marx era quella di stabilire delle leggi economiche analoghe a quelle fisiche, proprio come Ricardo e Mill. Ciò è particolarmente evidente nel suo capolavoro, Il capitale, dove Marx proclama esplicitamente che la sua ambizione è scoprire "la legge del moto economico della società moderna" (v. Marx, 1867-1894). In Marx, in altre parole, le categorie economiche tendono in ultima analisi a prendere il sopravvento sulle categorie sociali e a sostituirsi ad esse.
Il periodo intorno alla fine del secolo fu decisivo per il dibattito sui rapporti tra economia e società. Le due sfere vennero separate radicalmente. Gli economisti eliminarono completamente la componente sociale dalle loro analisi, e qualsiasi elemento fosse considerato appartenente alla 'società' fu dichiarato di competenza di altre discipline. È ancora presto per dire perché tutto ciò accadde proprio in quel particolare momento storico, anche se due cose sono abbastanza chiare. In primo luogo la teoria economica dominante continuò a occuparsi di problemi - come quelli affrontati dalla teoria dei prezzi - a proposito dei quali era molto facile escludere influenze di ordine sociale. In secondo luogo, in questo periodo, tra teorici puri ed economisti di orientamento sociologico scoppiò una disputa di vaste proporzioni: il cosiddetto Methodenstreit ('disputa sul metodo'). Questo conflitto metodologico si concluse con un vero e proprio trionfo dei teorici puri sui loro avversari. Può anche darsi che il dibattito su economia e società abbia risentito dell'influenza del processo che proprio in quel periodo si stava svolgendo nel mondo accademico: l'economia, la storia economica e la sociologia cercavano di guadagnarsi l'accesso all'università come discipline ufficiali e ciascuna di esse avvertiva l'esigenza di accentuare la propria specificità in rapporto alle altre scienze sociali; nessuna di esse voleva sovrapporsi alle altre, dato che un'eventuale sovrapposizione avrebbe pregiudicato l'ammissione fra le materie universitarie.
Prima di passare a illustrare brevemente il Methodenstreit e la scuola storica in economia è necessario ricordare che la scienza economica inglese aveva cominciato a perdere interesse per le istituzioni sociali anche prima del disastroso conflitto sul metodo. I riferimenti che si continuavano talvolta a fare alle classi sociali e a realtà consimili erano più che altro formalità di rito. A questo riguardo, presentando per grandi linee la situazione della scienza economica dominante nel periodo 1870-1914, Schumpeter nella sua Storia dell'analisi economica scrive: "[Secondo l'economia politica inglese] le nazioni continuavano ad essere amorfi agglomerati di individui. Le classi sociali non erano realtà vive e in conflitto tra loro, ma semplici etichette che venivano affibbiate a determinate funzioni economiche (o categorie funzionali). Neanche gli individui erano esseri vivi e in lotta fra loro: continuavano ad essere semplici 'corde da bucato' su cui stendere gli enunciati della logica economica. Conseguito un maggior rigore formale, questa situazione si fece ancor più evidente di quanto non fosse nelle opere del periodo precedente. I critici sogghignavano: vedevano bene che si trattava di una sociologia da quattro soldi e di una psicologia ancor più povera" (v. Schumpeter, 1954).
Fin qui si è presentato soltanto il contributo degli inglesi alla scienza economica, in quanto furono proprio gli economisti inglesi che promossero lo sviluppo della teoria economica nei primi anni del XIX secolo. Un altro motivo per rivolgere l'attenzione a questo tipo di teoria economica è che durante il XX secolo la teoria economica dominante ha continuato a percorrere la strada segnata da Adam Smith, da Ricardo e da Mill. Tuttavia nel XIX secolo il panorama delle teorie economiche era piuttosto vario: fiorivano concezioni della vita economica alternative e le critiche al modello inglese erano abbastanza diffuse, soprattutto nei paesi europei di lingua tedesca, dove, nell'ambito della scuola storica, si sviluppò un tipo diverso di teoria economica. Questa corrente di pensiero è oggi in larga misura dimenticata, ma avrebbe meritato una sorte migliore, dato che costituì un importante tentativo di introdurre una prospettiva autenticamente sociale nell'economia.
La nascita della scuola storica è strettamente legata alla situazione economica e sociale della Germania dei primi anni del XIX secolo. Il nazionalismo, il romanticismo e lo storicismo nascenti si contrapponevano frontalmente all'universalismo che caratterizzava il pensiero economico inglese. Le giovani generazioni tedesche sapevano inoltre che il processo di industrializzazione non avrebbe seguito sul continente il medesimo corso che aveva seguito in Inghilterra. In poche parole esisteva una netta discrepanza tra la concreta realtà europea e il pensiero 'disincarnato' e universalistico che permeava le opere degli economisti britannici. Per colmare questo divario sarebbe stato necessario o creare un nuovo tipo di teoria economica oppure attenersi in modo più rigoroso alla realtà storica. Entrambe queste strade furono battute.
Le idee di Friedrich List anticipano le posizioni della scuola storica. Nella sua opera List rimprovera ad Adam Smith e agli altri economisti inglesi di non aver capito che ciascun paese si sviluppa in modo diverso e che la teoria economica deve innanzitutto occuparsi delle singole nazioni. Molte delle idee di List furono presto superate dalla scuola storica, che cominciò ad affermarsi negli anni quaranta dell'Ottocento. Si suole distinguere una 'vecchia' scuola storica, che fa capo a Wilhelm Roscher, Bruno Hildebrand e Karl Knies, e una 'giovane' scuola storica, che fa capo a Gustav von Schmoller e ai suoi discepoli. Si è osservato talvolta che questi economisti costituiscono un gruppo alquanto eterogeneo e non una vera e propria scuola. Ciò è vero; tuttavia le loro idee presentano una certa unità, soprattutto nei confronti di quelle degli economisti inglesi. Tutti gli economisti tedeschi criticavano Adam Smith e gli altri, in quanto questi sostenevano il laissez faire e avevano elaborato una teoria economica universalistica non aderente alla realtà. In contrasto con gli economisti inglesi, gli esponenti della scuola storica miravano a individuare le leggi specifiche dello sviluppo economico di diversi paesi. Per quanto estremamente attenti ai dettagli storici, comunque, questi economisti non rifiutavano la dimensione teorica. La principale ambizione della scuola storica era quella di "analizzare modelli o processi particolari [della vita economica] nei loro dettagli concreti" (v. Schumpeter, 1954).
Considerato l'oblio in cui è caduta ai giorni nostri la scuola storica (soprattutto in confronto all'attenzione riservata dagli studiosi alla teoria economica inglese) è opportuno spendere qualche parola su Roscher, Knies e Hildebrand. A Roscher va riconosciuto il merito di aver intuito per primo la possibilità di creare un nuovo tipo di economia introducendo la storia nel quadro della teoria economica. "Come si vedrà - dice Roscher - questo metodo si prefigge di raggiungere nel campo dell'economia politica i medesimi risultati ottenuti da Savigny e da Eichorn nell'ambito della giurisprudenza" (v. Roscher, 1895). Nella famosa prefazione al Grundriss zu Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach geschichtlicher Methode (1843), Roscher elenca le ragioni principali dell'introduzione del metodo storico in economia: 1) l'economia deve studiare la nazione in quanto entità vivente; 2) bisogna sempre tenere conto del passato; 3) a meno che le nazioni non siano messe a confronto le une con le altre non è possibile stabilire se qualcosa è importante o meno; 4) anziché elogiare o criticare le istituzioni economiche bisognerebbe studiarle attentamente. Hildebrand, come Roscher, definisce l'economia come "la dottrina che studia lo sviluppo economico delle diverse popolazioni" (v. Hildebrand, 1848). Nella sua opera principale, Nationalökonomie der Gegenwart und Zukunft, egli spiega che cosa intenda per 'leggi economiche'. Poiché l'economia è una Kulturwissenschaft e non una Naturwissenschaft è evidentemente impossibile considerare le leggi economiche alla stregua di leggi naturali. Secondo Hildebrand l'economia è un prodotto dello spirito e della mente dell'uomo; di conseguenza egli mette in risalto il ruolo della moralità e della libertà nella vita economica.Secondo i membri della scuola storica il miglior testo di metodologia storicistica è Die politische Ökonomie vom Standpunkt der geschichtlichen Methode (1853) di Karl Knies. In quest'opera Knies sviluppa un interessante ragionamento sulle leggi economiche stabilendo che nel campo dell'economia politica non è possibile individuare leggi causali ma solo 'leggi (rapporti) di analogia'. Per giungere a scoprire tali leggi sono necessari accurati studi comparativi: Knies fu anche il primo ad applicare il metodo storico al pensiero economico stesso. Nel suo trattato metodologico egli scrive: "In contrasto con chi concepisce la teoria in termini assoluti, la concezione storica dell'economia politica si basa sul principio che la stessa teoria economica [...], proprio come l'economia, è un risultato dello sviluppo storico" (v. Knies, 1853).
Si è osservato spesso che gli economisti della vecchia scuola storica non seguirono i criteri metodologici che essi stessi avevano stabilito. Nelle sue opere più tarde, per esempio, Roscher continuò a percorrere il cammino tracciato da Adam Smith e da Ricardo, e Knies deve la sua fama a un libro sulla moneta e sul credito che non si ispira affatto ai criteri dello storicismo. Max Weber (v., 1903-1906), inoltre, rimprovera alla vecchia scuola storica di essersi precipitata a definire le leggi economiche senza rendersi conto del ruolo che il significato (Verstehen) deve svolgere in un qualsiasi modello storico di teoria economica. Ma per quanto queste critiche siano fondate, agli economisti della vecchia scuola storica va riconosciuto il merito di aver concepito un nuovo tipo di teoria economica che prevedeva la coesistenza armoniosa di economia e società.
A partire dagli anni settanta dell'Ottocento divenne evidente che la vecchia scuola storica stava per essere rimpiazzata da una nuova generazione di economisti storici. L'esponente di maggior spicco della cosiddetta 'giovane scuola storica' fu, come si è detto, Gustav von Schmoller, che divenne ben presto il più importante economista tedesco. Schmoller si prodigò per dare un orientamento riformista all'economia storica e nel 1872 fu tra i fondatori del "Verein für Sozialpolitik". Egli mise anche a punto un particolare programma di ricerca nel campo dell'economia storica. Secondo Schmoller si deve sempre partire da un'indagine storiografica ed empirica su un argomento ristretto; si può studiare, per esempio, l'attività dei fabbricanti di stoffe e dei tessitori di certe città (Schmoller in effetti dedicò un libro a questo argomento). Quante più monografie di questo genere si fossero realizzate tanto più facile sarebbe stato, in un secondo tempo, procedere a una sintesi generale. Ma questo voleva dire che prima di poter cominciare a generalizzare sarebbe stata necessaria un'enorme mole di lavoro. Verso la fine della sua vita Schmoller pose mano a tale sintesi generale e scrisse un'imponente opera in due volumi, il Grundriss der allgemeinen Volkswirtschaftslehre (1900-1904). Secondo i critici, l'opera di Schmoller, ancorché di portata veramente enciclopedica, non è però molto ricca di idee.Quando il Grundriss di Schmoller vide la luce la scuola storica era al culmine della sua influenza. In pratica tutte le facoltà universitarie di economia e tutte le principali riviste di economia tedesche erano sotto il suo controllo. Nell'arco di appena vent'anni la situazione cambiò completamente: dei contributi della scuola storica scomparve ogni traccia ed essa perse tutto il suo prestigio. Ma per quale motivo? Cosa era accaduto nel frattempo di così importante da mutare in modo tanto radicale le sorti della scuola storica? La risposta è: il Methodenstreit. Scoppiata negli anni ottanta, questa famosa guerra tra i metodi avrebbe avuto le conseguenze più disastrose per l'impostazione storicistica della scienza economica. La disputa esplose nel 1883, quando Carl Menger, un brillante economista austriaco - uno degli ideatori dell'analisi dell'utilità marginale - pubblicò un saggio dal titolo pomposo Untersuchungen über die Methode der Sozialwissenschaften und der politischen Ökonomie insbesondere. Secondo Menger gli economisti della scuola storica avevano completamente frainteso la natura della scienza economica. La scienza economica, spiega Menger, si suddivide in tre parti - una parte storica, una teorica e una pratica - e ciascuna di esse ha un suo specifico ambito di competenza. L'errore degli economisti storici tedeschi - un errore imperdonabile per Menger - è stato l'aver confuso il proprio campo di studi con quello dell'economia teorica. Secondo Menger l'economia storica può occuparsi soltanto di eventi economici particolari, collegati tra loro in modo particolare. Rientrano perciò nell'ambito di competenza dell'economia storica argomenti quali le istituzioni economiche, lo sviluppo economico e il ruolo dello Stato nell'economia. L'economia teorica, invece, si occupa dei fenomeni economici generali, collegati tra loro in modo generale. Tra gli argomenti propri dell'economia teorica Menger cita i prezzi, la domanda e l'offerta e lo scambio. L'economia teorica può essere o empirica ('realistico-empirica') o esclusivamente teorica ('esatta'). Tramite la versione empirica si possono individuare regolarità e leggi empiriche, ma non è possibile determinare leggi analoghe a quelle delle scienze naturali: per far ciò è indispensabile l'economia teorica 'esatta'.
Chiaramente questo modo di vedere l'economia non escludeva il punto di vista storico e sociale, anche se per Menger la versione 'esatta' dell'economia teorica rappresentava la forma più alta di scienza economica. Ma per quale motivo, allora, il Methodenstreit finì con l'eliminare, in pratica, l'economia di tipo storico anziché limitarsi a relegarla in una posizione di secondo piano? La risposta a questa domanda è che l'animosità personale tra le parti in causa trasformò il dibattito sull'importanza relativa dell'economia teorica rispetto a quella storica in uno scontro per decidere se dovesse sopravvivere l'economia teorica o quella storica. Così, per esempio, quando recensì il libro di Menger, Schmoller osservò con asprezza che non vi era più alcun bisogno dell'economia teorica. Questo tipo di economia, a suo avviso, non avrebbe fatto altro che "continuare a distillare teoremi astratti intrisi di vecchio dogmatismo già ricavati centinaia di volte" (v. Schmoller, 1883). Per Schmoller il tentativo di Menger di elaborare un'economia teorica si riduceva a "esercitazioni intellettuali scolastiche false quanto le loro premesse".
La recensione di Schmoller mandò su tutte le furie Menger, che replicò immediatamente con un libello intitolato Die Irrthümer des Historismus in der deutschen Nationalökonomie (1884), dove Schmoller veniva accusato di perdersi in "ridicoli dettagli" (Kleinmalerei). Di lì a poco Menger e Schmoller smisero di rivolgersi la parola e lo stesso fecero molti dei loro discepoli. Di conseguenza il mondo accademico di lingua tedesca si spaccò in due fazioni rivali che si detestavano profondamente. Gli storicisti venivano descritti dai loro avversari come perdigiorno interessati esclusivamente a ridicoli dettagli storici, mentre gli economisti teorici erano a loro volta accusati di dedicarsi soltanto a teorie astruse. Nessuno di questi due ritratti era vero, ovviamente, ma entrambi vennero accettati con passione.Il tipo di scienza economica che emerse vittoriosamente dal Methodenstreit era molto diverso da quello per cui si era battuto Menger col suo libro del 1883. Secondo Menger la storia e la società dovevano rientrare nell'ambito dell'analisi economica, anche se in posizione subordinata. Nella scienza economica degli anni venti del Novecento, invece, non c'era più posto né per la storia né per la società. La storia e la società furono dichiarate di competenza di altre discipline (la storia economica e la sociologia), mentre la scienza economica divenne economia 'pura'. Lo stesso tipo di situazione - va detto - si verificò, oltre che in Austria e in Germania, anche in altri paesi, come l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Anche questi due paesi ebbero il loro Methodenstreit, e con gli stessi disastrosi risultati.
Proprio mentre il Methodenstreit raggiungeva il suo culmine, nel campo delle scienze sociali, quasi inosservato, si verificò un evento destinato a segnare profondamente il dibattito sui rapporti tra economia e società: la nascita della 'sociologia economica' (economic sociology; sociologie économique; Wirtschaftssoziologie). Come si è visto, economisti inglesi e tedeschi avevano già cercato di studiare alcuni fenomeni economici avvalendosi di analisi di tipo sociale. Per autori come Adam Smith o John Stuart Mill, comunque, il fulcro dell'analisi era sempre altrove, ed essi stessi si consideravano studiosi dell'economia molto più che della società. Economisti come Roscher e Schmoller erano ovviamente molto più favorevoli dei loro colleghi britannici a un'impostazione di tipo sociale. D'altra parte essi fondamentalmente intendevano introdurre metodi storici nell'economia, ma non erano particolarmente interessati alla teoria sociale in sé. Di conseguenza solo alla fine del XIX secolo poté vedere la luce una sociologia economica ben elaborata e consapevole.La sociologia economica nacque nell'ultimo decennio del secolo scorso essenzialmente ad opera di due autori: Max Weber ed Émile Durkheim. Dato che tra i due non vi fu mai alcun rapporto diretto, si è trattato di un caso di scoperta multipla. Tanto Weber che Durkheim hanno scritto sia opere di taglio programmatico e metodologico sia lavori di sociologia economica applicata a casi concreti. La loro influenza ha anche indotto alcuni loro allievi e colleghi - tra cui studiosi illustri quali Marcel Mauss, François Simiand, Georg Simmel, Werner Sombart e Joseph Schumpeter - a dedicarsi alla nuova disciplina. Ciò che bisogna sottolineare è che la sociologia economica creata da questi studiosi rappresenta il tentativo più elaborato che sia mai stato fatto per mettere l'analisi sociale in relazione con quella economica.
La sociologia economica francese affonda le sue radici nella critica di Auguste Comte all'economia politica classica. Nel suo Cours de philosophie positive (18301842), Comte aveva rinfacciato agli economisti di non aver capito che la scienza economica deve rientrare nell'ambito della scienza sociale, e Durkheim più tardi riprese le tesi di Comte a questo proposito. Meno facile da stabilire, invece, è il momento esatto in cui Durkheim concepì la sociologia economica: probabilmente verso la metà degli anni ottanta, anche se il termine 'sociologie économique' compare per la prima volta nei lavori di Durkheim alla fine degli anni novanta. La sociologia economica, secondo Durkheim, è quella branca della sociologia che si occupa delle istituzioni economiche. Il suo compito principale coincide dunque con quello della sociologia in generale, cioè consiste nell'individuare le origini delle istituzioni, i rispettivi sviluppi e le funzioni che svolgono nella società. Sulla base di questa definizione si potrebbe pensare che Durkheim fosse un istituzionalista, come Veblen o Mitchell. Ciò non è vero: anche nell'analisi dei fenomeni economici, infatti, Durkheim ricorre al proprio modello sociologico originale e ai propri concetti più tipici: 'rappresentazione collettiva', 'anomia', ecc.Il primo contributo di Durkheim alla sociologia economica è rappresentato dalla sua tesi di laurea, De la division du travail social (1893). Durkheim riconosce ad Adam Smith il merito di aver introdotto il concetto di divisione del lavoro nelle scienze sociali. Ma la concezione degli economisti classici è troppo ristretta per Durkheim, secondo il quale è decisamente sbagliato concepire la divisione del lavoro in termini esclusivamente economici e come un fattore il cui ruolo si esaurisce nel far aumentare la ricchezza della società. Il vero ruolo della divisione del lavoro è, per Durkheim, molto diverso: consiste nel creare solidarietà e coesione sociali. Nella società primitiva - sostiene Durkheim - la convivenza era garantita dal fatto che gli uomini erano simili e tutti facevano e pensavano le stesse cose ('solidarietà meccanica'). Nella società industriale, invece, i vari individui si occupano di cose diverse e hanno opinioni diverse a causa della divisione del lavoro molto spinta. Ma ciò pone anche le basi per un nuovo tipo di coesione sociale: ciascuno ora ha bisogno degli altri, esattamente nello stesso modo in cui i diversi organi del corpo necessitano l'uno dell'altro ('solidarietà organica'). L'utilizzazione da parte di Durkheim di concetti quali quelli di funzione, organo e corpo sociale mostra anche come egli abbia ampliato l'idea di divisione del lavoro sino a includervi anche quella forma di divisione del lavoro (dei ruoli) che sussiste, nella società in generale, fra differenti 'settori'.
Nell'opera De la division du travail social, Durkheim critica aspramente l'idea degli economisti secondo cui il fatto che ognuno persegua i propri interessi si risolve in sostanza nel bene della società. Secondo Durkheim gli interessi non sono in grado di unire le persone per la semplice ragione che non possono produrre nient'altro che contatti brevi e superficiali: "Se anche gli interessi comuni avvicinano gli uomini fra loro, ciò avviene solo per brevissimi periodi di tempo. Gli interessi possono dar luogo solo a legami artificiali" (v. Durkheim, 1893). Durkheim era scettico anche riguardo all'idea che le azioni basate sull'interesse conducessero comunque al bene della società o, per dirla con Mandeville, che quelli che sul piano individuale erano "vizi privati" si trasformassero in "pubbliche virtù" sul piano collettivo. Per Durkheim un grave problema della società moderna è che le attività economiche non producono automaticamente coesione sociale. Proprio per questa sua incapacità di dar luogo a un sistema coesivo di regole l'economia moderna è "costantemente in una condizione di instabilità" (ibid.). Il termine usato da Durkheim per designare questa mancanza di regole nella società è 'anomia'. Successivamente, nel suo lavoro dedicato al suicidio, Durkheim cercò di mostrare in che modo l''anomia economica' possa addirittura, in determinate circostanze, spingere le persone a togliersi la vita.
Dall'analisi condotta nel libro sulla divisione del lavoro Durkheim trasse la conclusione pratica che fosse necessario fare qualcosa per regolare l'economia e per porre fine a questa condizione di anomia. Per rendere stabile la società bisognava introdurre a tutti i costi delle norme nella vita economica. Come soluzione di questi problemi Durkheim suggerì di introdurre nel sistema economico una versione aggiornata del modello corporativo. All'interno di queste corporazioni o organizzazioni professionali gli individui avrebbero potuto consolidare i rapporti reciproci in un modo altrimenti impossibile nella società moderna.La soluzione corporativistica venne presentata da Durkheim nel 1902, nella celebre prefazione alla seconda edizione dell'opera De la division du travail social, ma le idee al riguardo erano state sviluppate molto prima e avevano costituito il fulcro di un corso tenuto da Durkheim nel 1894. Le dispense del corso furono successivamente pubblicate con il titolo Leçons de sociologie: physique des moeurs et du droit (1950). Questo testo contiene molti interessanti contributi alla sociologia economica: oltre alla disamina dei gruppi professionali, esso presenta anche un tentativo di analizzare la proprietà privata e il rispetto che questo tipo di proprietà ispira nella società. Benché troppo complesso per essere illustrato in dettaglio, il ragionamento di Durkheim merita comunque di venir sinteticamente riassunto, in quanto dà un'idea del modo in cui, a suo avviso, bisognerebbe analizzare le istituzioni economiche. Secondo Durkheim l'aura di rispetto che circonda la proprietà privata ricorda i tabù relativi agli oggetti sacri, per cui, probabilmente, il rispetto per la proprietà ha origini religiose. In modo estremamente ingegnoso egli descrive quindi la genesi della proprietà privata e come in un primo tempo essa avesse un significato religioso, che è poi venuto meno, lasciando però dietro di sé una sorta di fascia protettiva intorno alla proprietà privata, il 'rispetto' appunto.
Anche la terza importante opera di sociologia economica di Durkheim - Le socialisme (1928) - trae origine da un corso: quello tenuto nell'anno accademico 1895-1896. Il libro, che contiene un'analisi molto originale del socialismo e un importante esame dell'opera dell'economista svizzero Sismondi, raggiunge comunque il suo punto più alto là dove Durkheim interpreta e critica brillantemente le tesi di Saint-Simon. Questa parte del lavoro di Durkheim è così originale e stimolante che si sarebbe tentati di sostenere che rappresenta l'analogo francese del testo di Max Weber Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus. In breve Saint-Simon aveva sostenuto che, in Europa, alla società feudale e bellicosa si stava progressivamente sostituendo una società industriale e pacifica. In questa nuova società, secondo Saint-Simon, l'industria sarebbe diventata la principale attività e lo scopo primario delle persone. L'industrializzazione avrebbe anche permeato il sistema di valori della società. Secondo Saint-Simon, conclude in sintesi Durkheim, "la società deve diventare un'enorme impresa produttiva" (v. Durkheim, 1928). Nel nuovo stato industriale, inoltre, la politica sarebbe stata dedicata esclusivamente a questioni di ordine economico: "La politica è la scienza della produzione" (Saint-Simon, cit. in Durkheim, 1928).
Personalmente Durkheim trovava ripugnante la società industriale preconizzata da Saint-Simon e sosteneva che proprio come gli economisti anche Saint-Simon aveva erroneamente concepito l'economia come la parte più importante della società. Che Saint-Simon sostenesse questa posizione non sorprende, dato che - secondo Durkheim - il socialismo e l'economia politica condividevano gli stessi valori: "In entrambi i sistemi le persone non hanno altro scopo al di fuori del proprio benessere materiale e la società è fine a se stessa" (v. Durkheim, 1928). Per Durkheim la società di tipo industriale o economico sarebbe stata, comunque, una calamità per i cittadini, perché individui interessati esclusivamente al proprio benessere materiale avrebbero cercato di conseguire obiettivi sempre nuovi e non sarebbero mai stati felici; avrebbero voluto comprare sempre di più nella vana speranza di arrivare ad avere abbastanza. L'uomo moderno, quindi, deve, per Durkheim, superare la prospettiva di una 'società industriale' - comune all'economia politica e al socialismo - e sostituirla con quella di una società la cui economia si basi sulla moralità e sulla solidarietà. Senza moralità, conclude Durkheim, non è possibile alcuna società; una 'società industriale' è una contraddizione in termini.
Sembra che verso la fine della sua attività Durkheim abbia perso interesse per le questioni economiche e si sia dedicato sempre di più a problemi morali e religiosi. Tuttavia che continuasse a considerare la sociologia economica molto importante risulta chiaro dal fatto che dedicò sempre a questa disciplina una sezione della rivista da lui diretta, "L'année sociologique" (1896-1912). Durkheim inoltre continuò a incoraggiare i suoi collaboratori a lavorare su temi economici, e ciò condusse alla realizzazione, in Francia, di alcune importanti ricerche. Tra queste le più interessanti sono dovute a Marcel Mauss e a François Simiand. Mauss si occupava prevalentemente di antropologia mentre Simiand era uno specialista di temi di attualità e storici. La più importante opera di argomento economico di Mauss è una breve monografia intitolata Essai sur le don: forme et raison de l'échange dans le sociétés archaïques (1923-1924). Come risulta chiaro dal titolo, per Mauss lo scambio di doni non è una questione di generosità ma una forma di scambio. Il dono implica tutta una serie di obblighi: l'obbligo di dare, l'obbligo di ricevere e l'obbligo di ricambiare. Lo studio di Mauss è pieno di brillanti digressioni sui più svariati argomenti economici. Molte di queste digressioni servono a dimostrare la tesi di Mauss secondo cui per comprendere le istituzioni economiche contemporanee è necessario conoscere le forme precedenti. La forma arcaica del dono, per esempio, non implica soltanto le nozioni di vendita e di acquisto, ma anche quelle di credito e di elemosina.
L'opera di Simiand è profondamente diversa da quella di Mauss. Agli inizi della sua attività Simiand pubblicò un lavoro metodologico che ebbe una certa risonanza: La méthode positive en science économique (1912). Simiand vi criticava radicalmente la teoria economica ortodossa ("uno scandalo metodologico") e avanzava quindi una propria alternativa di stampo sociologico. Ma l'opera più importante di Simiand è una monumentale ricerca in tre volumi sui salari in Francia tra la fine del XVIII e gli inizi del XX secolo: Le salaire, l'évolution sociale et la monnaie (1932). Questo lavoro rappresenta una novità: Simiand fu il primo sociologo a studiare un fenomeno economico nei suoi dettagli empirici durante un periodo di tempo tanto lungo. Per spiegare l'aumento e la diminuzione dei salari nei diversi periodi Simiand prese in considerazione varie possibili teorie. Tra queste una in particolare sottolineava il ruolo svolto dalla moneta, un argomento cui Simiand dedicò anche un importante articolo, La monnaie, réalité sociale. Come Durkheim, Simiand insiste sul fatto che la moneta è un fenomeno eminentemente sociale. La moneta - scrive Simiand - è una realtà oggettiva perché esprime "una credenza sociale e una fede sociale, ed è perciò una realtà sociale" (v. Simiand, 1934).
Tra la scuola di sociologia economica tedesca e quella francese sussistono alcuni evidenti parallelismi. Entrambe sorsero negli anni novanta dell'Ottocento e si spensero nei primi anni trenta; entrambe furono dominate da una figura di spicco (Durkheim in Francia e Weber in Germania); entrambe erano basate sul presupposto che la sociologia economica dovesse essere una disciplina storica e comparativa. Vi sono tuttavia anche alcune interessanti differenze fra le due scuole. Mentre la sociologia economica francese era decisamente positivistica, per gli studiosi tedeschi dell'epoca era scontato che l'economia rientrasse nell'ambito delle scienze della cultura (Kulturwissenschaften) e non di quelle della natura (Naturwissenschaften). Intorno al 1900, per esempio, Friedrich Gottl diede avvio al suo tentativo sistematico di introdurre il Verstehen in economia, e d'altra parte la sociologia economica di Weber poggia saldamente sui concetti di significato e di comprensione. L'atteggiamento della sociologia economica tedesca nei confronti della teoria economica fu inoltre condizionato dal Methodenstreit. Alla luce della radicale polarizzazione in atto tra teoria astratta e conoscenza storica, fu relativamente facile per i sociologi tedeschi rendersi conto che entrambi gli schieramenti in lizza nella guerra dei metodi avevano torto. In effetti la sociologia economica tedesca nacque in larga misura come un tentativo di superare il Methodenstreit. Ciò è particolarmente vero per quel che riguarda proprio Weber, che nel suo lavoro cercò sempre, con estrema consapevolezza, di giungere a un equilibrio tra materiale storico e teoria economica. Il celebre concetto di 'tipo ideale', per esempio, è il risultato di una siffatta sintesi. In generale i sociologi dell'economia tedeschi ritenevano di poter trarre utili insegnamenti dalla teoria economica, benché si sentissero anche scettici nei suoi confronti. In definitiva, però, non le erano ostili, contrariamente a Durkheim e ai suoi seguaci.
La sociologia economica attrasse molti brillanti studiosi in Germania, tra cui Weber, Simmel, Schumpeter, Bücher e Sombart. I due autori che si dedicarono più sistematicamente alla nuova disciplina furono Weber e Schumpeter. Simmel scrisse un'opera interdisciplinare, intitolata Philosophie des Geldes (1900), che contiene anche alcune brillanti osservazioni sociologiche sulla moneta. Simmel, per esempio, fu il primo a mettere in evidenza il ruolo della fiducia nella vita economica. Bücher e Sombart non si consideravano sociologi, ma facevano piuttosto parte di una generazione di economisti storici molto influenzati dalla sociologia. Bücher è noto soprattutto per la sua stimolante concezione istituzionalista esposta in Die Entstehung der Volkswirtschaft (1893), un testo che divenne molto popolare e non soltanto in Germania. Sombart fu un pensatore audace e imprevedibile, che cambiò spesso posizione su questioni teoriche. Ai fini del presente articolo basta ricordare il suo interessante tentativo di sviluppare una "verstehende Nationalökonomie" in uno dei suoi ultimi lavori (v. Sombart, 1930). Precedentemente Sombart aveva dedicato diversi anni alla stesura di Der moderne Kapitalismus (1902), un grandioso tentativo alla Marx di tracciare tutto lo sviluppo del capitalismo.
La sociologia economica di Weber è stata relativamente trascurata. Se si volesse studiare a fondo questo aspetto della sua opera, comunque, bisognerebbe prendere le mosse dalla sua dissertazione di laurea sulle compagnie commerciali nel Medioevo (1889) e dall'Habilitationsschrift sulla storia agraria romana del 1891. Prima dell'esaurimento nervoso di cui soffrì nel 1897 Weber portò anche a termine due studi importanti per la sociologia economica: una ricerca sulla condizione dei contadini a est dell'Elba, pubblicata in un unico, grosso volume nel 1892, e una ricerca sulla borsa valori, pubblicata in diversi scritti minori (1894-1897). In entrambi i casi Weber tratta argomenti economici da un punto di vista decisamente sociale. Nel lavoro sui contadini, per esempio, Weber rileva come i contadini tedeschi e i contadini polacchi avessero opinioni assai diverse su ciò che costituisce un accettabile standard di vita, ragione per cui i lavoratori polacchi stavano progressivamente costringendo i tedeschi ad abbandonare la zona a est dell'Elba. Egli sottolinea inoltre che i lavoratori tedeschi della zona preferivano essere liberi in altre parti della Germania che restare nel loro luogo di origine dove godevano di una certa sicurezza economica, ma avevano poche possibilità di migliorare la propria situazione. Il punto essenziale sostenuto da Weber nel suo studio sulla borsa valori è che - contrariamente all'opinione prevalente in Germania all'epoca - le operazioni finanziarie che si concludono in ogni borsa valori moderna non sono di per sé fraudolente, ma costituiscono una forma di speculazione razionale necessaria in un regime di capitalismo avanzato. L'impostazione sociologica di Weber trapela anche dal suo esame dei diversi modi in cui si può evitare che il codice deontologico relativo alle attività di borsa venga violato.
L'intenzione di Weber di continuare questi studi sull'economia è testimoniata dal fatto che appena si fu ripreso dalla malattia egli cominciò immediatamente a lavorare a un saggio critico sulla 'vecchia scuola storica'. Due anni più tardi vide la luce la sua celebre opera Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905). Criticando Roscher e Knies Weber mette in evidenza il fatto che per condurre uno studio storico dell'economia è indispensabile abbandonare il concetto di legge economica: l'approccio storico e il concetto di legge economica sono semplicemente incompatibili. Il testo sull'etica protestante è il primo di una serie di straordinari lavori dedicati alle diverse religioni del mondo, in cui Weber analizza i rapporti tra religione ed 'etica economica' (Wirtschaftsethik). Con quest'ultimo concetto Weber intende designare non tanto il punto di vista della religione su questioni economiche quanto "gli impulsi pratici all'azione che si basano sulla psicologia e sui contesti pragmatici della religione". Va detto che il concetto di etica economica di Weber ha dato luogo a una sociologia tuttora insuperata per ricchezza e sottigliezza.
Weber cominciò a definirsi sociologo (anziché economista) intorno al 1910; pochi anni più tardi apparve per la prima volta nei suoi scritti il termine Wirtschaftssoziologie. La ricerca sui lavoratori dell'industria (1908-1909) e quella sulla condizione agraria nel mondo antico (1909) rientrano nell'ambito della sua sociologia economica. Ma i due più importanti contributi di Weber a questa disciplina risalgono a qualche anno più tardi; si tratta di Economia e società (pubblicato postumo) e di una serie di lezioni tenute nell'anno accademico 1919-1920, dal titolo Lineamenti di storia economica e sociale universale (anche i Lineamenti, basati sugli appunti degli studenti, furono pubblicati postumi). Economia e società presenta tutta una serie di osservazioni e di analisi attinenti alla sociologia economica. La parte più importante del testo è, comunque, il secondo capitolo, dove Weber cerca di delineare i fondamenti teorici della sociologia economica. Il capitolo in questione è intitolato Categorie sociologiche dell'azione economica e con le sue 150 pagine ha le dimensioni di un piccolo libro autonomo. Esso contiene una rassegna scarna e molto sintetica delle categorie fondamentali della sociologia economica. In effetti quando Weber tenne le lezioni relative a questo capitolo gli studenti lo pregarono di tenere un corso di storia economica per agevolare la comprensione di tutta la materia: fu questa l'origine del corso sulla storia economica e sociale universale. Il secondo capitolo di Economia e società e il corso del 19191920 sono stati concepiti come complementari e pertanto andrebbero letti insieme.Nel secondo capitolo di Economia e società Weber chiarisce che il suo intento non è quello di proporre una teoria economica, ma di "analizzare alcune delle più elementari relazioni sociologiche presenti nella sfera economica" (v. Weber, Wirtschaft..., 1922). A ciò Weber aggiunge che anche se la sociologia economica era destinata a poggiare sui fondamenti della teoria economica, tuttavia avrebbe dovuto elaborare "i propri costrutti teorici" (ibid.). Per sapere a quali costrutti alluda Weber basta leggere attentamente il secondo capitolo, che abbonda di definizioni, tra cui quelle di 'azione economica', 'organizzazione economica', 'moneta', 'commercio', 'impresa', ecc. A proposito di tali definizioni vi sono due osservazioni da fare, particolarmente degne di nota. La prima è che nel fornire tutte queste definizioni Weber rivendica la natura interpretativa della sociologia economica: per il sociologo, egli scrive, i fenomeni economici sono "caratterizzati [...] completamente dal significato che hanno" (ibid.). La seconda è che, nel piano delineato da Weber, la sociologia economica, contrariamente alla teoria economica, deve sempre tener conto del potere economico. Il termine esatto usato da Weber per indicare il potere economico è 'Verfügungsgewalt', che letteralmente significa 'poteri di controllo e gestione sanciti legalmente'. Per Weber categorie quali quelle di 'prezzo', 'scambio', 'profitto', 'impresa' implicano sempre conflitti e compromessi tra interessi diversi ovvero ciò che egli chiama "la lotta dell'uomo contro l'uomo".
Le lezioni weberiane sulla storia economica e sociale universale occupano all'incirca 250 pagine e coprono il periodo che va dalla prima forma di agricoltura in Germania fino agli inizi dell'Ottocento. L'esposizione è estremamente sintetica e il libro è, a modo suo, altrettanto arduo da leggere quanto il secondo capitolo di Economia e società. Weber passa in rassegna diverse forme di agricoltura, studia le prime forme di attività mineraria e industriale, analizza il commercio e il ruolo della moneta nel mondo antico e nel Medioevo e infine riassume la propria teoria sulla nascita del capitalismo. Se il secondo capitolo di Economia e società getta le basi concettuali della sociologia economica, la serie di lezioni sulla storia economica e sociale universale svolge il medesimo ruolo per quanto riguarda la teoria delle istituzioni economiche. General economic history (è questo il titolo con cui la serie di lezioni è stata pubblicata in inglese, tradotta da Frank Knight) è a tutt'oggi il più importante lavoro che sia mai stato scritto sulle istituzioni economiche.
Prima di abbandonare Weber è necessario aggiungere qualche considerazione sulle sue tesi a proposito dei rapporti tra economia e società nel contesto del processo di modernizzazione. È chiaro che l'idea di razionalità costituisce il grande tema unificante di tutta l'opera weberiana e che Weber era particolarmente affascinato da ciò che egli definiva "lo specifico e peculiare razionalismo della cultura occidentale" (v. Weber, 1904-1905). Secondo Weber si possono riscontrare elementi di razionalità in tutte le culture e in molte diverse aree della società, quali il diritto, la scienza, la burocrazia, l'arte e la musica; ma soltanto nella civiltà occidentale il processo di razionalizzazione in generale e nella sfera economica in particolare si è spinto tanto avanti. Per Weber il mercato rappresenta "l'archetipo di ogni azione sociale razionale" e i mercati sono stati ovunque presenti nel mondo occidentale (v. Weber, Wirtschaft..., 1922). Ma la causa prima e più importante dell'esplosivo sviluppo dell'economia in Europa e negli Stati Uniti è un'altra, e cioè la calcolabilità. In Occidente il processo produttivo è completamente calcolabile: si può prevedere facilmente quanto rapidamente e con quanta precisione un operaio o una macchina possono produrre un determinato oggetto. Ed ugualmente calcolabile è l'ambiente in cui il sistema economico è inserito: si può infatti prevedere molto facilmente anche che cosa faranno i giudici e i politici in diverse circostanze. Analizzando la razionalità nella sfera economica Weber sottolinea la differenza tra "razionalità formale" e "razionalità sostanziale" (ibid.). Può darsi il caso che una situazione sia perfettamente razionale da un punto di vista formale (per esempio la separazione degli operai dai mezzi di produzione), ma irrazionale dal punto di vista sostanziale (per esempio da quello del socialismo o del comunismo). Dal canto suo Weber era restio a inserire i propri ideali nei propri scritti sociologici. Sembra comunque chiaro che egli pensasse che il capitalismo fosse, in ultima analisi, privo di qualsiasi valore umano, fosse, secondo la celebre metafora contenuta nell'Etica protestante, una "gabbia di ferro" (v. Weber, 1904-1905). Schumpeter viene generalmente presentato come un economista neoclassico dotato di un'ampia prospettiva storico-sociale; ma questa definizione non coglie appieno l'essenza della sua opera di economista: la parte principale della sua attività si inquadra infatti nell'ambito di un paradigma economico di marca decisamente weberiana (v. Swedberg, 1991). Come Weber, Schumpeter considera l'economia una disciplina vasta e comprensiva, articolata in parecchi campi distinti. Il termine tedesco adottato da Schumpeter (sulla scia di Weber) per designare questo tipo di economia è Sozialökonomik. Questo termine dimostra chiaramente che Schumpeter considera l'economia una scienza sociale. I differenti campi che costituiscono la Sozialökonomik sono, secondo Schumpeter, la teoria economica, la storia economica, la sociologia economica e la statistica economica (v. Schumpeter, 1954). Ciascuno di questi quattro campi ha la propria specifica area di ricerca, anche se i confini tra loro non sono rigidi. Mentre la teoria economica, per esempio, si occupa dei meccanismi economici, ovvero del perché in economia le cose funzionano come funzionano, la sociologia economica si occupa delle istituzioni economiche, ovvero del perché le cose sono diventate ciò che sono nel corso della storia.
Il modo esemplare in cui Schumpeter ha espresso e ampliato la concezione weberiana della Sozialökonomik costituisce uno dei suoi contributi fondamentali al dibattito sui rapporti tra economia e società. Un altro contributo altrettanto importante è costituito dai tre saggi sociologici sull'imperialismo, sulle classi sociali e sullo Stato fiscale. Tra questi quello forse più suggestivo è The crisis of the tax State (1918), dove Schumpeter cerca di sviluppare una sociologia della finanza e analizza in modo assai originale il ruolo dello Stato nell'economia. Il terzo contributo fondamentale di Schumpeter alla sociologia economica è rappresentato dai suoi lavori di teoria economica, a partire almeno dalla Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1911). Per lo stesso Schumpeter la sua teoria sull'imprenditore rientra nell'ambito della teoria economica pura. È chiaro, comunque, che determinati aspetti della sua teoria sono sociologici: per esempio, l'analisi della resistenza che ogni imprenditore generalmente incontra nell'attuare una nuova concentrazione. Anche Capitalism, socialism and democracy (1942) contiene molte acute riflessioni sociologiche su argomenti quali il ruolo della concorrenza nel capitalismo avanzato, i vantaggi di cui godono le grandi imprese nel processo di innovazione, ecc.
Nel ventennio 1930-1950 il dibattito sui rapporti tra economia e società praticamente cessò. Gli economisti volevano studiare soltanto l'economia (esclusa la sua dimensione sociale), mentre i sociologi si dedicavano unicamente all'analisi della società (economia esclusa). Nei primi anni cinquanta Schumpeter sintetizzò malinconicamente lo stato dei rapporti tra economisti e sociologi nel modo seguente: "il fatto è che fin dal XVIII secolo i due gruppi hanno proceduto sempre separati finché ora il tipico economista e il tipico sociologo sanno poco e si interessano ancor meno l'uno del lavoro dell'altro, e ciascuno dei due preferisce usare, rispettivamente, una propria sociologia primitiva e una propria economia primitiva anziché accettare i risultati professionali dell'altro; questo stato di cose non viene certo attenuato dalla persistente tendenza al reciproco scambio di insulti" (v. Schumpeter, 1954).
I motivi per cui in tale periodo il dibattito sui rapporti tra economia e società praticamente cessò sono molteplici. Per quel che riguarda la sociologia, sembra che gli studi avviati da Durkheim e da Weber si fossero esauriti verso il 1930. I durkheimiani non erano più in grado di rinnovarsi, mentre la comunità dei sociologi tedeschi era stata decimata dalla prima guerra mondiale (e lo sarà, poi, dal nazismo). Negli Stati Uniti, dove la posizione della sociologia era molto più solida, i sociologi non erano interessati alle questioni economiche, e anche gli economisti, dal canto loro, avevano, per diverse ragioni, perso interesse per la questione dei rapporti fra economia e società. Nel frattempo l'economia istituzionalista era caduta in discredito e se si voleva essere considerati studiosi seri si doveva tenersene alla larga. L'economia neoclassica andava intanto assumendo un ruolo sempre più dominante ed era estremamente difficile introdurre variabili sociali in tale tipo di analisi. Ciò è vero in particolar modo per quel che riguarda la versione matematica dell'economia neoclassica, che si stava affermando negli anni trenta e quaranta. Vero è che Keynes cercò di introdurre un certo realismo nell'economia accademica, ma questo tentativo fu rapidamente soffocato quando le sue idee furono assorbite nell'ambito della nuova ortodossia vigente negli anni quaranta e cinquanta.
Sarebbe decisamente sbagliato dare l'impressione che il dibattito sul tema 'economia e società' si sia riacceso con veemenza negli anni cinquanta. In realtà, infatti, la netta separazione tra economia e società non sarebbe stata posta seriamente in discussione se non negli anni ottanta. Negli anni cinquanta, comunque, furono fatti due interessanti tentativi per avviare tale dibattito. Il primo fu promosso da un gruppo di sociologi, fra cui, in particolare, Talcott Parsons, Neil Smelser e Wilbert E. Moore; il secondo, di ispirazione antropologica, da Karl Polanyi. Entrambi questi tentativi si concretizzarono in alcuni libri interessanti e suscitarono vivaci polemiche.Tra i sociologi il giovane Neil Smelser fu quello che più si dedicò alla sociologia economica, intesa come specifico sottosettore della sociologia. Dopo essersene già occupato nella sua tesi di laurea, Smelser scrisse il primo manuale di sociologia economica e il primo testo introduttivo all'argomento. Inoltre Smelser fu coautore, con Talcott Parsons, del famoso Economy and society (1956). Insieme a Trade and market in the early empires (pubblicato a cura di Karl Polanyi e altri nel 1957), Economy and society è la più importante opera di sociologia economica scritta dagli anni cinquanta in poi. Inoltre ancor oggi questo libro si rivela importante per le molte idee sui rapporti tra teoria economica e teoria sociologica in esso contenute.L'obiettivo principale di Economy and society è favorire l'integrazione fra teoria economica e teoria sociologica. Secondo Smelser e Parsons questi due tipi di teorie sociali erano stati tenuti separati troppo a lungo per una serie di motivi legati alla tradizione e a fattori di ordine istituzionale. Le cose tuttavia non erano sempre andate così. All'inizio del secolo sia Weber che Marshall avevano ravvicinato fra loro la teoria economica e la teoria sociologica (Marshall soprattutto con la sua tesi secondo cui l'organizzazione è un fattore di produzione indipendente). Dopo questo primo passo, tuttavia, il processo di integrazione si era bloccato per svariati motivi, tra cui il fatto che gli economisti avevano incominciato a occuparsi di questioni tecniche e di applicazioni politiche. I sociologi, dal canto loro, si erano tenuti alla larga dall'economia sia perché risentivano del predominio degli economisti sia perché avvertivano la necessità di elaborare il proprio tipo di analisi. In ogni caso, concludono Parsons e Smelser, il risultato fu che, a metà degli anni cinquanta, quasi tutti gli economisti ignoravano il lavoro dei sociologi e viceversa.
Questa separazione tra teoria economica e teoria sociologica è, per gli autori di Economy and society, qualcosa di artificioso, perché tra le due discipline vi è un''ntrinseca intimità'. Secondo Parsons e Smelser un modo per uscire dalla situazione di stallo è il seguente. Da un punto di vista teorico la teoria economica può essere concepita come un caso particolare della teoria generale dei sistemi sociali. In effetti, se si considera la teoria economica da questa prospettiva - sostengono i due autori - diventa chiaro che esistono sorprendenti parallelismi logici, per esempio, tra i concetti di domanda e offerta e quelli di prestazione e sanzione. L'unica differenza tra la teoria economica e altri tipi di teoria sociale è che la teoria economica opera con un proprio specifico insieme di parametri. La teoria economica, in altre parole, ha esattamente la stessa struttura di base della scienza politica o della sociologia; solo i suoi argomenti sono diversi.Il fatto che la stessa economia possa essere vantaggiosamente trattata facendo ricorso alla teoria generale dei sistemi sociali viene spiegato nel modo seguente. Per Parsons e Smelser qualsiasi forma di interazione costituisce un sistema sociale. Per poter raggiungere un equilibrio e per continuare a esistere, però, un sistema di questo genere deve risolvere quattro problemi: 1) deve adattarsi all'ambiente ('adattamento'); 2) deve conseguire un obiettivo specifico ('raggiungimento degli scopi'); 3) deve integrare l'una con l'altra le sue diverse componenti ('integrazione'); 4) deve infine difendere e stabilizzare i propri valori attraverso la conservazione della struttura ('latenza'). Secondo Parsons e Smelser l'economia è quella componente del sistema sociale che garantisce l'adattamento all'ambiente; inoltre costituisce un distinto 'sottosistema' del sistema sociale. Parsons e Smelser definiscono così l'economia: "l'economia è quel sottosistema della società che si contraddistingue fondamentalmente in quanto preposto alla funzione adattiva della società nel suo complesso" (v. Parsons e Smelser, 1956).
Secondo Parsons e Smelser, si può considerare anche l'economia, e non solo la società, come un sistema sociale con determinati problemi da risolvere. Anche il sottosistema economico, pertanto, ha una propria funzione adattiva, una propria funzione integrativa, ecc. La teoria dei sistemi sociali permette a Parsons e a Smelser, cosa ancor più importante, di avanzare l'idea dell'interazione tra i diversi sottosistemi. Ciò che contraddistingue la teoria economica, come si è detto, è che essa dispone di un proprio insieme di parametri. Muovendo dall'idea di fondo che i vari sottosistemi interagiscono sempre tra loro attraverso inputs e outputs, Parsons e Smelser analizzano tali parametri in termini di "scambi di confine" (boundary exchanges). Il sottosistema economico, per esempio, interagisce con il sottosistema di conservazione della struttura (soprattutto con la famiglia) scambiando lavoro con beni di consumo e servizi. Procedendo in tal modo, attraverso la descrizione sistematica di un gran numero di questi "scambi di confine", Parsons e Smelser ritengono di aver sviluppato la teoria economica in senso sociologico, e quindi di aver contribuito a integrarla con la teoria sociologica.
L'importanza di Economy and society sta nell'aver riproposto in termini nuovi e creativi la questione del rapporto tra teoria economica e teoria sociologica. Quanto all'integrazione tra le due discipline, tuttavia, l'opera di Parsons e Smelser presenta una certa ambiguità. Da un lato l'economia è chiaramente considerata parte integrante della società: un sottosistema di un più ampio sistema sociale, che è la società; dall'altro la teoria economica detiene il monopolio dell'analisi di tutti i fenomeni che rientrano in questo sottosistema. Alla sociologia viene lasciato un ruolo da svolgere soltanto quando si tratta di discutere i parametri della teoria economica o i confini tra l'economia e gli altri sottosistemi. Tutto ciò che gli autori chiamavano 'istituzioni economiche' deve, per esempio, essere studiato dal punto di vista di questi parametri e confini. Questo approccio apre la strada ad alcune idee interessanti: diversi tipi di mercato, per esempio, possono essere distinti l'uno dall'altro a seconda dei diversi sottosistemi cui sono collegati. Il mercato del lavoro, per esempio, è collegato al sistema di conservazione della struttura, il mercato dei capitali al sistema politico, ecc. Resta tuttavia aperto il problema se Parsons e Smelser non abbiano, da un lato, indebitamente ristretto l'ambito della sociologia economica e, dall'altro, concesso troppo alla teoria economica.L'altro importante tentativo di riesumare il dibattito sui rapporti fra economia e società negli anni cinquanta è quello di Karl Polanyi. Studioso interdisciplinare, nato nell'Impero austroungarico, Polanyi lavorò in vari paesi. La sua prima opera di rilievo, The great transformation (1944), fu scritta in parte in Inghilterra e in parte negli Stati Uniti. Nonostante la sua notevole originalità, The great transformation non ebbe lo stesso successo della seconda grande opera di Polanyi, un lavoro collettivo intitolato Trade and market in the early empires (1957). La tesi principale di Polanyi è che una società governata da liberi mercati ('mercati autoregolati') non è in grado di sopravvivere, perché la società umana, per esistere, ha bisogno di unità e di coesione, due caratteristiche che i mercati non regolati non sono in grado di garantire. Polanyi illustra così lo scenario ipotetico di una società governata esclusivamente dai mercati: "Privi della protezione di istituzioni culturali, gli esseri umani perirebbero per gli effetti dell'esposizione alle insidie della società; vittime di un acuto sconvolgimento sociale, morirebbero decimati dal vizio, dalla perversione, dal crimine e dalla fame. La natura verrebbe sconvolta, i centri urbani e rurali contaminati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio, la capacità di produrre alimenti e materie prime distrutta" (v. Polanyi, 1944).
Per illustrare la sua tesi circa il potenziale distruttivo del mercato autoregolato, Polanyi fa l'esempio dell'Inghilterra del XIX secolo. Nei primi anni dell'Ottocento l'introduzione di un libero mercato del lavoro ebbe conseguenze assolutamente catastrofiche per i lavoratori. Secondo Polanyi l'idea che ogni cosa si possa trasformare in merce costituisce un'utopia estremamente pericolosa; inoltre fa sì che la società, per proteggersi, adotti contromisure preventive che turbano il funzionamento del mercato. Quando tutto questo processo interagisce, a sua volta, con la lotta di classe, accade che si scatenino delle forze tremende, come il fascismo.
Anche nella seconda grande opera di Polanyi, Trade and market, l'accento è posto sul mercato; ma in questo lavoro Polanyi si prefigge un obiettivo diverso da quello di The great transformation: cioè elaborare un nuovo tipo di analisi economica, non centrata sul mercato. La scienza economica, leggiamo in Trade and market, esemplifica 'la fallacia economistica', cioè il fatto che l'economia riguardi soltanto i mercati. Secondo Polanyi il fatto di concentrarsi esclusivamente sui mercati è accettabile nel caso della teoria economica moderna, dato che questa disciplina si occupa fondamentalmente della società contemporanea in cui il mercato svolge un ruolo centrale. Ma identificare economia e mercato è del tutto sbagliato quando si tratta di storia economica, sociologia economica e antropologia economica. Queste discipline, invece, dovrebbero muovere dall'assunto che l'azione economica è "incorporata" nella vita sociale. Secondo un passaggio chiave del saggio programmatico The economy as instituted process di Polanyi, "l'economia umana [...] è incorporata e inglobata nelle istituzioni, sia economiche che non economiche" (v. Polanyi e altri, 1957).
Trade and market rappresenta innanzitutto un tentativo di sviluppare un'impostazione completamente nuova dell'economia. La nuova scienza economica dovrebbe basarsi, per Polanyi, su un concetto 'sostanziale' (contrapposto a 'formale') di economia. Secondo l'approccio 'sostanzialistico', la questione cruciale per l'economia è il concreto rapporto dell'uomo con la natura. L'economia 'formale', invece, considera l'economia solo in termini di scelta e di relazioni mezzi-fini. Secondo Polanyi "le due concezioni dell'economia - quella sostanziale e quella formale - non hanno nessun punto in comune. La seconda si basa sulla logica, la prima sui fatti" (ibid.).In contrasto con i sostenitori dell'economia 'formale', che interpretano tutti i fenomeni economici in termini di mercato, Polanyi sostiene che nel corso della storia si sono avute diverse forme di interazione in campo economico, che Polanyi chiama "reciprocità", "redistribuzione" e "scambio". La reciprocità presuppone una struttura sociale simmetrica e si riscontra, per esempio, nelle società tribali. La redistribuzione presuppone un potere centrale, come in Unione Sovietica, per esempio. Lo scambio, infine, è la principale forma di interazione nelle moderne società di mercato.Secondo Polanyi un'altra manifestazione della 'fallacia economistica' è la tendenza a far rientrare automaticamente nella categoria del mercato molti fenomeni economici indipendenti. Secondo il pensiero economico moderno, per esempio, la moneta e il commercio appaiono sempre in concomitanza con il mercato; ma ciò non è vero. Inoltre si ignora il fatto che il 'mercato autoregolato' è un'invenzione molto recente e che nel corso della storia sono esistite altre forme di mercato. Per trattare questa problematica Polanyi introduce alcuni concetti nuovi, come quelli di "gruppo di offerta" (supply crowd) e "gruppo di domanda" (demand crowd), e sostiene che questi due tipi di gruppo, che coesistono sempre nel mercato moderno, raramente sono coesistiti in passato. Questa terminologia, però, non ha attecchito.
Quella che ha attecchito è stata invece la distinzione tra economia 'formale' e 'sostanziale'. Nel campo dell'antropologia economica la pubblicazione di Trade and market ha dato luogo a un acceso dibattito tra 'formalisti' e 'sostanzialisti'. Il dibattito si è trascinato per parecchi anni senza che nessuna delle due parti sia riuscita a prevalere nettamente sull'altra. Riassumendo si può dire che Polanyi ha fatto un deciso tentativo per rianimare la discussione sui rapporti tra economia e società, ottenendo un certo successo, almeno nell'ambito dell'antropologia. I sociologi e gli economisti, d'altra parte, hanno ignorato la sua opera e hanno continuato a pensare che economia e società abbiano, fondamentalmente, poche cose in comune.
Oggi - per la prima volta da oltre mezzo secolo a questa parte - tra economisti e sociologi si è aperta una discussione nuova e interessante. Pur non coinvolgendo, finora, tutti i principali esponenti di entrambe le discipline, questa discussione si sviluppa costantemente e potrebbe forse portare a una sorta di rinascita del dibattito sui rapporti tra economia e società. Solo il futuro, naturalmente, potrà dire se assisteremo realmente a questa rinascita. Nel frattempo, però, osserviamo che tale discussione, cominciata tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, annovera tra i suoi principali partecipanti economisti e sociologi interessati al ruolo delle strutture e delle istituzioni sociali nell'economia. Il tipo di analisi messo a punto da questi economisti è noto come 'nuova economia istituzionale', mentre i sociologi hanno creato la cosiddetta 'nuova sociologia economica'. Questo nuovo dibattito su economia e società coinvolge anche altri partecipanti, soprattutto economisti secondo i quali l'approccio economico è applicabile non solo alle questioni economiche ma a tutti i problemi oltre all'economia in senso stretto. Questa impostazione, nota generalmente come 'imperialismo economico', si sovrappone in parte alla 'nuova economia istituzionale'. Va menzionato inoltre il tentativo di alcuni sociologi di lanciare un nuovo tipo di sociologia, detto 'sociologia delle scelte razionali'.
Non è facile determinare per quale motivo il dibattito su economia e società sia tornato alla ribalta dopo tanti anni di silenzio. Le ragioni probabilmente sono varie: alcune relative alle vicende della società nel suo complesso, altre inerenti all'economia e alla sociologia. L'embargo sui prodotti petroliferi del 1973, per esempio, scosse l'economia mondiale nonché la fiducia di molti economisti, e lasciò la sensazione che la scienza economica dominante non fosse in grado di spiegare tutto ciò che accadeva nel mondo economico. Gli anni settanta, inoltre, videro la fine del pensiero keynesiano come ideologia economica guida e l'ascesa di ideologie alternative, come il monetarismo. Con le elezioni di Reagan e della Thatcher, nel biennio 1979-1980, l'ideologia del mercato divenne estremamente popolare: ciò che restava dell'ideologia economica riformista fu sostituito dall'idea che il mercato potesse risolvere tutti i problemi. Il diffondersi dell'ideologia del mercato influenzò indubbiamente molti studiosi e li spinse a interessarsi di questioni economiche, ma è chiaro che a suscitare il nuovo dibattito su economia e società hanno contribuito anche iniziative prese nell'ambito delle scienze sociali, come si vedrà nel prossimo paragrafo, dedicato ad alcuni recenti sviluppi della teoria economica.
L'approccio noto come 'imperialismo economico' (o 'approccio economico') ha svolto un ruolo molto importante nel dibattito in corso, in quanto è stato il primo a mettere decisamente in discussione e a infrangere il vecchio dogma della divisione del lavoro tra l'economia e le altre scienze sociali, secondo cui l'economia dovrebbe occuparsi soltanto di argomenti economici (senza considerarne la dimensione sociale), mentre le altre scienze sociali dovrebbero occuparsi del resto della società (senza considerarne la dimensione economica). Va anche detto, comunque, che, dal punto di vista del dibattito su economia e società, l'imperialismo economico presenta una certa ambiguità. Ciò dipende dal fatto che questo tipo di analisi non è interessato al dialogo con le altre scienze sociali, ma si prefigge di sostituirle con l'analisi microeconomica. Tuttavia, anche se il risultato finale dell'imperialismo economico - da un punto di vista teorico - dovrebbe essere l'annullamento di tutte le altre scienze sociali, è anche vero che buona parte delle ricerche ispirate a questa concezione si sono rivelate preziose per il dibattito su economia e società. È pertanto opportuno analizzare più in dettaglio l'imperialismo economico.Il termine 'imperialismo economico' è stato usato per la prima volta all'inizio degli anni trenta da un giovane economista statunitense, Ralph William Souter, nel libro Prolegomena to relativity economics. Secondo Souter "la salvezza della scienza economica nel XX secolo risiede in un 'imperialismo economico' illuminato e democratico, che invada i territori dei suoi vicini" (v. Souter, 1933, pp. 94-95). La tesi di Souter sollevò subito qualche polemica. Talcott Parsons, per esempio, avvertì che l'imperialismo economico avrebbe costretto le altre scienze sociali in "una camicia di forza di 'categorie economiche"' (v. Parsons, 1934). Nel complesso, comunque, le idee di Souter non ebbero un gran seguito tra gli economisti e l'intera questione fu accantonata. Se ne tornò a parlare dopo più di venti anni, quando alcuni giovani economisti incominciarono ad avanzare tesi simili a quelle di Souter. Negli anni cinquanta furono pubblicati tre importanti lavori che introdussero l''approccio economico' nella sociologia, nella scienza politica e nella storia economica: The economics of discrimination (1957) di Gary Becker; An economic theory of democracy (1957) di Anthony Downs; e The economics of slavery in antebellum South (1958) di A. H. Conrad e J. R. Myers. Negli anni sessanta apparve una gran quantità di opere nuove e importanti su altri argomenti di sociologia, scienza politica e storia economica. L'approccio economico venne esteso anche ad altri settori, quali la demografia, il diritto (criminologia inclusa) e la teoria dell'organizzazione.
Negli anni settanta questa tendenza cominciò ad acquisire un'identità più definita e l'espressione 'imperialismo economico' divenne popolare. Oltre al primo manuale sull'argomento venne pubblicato anche un articolo che può essere considerato il manifesto intellettuale del nuovo approccio. Scritto da Gary Becker, questo articolo era intitolato The economic approach to human behavior (1976). Becker così descriveva il modo di condurre un'analisi: "il nocciolo dell'approccio economico è costituito da tre ipotesi combinate - quella del comportamento massimizzante, quella dell'equilibrio di mercato e quella delle preferenze stabili - usate sistematicamente e senza eccezioni". In sé e per sé questa definizione non è particolarmente degna di nota, ma le parole "usate sistematicamente e senza eccezioni" danno un'idea abbastanza chiara della nuova ortodossia. Secondo Becker, l'approccio economico è applicabile anche a "qualsiasi comportamento umano". Durante gli anni ottanta apparvero parecchi altri lavori ispirati a questa impostazione e l'imperialismo economico venne accettato nell'ambito della teoria economica dominante, come dimostrano l'assegnazione nel 1984 del premio Nobel per l'economia a James Buchanan e l'elezione, tre anni più tardi, di Gary Becker alla presidenza dell'Associazione americana degli economisti.Molti degli economisti partecipanti al dibattito in corso su economia e società appartengono alla cosiddetta 'nuova economia istituzionale'. Questa corrente è piuttosto diffusa sia negli Stati Uniti che in Europa, e particolarmente in Germania, dove viene pubblicata la rivista "Journal of institutional and theoretical economics". La nuova economia istituzionale in parte si sovrappone all'imperialismo economico, ma tra le due correnti vi sono anche alcune differenze, e bisogna riconoscere che la nuova economia istituzionale ha una propria specifica identità. Il neoistituzionalismo, per esempio, è molto più eclettico dell'imperialismo economico. Mentre quest'ultimo si basa esclusivamente sulla microeconomia - usata "sistematicamente e senza eccezioni" (Becker) - il neoistituzionalismo ricorre anche alla teoria dell'organizzazione, all'economia schumpeteriana e persino al vecchio istituzionalismo di Commons e Schmoller (ma non a quello di Veblen, che continua ad essere escluso dal pensiero economico dominante). Questa capacità di attingere a tradizioni diverse conferisce alla nuova economia istituzionale una flessibilità che all'imperialismo economico manca completamente. Inoltre il neoistituzionalismo si pone un obiettivo diverso da quello dell'imperialismo economico. Mentre quest'ultimo si prefigge soprattutto di estendere l'approccio microeconomico a tutti gli altri tipi di analisi sociale e anche di sostituirsi alle altre scienze sociali, alla nuova economia istituzionale interessa soltanto analizzare determinati fenomeni che, pur facendo parte della vita economica, non sono mai stati studiati dagli economisti: l'organizzazione interna delle imprese, l'interazione tra imprese e diritto, ecc.
Per quanto concerne invece le teorie usate dagli esponenti della nuova economia istituzionale, è evidente che esse talvolta coincidono con quelle dell'imperialismo economico. Questo è il caso, per esempio, della teoria della rappresentanza (agency) e di quella dei diritti di proprietà. Il concetto di rappresentanza proviene dal pensiero giuridico. La teoria della rappresentanza si occupa essenzialmente di rapporti che coinvolgono un rappresentato (un datore di lavoro, per esempio) e un rappresentante (un lavoratore). Il problema consiste nell'analizzare per quale motivo il rappresentante fa o non fa ciò che il rappresentato desidera e quali possono essere le conseguenze economiche di ciò. La teoria dei diritti di proprietà studia l'interazione tra economia e struttura giuridica, collegandole in modo più stretto di quanto facciano di solito le analisi economiche o giuridiche convenzionali. Una terza teoria adottata dalla nuova economia istituzionale (ma definita ufficialmente come una forma di neoistituzionalismo) è quella del costo di transazione. La teoria del costo di transazione è stata sviluppata soprattutto da Oliver Williamson e parte dal presupposto che lo studio dei diversi costi delle transazioni economiche può rivelarsi molto utile per risolvere una serie di difficili problemi della teoria economica. In Market and hierarchies (1975), per esempio, Williamson sostiene che la decisione di far ricorso a un'impresa o a un mercato dipende dai costi di transazione che si devono affrontare. Altre opere che, secondo Williamson, rientrano, benché marginalmente, nell'ambito della nuova economia istituzionale sono Internal labor markets and manpower analysis (1971) di Peter Doeringer e Michael Piore e An evolutionary theory of economic change (1982) di Richard Nelson e Sidney Winter (v. Williamson, 1975). Il primo di questi due lavori è di natura prevalentemente sociologica, mentre il secondo è un misto di idee schumpeteriane e di modelli matematici.
Una critica che è stata rivolta a più riprese alla nuova economia istituzionale riguarda il suo modo di usare il concetto di 'efficienza'. Secondo la nuova economia istituzionale una istituzione economica si afferma e sopravvive semplicemente perché rappresenta una soluzione efficiente di qualche problema che il mercato non è in grado di risolvere. Per i critici questa tesi non è affatto convincente, perché conduce nella stessa trappola in cui cade la sociologia funzionalista: se tutto ciò che esiste è 'efficiente', allora il concetto di efficienza dev'essere esteso a tal punto che l'intera analisi diventa tautologica. Alcuni esponenti della nuova economia istituzionale hanno reagito positivamente a queste critiche, e non mancano buoni motivi per pensare che essi continueranno a sviluppare le proprie concezioni in direzioni nuove e interessanti, pur senza troncare del tutto i legami con la scienza economica dominante. Inoltre alcuni autori - tra cui lo stesso Williamson - hanno dato prova di una certa disponibilità al dialogo con la sociologia. In definitiva la nuova economia istituzionale è caratterizzata da una certa flessibilità, che invece manca all'imperialismo economico e che lascia ben sperare per quanto riguarda i futuri sviluppi di questo nuovo tipo di istituzionalismo.
Il rinnovato interesse che oggi si avverte nei confronti del dibattito sui rapporti tra economia e società dipende in larga misura dai più recenti sviluppi della sociologia economica. La sociologia economica comprende un ampio spettro di concezioni, che vanno dalla 'sociologia delle scelte razionali' alla 'socioeconomia'. La tesi di fondo della sociologia delle scelte razionali, come dice, per esempio, James Coleman nel suo Foundations of social theory (1990), è che la sociologia dovrebbe abbandonare buona parte dei suoi interessi tradizionali e fare invece assegnamento sull'individualismo metodologico e su altri concetti della microeconomia. L'idea chiave della socioeconomia, come spiega il suo fondatore Amitai Etzioni in The moral dimension: towards a new economics (1988), è che l'economia neoclassica è troppo angusta e andrebbe perciò sostituita con una nuova scienza economica interdisciplinare molto più ampia. La nuova sociologia economica si colloca tra queste due posizioni e sostanzialmente si prefigge lo scopo di analizzare l'economia da un punto di vista strettamente sociologico. In altri termini la nuova sociologia economica rappresenta un tentativo di studiare i fenomeni economici tradizionali attraverso i concetti tipici della sociologia, quali quelli di 'struttura sociale', 'ruolo', 'reticolo' (network), ecc.
La nuova sociologia economica è sorta negli Stati Uniti, dove essa ha anche le sue basi più solide; comunque un marcato interesse nei suoi confronti è riscontrabile anche in vari paesi europei, come l'Italia e la Germania. Inoltre i sociologi dei paesi dell'Est e della ex Unione Sovietica sembrano particolarmente ansiosi di assimilare la nuova sociologia economica, spinti sia dal desiderio di trovare un sostituto dell'ideologia marxista sia da pura curiosità intellettuale. In breve in diversi paesi c'è un grande interesse per la nuova sociologia economica, interesse che sembra tutt'ora in crescita. La nuova sociologia economica è nata nei primi anni ottanta, anche se le sue radici risalgono al periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. La contestazione studentesca, per esempio, contribuì alla diffusione nei circoli accademici del marxismo e dell'idea che economia e società siano strettamente connesse. Nel corso degli anni settanta tornarono in auge la sociologia weberiana e la teoria sociale femminista, che lasciarono la loro impronta sulla nuova sociologia economica. Nello stesso periodo si riaccese anche l'interesse per la teoria dei reticoli, che avrebbe avuto conseguenze importanti per la nuova sociologia economica. Parecchi importanti esponenti della nuova sociologia economica americana, per esempio, studiarono la teoria dei reticoli che poi applicarono ad argomenti economici.
L'ispiratore della nuova sociologia economica è stato Harrison C. White, un fisico dedicatosi alla sociologia, che lavorava alla Harvard University. Negli anni settanta, White cominciò a tenere lezioni di teoria dei reticoli; qualche anno dopo prese a studiare i mercati e cercò di sviluppare una teoria sociologica dei mercati. Secondo White l'economia neoclassica non aveva una vera e propria teoria dei mercati, ma soltanto una teoria dello scambio puro e semplice. Nei primi anni ottanta, in un articolo pubblicato sull'"American journal of sociology" e intitolato Where do markets come from? (1981), White propose una teoria sociologica dei mercati. L'idea di fondo era che il mercato nasce da una forma di controllo reciproco tra compratori e venditori, particolarmente per quanto riguarda il volume, il prezzo e la qualità delle merci. White presentò anche una versione matematica della sua teoria, precisando di riferirsi soltanto a mercati con pochi venditori e con pochi compratori. Anche se White deve essere considerato in un certo senso il padre della nuova sociologia economica, il merito di aver divulgato la tesi che i sociologi possono e debbono occuparsi dei problemi economici spetta a Mark Granovetter. Tale tesi costituisce l'argomento di un articolo, molto citato, intitolato Economic action and social structure: the problem of embeddedness, comparso nel 1985 su "The American journal of sociology". Come chiarisce il titolo, Granovetter si ispira all'analisi di Polanyi, e in particolare alla tesi che l'azione economica è 'incorporata' nei rapporti sociali. Il punto di vista di Granovetter, comunque, differisce da quello di Polanyi per due aspetti. In primo luogo, mentre Polanyi pensava che la teoria economica dominante potesse essere usata benissimo per analizzare la società contemporanea (ma non la società preindustriale), per Granovetter anche l'economia moderna è 'incorporata' nei rapporti sociali. Nella stessa ottica, Granovetter critica anche Oliver Williamson e altri esponenti della nuova economia istituzionale rimproverandoli di far troppo affidamento sulla teoria economica dominante. La critica avanzata nei confronti di Williamson e di altri autori perché utilizzano il concetto di efficienza come chiave interpretativa principale in ogni tipo di analisi (v. sopra) proviene proprio da questo articolo di Granovetter. Il secondo aspetto che differenzia la concezione di Granovetter da quella di Polanyi concerne il ruolo dei reticoli in economia. Mentre Polanyi era stato piuttosto vago a proposito del modo in cui l'economia è effettivamente incorporata nei rapporti sociali, Granovetter sostiene invece che tale modalità può essere mostrata esattamente mediante l'analisi dei reticoli.
A partire dai primi anni ottanta i sociologi americani hanno fatto ricorso alla teoria dei reticoli per analizzare tutta una serie di fenomeni economici, tra cui i mercati, i fondi di investimento e l'interazione tra le grandi imprese. Anche la sociologia che si ispira al marxismo può del resto avvalersi di questo tipo di approccio, come dimostra, per esempio, il saggio di Beth Mintz e di Michael Schwartz The power structure of American business (1985). L'idea di fondo di questo studio è che per localizzare i centri del potere economico basta esaminare la composizione dei consigli di amministrazione delle grandi imprese. Se un membro di una di queste imprese è rappresentato nel consiglio di amministrazione di un'altra, allora tra le due società esiste una connessione che può essere considerata alla stregua di un collegamento in un reticolo. I limiti di questo tipo di analisi sono stati messi in evidenza, per esempio, da Donald Palmer nel suo studio sui 'legami spezzati', dove egli analizza cosa accade quando un membro di un consiglio di amministrazione di una grande impresa si dimette.
Oltre che dello studio dei reticoli, la nuova sociologia economica si è occupata anche di varie forme di organizzazione economica e del ruolo della cultura nella vita economica. L'analisi proposta da Williamson in Market and hierarchies, per esempio, è stata prontamente messa in dubbio sulla base del fatto che i mercati e le strutture gerarchiche sono spesso simili. Analogamente sono state messe in discussione anche le tesi sulla nascita delle imprese 'multidivisionali' esposte in The visible hand (1977) da Alfred Chandler. Si è osservato, per esempio, che nello spiegare l'adozione di tale tipo di imprese Chandler sottolinea troppo il ruolo della tecnologia e degli incentivi economici, mentre ignora, per esempio, il ruolo dello Stato nel modellare l'organizzazione delle imprese. Si è fatto inoltre notare che Chandler ritiene che una certa struttura organizzativa sia adottata semplicemente a causa della sua 'efficienza'. Secondo alcune recenti ricerche sociologiche, tuttavia, le grandi imprese si imitano fra loro sulla base della convinzione che sia necessario avere un certo tipo di organizzazione.
Sul ruolo della cultura nella vita economica i pareri degli esponenti della nuova sociologia economica sono discordi. Da un lato c'è chi sostiene che se si fa ricorso a un concetto come quello di 'cultura' per spiegare, poniamo, il successo dell'economia giapponese, in realtà non si spiega assolutamente niente. Dall'altro vi sono quelli secondo cui la sociologia economica odierna tende a essere troppo limitata e a trascurare molti importanti e sottili influssi che la cultura esercita sull'economia. Una sostenitrice di questa impostazione è Viviana Zelizer, che ha analizzato svariati fenomeni quali l'assicurazione sulla vita, il valore economico dei bambini e il ruolo del denaro nella società moderna.
In conclusione la sociologia economica sta attraversando una fase di grande vitalità. Ciò non significa, ovviamente, che essa non abbia le sue difficoltà. Tra queste va senz'altro annoverato il fatto che essa è scarsamente istituzionalizzata: nelle università non vi sono molte cattedre di sociologia economica; in pratica non esistono riviste di settore; non è facile ottenere finanziamenti per la ricerca in questa disciplina. Queste carenze dipendono in fondo dal persistente scetticismo di buona parte degli esponenti delle scienze sociali nei confronti della sociologia economica. In un certo senso si continua a pensare che soltanto gli economisti debbano occuparsi di economia. In ultima analisi, naturalmente, è la scienza economica che dovrebbe essere al centro del dibattito sui rapporti tra economia e società. Nel corso di questo secolo, però, la teoria economica dominante si è isolata sempre più dalle altre scienze sociali, e ciò ha impoverito e per un lungo periodo di tempo ha quasi completamente interrotto ogni discussione su economia e società. C'è da augurarsi che questa situazione si modifichi e che possa nascere una nuova scienza economica più aperta e più duttile. Non possiamo ancora sapere che aspetto avrà questa economia del futuro; già oggi, tuttavia, disponiamo di un modello estremamente valido cui la nuova economia potrebbe ispirarsi, vale a dire la Sozialökonomik di Weber e Schumpeter. Secondo Schumpeter, come abbiamo già detto, la scienza economica dovrebbe comprendere diversi campi disciplinari, tra cui la teoria economica, la sociologia economica e la storia economica. È abbastanza evidente che una tale Sozialökonomik sarebbe molto più confacente al dibattito su economia e società di quanto non lo sia la teoria economica oggi dominante. (V. anche Economia; Sociologia).
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di George Dalton
1. Introduzione
Prima di indicare i fattori che caratterizzano, differenziandolo, il vasto e variegato insieme di realtà economiche studiate dagli antropologi, è necessario dar conto di alcune peculiarità dell'antropologia economica, la disciplina che si occupa delle forme che l'economia assume nel contesto di società organizzate in bande, tribù e comunità contadine. Bisognerà poi spiegare quali siano i tratti comuni a tutte le economie, passate e presenti, e quali, invece, le differenze, per giungere poi a delineare le caratteristiche specifiche del capitalismo industriale. Tutte queste operazioni preliminari sono indispensabili perché è innanzitutto necessario individuare due serie di quelli che Ludwig Wittgenstein avrebbe chiamato "ostacoli posti sul cammino della comprensione". Una prima serie di ostacoli scaturisce dalla complessità e dalla diversità delle società concrete studiate dagli antropologi e dal mutamento nel tempo di tali società. La seconda dipende invece dalla struttura estremamente diversificata delle teorie adottate dagli studiosi di antropologia economica - il formalismo, il marxismo e il sostanzialismo di Polanyi - ognuna delle quali conduce ad analisi (e conclusioni) profondamente diverse delle caratteristiche specifiche dell'economia e della società strutturate in bande, tribù e comunità contadine.
2. L'oggetto dell'antropologia economica
L'antropologia economica condivide molte caratteristiche della disciplina da cui proviene, vale a dire l'antropologia sociale. Questa disciplina, che è usualmente classificata nel novero delle scienze sociali insieme all'economia, alla sociologia e alla scienza politica, se ne differenzia significativamente per molti aspetti: gli studiosi impegnati in essa non sono molti, mentre la gamma delle problematiche, dei tipi di società e dei periodi storici che essi studiano è molto ampia e le loro analisi riguardando società diverse sparse in tutto il mondo, al di fuori dell'area delle nazioni industriali avanzate dell'Europa occidentale e del Nordamerica.
A differenza dell'economia, l'antropologia sociale non si è mai occupata, fino a tempi recentissimi, di formulare specifiche proposte politiche finalizzate al progresso, allo sviluppo e alla modernizzazione dei diversi sistemi economici analizzati. Malinowski non studiava la coltivazione dell'igname nelle isole Trobriand (1935) o gli scambi cerimoniali kula (1922) per trovare il modo di incrementare la produttività agricola e il commercio estero delle Trobriand. Agli antropologi interessava semplicemente comprendere la realtà, non migliorarla. Da questo punto di vista l'atteggiamento degli antropologi sociali è molto più affine a quello degli archeologi o degli storici del Medioevo che non a quello degli economisti, il cui interesse per la conoscenza dei fenomeni è sempre finalizzato alla possibilità di individuare concrete strategie politiche atte a favorire un miglior rendimento economico. Gli antropologi, per altro, non si interessano esclusivamente a quelle che definirei 'conclusioni analitiche', ma anche di trasmettere ai lettori le concezioni dei popoli indigeni circa l'economia, la cultura e la società in cui vivono: per esempio i miti sull'origine del loro clan, la spiegazione che essi danno della crescita delle piante, del destino che li attende dopo la morte, o della siccità dell'anno passato. Ma ciò che soprattutto differenzia l'antropologia sociale dall'economia è il metodo di cui si servono gli antropologi per raccogliere informazioni e dati: la ricerca sul campo attuata vivendo per un certo periodo di tempo in piccole comunità di villaggio. In realtà gli antropologi non studiano le economie o le società nazionali dell'India, del Perù o della Nuova Guinea; piuttosto essi si occupano di un campione ristretto, costituito da piccoli villaggi rurali in India, in Perù o in Nuova Guinea.
Così la principale fonte di informazioni concrete è costituita per l'antropologo sociale dalla ricerca sul campo, dal lavoro solitario che, per un anno o due, egli svolge vivendo a contatto diretto con le popolazioni che vuole studiare, inserito nelle comunità di villaggio, costituite da poche decine o centinaia di persone. Queste ricerche sono condotte di solito nelle zone rurali delle nazioni in via di sviluppo del Terzo Mondo, nelle piccole comunità residue di Indiani nordamericani o tra gli attuali discendenti degli Aborigeni australiani. Abbiamo tuttavia anche libri di antropologi che utilizzano la ricerca storica: lavori sull'organizzazione della società inca in Perù prima dell'arrivo degli spagnoli nel 1532 (v. Murra, 1980), sulla reazione degli Inca nei primi cinquanta anni di dominio coloniale dopo la conquista spagnola (v. Wachtel, 1971), sui cambiamenti provocati da 300 anni di incursioni effettuate dagli Spagnoli prima e dagli Americani poi tra le tribù indiane degli Stati Uniti sudoccidentali (v. Spicer, 1962). Quando studiano le economie e le società del periodo precoloniale, o i cambiamenti provocati dal dominio coloniale europeo, americano o giapponese, gli antropologi, da ricercatori sul campo, si trasformano così in veri e propri storici.
La caratteristica più rilevante dei milioni di comunità di villaggio sparse in tutto il mondo è costituita dalla loro straordinaria varietà e dal loro costante modificarsi nel tempo. Dagli inizi del Novecento (con l'opera di Boas, Thurnwald, Malinowski) ai giorni nostri, queste comunità sono state ripetutamente oggetto di ricerche sul campo. Fino alla seconda guerra mondiale, le ricerche sono state prevalentemente condotte da antropologi provenienti dalla Francia, dalla Gran Bretagna (cioè dai paesi che avevano il maggior numero di possedimenti coloniali) e dagli Stati Uniti, sul cui territorio si trovavano gli Indiani indigeni e dove, a partire dagli anni trenta, furono fatte oggetto di studio le comunità agricole caraibiche o dell'America Latina. Dopo il secondo conflitto mondiale, in concomitanza con il rapido sviluppo di tutte le scienze sociali e con il sorgere dell'interesse nei confronti dei nuovi paesi indipendenti del Terzo Mondo in Africa o in Asia, antropologi di diverse nazioni, del vecchio continente o extraeuropee, pubblicarono svariati lavori di ricerca sul campo. Una parte significativa di questi studi era dedicata alla situazione delle comunità contadine di villaggio in nazioni o regioni in via di sviluppo e industrializzazione, come il Perù, la Turchia, la Grecia, Haiti, la Sicilia, la Spagna e la Iugoslavia.
La storia e le condizioni geografiche hanno di per sé grande importanza nel determinare le enormi differenze riscontrabili tra le diverse comunità di villaggio analizzate dall'antropologia economica. Questa disciplina studia comunità sparse su tutti i continenti e su tutte le isole abitate del mondo, la loro struttura sociale originaria e le modifiche introdotte da quando gli Europei, cinquecento anni fa, scoprirono e colonizzarono il Nuovo Mondo prima, e poi l'Australia e la Nuova Zelanda, e inviarono spedizioni commerciali in Asia, in Africa e altrove. La maggior parte delle comunità studiate dagli antropologi (ma non tutte) si trova nelle zone del mondo colonizzate dagli imperi europei, nordamericani e giapponesi tra il 1500 e il 1900. Ciò consente di distinguere tra periodo precoloniale, coloniale e postcoloniale. Il periodo precoloniale è quello delle economie e società cosiddette 'aborigene', 'indigene' o 'tradizionali'; il periodo del dominio coloniale europeo, americano e giapponese è dal canto suo estremamente diversificato sia per quanto riguarda la durata, sia per la profondità dell'impatto che ha determinato (il Messico, l'America centrale e meridionale e i Caraibi sono stati sotto il dominio spagnolo per più di tre secoli, la Corea invece è stata una colonia giapponese solo per 35 anni); il periodo postcoloniale, infine, può essere fatto iniziare, in genere, con il conseguimento dell'indipendenza da parte dell'India nel 1947. Anche in questo caso ci sono differenze significative: basti pensare che le colonie spagnole del Nuovo Mondo erano per la maggior parte Stati indipendenti già nel 1825.
Anche a limitarsi esclusivamente alle strutture precoloniali, il lavoro degli antropologi prende in esame economie e società che variano grandemente quanto a popolazione, territorio, tecnologie, fonti alimentari e tipi di organizzazione politica. Si va dalle bande di cacciatori e raccoglitori del deserto del Kalahary - piccole unità autosufficienti composte da una ventina di persone che non conoscono né Stato, né mercato, né città, né scrittura - ai raggruppamenti tribali presenti all'interno dei regni africani, che comprendono centinaia di migliaia di persone, ai villaggi di contadini dell'India, dell'Indonesia e di altre zone asiatiche, i cui abitanti condividono lingua e religione con milioni di altri abitanti dello stesso Stato e hanno rapporti stabili con i mercati e con le città.Queste notevoli differenze ci costringono a inventare tutta una varietà di raggruppamenti, classificazioni, tipologie, distinzioni e concetti tecnici, al fine di poter formulare giudizi analitici sull'economia e sulla struttura sociale che risultino attendibili e pertinenti riguardo a particolari periodi storici, a specifici tipi di economia e a specifici ambiti e argomenti all'interno dell'universo antropologico nel suo complesso (v. tab. I).
Le classificazioni e i concetti tecnici che possono essere adottati da uno studioso di antropologia economica variano in modo estremamente significativo a seconda del sistema teorico di riferimento, o 'paradigma', in cui egli si colloca, vale a dire a seconda che sia marxista (v. Godelier, 1980), formalista (v. Schneider, 1974) o, come chi scrive, sostanzialista (v. Polanyi, 1957; v. Valensi e altri, 1981; v. Dalton, 1981). Questo fatto è di particolare rilevanza, dato che i diversi sistemi teorici ai quali possono essere ricondotti i concetti tecnici e le classificazioni portano a conclusioni diverse riguardo a quelle che sono le caratteristiche più autentiche, più importanti e più peculiari della società o dell'economia che si prende in esame.
I formalisti si servono dei concetti base della teoria dei prezzi elaborati dai neoclassici fondatori della microeconomia tra il 1870 e il 1890, W. Jevons, C. Menger, J.B. Clark e A. Marshall. A questi studiosi in realtà interessava esclusivamente analizzare il funzionamento dei mercati degli inputs e degli outputs nel nascente capitalismo industriale dell'Inghilterra vittoriana, dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti. Questi padri fondatori non pensavano affatto alle economie degli Inca, dei Nuer o delle isole Trobriand. Gli antropologi formalisti si servono invece della teoria del mercato, ideata per spiegare il caso dell'Inghilterra vittoriana, per analizzare proprio le economie Inca, Nuer o delle isole Trobriand, perché pensano che tutte le economie, in ogni epoca e in ogni luogo, presentino una affinità fondamentale con il capitalismo industriale: la condizione di 'scarsità', cioè una richiesta di beni e servizi sempre eccedente rispetto a ciò che si riesce a produrre. Tale scarsità dà luogo necessariamente a dinamiche di 'massimizzazione' ed 'economizzazione', che sono proprio i processi analizzati dalla microeconomia. Per i formalisti le economie Inca, Nuer e delle Trobriand erano solo delle varianti preindustriali di quel capitalismo di mercato dell'Inghilterra vittoriana per analizzare il quale era stata concepita la teoria della domanda e dell'offerta. Essi ritengono, pertanto, che le analogie tra il capitalismo industriale e le economie contadine o tribali studiate dagli antropologi siano più importanti delle differenze (v. Hopkins, 1973; v. Dalton, 1976).
Anche la teoria economica marxista, che risale alla seconda metà del XIX secolo, venne messa a punto per analizzare il capitalismo industriale europeo e americano. Un secolo dopo, negli anni sessanta del Novecento, gli antropologi marxisti giunsero alla conclusione che il sistema teorico di Marx forniva concetti e sistemi di classificazione atti a definire anche le caratteristiche peculiari delle economie e delle società precapitalistiche, preidustriali e precoloniali (quali quelle Inca, Nuer e delle Trobriand) come pure le trasformazioni delle società contadine e lo sviluppo postcoloniale. E come i marxisti interpretano la struttura e il funzionamento del capitalismo industriale in Italia o negli Stati Uniti in modo molto diverso da quello degli economisti non marxisti, lo stesso vale anche per l'interpretazione marxista delle economie dell'Africa precoloniale o degli Inca. Questi studiosi riconducono tutti i dati fattuali delle economie primitive nell'ambito della teoria di Marx - concetti, classificazioni, principi - nella quale sono già individuate, a loro avviso, le strutture, le istituzioni e le relazioni che devono considerarsi fondamentali nello studio di qualsiasi economia: i modi e i rapporti di produzione, le forze produttive, le classi, il surplus e lo sfruttamento.
Il terzo quadro teorico è stato elaborato da Karl Polanyi (1886-1964) in tre libri pubblicati tra il 1944 e il 1966 e in una dozzina di articoli (v. Polanyi, 1968). Molti dei suoi concetti tecnici, dei suoi principi fondamentali e delle sue classificazioni provengono dal lavoro di autori precedenti, quali Bücher, Maine, Tönnies, Weber, Mauss, Thurnwald e Malinowski.Scrivendo un centinaio di anni dopo Marx e circa sessanta anni dopo Alfred Marshall, Polanyi aveva sugli economisti del secolo precedente il considerevole vantaggio di poter tener conto anche degli avvenimenti significativi del XX secolo (la Rivoluzione bolscevica, il sistema economico stalinista, i due conflitti mondiali, la grande depressione degli anni trenta, la differenza tra le risposte politiche di Hitler e di Roosevelt al tracollo del capitalismo negli anni trenta). A questi eventi è dedicato La grande trasformazione (1944). Polanyi comprese anche l'importanza che il lavoro e la ricerca sul campo effettuati dagli antropologi potevano avere ai fini della comprensione delle economie preindustriali, e di ciò parla nel capitolo quarto - Società e sistemi economici - e nella relativa appendice di La grande trasformazione. Il punto di vista di Polanyi sull'antropologia economica, le sue analisi della storia economica preindustriale europea ed extraeuropea, le sue tesi sulle origini, sulla crescita e sullo sviluppo del capitalismo industriale contribuirono a dar vita al modello teorico relativo alle economie precapitalistiche esposto in Traffici e mercati negli antichi imperi (1957).
Il completo disaccordo di Polanyi dalle posizioni dei formalisti (v. Polanyi, 1957, cap. 13, e 1971) può essere spiegato brevemente. Polanyi concorda con Marx su due punti soltanto: 1) che la disciplina che noi oggi definiamo come antropologia economica dovrebbe, insieme alla storia economica primitiva, costituire un unico campo di ricerche sulla struttura e sul funzionamento delle economie e delle società precapitalistiche, preindustriali e precoloniali; 2) che lo studio di qualsiasi economia non può essere separato dall'analisi dell'organizzazione politica e sociale entro la quale tale economia si colloca.I tratti principali del pensiero di Polanyi possono venir così riassunti: l'organizzazione nazionale e internazionale del mercato, che è giunta a dominare e a integrare il capitalismo industriale del XIX secolo in Europa e in America, è qualcosa di unico a livello storico e antropologico; essa ha reso le società nazionali basate sul mercato molto diverse - sia dal punto di vista dell'organizzazione e del funzionamento dell'economia, sia per le conseguenze a livello economico, sociale e politico - da qualsiasi altra società precedente.
La microeconomia - la tradizionale analisi della domanda e dell'offerta ideata per analizzare le scelte di mercato delle famiglie e delle imprese nel capitalismo industriale - è fuorviante, inappropriata e distorce la realtà delle cose ove i suoi concetti, le sue premesse e le sue conclusioni analitiche siano applicati a sistemi economici che ignorano i mercati o le macchine: per esempio quando è applicata a economie come quelle dei Nuer, delle Trobriand o degli Inca, le cui caratteristiche salienti e peculiari non coincidono con le caratteristiche principali delle economie e delle società del capitalismo industriale come quelle degli Stati Uniti o dell'Italia.Per comprendere il funzionamento delle economie non di mercato sono dunque necessari uno specifico vocabolario concettuale e un insieme di principi -un paradigma specifico insomma - molto diversi da quelli della microeconomia o del marxismo. Le caratteristiche strutturali di queste società sono infatti sistematicamente diverse dalle caratteristiche del capitalismo industriale, e cioè di quel sistema economico per analizzare il quale Marx e Marshall misero a punto le loro teorie. La differenza strutturale di fondo delle economie precoloniali - Nuer, delle Trobriand, Inca - non è data semplicemente dall'assenza di tecnologia industriale, ma anche dall'assenza di quella capillare rete di mercati interdipendenti necessaria per effettuare scambi e transazioni su base monetaria, tipici dell'economia capitalistica. Nelle società precapitalistiche gli individui non dipendono dal mercato per vendere il proprio lavoro e per guadagnare il reddito monetario con cui procacciarsi i beni di consumo: i contadini e i pastori non comprano lavoro, terra o strumenti per produrre, né vendono i loro raccolti o il loro bestiame. Le occasionali transazioni di mercato indigene, come gli scambi gimwali studiati da Malinowski nelle Trobriand, sono fenomeni limitati e sporadici: il mercato costituisce un piccolo settore marginale all'interno di un sistema economico più ampio governato da quei principi di transazione che oggi usiamo definire di 'reciprocità'. (Analogamente, anche nel sistema non di mercato staliniano esisteva un limitato settore di mercato per alcuni generi alimentari prodotti su appezzamenti privati nell'ambito di aziende agricole collettive).
L'assenza di un'economia di mercato globale, che risalta con tanta evidenza nei sistemi precoloniali, caratterizza anche i sistemi economici, greci e romani, dell'età classica. Scrive per esempio Moses I. Finley: "La società antica non possedeva un sistema economico costituito da un enorme agglomerato di mercati interdipendenti [...] i 'principî' [della microeconomia], siano quelli di Alfred Marshall o di Paul Samuelson, e i modelli [di mercato] che adottiamo [per analizzare il capitalismo industriale] tendono a darci un'idea sbagliata delle cose" (v. Finley, 1973, pp. 22-23).
Un giudizio analogo è espresso anche da W. Arthur Lewis, un economista che si occupa dei paesi in via di sviluppo. Nella sua introduzione a un ottimo lavoro di ricerca antropologica sul campo, dedicato allo sviluppo rurale postcoloniale in due villaggi dell'India meridionale, Lewis scrive: "Gli economisti si sono occupati prevalentemente dell'economia di mercato e hanno lasciato lo studio dell'economia non di mercato agli antropologi [...] l'economista che studia l'economia non di mercato dovrà perciò mettere da parte la maggior parte delle sue conoscenze e adottare le tecniche degli antropologi" (v. Epstein, 1962; v. anche Epstein, 1973).
In assenza di un'organizzazione economica basata largamente su meccanismi di mercato, che regoli le transazioni di terra, lavoro e strumenti, l'economia è 'incorporata' nella società. Sia la sussistenza ordinaria (il procacciamento e la produzione di risorse alimentari), sia l'economia politica e sociale (il 'prezzo-della-sposa', il risarcimento per uccisioni o ferite, gli scambi rituali come kula, potlatch e moka nelle società senza Stato, i beni del re o i monopoli reali, i traffici con l'estero amministrati politicamente e i rapporti di alleanza sanciti da tributi nei regni primitivi) sono socialmente e politicamente controllate (v. Dalton, 1981). Per quanto riguarda le società precapitalistiche, Polanyi pertanto prende le distanze dal determinismo economico dell'organizzazione politica e sociale che caratterizza l'analisi marxiana.In società quali quelle Nuer, delle Trobriand o Inca non è possibile contraddistinguere l''economia' come un sottosistema separato e nettamente distinto dal lignaggio, dal matrimonio, dalle alleanze o dalle attività economiche del re. Gli organismi e le istituzioni che provvedono a garantire con sistematicità i rifornimenti materiali sono strutture tanto politiche e sociali quanto economiche: il lignaggio, il matrimonio, l'alleanza militare, la figura e la funzione del re. Economia, società, sistema politico e cultura sono inestricabilmente connessi in tutte quelle società, del passato o del presente, nelle quali la rete capitalistica di mercato non costituisce la matrice fondamentale dell'organizzazione. "L'antropologia sociale dà ormai per scontato che le istituzioni economiche, soprattutto nelle società più semplici e ristrette, siano strettamente connesse ad altre istituzioni e ad altri valori generalmente considerati non di tipo economico, e che anzi siano addirittura prive di significato al di fuori di questi" (v. Beattie, 1961).
Ciò tuttavia non vale solo per le società 'più semplici'. Ad esempio è ovvio che nell'economia dirigista staliniana il sistema economico delle industrie nazionalizzate, della pianificazione centrale e dell'agricoltura collettivizzata era 'incorporato' nel sistema politico di Stalin, che controllava direttamente il Partito e lo Stato comunista. E proprio come gli economisti hanno dovuto inventare una speciale terminologia tecnica e concettuale per analizzare il sistema economico staliniano ('economia dirigista', 'pianificazione', 'indici del successo di un'impresa'), del momento che il linguaggio concettuale dell'economia di mercato non era utilizzabile, anche Polanyi e i suoi seguaci hanno creato termini come 'reciprocità', 'redistribuzione', 'porti di scambio', 'scambi amministrati politicamente', 'moneta adatta a scopi speciali'.
Una delle principali conclusioni analitiche di Polanyi è che le differenze tra le economie Nuer, delle Trobriand e Inca da una parte e il capitalismo industriale dall'altra sono più importanti delle affinità. Proprio tali differenze rendono necessario mettere a punto uno specifico insieme di concetti analitici e di classificazioni, diversi da quelli adottati per studiare l'economia di mercato. Tuttavia tra le varie economie, passate e presenti, esistono anche analogie di cui bisogna render conto (v. Polanyi, 1971). Quali sono i tratti comuni a tutte le economie? Perché tutte le società hanno una economia o un sistema economico di qualche tipo? Le bande, le tribù, i regni, i moderni Stati capitalisti o comunisti sono tutti costituiti da esseri umani - uomini, donne, bambini - riuniti in un qualche tipo di raggruppamento sociale, di comunità o di società. Sia che studiamo una banda di cacciatori dell'età della pietra, o l'Impero romano o l'Unione Sovietica, siamo comunque sempre in presenza di gruppi di esseri umani, che, in quanto entità biologiche, hanno bisogno di approvvigionamenti costanti per sopravvivere fisicamente (cibo), e di società (bande, clan, nazioni), che necessitano di un analogo approvvigionamento per continuare a sussistere come entità autonome e integrate. Tali gruppi devono, cioè, essere approvvigionati di tutti i beni e i servizi indispensabili a soddisfare i bisogni e le attività che la cultura e il tipo di governo della loro società richiedono, e delle tecnologie e delle risorse che la stessa società consente (armamenti, finanziamenti per usi di pace o di guerra, prezzo-della-sposa per potersi sposare, mezzi per il sostentamento degli sciamani, dei sacerdoti oppure dei membri del Politburo).
Ovunque insomma vi sia una società di uomini capace di perpetuarsi, possiamo aspettarci di trovare dei principi fondamentali che regolano la sua organizzazione 'economica': norme per l'allocazione e lo scambio di terra, lavoro, strumenti tecnici e prassi istituzionalizzate (come, per esempio, il commercio estero) che rendono possibile l'approvvigionamento continuativo delle persone e dei gruppi sociali. Questo non è mai lasciato al caso, ma è sempre strutturato, perché le carenze materiali conducono alla morte sia degli individui, sia delle società in quanto entità autonome e integrate. Per 'sistema economico' intendiamo dunque l'organizzazione, le regole e le istituzioni attraverso le quali viene strutturato questo costante processo di approvvigionamento materiale. Ma come studiando le economie contemporanee dell'Italia, del Giappone, della Svezia o dell'Unione Sovietica constatiamo che le rispettive forme organizzative, regole e istituzioni possono essere molto diverse tra loro, allo stesso modo possiamo riscontrare notevoli differenze tra le economie precoloniali Inca o Nuer, o anche tra l'economia della Cina del secolo scorso e quella di oggi.
Per approvvigionarsi, tutte le società utilizzano risorse naturali, lavoro umano, tecnologia (utensili, macchine e conoscenze relative ai processi di acquisizione e di produzione), una serie di procedimenti e di meccanismi istituzionalizzati e un qualche tipo di commercio estero, di moneta e di mercati. Dal punto di vista dell'antropologia economica e della storia economica antica questi fattori sono molto importanti, perché la conoscenza del modo in cui il commercio estero, il denaro e i mercati funzionano concretamente nelle singole economie (degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica, o delle isole Trobriand) ci fornisce importanti indizi strutturali sulla realtà di quelle società. Una delle intuizioni più importanti di Polanyi è che l'uso degli oggetti-moneta e l'organizzazione degli scambi con l'estero in una determinata economia sono indici estremamente efficaci e rivelatori dei principi fondamentali che regolano l'approvvigionamento materiale in quel tipo di economia. Se i porti adibiti al commercio estero nell'Inghilterra anglosassone (v. Hodges, 1982) o nella Cina dei Qing (v. Mancall, 1968) funzionavano diversamente dal modo in cui è organizzato il commercio estero britannico o cinese ai giorni nostri, questo dipende dal fatto più generale che la struttura politica ed economica interna dell'Inghilterra anglosassone o della Cina dei Qing è diversa da quella della Gran Bretagna o della Cina contemporanee. Lo stesso vale anche per quanto riguarda la moneta (v. Grierson, 1978).
3. Tipologie dei sistemi economico-sociali precoloniali, coloniali e postcoloniali
Per sistematizzare i dati che abbiamo a disposizione e per giungere a conclusioni analitiche sulle economie e sulle società studiate dagli antropologi, si adottano oggi diversi tipi di classificazione e di concetti tecnici. La tab. II propone una classificazione duplice, secondo le tipologie economico-sociali e secondo i periodi storici. Per motivi che saranno spiegati più avanti, le società contadine richiedono uno specifico tipo di analisi e debbono essere tenute distinte dalle bande e dalle tribù.
Questo primo gruppo di economie e società è di particolare interesse per varie ragioni. Ad esso si rivolse l'attenzione dei primi antropologi - americani, inglesi e tedeschi - che si dedicarono alla ricerca sul campo e introdussero l'antropologia nel novero delle discipline accademiche. L'opera e le pubblicazioni di questi pionieri (Boas, Malinowski, Evans-Pritchard) definirono l'ambito e l'oggetto dell'antropologia sociale. In alcune di queste società senza Stato era in uso una pratica di grande rilevanza, quella dello scambio cerimoniale (il potlatch tra i Kwakiutl, il kula delle isole Trobriand, o il moka delle Highlands in Nuova Guinea) che alcuni studi recenti hanno ulteriormente chiarito e illustrato (v. Strathern, 1971; v. Rosman e Rubel, 1971; v. Dalton, 1978). Proprio queste società (e altre) vennero analizzate nel 1924 da Marcel Mauss nel suo studio comparativo sullo scambio di doni (v. Mauss, 1925).Prima di cadere sotto il dominio coloniale queste economie, questi sistemi politici, queste società e culture erano quanto di più lontano si possa immaginare dall'Europa o dall'America contemporanee (si tratta in effetti delle società più 'primitive' tra tutte quelle studiate dagli antropologi). Esse non presentavano nessuna delle caratteristiche chiave del moderno capitalismo industriale: non avevano tecnologia delle macchine, né scienza applicata; non esisteva lo Stato, e quindi non vi erano né re, né aristocrazia, né moneta coniata; non c'erano città; la scrittura era sconosciuta; non esisteva alcuna religione universale (come il cattolicesimo o l'Islam); non c'erano mercati del lavoro o della terra, e la sussistenza non dipendeva da essi. Per di più, queste società erano costituite da popolazioni poco numerose e da piccole comunità politiche. Erano pressoché cronicamente in guerra e quasi tutte avevano sperimentato periodi di carestia o di fame.Proprio come l'impiego su vasta scala della tecnologia delle macchine costituisce lo spartiacque che separa l'economia di paesi come l'Italia o il Giappone da una situazione preindustriale, analogamente nelle economie precoloniali studiate dagli antropologi la presenza o l'assenza di un governo centrale (un regno o uno Stato) rappresenta un cruciale fattore di demarcazione. Tutte le società senza Stato adottano principî molto peculiari di organizzazione e di transazione a livello sia economico che sociale: cioè, sia per quanto riguarda la sussistenza (approvvigionamento giornaliero di cibo tramite caccia, raccolta e pastorizia, agricoltura basata sulla tecnica del 'tagliae-brucia'), sia nel settore dell'economia politica e sociale (prezzo-della-sposa, risarcimento per uccisioni o ferite, scambi cerimoniali: kula, potlatch, moka). In entrambi i settori, le istituzioni socioeconomiche di queste popolazioni sono diretta espressione delle loro particolari condizioni demografiche, ecologiche, tecnologiche, politico-sociali e religiose: una rudimentale tecnologia che non riesce a risolvere problemi come la siccità o le malattie delle piante; l'importanza centrale del lignaggio, del clan o della comunità locale in tutte le attività, incluse quelle economiche; le speciali forme di scambio di doni, al fine di stabilire quattro tipi di alleanze con segmenti di clan esterni (alleanze matrimoniali, alleanze belliche, alleanze basate sullo scambio cerimoniale o sul commercio); i sistemi di credenze religiose in cui gli antenati assurgono al ruolo di spiriti protettori e vegliano sui successi e sugli insuccessi delle comunità; il ruolo e le iniziative volte a promuovere l'ordine interno e i rapporti con gli altri, la guerra e la pace, dei big-men e dei capi del lignaggio; le minacce croniche di carestia e di conflitto. Tutte queste cose concorrono a stabilire una situazione di dipendenza ecologica dall'ambiente fisico (dalla terra, dal clima, dai corsi d'acqua e dalle foreste); di dipendenza soprannaturale dagli spiriti degli antenati; infine di dipendenza dal lignaggio, dal clan e dagli alleati esterni, per quanto riguarda la terra, il lavoro, il sostentamento materiale dei malati e degli anziani, i matrimoni, la soluzione delle dispute, la protezione politica contro i nemici esterni, e la disponibilità di rifugi e di scorte alimentari di emergenza.
A parte l'espressione, assai vaga, 'economie tribali', non esiste un modo convenzionale per designare con precisione questo tipo di 'sistema economico', anche perché le istituzioni della comunità (Gemeinschaft) che provvedono alla sussistenza ordinaria e orientano l'economia politica e sociale - il lignaggio, il clan, la guida politica in guerra e in pace e la formazione di alleanze - sono tutte istituzioni 'non economiche'. In queste società senza Stato il principio della 'reciprocità' svolge un ruolo egemone e generale sia per l'ambito della sussistenza ordinaria che per quello dell'economia politica e sociale. Per reciprocità si intendono le allocazioni e le transazioni, interne ed esterne, di terra, lavoro, prodotti alimentari, spose e oggetti di valore, nonché determinate forme coercitive di scambio di doni finalizzate alla creazione e al mantenimento di stabili relazioni sociali e politiche tra individui e tra gruppi (v. Sahlins, 1972). Presso queste società senza Stato lo scambio di 'oggetti di valore primitivi' e lo scambio cerimoniale rappresentano istituzioni socioeconomiche peculiari e di grande importanza (v. tabb. III e IV).
Il dominio coloniale europeo modificò drasticamente queste caratteristiche, le relazioni di dipendenza, i rapporti di alleanza e di ostilità: venne posto termine alla guerra tra i vari gruppi indigeni e gli Europei introdussero i loro beni e i loro strumenti, il cristianesimo, il governo centralizzato, e quelle potenti istituzioni di mercato che sono la valuta, la produzione agricola per il mercato e il lavoro salariato (v. Dalton, 1978 e 1984).
Solo nell'Africa subsahariana continuarono ad esistere, fin oltre l'inizio della dominazione coloniale europea alla fine del XIX secolo, più di una cinquantina di regni tribali. Di questa categoria (tipo II) fanno parte anche l'impero Inca (v. Murra, 1980) e l'Inghilterra anglosassone del periodo compreso tra l'arrivo dei Germani, intorno al 400 d.C., e la conversione al cristianesimo intorno al 600. Per quanto riguarda i regni africani, disponiamo - oltre che di due dozzine e più di ricerche antropologiche sul campo - di una serie ancor più ampia di analisi a opera di storici; tra queste va menzionato lo studio di Polanyi sul Dahomey e il traffico degli schiavi (Dahomey and the slave trade, 1966), che spiega e illustra in modo dettagliato ciò che egli intende con "redistribuzione" e "scambio amministrato" e descrive la "sagra annua dei sacrifizi" tenuta dal re.
Non è possibile far rientrare in un unico modello unitario ed esauriente le diverse realtà dei regni africani precoloniali. La maggior parte di questi ignorava la scrittura e pertanto gli antropologi non poterono far ricorso a testimonianze scritte quando giunsero in quei paesi, almeno una generazione dopo l'inizio del dominio coloniale (francese, inglese, tedesco o belga) che ne aveva già modificato la realtà in modo significativo. Ci manca perciò una gran quantità di informazioni. "Quando uno Stato soccombe alla conquista di una potenza coloniale, il sistema di governo subisce immediatamente tutta una serie di cambiamenti bruschi e di vasta portata [...]. Pertanto il lavoro di ricerca sul campo effettuato in uno Stato in tali condizioni [...] ci darà un'immagine di quel regno molto diversa dalla situazione precedente" (v. Goody, 1967, p. 179). Tra l'arrivo in Africa dei primi mercanti europei (portoghesi, inglesi, francesi, ecc.) nel 1500 e l'insediamento ufficiale del dominio coloniale verso il 1890 passano più di trecento anni. In questo periodo il traffico degli schiavi oltre Atlantico e il commercio dell'oro e dell'avorio tra Europei e Africani trasformarono alcuni regni, come l'Ashante e il Dahomey, in imperi di mercanti di schiavi. Un'altra profonda trasformazione, precedente il dominio coloniale, fu causata dalla penetrazione dell'Islam nell'Africa Nera e dalla conquista del potere da parte dei musulmani in parecchi regni africani. In nessun momento della loro esistenza precoloniale i regni africani hanno presentato strutture organizzative simili, e in molti di essi si sono verificati profondi cambiamenti nei secoli che hanno preceduto il dominio coloniale europeo. Schematicamente, possiamo classificare i regni africani in quattro gruppi distinti, evidenziandone così le differenze strutturali.
Il primo gruppo è quello che chiamerò dei regni 'feudali', ad esempio il regno Nkole o il Rwanda: qui un'élite dominante di guerrieri e allevatori di bestiame si differenzia tanto nettamente dai suoi clientiservi, fisicamente diversi, più numerosi e dediti all'agricoltura, che per descrivere questi sistemi gli antropologi e gli storici parlano di caste, di feudalesimo, di servitù e di Stati di conquista (v. Oberg, 1940; v. Maquet, 1961). Ci sono poi i regni 'tribali' che non commerciano con gli Europei, come il Lozi o il Baganda: vengono definiti tribali perché le loro unità costitutive sono i clan e perché la loro tecnologia non è più progredita - né a livello militare né per quanto riguarda la produzione del cibo, ecc. - di quella dei clan e delle altre tribù africane senza Stato (v. Gluckman, 1983).
Il terzo gruppo è quello dei regni tribali attivamente impegnati nel commercio con l'Europa, come il regno degli Ashanti o il Dahomey. Il commercio permise ai re o all'élite dominante di avere accesso alle armi e ai beni di lusso europei: le armi servivano per favorire un'espansione imperialista, finalizzata ad ottenere tributi e schiavi; i beni di lusso per pagare i servizi di un'élite burocratica in via di espansione (v. Wilks, 1975; v. Polanyi, 1966). Infine ci sono gli Stati-regno musulmani, molto più simili alle civiltà contadine dell'Europa, del Giappone e della Cina del periodo preindustriale che non agli altri regni africani che abbiamo appena descritto: le analogie si riscontrano riguardo alla religione, alla più sviluppata tecnologia, all'organizzazione militare, al livello di urbanizzazione, al commercio e all'alfabetizzazione. L'Islam implicava una religione universale, la conoscenza della scrittura, la presenza di mercanti di professione, contatti continui - religiosi, culturali, commerciali - verso nord, attraverso il Sahara settentrionale, con le coste del Mediterraneo, e verso nord-est con l'Egitto. I regni musulmani avevano una milizia a cavallo e artigiani riuniti in corporazioni (v. Nadel, 1942; v. Smith, 1967). La tab. V colloca i regni tribali precoloniali tra le società precoloniali senza Stato e le economie preindustriali di Stati-regno che includono comunità contadine. La caratteristica più rilevante dei regni tribali africani è che essi condividevano significative caratteristiche strutturali con entrambi gli altri modelli: per quanto riguarda la vita di villaggio, la tecnologia della produzione alimentare, il possesso della terra, l'assenza di alfabetizzazione, l'importanza delle affiliazioni di lignaggio, ecc., questi regni erano molto simili alle società senza Stato, come quella dei Tiv o dei Tallensi. Ma la presenza di un re e di una élite di governo e le loro importanti funzioni - economiche, politiche, militari e religiose - mostrano che essi avevano anche parecchie affinità con le società contadine degli Stati-regno dell'Europa, del Giappone e della Cina preindustriali: re sacri che svolgevano diverse funzioni; un settore redistributivo di pagamenti obbligatori a favore del governo centrale e di esborsi da parte di quest'ultimo; una stratificazione sociale, leggi suntuarie, monopoli reali, un settore del commercio estero amministrato politicamente e un sistema di alleanze tributarie (v. Dalton, 1981).
Un sottogruppo di società tribali - non tutte, solo alcune - subì un'esperienza brutale e traumatica che ne causò la decimazione; per indicare il profondo sconvolgimento, lo shock, la trasformazione forzata e la catastrofe demografica causati dal colonialismo si devono usare termini come 'distruttivo' e 'degenerativo'. I casi meglio documentati sono quelli degli Aborigeni australiani (v. Rowley, 1970) e degli Indiani d'America e delle isole caraibiche (v. Cook, 1976; v. Wolf, 1959, capp. 8-11; v. Wachtel, 1971). La conquista violenta, il drastico declino demografico causato dalle malattie, dalla guerra e dalla fame, l'assoggettamento, il trasferimento e la trasformazione forzati ridussero sistematicamente gli Indiani del Nuovo Mondo e gli Aborigeni australiani al livello di inferiori rispetto ai loro colonizzatori europei e americani, che alla fine giunsero a sopraffarli anche numericamente.
Un secondo gruppo di società tribali sfuggì del tutto all'effetto distruttivo del mutamento imposto dal colonialismo. I casi meglio documentati sono quelli delle colonie britanniche in Africa, grazie all'opera di molti antropologi che lavorarono sul campo nel contesto africano nel periodo tra le due guerre; disponiamo inoltre di alcune penetranti indagini analitiche sulle conseguenze del dominio coloniale britannico in Africa (v. Perham, 1963; v. Mair, 1963).
Le intenzioni degli inglesi nei confronti delle loro colonie africane sono abbastanza chiare: stabilire l'ordine e la legge, ossia porre fine alle guerre tribali e alla schiavitù; imporre le leggi scritte e le procedure giudiziarie europee; introdurre tecniche agricole e adottare misure sanitarie per migliorare le condizioni di vita dei nativi, combattendo la carestia cronica e le epidemie; dare avvio, infine, a un processo di 'civilizzazione' a lungo termine, con l'introduzione del cristianesimo, dell'alfabetizzazione e dell'istruzione elementare, e promuovendo la commercializzazione (introduzione del lavoro salariato e produzione agricola per il mercato interno ed internazionale).
Ma ciò che gli Inglesi non furono in grado di creare in Africa durante i quasi settanta anni del loro dominio coloniale (1890-1960) sono quelli che Lewis (v., 1970, cap. 1) considera i fondamenti dello sviluppo: una trasformazione del settore agricolo capace di garantire un incremento annuo di produttività; la creazione di infrastrutture (trasporti, elettricità, scuole, ecc.); la formazione di una forza lavoro professionalmente qualificata, sia sul piano tecnico che imprenditoriale; tasse e risparmi in misura sufficiente per finanziare i servizi pubblici e la formazione del capitale. Il dominio coloniale britannico ridusse così l'incidenza della fame e delle malattie, ma non fu in grado di avviare lo sviluppo economico.Infine, una conseguenza non intenzionale dei cambiamenti causati dal colonialismo inglese fu l'avvio di un processo di trasformazione dei membri delle tribù africane in 'contadini'. Il dominio coloniale inglese introdusse lo Stato e il governo centrale, la pacifica risoluzione delle dispute (proibendo gli scontri e i conflitti cruenti all'interno del territorio dello Stato), una religione universale (il cristianesimo), l'alfabetizzazione e soprattutto il mercato del lavoro e un grande aumento della produzione agricola per il mercato (v. United Nations, 1979). L'indipendenza e la fine del colonialismo dovevano accelerare questo processo di trasformazione degli indigeni africani in contadini.
Le economie e le società contadine sono particolarmente importanti almeno per due motivi: in qualsiasi momento, negli ultimi 2000 anni, la popolazione mondiale è stata composta da un maggior numero di contadini che non da appartenenti a tribù senza Stato o a regni tribali; disponiamo inoltre di un'approfondita letteratura storica relativa alle società contadine dell'Europa e dell'Asia. Possiamo così studiare la struttura delle società contadine in diversi momenti storici e il loro progressivo cambiamento nel corso di diversi secoli, mentre ciò non è invece possibile per quanto riguarda le società tribali.
Ma le società contadine sono assai numerose e diffuse, sono presenti in epoche storiche molto diverse e alcune di esse sono dotate di istituzioni specifiche (il sistema delle caste in India, il feudalesimo in Europa); inoltre non tutte hanno vissuto le stesse esperienze storiche, determinanti per la loro trasformazione (pensiamo alle numerose conquiste della Sicilia ad opera di conquistatori così diversi, alla conquista della Spagna da parte dei Mori, all'espansione dei Turchi nei Balcani e in Nordafrica, alla Rivoluzione francese, alla carestia che colpì l'Irlanda negli anni quaranta del secolo scorso); queste società sono state analizzate in modo molto particolare dagli studiosi marxisti (v. Shanin, 1971). Ad ogni modo, la complessità delle società contadine e le differenze che le caratterizzano sono enormi, sicché anche la controversia teorica intorno a ciò che le distingue dagli altri tipi di economia e di società è molto serrata (v. Dalton, 1974).
Attualmente vi è almeno una settantina di nazioni in cui la maggior parte della popolazione rurale è composta o da contadini (l'India, il Messico) oppure da agricoltori che discendono da contadini, ma che si trovano ormai in una situazione 'post-contadina' (Francia, Giappone, Germania). Per motivi che saranno spiegati in seguito, è particolarmente rivelatore lo studio di due gruppi di società contadine. L'analisi di questi modelli ci metterà in grado di apprendere alcune cose essenziali sulla struttura e sulle trasformazioni di tutte le economie e società contadine. Il primo gruppo è composto dalle società contadine presenti un tempo in Francia, Germania e Giappone, che fanno parte delle società del tipo III; il secondo, di cui fanno parte le società contadine dell'America Latina e dei Caraibi, sarà classificato separatamente, come società del tipo IV.
Le economie contadine della Francia, della Germania e del Giappone ci offrono un modello di trasformazione molto istruttivo, in quanto possiamo studiarle lungo un periodo di circa un millennio, dal feudalesimo medievale fino a oggi. La lezione che se ne trae è che il mondo contadino tramonta in generale in due maniere diverse: con l'abbandono del lavoro agricolo per la città e il lavoro industriale; oppure, pur rimanendo nel settore agricolo, con il passaggio a una condizione 'post-contadina': questi agricoltori-cittadini perdono la loro vecchia identità contadina perché il loro reddito, il loro livello di partecipazione al mercato e di dipendenza da esso, nonché il loro grado di istruzione, di partecipazione politica e di espressione culturale non sono più inferiori o sostanzialmente diversi da quelli dei lavoratori dell'industria urbanizzati (v. Dalton, 1986). I contadini in effetti restano contadini in senso stretto solo finché restano, rispetto agli altri membri della società nazionale cui appartengono, in una condizione di sensibile inferiorità e di diversità culturale che si rispecchia in tutte le dimensioni più importanti dell'esistenza - economica e tecnologica, politica e giuridica, sociale e culturale. Le caratteristiche che contraddistinguono i contadini sono la loro arretratezza per ciò che riguarda i metodi della produzione agricola, la loro inferiorità politica, economica e sociale rispetto agli altri membri della società nazionale cui appartengono e le loro usanze e tradizioni culturali peculiari (dialetto, abitudini alimentari, modo di vestire, usanze matrimoniali, ecc.; v. Weber, 1976, capp. 1-11).
Il passaggio dei contadini dell'Europa occidentale (e del Giappone) dallo stato di servitù feudale (in cui vivevano circa mille anni fa nel Medioevo) alla condizione post-contadina dei giorni nostri ha implicato mutamenti generali dell'economia e cambiamenti tecnologici, politici, giuridici, sociali e culturali, i quali hanno contribuito a ridurre o a eliminare l'inferiorità e la diversità dei contadini rispetto agli altri membri della società, e ad abbassare a circa il 10% o anche meno la quota nazionale di forza lavoro impiegata nel settore agricolo.
Le società contadine dei paesi come la Francia e la Germania sono sopravvissute più di un migliaio di anni perché, in tali paesi, la trasformazione delle tribù senza Stato e dei regni tribali primitivi in società contadine all'interno di Stati-regno avvenne molto presto; e inoltre perché i fattori che contribuirono a trasformare i contadini in non contadini o in post-contadini (sviluppo dei mercati nazionali e internazionali, sviluppo industriale sostenuto, progresso economico, moderno Welfare State, democrazia politica) impiegarono circa 150 anni (1820-1970) ad affermarsi e a ridurre il settore agricolo dal 50 al 10% della forza lavoro, garantendo al tempo stesso a chi continuava a dedicarsi all'agricoltura redditi, istruzione, risorse tecnologiche, diritti politici e pratiche culturali di tipo urbano sostanzialmente equivalenti a quelli degli impiegati nell'industria (v. Priebe, 1976; v. Franklin, 1969). In Giappone le medesime trasformazioni si verificarono in circa 100 anni (1870-1970), mentre a Taiwan e nella Corea del Sud il processo sarà ancora più rapido. Comunque tutte le economie contadine di lungo insediamento hanno conosciuto il medesimo processo di trasformazione.
Prima dell'arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, in Messico, nell'America centrale e meridionale e nei Caraibi non esistevano società contadine, ma solo tribù senza Stato (ad esempio i Caribi o gli indiani Yanomamo) e regni tribali (Inca). Le comunità contadine dell'America Latina furono create durante i trecento anni di dominio coloniale spagnolo con la trasformazione e con il trasferimento di popolazioni appartenenti a ceppi diversi: gli indigeni indiani furono trasformati in contadini 'ibridi' (conservarono la lingua e le abitudini alimentari indiane, ma si convertirono al cattolicesimo e furono ridotti allo stato di servi degli Spagnoli); gli schiavi importati dall'Africa e messi al lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero divennero anch'essi contadini 'ibridi', conservando alcuni elementi della cultura africana, come dimostra il caso di Haiti; ci fu poi l'immigrazione dei contadini asiatici ed europei in America Latina e nei Caraibi (v. Mintz, 1968).
I trecento anni di colonialismo spagnolo modellarono sia queste comunità contadine, sia il più ampio insieme delle economie e delle società latinoamericane mediante l'introduzione di tre tipi di istituzioni tipicamente europee: il cattolicesimo, alcune varianti della servitù feudale cui vennero assoggettati gli Indiani (e l'assegnazione di grandi latifondi ai signori spagnoli) e il mercantilismo, vale a dire un tipo preindustriale di esportazione di materie prime per la vendita sul mercato (minerali e prodotti agricoli).
L'indipendenza politica dalla Spagna, ottenuta relativamente presto, non pose tuttavia le basi dello sviluppo economico, non portò con sé la democrazia politica, né spinse i governi a impegnarsi a favore di una certa equità nella distribuzione del reddito o a migliorare le condizioni sanitarie e dell'istruzione.Le realtà contadine dell'America Latina e dei Caraibi vanno perciò distinte da quelle di lungo insediamento del tipo III (la Francia e il Giappone) per due ordini di motivi: in primo luogo perché esse vennero create dopo il 1500 dalle istituzioni imposte dal regime coloniale spagnolo; in secondo luogo perché, pur a un secolo e mezzo dall'indipendenza dagli spagnoli, l'America Latina non ha ancora conosciuto un grande sviluppo economico e per questo motivo i suoi molti contadini, sempre più poveri, non hanno ancora raggiunto la condizione non contadina o post-contadina raggiunta invece in Francia e in Giappone. Tutti gli indicatori che permettono di misurare il basso livello di sviluppo dell'America Latina contribuiscono del resto a spiegare le ragioni del persistere di questa condizione di povertà contadina: essenzialmente esse vanno individuate nella distribuzione estremamente diseguale del reddito e della proprietà terriera; nell'ampiezza delle zone di povertà assoluta; negli alti livelli di mortalità infantile e di crescita demografica; in un'instabilità politica cronica; in problemi cronici di indebitamento con l'estero; nell'inflazione, nella crisi della bilancia dei pagamenti; nella disoccupazione urbana e nella presenza di baraccopoli alle periferie delle principali città; in un'agricoltura stagnante (v. Griffin, 1974; v. Barraclough, 1976). (V. anche Antropologia ed etnologia; Contadini; Economia; Evoluzione culturale umana, processi della).
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