ECONOMIA PROGRAMMATICA (fr. économie dirigée; ted. Planwirtschaft; ingl. planned economy, economic planning)
Con questa espressione s'indica un'economia il cui principio unitario non consista nell'incontro naturale delle iniziative dei singoli, bensì nel coordinamento delle iniziative singole secondo un piano o un programma comune.
Il problema dell'economia programmatica, giunto a consapevolezza scientifica soltanto da pochi anni, può dirsi si sia posto storicamente negli anni della guerra mondiale. Precedenti teorici e soprattutto pratici si ritrovano, naturalmente, fin nelle più remote epoche e ogni volta che una collettività ha inteso il bisogno di stringersi intorno a un'unica bandiera per la difesa di un interesse comune, ma soltanto nella guerra mondiale la necessità dell'organizzazione di tanti popoli educati alle ideologie economiche del liberalismo ha potuto far sorgere con evidenza il problema nei suoi precisi termini ideali e tecnici. Il risultato maggiore che il movimento dottrinale politico ed economico iniziatosi nel sec. XVIII aveva raggiunto nella coscienza dei popoli si riassumeva nella sfiducia in ogni amministrazione economica di carattere statale o comunque pubblico. Ma la guerra mondiale, pur lasciando pressoché impregiudicata teoricamente la questione, impose di fatto il capovolgimento del principio. A poco a poco tutta l'economia assunse carattere statale e attraverso organismi centrali e periferici, regolamenti della produzione e della distribuzione, calmieri, contingentamenti, requisizioni, ecc., il regime di libera concorrenza fu ridotto ai minimi termini. Lo stato entrò dovunque e tutto sottopose a una disciplina unitaria, a quel "piano" che le necessità della difesa e dell'offesa imponevano con urgenza assoluta. Il supremo interesse della nazione in pericolo finiva con l'avere facilmente ragione di ogni principio astrattamente individualistico.
La necessità di un piano economico nazionale veniva poi rafforzata da una ragione di carattere internazionale e cioè dalla riduzione forzata degli scambî tra i diversi paesi. Il mercato internazionale non solo era spezzato nei due gruppi di nazioni in guerra, ma era anche ridotto nell'ambito di ciascun gruppo dalle difficoltà dei trasporti e delle comunicazioni marittime. Nasceva, dunque, per ogni nazione il bisogno di una vita economica indipendente e di una organizzazione tale che consentisse anche le produzioni meno redditizie. Al principio del liberalismo si sostituiva quello dell'autarchia e la diversità del principio non poteva non condurre al coordinamento dei programmi di tutte le aziende in un unico programma.
Nel dopoguerra, un forte movimento di reazione si sviluppò subito contro ogni intervento dello stato e degli enti pubblici nel campo dell'economia. La severa disciplina di guerra e i sacrifizî per tanto tempo sopportati facevano anelare a una libertà senza limiti. E il movimento era secondato sul terreno scientifico dagli economisti rimasti fermi ai loro principî liberali e volti perciò alla critica accanita dell'economia bellica e soprattutto della politica annonaria cui si era dovuto ricorrere. Gl'inevitabili abusi e gli inevitabili errori di un'organizzazione burocratica, sorta in contrasto con ogni dottrina e perciò senza l'ausilio di norme e di principî orientativi, diventavano facile bersaglio di una critica aprioristica che voleva vedere in essi solo la conferma della propria infallibilità scientifica.
Lo stato d'animo così formatosi trovò poi facile modo di estrinsecarsi e trionfare per la debolezza dei governi dell'immediato dopoguerra. La parola d'ordine fu quella della lotta a oltranza contro ogni bardatura di guerra e ogni gestione di carattere pubblico. Si ridiscusse anche il problema dei servizî pubblici e si giunse a qualche cessione di essi ai privati. L'individualismo si esasperava contemporaneamente all'indebolirsi dell'unità statale.
Al movimento di reazione liberale sfuggiva soltanto la Russia. Liberatasi prima degli altri paesi dal regime di guerra, essa veniva fin dal 1917 ponendo le basi del nuovo ordinamento socialista ispirato alle dottrine di Marx e di Lenin. Il concetto di economia programmatica implicito in queste teorie veniva a porsi in piena evidenza sotto lo stimolo della rivoluzione. Furono dapprima norme e direttive dettate dal bisogno di far fronte alle situazioni che si venivano determinando, poi piani parziali per i diversi campi di produzione agricola e industriale, infine l'esigenza di studiare un piano organico che giunse alla massima determinatezza nel primo e nel secondo piano quinquennale (1929-32; 1933-37: v. u.r.s.s., XXXIV, p. 825, segg.).
Tutta l'Unione delle repubbliche sovietiche divenne una sorta di immenso trust amministrato da un'unica burocrazia statale, regolatrice della produzione, della distribuzione e del consumo. Il liberalismo occidentale gridò al fallimento e involgendo nella stessa condanna il regime bolscevico e la sua politica economica, respinse senz'altro come illogica e dannosa ogni idea di piano economico o di economia programmatica. Condanna aprioristica che se poteva valere contro un regime sordamente burocratico limitato da ideologie a sfondo materialistico, si convertiva poi in una serie di pregiudizî che ostacolavano ogni effettivo superamento del liberalismo e del sistema capitalistico che ne è l'espressione economica. Così avvenne che, anche laddove l'idea dello stato tornò a farsi sentire imperiosa e a far porre come fondamentale il problema della collaborazione degl'individui per il raggiungimento di un unico fine statale, la conseguente trasformazione del sistema economico incontrasse un'ostinata opposizione.
Tipico l'esempio del fascismo. Giunto al potere in un periodo di caotico individualismo, il fascismo escluse dapprima dal suo programma di riaffermazione dello stato e dal suo concetto di stato etico quasi tutto il campo economico, dove la sua politica dal 1922 al 1925 rimase caratterizzata pressoché esclusivamente dai principî liberali. Soltanto nel 1926 con la prima organica soluzione del problema sindacale e poi nel 1927 con la Carta del lavoro la posizione comincia a mutarsi per poi trasformarsi ogni anno di più con ritmo accelerato. Molto tardi si comincerà a parlare di piani economici e ancora più tardi senza prevenzioni e ostilità, ma già l'idea di piano, sia pure inteso in limiti assai ristretti, è implicita nella lotta contro i danni dell'urbanesimo, nella battaglia per il grano, nella bonifica integrale, nella politica demografica, ecc. Scoppiata la crisi mondiale, durante gli anni 1930 e 1931 si matura a poco a poco l'idea di una politica economica organica e veramente corporativa. Nel 1932 il problema diventa esplicito e il problema corporativo rapidamente si sposta dal terreno delle condizioni di lavoro e della conciliazione degli opposti sindacati a quello della disciplina della produzione. E nel 1934 con la legge 5 febbraio, n. 163, sono istituite le corporazioni. L'articolo 8 dispone che "oltre ad esercitare le attribuzioni ed i poteri di cui alla legge 3 aprile 1926, n. 563, e al r. decreto 10 luglio 1926, n. 1130, la corporazione elabora le norme per il regolamento collettivo dei rapporti economici e per la disciplina unitaria della produzione". Con questa disposizione il passo decisivo verso l'economia programmatica è stato compiuto (v. autarchia, App.; corporativismo: Sviluppi dell'attività e della legislazione corporativa in Italia; App.).
La crisi economica ha fatto porre ben presto lo stesso problema anche fuori d'Italia. Ma la mancanza di regimi politici autoritarî, capaci di tentare una soluzione pratica, ha fatto sì che il movimento verso l'economia programmatica si limitasse per lo più al campo delle discussioni e delle elaborazioni scientifiche. Solo dal 1933, negli Stati Uniti e nella Germania si sono cominciate ad attuare nuove soluzioni di carattere organico; e anche in Inghilterra, in Australia, in Giappone, e ormai a poco a poco, un po' dappertutto, esigenze simili cominciano ad affiorare. Regimi politici non rinnovati non consentono lo stesso rapido cammino, ma le crescenti difficoltà di vita del sistema capitalistico finiscono col far porre dovunque gli stessi problemi e con l'avviare alle stesse soluzioni.
Non meno esteso e rilevante è diventato negli ultimi anni il movimento scientifico intorno al problema dell'economia programmatica, che viene via via arricchendosi dei motivi e dei problemi suggeriti dalla nuova politica economica. I precedenti delle nuove teorie vanno ritrovati per una parte nei postulati del socialismo e per l'altra nelle indagini circa l'organizzazione scientifica del lavoro. Il socialismo, infatti, aveva posto l'esigenza di superare l'individualismo capitalistico sostituendo all'iniziativa e alla volontà del singolo imprenditore la collaborazione di tutti e la subordinazione della volontà di tutti al fine comune. Principio che finiva con l'incontrarsi con quello dell'organizzazione scientifica del lavoro, il quale, pur essendo sorto in regime capitalistico, costituiva una conseguenza del progressivo ingigantire delle imprese industriali e cioè dell'esigenza tecnica, che è insita nello stesso industrialismo, di trascendere a poco a poco la struttura del sistema dal quale aveva tratto origine e alimento.
Questa duplice origine spiega lo sviluppo e i caratteri del movimento scientifico. In Russia, dove il socialismo tende ad attuarsi attraverso l'industrialismo, la fusione delle due esigenze è naturalmente più evidente e organica. Tuttavia la necessità di procedere a un'immediata attuazione del programma ha finito col fare concentrare tutta l'attenzione sul problema politico e pratico dell'organizzazione e col far passare in seconda linea la ricerca più propriamente scientifica. In Germania al contrario, dove il problema pratico si è posto concretamente solo da poco tempo, la letteratura sulla cosiddetta Planwirtschaft ha avuto un grande sviluppo sia dal punto di vista politico (socialismo), sia dal punto di vista tecnico. Soprattutto al problema tecnico, invece, si è ispirata la letteratura americana, poco sensibile alle ideologie di carattere socialista e ricca della massima parte degli studî sull'organizzazione scientifica del lavoro. L'esigenza del tecnicismo è anzi giunta a tal punto da dare luogo allo specifico movimento della tecnocrazia, troppo facilmente negletto da chi ne osservi soltanto alcune strambe conseguenze.
In Italia si è giunti molto tardi alla consapevolezza scientifica del problema e quando già il corporativismo aveva dato elementi pratici sufficienti per una compiuta elaborazione del sistema. I primi studî sull'economia programmatica risalgono al 1932 e ancora oggi sono molto scarsi. Ciò non toglie che i risultati raggiunti siano più considerevoli e organici che altrove, soprattutto per l'esigenza che si è subito posta di conciliare il carattere programmatico dell'economia con quello antiburocratico, e di superare in tal guisa la critica rivolta dal liberalismo a ogni forma di statalismo.
Le conclusioni cui si è pervenuti si possono riassumere così. Perché vi sia progresso economico o comunque una vita economica che non si esaurisca nell'attività del momento è necessario un programma. Il problema è quindi di vedere quali siano le condizioni imprescindibili della realizzazione del programma posto. In regime liberale o capitalistico il programma è formulato dal singolo imprenditore che orienta la produzione secondo la propria previsione del mercato. Perché il programma abbia probabilità di riuscita è necessario che la previsione sia possibile e cioè che gli elementi del futuro mercato siano precisabili e conoscibili. Questo può avvenire allorché il mercato è relativamente ristretto, il numero dei produttori e degli acquirenti relativamente noto, i possibili nuovi concorrenti relativamente prevedibili. Solo a tali condizioni è possibile produrre con la probabilità che il mercato assorba tutta la merce prodotta e a prezzo sufficiente perché l'impresa viva. Fino a che tali condizioni si verificavano il regime capitalistico poteva essere utile e avere la forza di superare le inevitabili crisi (previsioni sbagliate e programmi in tutto o in parte inattuabili); ma oggi che il mercato si è allargato enormemente e che per molte merci può dirsi addirittura mondiale, la previsione è resa sempre più difficile e le condizioni aleatorie di ogni programma sono diventate così numerose da renderne estremamente improbabile la realizzazione. Il singolo imprenditore non ha più la forza di affrontare il rischio e chiede garanzia per l'attuazione del suo programma. Nasce così il problema dell'intervento statale e del sistema economico detto del socialismo di stato. Capitalismo, sì, e conseguente iniziativa e programma privati, ma azione dello stato a difesa della produzione. I soggetti del sistema economico diventano di due sorte: privati e stato; e le conseguenti interferenze dei relativi programmi rendono ancora più aleatoria la loro realizzazione. Ogni intervento dello stato sposta l'equilibrio di tutto il mercato, influendo non soltanto sull'azienda o sul gruppo di aziende in favore di cui l'intervento si attua, ma su tutte indistintamente le aziende che sono in collegamento con il medesimo mercato. All'imprevedibilità, che è relativa, dei comuni fattori economici, si aggiunge l'imprevedibilità, che è assoluta, di un arbitrario intervento.
Dalla contraddizione si può uscire soltanto con la formulazione di un unico programma che regoli tutta la vita economica della collettività. Sennonché all'unità del programma si può giungere per due vie e cioè attraverso il socialismo o il corporativismo. Nel primo caso "eliminato il concetto di libera concorrenza e lo stesso concetto di mercato o di merce, il programma è formulato dallo stato, che determina in modo totalitario produzione, distribuzione e consumo. È formulato in vista dell'ideale del massimo benessere di tutti, considerando tutti sullo stesso piano, materialisticamente eguali e indifferenziati di fronte al potere burocratico regolatore. Un tale programma è solo astrattamente logico e realizzabile: in effetti ad esso manca il principio dialettico spirituale, che lo tramuti da ideale statico in ideale dinamico. Da una parte gl'individui, per poter essere tutti eguali, sono tutti ridotti al livello dei peggiori (riduzione marxistica di ogni lavoro a lavoro materiale misurabile col tempo); da un'altra parte lo stato, inteso come ente burocratico centrale, è costretto ad accentuare il processo di livellamento generale, non potendo, nella necessaria sua limitatezza, conoscere le infinite differenziazioni della complessa vita sociale. Il programma diventa schematico e uniforme, e tende inesorabilmente a una presunta perfezione immobile. La sua logicità o razionalità è ottenuta a costo della concretezza e dell'aderenza alla vita: tutta la ricchezza di motivi esaltata dalla teoria e dalla prassi del liberalismo, lungi dall'essere disciplinata e potenziata, è senz'altro distrutta. Né deve apparire strano che, per questa distruzione, l'astratta logicità si tramuti di fatto in un'illogicità disumana e vada a infrangersi contro difficoltà tecniche e politiche insormontabili".
Nel corporativismo, invece, tutte le ragioni della critica del liberalismo allo statalismo economico sono integralmente riconosciute e superate, trasformando la stessa concezione dello stato. Questo si realizza soltanto nella corporazione e perciò negl'individui tutti gerarchicamente disposti nell'ordinamento corporativo. Non più un potere burocratico di fronte a una massa livellata, bensì la nazione funzionalmente organizzata nell'autogoverno. Di conseguenza il programma economico non sarà più formulato, come in regime capitalistico, dai singoli imprenditori dissociati né, come in regime socialistico, dal governo burocratico, bensì dalla corporazione e anzi dal sistema delle corporazioni, in cui ogni individuo dal suo posto gerarchico farà sentire la sua voce e farà valere la sua iniziativa personale. Programma unico, ma risultante dal programma di tutti, in una dinamica incessante sia nella formulazione sia nell'esecuzione. Programma statale, ma di uno stato che coincide con l'individuo senza soffocarlo e anzi potenziandolo in massimo grado. Programma, infine, economico, ma che nella sua totalitarietà è necessariamente coincidente con la volontà politica ed etica della nazione.
Quanto alle condizioni per la realizzazione di un'economia programmatica così intesa, occorre riconoscere che la trasformazione in senso anticapitalistico è possibile in modo integrale soltanto con la trasformazione analoga del regime economico di tutti gli altri paesi o almeno di quelli che più direttamente sono collegati con l'Italia. Il corporativismo è un principio rivoluzionario di carattere universale e tende a realizzarsi in una nazione che non escluda il sistema internazionale. E l'economia programmatica che lo caratterizza vede il programma nazionale nell'organismo dei programmi delle altre nazioni, in una collaborazione di popoli che, come quella degl'individui, non livelli e meccanicizzi le iniziative e le personalità ma le esalti e ne tragga il massimo alimento.
Bibl.: L'economia programmatica, Firenze 1933, pubblicato dalla Scuola di scienze corporative di Pisa, con scritti di L. Brocard, C. Landauer, J. A. Hobson, L. L. Lorwin, G. Dobbert e U. Spirito, e bibl. di G. Bruguier. Per lo sviluppo pratico dell'economia pragrammatica nei principali paesi del mondo, v. anche il vol. edito dalla stessa scuola, Nuove esperienze economiche, Firenze 1935, con scritti di E. v. Beckerath, G. D. H. Cole, L. L. Lorwin, G. Dobbert, J. B. Condliffe, S. Nagao, U. Spirito. Per l'Italia, v. U. Spirito, Capitalismo e corporativismo, 3ª ed., Firenze 1934.