Economia
Su quali siano l'oggetto e il metodo dell'economia, esistono oggi e sono esistite in passato opinioni diverse. Per questo non cercheremo di fornire una definizione esatta di questo campo di studi, ma piuttosto di delineare in estrema sintesi le concezioni che si sono succedute nel tempo e quelle che sono presenti nel dibattito di oggi. Prima di imboccare questo sentiero, tuttavia, proveremo a fornire alcune indicazioni generali sul campo di lavoro degli economisti e sui suoi rapporti con le altre scienze. Gli economisti hanno di fronte una realtà complessa e in continuo movimento. Da questa isolano alcuni aspetti che assumono a oggetto del loro lavoro d'analisi; quindi procedono alla costruzione di teorie, introducendo ipotesi semplificatrici per isolare quelli che ritengono i principali elementi del problema che intendono affrontare. Le differenze tra i vari approcci dipendono dalle scelte compiute in questo processo di astrazione, e particolarmente da quelle compiute nella sua prima fase.Possiamo distinguere per quest'aspetto due impostazioni di fondo, radicalmente diverse, sulle quali torneremo in dettaglio più avanti: l'impostazione degli economisti classici e quella degli economisti marginalisti. Secondo la concezione classica, prevalente nel periodo della nascita dell'economia come scienza e fino alla seconda metà dell'Ottocento, l'economia politica riguarda l'organizzazione di una società caratterizzata dalla divisione del lavoro e dallo scambio di merci tramite il mercato; si tratta quindi di una scienza sociale, che studia questioni quali la distribuzione del reddito o il ritmo di accumulazione del capitale. Secondo la concezione marginalista, affermatasi a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, il problema economico coincide con quello del calcolo razionale: come ottenere il massimo risultato in presenza di un dato ammontare di risorse disponibili; si tratta quindi di un problema logico, in quanto tale suscettibile di trattazione matematica (come problema di massimo - o minimo - vincolato), e che come tutti i ragionamenti assiomatici risulta 'astorico', nel senso che la struttura dell'analisi - il complesso delle cosiddette leggi economiche, o più precisamente dei teoremi di base - non cambia quando ci si riferisca a società lontane fra loro nel tempo e nello spazio e radicalmente diverse fra loro quanto ad assetto istituzionale.
L'economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950) distingueva tre fasi principali nel lavoro dell'economista: la fase della 'visione preanalitica', che suggerisce i problemi da studiare e, almeno nelle grandi linee, il modo in cui iniziare ad affrontarli; la fase della 'concettualizzazione', in cui si tenta di 'razionalizzare' la complessa realtà che ci si trova di fronte creando categorie mentali che permettono di eliminare dalla scena - di astrarre da - gli aspetti secondari, concentrando l'attenzione sulle caratteristiche distintive considerate più rilevanti (come accade, appunto, con i concetti di salario, rendita, profitto); infine, la fase della 'teorizzazione' vera e propria, in cui si collegano in strutture logiche - in modelli - gli elementi identificati nella fase precedente.
Le differenze tra approcci economici come quello classico e quello marginalista cui si accennava sopra vengono spesso discusse considerando solo l'ultima delle tre fasi di lavoro di cui parla Schumpeter, cioè i modelli teorici che costituiscono il risultato ultimo della ricerca economica; in realtà, tuttavia, queste differenze dipendono principalmente dal procedimento di astrazione-concettualizzazione, cioè dalla prima delle due fasi, e possono essere identificate in modo più preciso confrontando le diverse concezioni del problema economico e il diverso 'contenuto' dei concetti utilizzati.
Il rapporto tra l'economia e le altre scienze sociali, e in particolare tra economia e storia, si pone in modo diverso a seconda di come viene concepita l'economia. Consideriamo ad esempio la semplice dicotomia tra impostazione classica e impostazione marginalista proposta sopra, cioè tra la concezione dell'economia come scienza sociale e storicamente determinata, e la concezione dell'economia come scienza assiomatica del comportamento razionale. Vediamo subito che nel primo caso tutta la struttura teorica - la base concettuale prima ancora che i sistemi di modelli analitici - va sviluppata e modificata nel tempo in una continua interazione tra ricerca economica e ricerca storica. Nel secondo caso, invece, quelli che mutano nel tempo sono considerati dati esogeni del problema economico: la tecnologia, le preferenze del consumatore, o altri più specifici vincoli al funzionamento del mercato, che l'economista marginalista assume come dati il cui studio è demandato a campi di ricerca separati da quello dell'economia, mentre la struttura del problema economico permane invariata nel tempo. Allo stesso modo, la concezione dell'economia come studio dei fattori che determinano l'evoluzione nel tempo della divisione del lavoro e le sue conseguenze (principalmente in termini di accumulazione, occupazione, distribuzione del reddito) implica una stretta interrelazione tra il lavoro dell'economista e quello, ad esempio, del sociologo che analizza l'evolversi della struttura sociale. Viceversa, la concezione dell'economia come scienza del comportamento razionale - ogni soggetto è un homo œconomicus che fonda ogni sua azione su un calcolo razionale - implica l'esclusione dal campo dell'economia di problemi quali il contrasto tra passioni e interessi nel determinare la condotta umana di cui tanto si è discusso dal XVI al XVIII secolo (v. ad es. Hirschman 1977), mentre le determinanti delle preferenze del consumatore, ad esempio, vengono considerate come problema di pertinenza della psicologia sociale, il cui campo d'analisi viene nettamente distinto da quello dell'economia.Un rapporto di condizionamento reciproco può essere infine individuato fra diritto ed economia. Sul piano dell'analisi è bene ricordare che il fondatore dell'economia moderna, Adam Smith, si è occupato sistematicamente di diritto e che, per un altro verso, il sociologo Max Weber si è occupato, sia pure marginalmente, oltre che di economia, anche di diritto. Se ci poniamo dal punto di vista dello sviluppo economico, possiamo rilevare che le stesse innovazioni tecnologiche sono talvolta favorite e talvolta contrastate dal sistema giuridico, e che quest'ultimo muta nel tempo anche per effetto di impulsi generati dalle innovazioni tecnologiche: basti pensare all'elettricità, all'automobile, all'aeroplano, all'elettronica. Sui problemi dell'oggetto e del metodo dell'economia e del suo rapporto con le altre scienze sociali avremo più volte occasione di tornare nel seguito, esaminando lo sviluppo del pensiero economico. Qui ci limitiamo a sottolineare che l'economia, come tutte le scienze che studiano la società, è storicamente condizionata, giacché la società stessa cambia in modo irreversibile nel tempo storico: le scienze sociali vanno viste come cerchi che in parte si sovrappongono e che si muovono tutti nella storia.
L'economia politica inizia a essere riconosciuta come disciplina distinta dalle altre scienze sociali assai gradualmente, a partire dalla seconda metà del XVII secolo; ma solo nella seconda metà del secolo scorso, con l'istituzione delle prime cattedre di economia nelle università, l'economista viene identificato come una figura professionale autonoma.Naturalmente, cenni più o meno sparsi a problemi oggi comunemente ritenuti di competenza degli economisti appaiono già nell'antichità e nel Medioevo. Autori come Diodoro Siculo, Senofonte o Aristotele considerano ad esempio gli aspetti economici della divisione del lavoro, sostenendo fra l'altro che essa permette di raggiungere una migliore qualità del prodotto. Ma nel complesso per lungo tempo - almeno fino al XVII secolo - i problemi economici sono stati affrontati in modo sostanzialmente diverso da come li si affronta oggi. I filosofi e i teologi medievali in particolare, più che tentar di descrivere e interpretare il modo di funzionamento del sistema economico, si proponevano il compito di fornire indicazioni sul comportamento moralmente più giusto da tenere nel campo dei rapporti economici. Così il problema dell'usura non era quello di fornire la spiegazione del livello del tasso d'interesse, ma quello di giustificare la condanna morale del prestito a interesse e di individuare le eccezioni a questo rigoroso precetto morale. Analogamente, il problema del giusto prezzo riguardava non il tentativo di spiegare perché sul mercato i vari beni venivano scambiati a certi prezzi piuttosto che a prezzi più alti o più bassi, ma il tentativo di fornire ai mercanti criteri di condotta. (In questo senso, e non come anticipazioni delle successive teorie del valore classica e marginalista, vanno interpretati i riferimenti ai costi di produzione dei beni scambiati, o alla loro scarsità e utilità per l'acquirente, come criteri di riferimento da utilizzare per fissare rapporti di scambio moralmente corretti.).
Per comprendere il cambiamento intervenuto attorno al XVII secolo nel modo di considerare i problemi economici, occorre ricordare i radicali mutamenti verificatisi nell'organizzazione della vita economica e sociale. Il 'mercato' - inteso come scambio di beni contro denaro - esisteva anche nell'Atene di Pericle o nella Roma di Cesare; ma gli scambi coprivano una quota relativamente limitata della produzione complessiva della società, e le condizioni in cui si svolgevano erano caratterizzate dalla massima irregolarità, a causa di fattori quali l'incidenza dei fenomeni meteorologici sui raccolti, le difficoltà dei trasporti, la diffusa insicurezza rispetto alla criminalità privata e agli interventi arbitrari delle autorità. (Per il primo aspetto - portata limitata degli scambi - possiamo ricordare, ad esempio, che nel Medioevo, secondo Kula - v., 1970 -, gli scambi sul mercato interessano tipicamente solo i beni che rientrano nel sovrappiù, cioè quella parte del prodotto che non è necessaria come mezzo di produzione o di sussistenza per continuare l'attività produttiva. In particolare esisteva già una rete di scambi di prodotti 'di lusso' - spezie, merletti, metalli preziosi - che collegava fra loro aree geografiche anche assai distanti; accanto a essa, era gradualmente sorta una rete di rapporti finanziari tra i maggiori centri commerciali, basata soprattutto su 'lettere di cambio'. Ma l'autoproduzione - cioè la produzione per il consumo diretto dei produttori - che caratterizza le piccole comunità agricole perde terreno rispetto alla produzione per il mercato solo con l'affermarsi del sistema di fabbrica, quando i lavoratori non sono proprietari dei beni che producono, e comunque questi ultimi sono beni diversi da quelli che essi consumano, e quando diviene comune l'utilizzo di mezzi di produzione specializzati - macchinari e impianti - prodotti da altre imprese. Per il secondo aspetto - irregolarità degli scambi - richiamiamo solo una delle manifestazioni più caratteristiche dell'assenza di uniformità nelle condizioni di scambio: la molteplicità e continua variabilità delle unità di misura delle merci - unità di peso, di lunghezza, di volume -, superata solo gradualmente a partire, non a caso, dal XVII secolo).
Proprio l'assenza di regolarità e uniformità nell'attività economica è probabilmente alla base dei generici rinvii che gli autori del periodo fanno alle condizioni di domanda e di offerta come determinanti dei prezzi sul mercato. In presenza di una forte variabilità della domanda e dell'offerta, e in assenza di indicazioni sui fattori che le determinano, questi generici rinvii non possono essere considerati una teoria del prezzo, né tantomeno un'anticipazione della teoria marginalista. Quest'ultima, infatti, come vedremo meglio più avanti, spiega il prezzo di equilibrio dei vari beni come corrispondente al punto d'incontro tra domanda e offerta del bene in questione, considerate come funzioni (continue e differenziabili) - la prima decrescente e la seconda crescente - del prezzo del bene stesso, ed eventualmente di altre variabili come i prezzi degli altri beni e il reddito dei consumatori; mentre nei generici rinvii alle condizioni di domanda e offerta cui si accennava sopra non è riscontrabile - del tutto comprensibilmente, date le condizioni dell'epoca - alcuna idea di una ben specificata e stabile relazione funzionale tra la domanda e l'offerta, e altre variabili come il prezzo del bene in questione.
Un punto di svolta fondamentale è costituito dalla nascita e dal consolidarsi, attorno al XV-XVI secolo, degli Stati nazionali, i quali vengono posti al centro della riflessione degli scienziati sociali; a essi corrisponderà, in campo economico, la nozione di sistema economico che fin dal XVI secolo costituisce un concetto-base per la nascente scienza dell'economia politica. In breve: ai tempi dell'antica Grecia e di Roma gli scambi sul mercato sono massimamente irregolari; poi, via via, diventano meno irregolari; ma è solo nel secolo XVII che cominciano ad assumere caratteristiche di relativa regolarità e uniformità, dopo i cambiamenti politici che si sono affermati nei secoli XV, XVI e XVII. Nello stesso periodo, cambiamenti decisivi si verificano anche nel campo delle scienze naturali, nelle quali si afferma l'idea che compito dello scienziato è quello di 'scoprire', al di sotto della superficie complessa e variegata dei fenomeni sperimentati dai nostri sensi, le 'leggi' - cioè relazioni quantitative precise e invariabili - che costituiscono l'intelaiatura del mondo naturale. La ricerca di leggi quantitative corrisponde, nel pensiero di Hobbes (1588-1679), a una concezione materialistico-meccanica dell'uomo e del mondo: il metodo d'indagine - la logica delle quantità (logica sive computatio, come dice Hobbes) - corrisponde alla natura stessa dell'oggetto indagato. A parere di vari studiosi dell'epoca, la perfezione matematica delle leggi naturali è sanzionata dal fatto che in essa si rispecchia la mano del Creatore. Caratteristica in questo senso è l'affermazione di Galileo (1564-1642), secondo il quale "questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo) [...] è scritto [da Dio] in lingua matematica" (cfr. G. Galilei, Il saggiatore, 1623, in Opere, 1890-1909, a cura di A. Favaro, vol. VI, Firenze 1896, p.232). Così fra il XVII e il XVIII secolo la vecchia fisica e la vecchia chimica intese come descrizione delle qualità sensibili degli oggetti lasciano il campo alla scienza moderna di Newton (1642-1727) e Lavoisier (1743-1794). Il metodo induttivo baconiano, fusione di empirismo e razionalismo, è ripreso alla metà del XVII secolo dai fondatori della Royal Society inglese, fra i quali appare una figura chiave per la nascita dell'economia politica, William Petty (1623-1687).
Fra gli autori che, nel XVI e XVII secolo, affrontano questioni economiche, sono ancora numerosi quelli che ne discutono considerandole innanzitutto un problema morale, come accade negli innumerevoli trattati sull'usura pubblicati in quel periodo. Ma sono molti anche quanti, sulla scia di Machiavelli (1469-1527), indirizzano le loro opere ai sovrani consigliandoli su come mantenere e accrescere la potenza economica dei loro Stati: i cosiddetti cameralisti, spesso osservatori intelligenti della realtà in cui operano, ma nel complesso non molto sensibili a quella esigenza di sistematicità che costituisce un requisito fondamentale della scienza moderna. Di frequente i cameralisti vengono inclusi, assieme a vari altri autori di scritti sull'economia del periodo che va dal XVI alla seconda metà del XVIII secolo, sotto l'etichetta di mercantilisti (un'etichetta che in realtà vari storici del pensiero economico considerano troppo generica, riferita ad autori molto diversi l'uno dall'altro). Il termine 'mercantilisti' designa tradizionalmente i fautori di uno Stato interventista, in particolare attraverso dazi sul commercio e divieti alle importazioni, al fine di assicurare una bilancia commerciale attiva e quindi l'afflusso di metalli preziosi, ma anche al fine di favorire lo sviluppo delle manifatture nazionali proteggendole dalla concorrenza estera.Lo spirito 'laico' di Niccolò Machiavelli e dei cameralisti - per fare solo due esempi che illustrano la nuova concezione del mondo che comincia ad affermarsi - si fonde con la nuova metodologia scientifica dell'induttivismo baconiano e con la concezione materialistico-meccanica di Hobbes nel caso di William Petty, il fondatore dell' 'aritmetica politica'. "Il metodo che intendo seguire è tuttora inconsueto: invece di usare solo comparativi e superlativi, e argomenti intellettuali, ho deciso di esprimermi in termini di numero, peso e misura (come esempio dell'aritmetica politica che ho tanto perseguito); di usare solo argomenti fondati sulla sensazione, e di considerare unicamente quelle cause che hanno fondamenta visibili nella Natura; lasciando quelle che dipendono dalle mutevoli menti, opinioni, appetiti e passioni di singoli uomini, alla considerazione di altri." (v. Petty 1963, p.244).
L'aritmetica politica, come si vede, si contrappone al metodo logico-deduttivo proprio della Scolastica: Petty non intende semplicemente rilevare e descrivere la realtà "in termini di numero, peso e misura", ma piuttosto sceglie di esprimersi in quei termini nel tentativo di interpretare la realtà individuandone le caratteristiche principali. In questo senso, e per il suo contributo alla formazione del sistema dei concetti (prezzo naturale, merce e mercato, sovrappiù, ecc.) che costituiscono le fondamenta della scienza economica, Petty può essere considerato - come afferma Marx - il fondatore dell'economia politica. Prima di Adam Smith, al quale spesso viene attribuito questo ruolo, dobbiamo ancora ricordare almeno François Quesnay, medico di Madame de Pompadour e fondatore della scuola dei fisiocrati, come più tardi furono chiamati i suoi seguaci (allora noti come les économistes): sostenitori dell'esistenza di un 'ordine naturale' che, pur non implicando un rifiuto assoluto dell'intervento dello Stato nell'economia, avrebbe dovuto comportare una maggiore libertà da vincoli per gli sviluppi spontanei dell'economia. Quesnay (1694-1774) fornisce, con i suoi celebri Tableaux économiques, una rappresentazione analitica del funzionamento del sistema economico, come società divisa in classi sociali tra le quali ha luogo un circuito di scambi che realizza contemporaneamente la distribuzione del reddito tra le diverse classi e la condizione per il ripetersi regolare del processo produttivo: l'attività economica è concepita come un 'flusso circolare' di produzione e di scambio, una concezione che caratterizzerà tutta l'economia politica classica fino a Marx e che, come vedremo, è stata riproposta in epoca recente da Piero Sraffa.
Adam Smith (1723-1790) non può essere considerato il fondatore dell'economia politica, ma è comunque assai più di un semplice sistematizzatore di teorie sviluppate dai suoi predecessori. A lui infatti dobbiamo una visione moderna dei compiti e del metodo dell'economia politica, e alcuni importanti contributi analitici attuali per vari aspetti ancora oggi.Il problema al centro della riflessione di Smith è quello della divisione del lavoro: come può funzionare (sopravvivere e prosperare) una società basata sulla divisione del lavoro? Nell'affrontare questo problema Smith raccoglie in un sistema teorico ben strutturato varie linee d'analisi proposte e sviluppate da autori precedenti. Così Smith riprende dai fisiocrati la concezione di produzione, distribuzione e consumo del reddito come processo circolare; e dal filone dell'illuminismo sociologico scozzese una visione della società in cui 'passioni' e 'interessi' si intrecciano e possono integrarsi, anziché entrare necessariamente in conflitto; e su queste basi sviluppa la sua teoria della 'natura e cause della ricchezza delle nazioni', basata sul legame tra sviluppo della divisione del lavoro e allargamento degli scambi di mercato.
Vediamo meglio, sia pur solo per brevi cenni, i principali aspetti di questo sistema teorico, esposto da Smith in un ampio trattato organico di economia politica, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), che costituirà la base dei successivi sviluppi dell'economia politica classica fino a Marx. Innanzitutto, come si è appena accennato, l'approccio classico rappresenta il funzionamento del sistema economico come un processo circolare (o, meglio ancora, a spirale). All'inizio del processo produttivo abbiamo determinate quantità di varie merci, che vengono utilizzate come mezzi di produzione e come mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Al termine del processo produttivo otteniamo un prodotto che è costituito dalle stesse merci, anche se in quantità diverse. Possiamo dire che il sistema produttivo è 'vitale' se la quantità prodotta di ogni merce è eguale o superiore alla quantità della stessa merce che era stata utilizzata nei vari settori come mezzo di produzione o di sussistenza. Il sovrappiù (un concetto centrale nelle analisi della scuola classica, prima e dopo Smith) è costituito dall'eccesso del prodotto rispetto alle quantità utilizzate nel processo produttivo; il sovrappiù è quindi composto di varie merci.In un sistema economico basato sulla divisione del lavoro, il prodotto delle imprese appartenenti a ciascun settore non corrisponde al fabbisogno di mezzi di produzione del settore stesso (inclusi i mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel settore); perciò ciascun settore preso isolatamente non è in grado di continuare la propria attività, ma deve entrare in contatto con gli altri settori dell'economia per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in cambio di una parte almeno del proprio prodotto. Si ha così quella rete di scambi che caratterizza le economie 'di mercato'.
I rapporti di scambio tra i vari settori, e quindi tra le varie merci, sono vincolati dalla necessità di permettere la 'riproduzione' del sistema: ogni settore deve ottenere, grazie alla cessione dei propri prodotti, almeno i mezzi di produzione e di sussistenza necessari per continuare il processo produttivo. Ma, data l'esistenza del sovrappiù, questa condizione da sola non è in grado di permettere la determinazione univoca dei rapporti di scambio tra le varie merci: questi rapporti di scambio infatti, oltre a garantire a ciascun settore la disponibilità di mezzi di produzione e di sussistenza per continuare la produzione, determinano la ripartizione del sovrappiù tra i vari settori e tra le varie classi sociali. Quesnay assumeva rapporti di scambio tali che di tutto il sovrappiù, generato dalla classe 'produttiva' (cioè nel settore agricolo), si appropriavano le classi proprietarie (nobili e clero), mentre la classe 'sterile' (imprenditori e lavoratori delle manifatture) non faceva altro che trasmettere nel prodotto il valore dei mezzi di produzione e di sussistenza impiegati nel processo produttivo. Smith invece distingue tra suddivisione in settori del sistema economico e suddivisione in classi sociali della popolazione; e propone quella che dopo di lui è divenuta la partizione standard in tre classi sociali: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri, cui corrispondono tre tipi di reddito: salari, profitti e rendite.Nell'analizzare il funzionamento del sistema sociale così schematizzato, Smith abbandona la vecchia identificazione tra ricchezza delle nazioni e produzione economica complessiva del paese, tipica del punto di vista degli economisti 'consiglieri del principe'; e adotta una concezione moderna, identificando la ricchezza di un paese con il grado di sviluppo raggiunto dal sistema economico, misurabile attraverso il reddito pro capite. Di conseguenza, per Smith spiegare la ricchezza delle nazioni significa essenzialmente spiegare il livello del reddito pro capite.
Tale livello corrisponde al prodotto di due variabili: la produttività per lavoratore e la quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. La seconda variabile dipende sia da fattori economici sia dalle consuetudini sociali; Smith contrappone ripetutamente le consuetudini di una società feudale a quelle della nascente società capitalistica a tutto vantaggio di quest'ultima. La produttività per lavoratore dipende dallo sviluppo raggiunto dalla divisione del lavoro (grazie, dice Smith, "a tre diverse circostanze: primo, all'aumento di destrezza di ogni singolo operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per passare da una specie di lavoro a un'altra; e infine all'invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti"). Ma la divisione del lavoro progredisce solo se c'è un allargamento dei mercati, che è necessario per assorbire il maggior prodotto di un'impresa in cui cresce il numero dei lavoratori e simultaneamente cresce la produttività di ciascuno di essi. Di qui la posizione liberista di Smith. Infatti egli è favorevole all'abbattimento degli ostacoli al libero commercio, che può mettere in moto una spirale virtuosa: l'allargamento dei mercati favorisce una crescente divisione del lavoro, e quindi un aumento della produttività, che permette un aumento del reddito pro capite, e quindi un ulteriore allargamento dei mercati. L'espansione dell'area del mercato nella società, inoltre, stimola un aumento della quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione.
Il coordinamento delle attività individuali è assicurato dal mercato, che 'premia' quanti producono ciò che è maggiormente richiesto, e 'punisce' quanti si dedicano ad attività che gli altri considerano inutili. L'interesse individuale agisce quindi da molla per il conseguimento dell'interesse collettivo.
Tuttavia, come si accennava sopra, ciò non significa che Smith sposi le tesi del medico e filosofo olandese Bernard de Mandeville (1670-1733): tesi sintetizzate nel detto "vizi privati, pubbliche virtù", e centrate sul riconoscimento dell'egoismo come fondamento del benessere collettivo. Nella sua opera La teoria dei sentimenti morali, infatti, Smith sottolinea il ruolo di una 'morale della simpatia' (nel senso etimologico di 'sentire insieme') nel guidare le azioni individuali. La ricerca dell'interesse personale risulta automaticamente vincolata da tale morale, escludendo quelle azioni (come la sofisticazione degli alimenti da parte dei commercianti) che potrebbero danneggiare altri. La diffusa adesione dei cittadini alla 'morale della simpatia', affiancata e sostenuta dalle istituzioni pubbliche per la difesa dell'ordine e l'amministrazione della giustizia, costituisce dunque un presupposto necessario per la tesi liberista, sostenuta da Smith nella Ricchezza delle nazioni, secondo cui il benessere collettivo è meglio conseguito affidandosi al libero perseguimento degli interessi individuali nell'ambito di un'economia di mercato concorrenziale. Conviene sottolineare qui che Smith propone questa tesi, senza sviluppare un concetto preciso di massimizzazione del benessere collettivo e prescindendo dalla distribuzione del reddito tra le diverse classi sociali, essenzialmente in base al confronto fra le istituzioni feudali ancora persistenti nella sua epoca e le nuove istituzioni dell'economia di mercato, ancora in via di affermazione. I meriti della costruzione smithiana, come si vede, risiedono principalmente nell'aver fornito un quadro concettuale organico e solido per l'interpretazione dello sviluppo dei sistemi economici. Per vari aspetti tuttavia l'analisi di Smith lasciava ampio spazio per ulteriori progressi, specie nel senso di una maggiore coerenza formale; e ciò anche su questioni centrali come la teoria del valore e della distribuzione.
La costruzione di una solida struttura analitica per l'economia politica classica costituisce il contributo principale dell'opera dell'inglese David Ricardo (1772-1823). Punto di partenza della sua riflessione analitica è il contrasto d'interessi tra i proprietari terrieri, politicamente dominanti, e la nascente borghesia industriale, contrasto che si manifestava nel dibattito sui dazi all'importazione dei cereali. A parere di Ricardo, i dazi spingevano verso l'alto i prezzi dei cereali e quindi, data la loro importanza nei consumi dei lavoratori, anche i salari; ciò spingeva verso il basso i profitti, rallentando il processo di accumulazione e frenando lo sviluppo del sistema economico.Alla base dell'analisi di Ricardo è il concetto di sovrappiù, definibile - come si è già accennato - come la parte del prodotto che resta disponibile una volta ricostituite le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati. Ricardo, seguendo la teoria della popolazione di Thomas R. Malthus (1766-1834), assume che il salario sia pari al livello di sussistenza (inteso non in senso biologico, ma come minimo tenore di vita accettabile da parte dei lavoratori di una data società in un dato periodo storico), e in tal modo considera i salari come corrispondenti ai consumi necessari dei lavoratori. Perciò, accogliendo la tripartizione smithiana della società nelle classi dei lavoratori, proprietari terrieri e capitalisti, il sovrappiù risulta ripartito tra rendite - che vengono utilizzate essenzialmente in consumi di lusso - e profitti, largamente destinati agli investimenti.Il problema della rendita viene poi superato grazie alla teoria della rendita differenziale; secondo tale teoria, la rendita viene pagata solo sulle terre più fertili e corrisponde alla differenza tra i costi di produzione relativi alla meno fertile tra le terre in coltivazione, e i costi relativi alle terre più fertili.
Il profitto risulta così definito come grandezza residuale, cioè come quella parte del sovrappiù che non viene assorbita dalla rendita. Il saggio di profitto è allora determinabile come rapporto tra profitti e capitale anticipato. Ma ciò richiede che profitti e capitale anticipato siano espressi in termini di grandezze omogenee: o interpretandoli come quantità diverse di una stessa merce, il 'grano' (come, secondo l'interpretazione di Sraffa, Ricardo fa in un saggio del 1815), o misurando prodotto e mezzi di produzione in valore, come Ricardo fa nei Principî dell'economia politica e della tassazione del 1817. In quest'opera, infatti, egli - come vari altri economisti classici prima e dopo di lui - ricorre a una teoria del valore-lavoro contenuto, secondo la quale le merci si scambiano in proporzione alle quantità di lavoro direttamente o indirettamente necessario alla loro produzione; ma occorre sottolineare che Ricardo è consapevole delle carenze di questa teoria. (Tali carenze consistono essenzialmente nel fatto che beni prodotti con le stesse quantità di lavoro ma su un arco di tempo più o meno lungo - ad esempio vino 'giovane' e vino 'invecchiato' - dovranno avere prezzi diversi).Ricardo è anche noto per la sua 'teoria dei costi comparati', con cui mostra i vantaggi della divisione internazionale del lavoro permessa dal commercio internazionale.
La struttura analitica sviluppata dalla scuola classica fino alle opere di Ricardo viene ripresa dal tedesco Karl Marx (1818-1883), che pone però al centro della sua attenzione il contrasto d'interessi tra borghesia e proletariato.Con la sua 'teoria dello sfruttamento', Marx cerca di mostrare che i profitti derivano da 'lavoro non pagato' pur in un sistema che rispetti il criterio capitalistico di scambio tra valori eguali. A tale scopo egli riprende la teoria del valore-lavoro contenuto - dei cui limiti, peraltro, è ben consapevole. (Marx tentò anche - ma senza successo - di mostrare che i risultati ottenuti in base a tale teoria restano validi quando ci si basa piuttosto sui 'prezzi di produzione', che rispettano la condizione di uniformità del saggio di profitto nei vari settori). Marx, dunque, assume che le merci si scambino sul mercato in proporzione al lavoro contenuto in esse, cioè alle quantità di lavoro direttamente e indirettamente necessario a produrle. Ciò vale anche per la forza-lavoro, che ha un valore pari al lavoro contenuto nei mezzi di sussistenza che costituiscono il consumo necessario dei lavoratori. Il valore d'uso della forza-lavoro (che è cosa diversa dal valore di scambio, così come il valore di scambio del carbone è ben distinto dal suo valore d'uso, che consiste nel fornire calore) sta nel fornire lavoro al capitalista che l'ha acquistata: tanto lavoro quanto il capitalista riesce a ottenere e quindi, date le consuetudini sociali che regolano la lunghezza della giornata lavorativa, di regola un numero di ore di lavoro superiore a quelle 'contenute' nella forza-lavoro stessa.
Questo eccesso di lavoro prestato rispetto a quello richiesto per la semplice riproduzione dei beni necessari al consumo dei lavoratori, o 'pluslavoro', corrisponde al valore del 'plusprodotto' o sovrappiù, e costituisce quindi la fonte dei profitti e delle rendite.Questa situazione di sfruttamento è celata agli occhi dell'osservatore superficiale dal 'feticismo delle merci', cioè dal fatto che i rapporti di cooperazione per il funzionamento del sistema economico tra i lavoratori appartenenti ai vari settori appaiono in un'economia capitalistica come rapporti di scambio tra merci sul mercato. Occorre rilevare che nel Marx del Capitale il concetto di sfruttamento sostituisce quello giovanile, di derivazione smithiana ed hegeliana, di alienazione, corrispondente al fatto che sono sottratti al controllo del lavoratore, e costituiscono quindi 'altro da sé' (alius), sia i mezzi di lavoro, sia il prodotto del lavoro, sia il processo produttivo, e che, di conseguenza, il lavoro risulta per il lavoratore come un mezzo per un fine distinto - procurarsi il salario, e quindi i mezzi di sussistenza -, anziché come diretta autorealizzazione dell'individuo nella società.
Lo sfruttamento che caratterizza il modo di produzione capitalistico (e, in forma ancor più diretta, i modi di produzione precedenti, come il feudalesimo e lo schiavismo) è a parere di Marx superabile con il passaggio a un modo di produzione più avanzato, il comunismo. La transizione dal capitalismo al socialismo, caratterizzato dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e che sembra costituire nella visione di Marx una fase di preparazione al comunismo, sarebbe inevitabile conseguenza di alcune 'leggi di movimento del capitalismo', in particolare la crescente bipolarizzazione tra un proletariato sempre più vasto ('processo di proletarizzazione') e sempre più povero ('legge dell'immiserimento crescente') e una borghesia sempre più ricca e più forte ('legge della concentrazione capitalistica'), che sarebbe alla fine sfociata in una rivoluzione. Di fatto, questa parte almeno della visione di Marx è stata direttamente contraddetta dall'evoluzione concreta delle società capitalistiche, nelle quali si sono verificati un notevole miglioramento del tenore di vita dei lavoratori e la crescita di una classe media impiegatizia e professionale, con interessi distinti sia da quelli dei grandi capitalisti industriali e finanziari sia da quelli dei lavoratori non qualificati.Marx prospetta due schemi di analisi generale, quello della riproduzione semplice e quello della riproduzione su scala allargata, o dell'accumulazione. Il primo rientra nella categoria degli schemi circolari, il secondo nella categoria degli schemi a spirale, in cui una parte almeno del sovrappiù è impiegata produttivamente.
Entrambi gli schemi debbono rispettare la condizione della riproducibilità: le quantità delle merci prodotte che entrano fra i mezzi di produzione debbono essere eguali o superiori alle quantità delle stesse merci impiegate nel processo produttivo. Inoltre, se si fa l'ipotesi che in tutti i mercati viga la concorrenza, deve verificarsi una seconda condizione: l'unicità del saggio del profitto. In una successiva approssimazione si può fare l'ipotesi che certi mercati siano non concorrenziali, con profitti più alti della norma; tuttavia, prima d'introdurre una tale ipotesi occorre assicurarsi della coerenza logica dell'analisi nel caso più semplice della concorrenza generalizzata, dimostrando che in una tale ipotesi il saggio del profitto è unico. Ora, già nello schema di riproduzione semplice di Marx, la prima condizione - quella della riproducibilità - è rispettata, ma non lo è la seconda, quella relativa all'unicità del saggio del profitto. È questo il famoso problema della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione cui si è già accennato; per esso Marx indica, con un breve accenno, una soluzione puramente intuitiva, proponendosi di fornirne in seguito una trattazione analitica, ciò che tuttavia poi non fa effettivamente. Seguendo l'analisi di Sraffa - di cui parleremo più avanti - l'erroneità della teoria del valore-lavoro risulta in modo ancora più compiuto: fra i 'valori' espressi dal lavoro contenuto e i prezzi vi è proporzionalità solo nell'ipotesi, non rilevante in un'economia capitalistica, di un saggio dell'interesse, e quindi del profitto, pari a zero.
La teoria del valore-lavoro si muove a un alto livello di astrazione. A un livello molto più vicino alla realtà concreta si muove invece una tesi che in Marx è appena accennata, ma che assume poi grande rilievo per essere stata sostanzialmente accolta anche da economisti non marxisti come Joseph Schumpeter e lo statunitense John Kenneth Galbraith (n. 1908): è la tesi della tendenza alla progressiva concentrazione delle unità produttive, un processo che troverebbe il suo principale impulso nella diffusione delle economie di scala, a loro volta imputabili al progresso scientifico e organizzativo. Un tale processo sembrava trovare ampio riscontro nel fenomeno delle fusioni e poi nella comparsa e nella crescita di grandi e grandissime imprese, nazionali e transnazionali, un fenomeno che assume particolare rilievo tra la fine del secolo scorso e il principio del nostro e quindi dopo la seconda guerra mondiale. Secondo diversi economisti questo processo avrebbe spinto le economie capitalistiche nella direzione di una sorta di collettivismo privato, preludio di un collettivismo pubblico. Tuttavia, negli ultimi due decenni il processo di concentrazione ha subito un netto rallentamento o addirittura un rovesciamento, in quanto, grazie anche a grandi innovazioni, come quelle connesse con l'elettronica, si sono creati nuovi spazi per le piccole imprese. Inoltre, la tesi del processo di concentrazione trascura il fatto che non di rado le piccole imprese avviano innovazioni poi sviluppate dalle grandi imprese: in tal modo, le piccole imprese possono contrastare gli effetti negativi sull'efficienza e sulla capacità d'innovare che le grandi imprese potrebbero subire con la loro burocratizzazione.
Il momento cruciale per la 'rivoluzione marginalista' è comunemente indicato negli anni tra il 1871 e il 1874, quando escono le opere principali dei capifila della scuola marginalista austriaca, Carl Menger (1840-1921), di quella inglese, William Stanley Jevons (1835-1882), e di quella francese, Léon Walras (1834-1910). Infatti nel 1871 escono sia i Principî di economia pura di Menger sia la Teoria dell'economia politica di Jevons, nel 1874 gli Elementi di economia politica pura di Walras. Va ricordato comunque che la rivoluzione marginalista aveva avuto importanti precursori, quali il francese Antoine-Augustin Cournot (1801-1877), e che tra i suoi cofondatori, per quanto riguarda il ramo inglese, Alfred Marshall (1842-1924; i suoi Principî di economia appaiono nel 1890) riveste probabilmente un'importanza superiore a quella di Jevons; in Italia, le idee di Marshall conseguono una discreta diffusione grazie soprattutto agli scritti di Maffeo Pantaleoni (1857-1924). Le differenze fra l'approccio austriaco dell'imputazione, quello francese dell'equilibrio economico generale, e quello marshalliano degli equilibri parziali sono notevolissime, sia per quanto riguarda il metodo sia per quanto riguarda la visione di fondo del funzionamento del sistema economico. Ma prima di considerare più da vicino i tre principali filoni di ricerca tradizionalmente inclusi sotto l'etichetta del marginalismo conviene indicare alcuni elementi di fondo che li accomunano, contrapponendoli all'approccio classico illustrato sopra.
La contrapposizione è stata sintetizzata da Sraffa individuando nell'approccio classico la "presentazione del sistema della produzione e del consumo come processo circolare", "in netto contrasto con l'immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a senso unico che porta dai 'fattori della produzione' ai 'beni di consumo"' (v. Sraffa, 1960, p. 121). In questo modo, Sraffa richiama sinteticamente le differenze di fondo tra l'approccio classico e quello marginalista, relative alla visione del problema economico e del funzionamento dell'economia, e alla struttura dell'analisi, particolarmente nel campo della teoria del valore e della distribuzione che è quello dove più direttamente si esprime l'impostazione di fondo dei diversi approcci economici. Come si accennava sopra presentando l'approccio classico, esso ha al centro della sua analisi il problema del modo in cui può riprodursi, e crescere nel tempo, una società basata sulla divisione del lavoro; l'approccio marginalista invece considera il problema economico come consistente nell'individuare l'ottima distribuzione delle risorse scarse tra gli usi alternativi possibili, date le preferenze dei soggetti economici.
Pertanto, l'impostazione marginalista tradizionale concepisce il problema del valore come relativo alla determinazione di prezzi e quantità 'di equilibrio', cioè tali da assicurare l'eguaglianza tra domanda e offerta, derivati dal confronto fra le dotazioni iniziali di risorse produttive e le preferenze degli agenti economici. (L'impostazione non muta nella sostanza, quando dai modelli di puro scambio si passa ai modelli di scambio e produzione, di modo che il rapporto tra le dotazioni iniziali e la soddisfazione dei desideri è mediato dall'attività produttiva, oltre che dall'attività di scambio e di consumo; o quando fra le risorse produttive sono inclusi anche mezzi di produzione prodotti).
Di fronte al problema del valore così concepito, la tesi centrale delle teorie marginaliste tradizionali (quelle che Keynes chiama teorie classiche, e tra le quali prende ad esempio l'analisi di Arthur Cecil Pigou, 1877-1959, successore di Marshall sulla cattedra di economia politica dell'Università di Cambridge) è che un sistema economico in cui prevalga la concorrenza perfetta e che non sia soggetto a continui disturbi esogeni tende a raggiungere una posizione di equilibrio dotata di caratteristiche di ottimalità, nel senso che non è possibile migliorare la posizione di qualche soggetto economico senza peggiorare la posizione di qualcun altro. In particolare, le teorie marginaliste tradizionali sostengono che in regime di concorrenza pura il salario reale si muove, assieme a tutti gli altri prezzi relativi, verso un livello tale da assicurare l'eguaglianza tra domanda e offerta di lavoro, cioè la piena occupazione.Fra i meccanismi riequilibratori automatici che portano il sistema economico verso la piena occupazione, alcuni teorici marginalisti hanno messo in rilievo la flessibilità del rapporto tra capitale e lavoro: se sotto la pressione della disoccupazione il salario reale diminuisce, le imprese troveranno più conveniente utilizzare tecniche produttive che sostituiscono lavoratori a capitale, di modo che il rapporto capitale-lavoro diminuisce, e una data dotazione originaria di 'capitale' permette d'impiegare un numero di lavoratori via via crescente, fino a giungere alla piena occupazione. Questa tesi e in generale l'impostazione stessa della teoria del valore e della distribuzione, come si accennava, hanno assunto forme diverse in autori appartenenti a filoni diversi dell'approccio marginalista tradizionale. Ad esempio il filone francese dell'equilibrio economico generale inaugurato da Walras, ripreso e sviluppato al principio del secolo dall'italiano Vilfredo Pareto (1848-1923) e poi, negli ultimi trent'anni, da autori quali lo statunitense Kenneth Arrow (n. 1921, premio Nobel nel 1972) e il francese Gerard Debreu (n. 1921, premio Nobel nel 1983), è basato sull'ipotesi che siano considerate date, da un lato, le preferenze dei soggetti, dall'altro le quantità disponibili, specificate in termini fisici, delle risorse iniziali (diversi tipi di capacità lavorative, di terre, di beni capitali).
Il filone inglese di Jevons e Marshall, a differenza del filone francese, tende a considerare come variabili da determinare all'interno della teoria anche le quantità disponibili delle varie risorse, utilizzando come dati esogeni le funzioni di utilità e disutilità dei vari soggetti economici (cioè considerando l'offerta di lavoro, ad esempio, come determinata dal confronto fra il salario, e quindi l'utilità dei beni acquistabili con esso, e il sacrificio che il lavoratore compie, cioè la disutilità del lavoro). Inoltre Marshall presenta la sua analisi come tentativo di sintesi tra l'approccio classico e quello marginalista 'puro', sostenendo che l'analisi classica commette l'errore di concentrarsi 'sul lato dell'offerta', mentre quella marginalista nella versione più estrema commette l'errore speculare di concentrarsi 'sul lato della domanda'. Marshall, viceversa, concentrando l'attenzione sulla singola impresa o sulla singola industria (con il metodo 'dell'analisi parziale', cioè considerando offerta e domanda di ciascun bene come indipendenti da quanto contemporaneamente avviene sugli altri mercati), individua prezzo e quantità 'normali'. Le variabili 'normali' corrispondono a una situazione di equilibrio del mercato considerato, e sono determinate dall'intersezione di una curva di offerta, che esprime l'andamento dei costi di produzione al variare della quantità prodotta, e una curva di domanda, che esprime le preferenze del consumatore. Le due curve rappresentano due funzioni che legano la quantità offerta e quella domandata all'andamento del prezzo del singolo bene. L'offerta è considerata funzione crescente del prezzo, almeno a partire da un certo livello di produzione in poi, in quanto, secondo il cosiddetto 'postulato della produttività marginale decrescente', il costo necessario a ottenere una unità addizionale di prodotto cresce al crescere della quantità prodotta, e pertanto gli imprenditori sono disposti ad aumentare la quantità offerta solo se il prezzo aumenta compensando l'aumento dei costi.
Le varie giustificazioni addotte per il postulato della produttività marginale decrescente sono comunque risultate o irrealistiche, o incompatibili con l'ipotesi di concorrenza e/o con l'ipotesi di 'isolabilità' delle vicende del mercato considerato rispetto agli altri mercati, ipotesi che è alla base del metodo degli equilibri parziali. Di fatto, il postulato della produttività marginale decrescente è motivato essenzialmente da un'esigenza analitica di simmetria con il postulato dell'utilità marginale decrescente. Secondo quest'ultimo, l'utilità di una dose addizionale di bene consumato diminuisce al crescere della quantità consumata; perciò il consumatore sarà disposto ad acquistare dosi addizionali del bene solo a prezzi man mano decrescenti, e la domanda risulterà funzione decrescente del prezzo.
Abbiamo infine la scuola austriaca di Menger e dei suoi allievi, delle cui caratteristiche distintive ci occuperemo nel prossimo paragrafo. È possibile attribuire una concezione di fondo sostanzialmente unitaria ai vari filoni dell'approccio marginalista: quella cui si accennava sopra, di un 'corso a senso unico', caratterizzato da un punto di partenza (sia esso costituito dalle risorse inizialmente disponibili, o dalle risorse originarie, o dalle disutilità) e da un punto di arrivo, costituito dalla soddisfazione dei gusti dei consumatori. Ma questa comune concezione di fondo assume poi una varietà notevole di connotati nelle diverse scuole che si ricollegano ad essa.
Comunque, la comune concezione di fondo facilita una valutazione sintetica del contributo teorico delle scuole marginaliste, in quanto essa implica l'esistenza di aspetti centrali comuni anche nella struttura analitica delle diverse scuole. Intanto, per quanto riguarda le preferenze dei singoli consumatori è comune l'ipotesi di indipendenza del sistema di preferenze di ciascun soggetto economico dalle preferenze degli altri: l'unica influenza riconosciuta delle scelte altrui sulle scelte di ciascun singolo consumatore è quella indiretta, che passa attraverso i prezzi che si determinano sul mercato. Le 'esternalità', cioè il fatto che il comportamento degli altri ha un'influenza decisiva sul mio sistema di preferenze - come nel caso degli 'effetti di dimostrazione', per cui se tutti i miei vicini comprano la televisione a colori anch'io sarò indotto a comprarla -, sono escluse dalla struttura analitica della teoria marginalista tradizionale. Questa concezione delle scelte di consumo è caratterizzata da un individualismo estremo: ciascun individuo decide per sé, sulla base di preferenze che la teoria assume come date e che quindi si suppone non interagiscano con il comportamento altrui. In tal modo essa appare contrapposta all'assunzione classica, forse valida soprattutto come prima approssimazione rudimentale, ma probabilmente più 'concreta' di quella marginalista, di un comportamento di consumo sostanzialmente simile all'interno di ciascuna classe sociale. In quella che è tradizionalmente chiamata 'ipotesi classica', infatti, i profitti sono destinati all'accumulazione di capitale, cioè agli investimenti, e le rendite dei proprietari terrieri sono destinate essenzialmente a consumi di lusso; quanto ai salari, per i classici - che avevano ben presenti le condizioni del tempo in cui vivevano - il comportamento di consumo è reso omogeneo da ragioni obiettive, cioè dal fatto che il salario si colloca al livello di sussistenza (un livello che tuttavia, come si è già accennato, dipende dalle condizioni storico-sociali).
Un secondo elemento comune alla struttura analitica dei vari filoni dell'approccio marginalista è costituito dal ruolo centrale che in essi gioca il 'principio di sostituzione', nella produzione come nel consumo: al variare dei prezzi relativi dei diversi beni di consumo, la quantità consumata dei beni il cui prezzo è cresciuto si riduce, mentre viceversa cresce quella dei beni il cui prezzo è diminuito; analogamente, al variare dei prezzi relativi dei 'fattori di produzione', quelli il cui prezzo è aumentato vengono sostituiti da quelli il cui prezzo è diminuito. Un terzo elemento comune, che appare una conseguenza logica della struttura analitica dell'approccio marginalista, e che lo differenzia nettamente dall'approccio classico, è dato dalla simmetria nella trattazione delle variabili distributive. Infatti salario e saggio del profitto (o, nelle trattazioni 'disaggregate', i prezzi dei servizi dei diversi fattori produttivi) sono posti su uno stesso piano, come determinati (assieme alle quantità utilizzate di capitale e lavoro) dalla realizzazione sui rispettivi mercati dell'equilibrio tra domanda e offerta. Così salario e saggio di profitto corrispondono, dal lato della domanda, alla produttività marginale di lavoro e capitale. Simultaneamente, dal lato dell'offerta, salario e saggio del profitto corrispondono al 'costo reale' dei rispettivi fattori di produzione: la penosità marginale del lavoro e il sacrificio dell'astinenza dal consumo nel caso del capitale. In altre formulazioni teoriche dell'approccio marginalista, specie nelle moderne riformulazioni assiomatiche della teoria dell'equilibrio economico generale, il saggio d'interesse (che spesso nella terminologia marginalista sostituisce il saggio del profitto come 'prezzo' dell'uso del capitale) è collegato alle 'preferenze intertemporali' dei soggetti economici tra consumo presente e consumo futuro.
Le critiche al marginalismo, che nel passato assumevano carattere occasionale o frammentario, in tempi recenti si sono intensificate, soprattutto dopo la pubblicazione dell'opera di Sraffa nel 1960. Torneremo più oltre su tali critiche; qui ci limitiamo a ricordare alcuni aspetti particolarmente problematici della teoria dell'equilibrio economico generale formulata da Léon Walras e poi ripresa e ampliata da Vilfredo Pareto. Walras rappresenta il sistema economico con un sistema di equazioni elaborate originariamente dai cultori della meccanica razionale (Walras aveva studiato ingegneria, Pareto era ingegnere). Walras sviluppa la sua teoria attraverso tre approssimazioni successive, rappresentate rispettivamente da: 1) equazioni dello scambio; 2) equazioni dello scambio e della produzione e, infine, 3) equazioni dello scambio, della produzione, dell'accumulazione e del credito. L'assunzione di partenza - che resta valida anche nelle successive approssimazioni - è che esista una dotazione iniziale di beni capitali fisici (che includono le risorse naturali) e di capitali personali (capacità di lavoro delle persone). Inoltre sono incluse fra i dati del problema le preferenze - le funzioni di utilità - dei singoli soggetti e la tecnologia; le imprese operano tutte in condizioni di concorrenza. Sulla base di queste premesse Walras dimostra che il numero delle equazioni eguaglia il numero delle incognite - prezzi e quantità dei beni e dei servizi - e che il sistema di equazioni, nei tre casi che egli considera, è determinato.
Sulla scia di Walras, numerosi economisti matematici affrontano i problemi dell'esistenza, unicità e stabilità delle soluzioni per il modello di puro scambio; i risultati cui è giunto questo filone di ricerca possono essere sintetizzati come segue: a) sotto condizioni sufficientemente generali, il sistema ha soluzioni economicamente significative (con valori non negativi per i prezzi e le quantità di equilibrio delle varie merci); b) in generale è possibile una molteplicità di equilibri; c) la stabilità dell'equilibrio è dimostrabile solo ricorrendo a ipotesi particolari, troppo specifiche perché a tali dimostrazioni possa essere attribuita validità generale. (Questi risultati sono stati elaborati in modo rigoroso in riferimento a modelli assiomatici di equilibrio economico generale proposti negli anni cinquanta da Arrow e Debreu; tali modelli considerano anche 'equilibri intertemporali', trattando come merci diverse una stessa merce in momenti diversi del tempo e prendendo come date le preferenze dei soggetti economici tra diverse quantità di beni non solo in un dato momento nel tempo, ma anche tra momenti diversi: meno uova e più galline oggi e più uova e meno galline domani). Comunque, la fragilità - secondo alcuni critici l'insostenibilità - della costruzione di Walras e Pareto appare in piena luce nella terza approssimazione. Walras infatti assume che all'inizio di un certo periodo vi sia una dotazione "data a caso" ("criée au hasard") di beni capitali, intesi in senso lato; nella terza approssimazione egli ammette che si producano nuovi beni capitali, particolarmente quelli che risultano scarsi e che forniscono il più alto rendimento. Ma, nella logica della sua costruzione, suppone che tali beni entrino in funzione, non nello stesso periodo, bensì nel periodo successivo; nulla però assicura che, in tale periodo successivo, avrà luogo l'unicità dei rendimenti dei beni capitali. Mentre nel caso dei beni di consumo l'aggiustamento dei prezzi e delle quantità avviene in uno stesso periodo e quindi le correzioni potranno dar luogo a movimenti convergenti verso certi livelli normali, così non è nel caso dei beni capitali, in particolare di quelli fisici. Pertanto, nel sistema di Walras non si ha in generale un unico tasso di rendimento in tutti i settori produttivi; ciò è una logica conseguenza del fatto che tale teoria segue 'l'ottica della scarsità' anziché 'l'ottica della riproducibilità', in quanto essa si fonda non sulla concezione classica dell'attività economica come processo circolare o a spirale, ma sulla concezione di un corso a senso unico, che parte da una certa dotazione di fattori produttivi e si conclude con l'offerta di un certo gruppo di beni di consumo: le risorse "date a caso" portano a rendimenti "dati a caso".
I teorici della scuola austriaca (oltre a Menger, vanno ricordati almeno i suoi allievi Friedrich von Wieser, 1851-1926, ed Eugen von Böhm-Bawerk, 18511914) adottano un'ottica soggettiva radicale, in base alla quale il valore di ciascun bene o servizio viene dedotto dall'utilità che esso ha per il consumatore finale, direttamente nel caso dei beni di consumo o indirettamente nel caso dei beni di produzione; in quest'ultimo caso si 'imputa' al mezzo di produzione una quota dell'utilità che il bene prodotto ha per il consumatore, calcolando tale quota in proporzione al contributo del bene o servizio considerato al processo produttivo (da cui l'espressione 'teoria dell'imputazione').Le prime fasi di sviluppo della scuola austriaca furono comunque caratterizzate dall'aspro scontro metodologico con la cosiddetta 'scuola storica tedesca', tra i cui rappresentanti ricordiamo Wilhelm Roscher (1817-1894) e Gustav von Schmoller (1838-1917). La scuola storica attribuiva importanza centrale allo studio dell'evolversi delle istituzioni, criticando l'eccesso di astrazione e di astoricismo dell'impostazione marginalista; ma finiva in realtà col ridurre l'economia alla semplice descrizione di vicende e situazioni specifiche. Contro questa posizione, la scuola austriaca sostenne la necessità di ragionamenti deduttivi rigorosi basati su premesse generali, riportando nel complesso una vittoria culturale schiacciante. Una influenza della scuola storica tedesca può comunque essere individuata nella cosiddetta scuola istituzionalista, attiva ancora oggi soprattutto negli Stati Uniti, dove il suo principale esponente è stato Thornstein Veblen (1857-1929). La scuola austriaca 'moderna', in particolare con Friedrich von Hayek (1899-1992), si caratterizza per un deciso sostegno a posizioni radicalmente liberiste, e si differenzia dal marginalismo tradizionale nella visione del funzionamento dell'economia: in particolare, l'atto di scelta compiuto dal soggetto economico è visto come esperimento in condizioni di incertezza, il cui risultato modifica le aspettative e le conoscenze iniziali in un processo continuo; rispetto all'approccio marginalista francese e anglosassone, il concetto di equilibrio perde così il suo tradizionale ruolo analitico centrale come soluzione del problema economico.
Tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, inoltre, Hayek, riprendendo e sviluppando una teoria proposta da un altro esponente di rilievo della scuola austriaca, Ludwig von Mises (1881-1973), sostenne in vari scritti una teoria monetaria del ciclo economico (la cosiddetta 'teoria del risparmio forzato'), che dopo un discreto successo iniziale fu relegata in secondo piano dall'affermazione della teoria keynesiana. Secondo la teoria del risparmio forzato, mentre il livello di equilibrio di lungo periodo della produzione corrisponde alla piena occupazione dei lavoratori e al pieno utilizzo della capacità produttiva disponibile, nel breve periodo è possibile un'accelerazione degli investimenti finanziati da un'espansione dell'offerta di moneta da parte delle banche, a scapito di una riduzione non desiderata dei consumi, cioè di un risparmio non desiderato - o 'forzato' - prodotto dall'aumento dei prezzi che riduce il potere d'acquisto dei lavoratori salariati; in un secondo momento, quando entra in funzione la nuova capacità produttiva corrispondente agli investimenti addizionali, l'accresciuta offerta di prodotti genera una spinta deflazionistica, e quindi un aumento del potere d'acquisto dei lavoratori e una ripresa dei consumi, con una distruzione di risparmio che riporta il sistema economico alla situazione di partenza. Questa teoria permette di conciliare il riconoscimento di un'influenza dei fenomeni monetari sui livelli di produzione con la concezione marginalista tradizionale secondo la quale prezzi relativi e quantità di equilibrio (inclusi i livelli di produzione e di occupazione) sono determinati esclusivamente dai fattori reali: disponibilità di risorse, tecnologia, preferenze dei consumatori. In questo senso, nonostante le caratteristiche specifiche che abbiamo appena richiamato, la scuola austriaca può essere a buona ragione collocata all'interno della tradizione marginalista.
Come si è accennato sopra, l'approccio marginalista in tutte le sue varie formulazioni imposta il problema economico come centrato sul confronto fra risorse disponibili e preferenze dei consumatori finali, e risolve tale problema determinando prezzi e quantità di equilibrio che assicurino l'eguaglianza tra quantità domandate e offerte dei vari beni e servizi. Tramite l'operare del principio di sostituzione, i mercati assicurano l'eliminazione di scarsità ed eccedenze, e quindi l'ottima utilizzazione delle scarse risorse disponibili. In particolare, in condizioni di concorrenza il normale funzionamento del mercato del lavoro fissa il salario a un livello tale da assicurare la piena occupazione della forza-lavoro disponibile. L'impostazione marginalista è dunque essenzialmente statica: dati l'ammontare di risorse disponibili, la tecnologia e i gusti dei consumatori prevalenti in un dato momento del tempo, la teoria determina prezzi e quantità di equilibrio. L'evoluzione di un sistema economico nel tempo è legata al cambiamento dei dati: risorse disponibili, tecnologia e gusti dei consumatori. Così essa può essere studiata in due modi: o tramite analisi di statica comparata, cioè determinando prezzi e quantità di equilibrio prima con l'iniziale insieme di dati e poi con quello nuovo, e confrontando le due soluzioni per individuare l'effetto del cambiamento dei dati; oppure tramite analisi dinamiche, cioè introducendo una precisa ipotesi sull'evoluzione nel tempo di uno o più fra i dati del problema, e determinando così un sentiero regolare per lo sviluppo del sistema economico. In entrambi i casi, comunque, restano generalmente esclusi dall'analisi sia i problemi di transizione da un equilibrio all'altro, sia quelli di spiegare all'interno della scienza economica i cambiamenti nella tecnologia o nelle abitudini di consumo.
L'aspetto sorprendente della 'rivoluzione marginalista', se consideriamo la sua natura essenzialmente statica, è che essa ha luogo proprio in un tempo in cui i cambiamenti tecnologici, che hanno caratterizzato il capitalismo industriale sin dal suo apparire, tendono a crescere, non a diminuire, d'importanza, come tendono a crescere d'importanza i cambiamenti nelle abitudini di consumo (e spesso questo secondo fenomeno è condizionato dal primo). D'altra parte, i cambiamenti tecnologici sono all'origine del processo di sviluppo economico, che costituiva il problema teorico fondamentale per economisti classici come Smith, ma che scompare del tutto dall'orizzonte teorico dei marginalisti. Per spiegare tale svolta paradossale sono state indicate diverse ragioni, tre in particolare, che qui ci limitiamo a ricordare e a commentare molto concisamente. La prima ragione si ricollega all'aspirazione a un maggior rigore. Ciò implica l'applicazione sistematica dei metodi matematici, cosa agevole se si assumono costanti la tecnologia e le abitudini di consumo, ma ben più difficile nel caso di problemi dinamici. Quella statica era considerata solo un'analisi di prima approssimazione; ma i modelli di norma erano concepiti in modo da rendere impossibile il passaggio all'analisi dinamica: per far questo occorreva ricominciare da capo.
La seconda ragione è legata a motivi di natura ideologica. La teoria classica era sfociata nei cosiddetti socialisti ricardiani e poi nell'analisi di Marx, che aveva finalità dichiaratamente rivoluzionarie. Per esorcizzare gli sviluppi di tipo marxista, e quindi rivoluzionari, si diffuse la tendenza a rifiutare l'impostazione stessa delle teorie classiche, abbandonando l'esame oggettivo dei rapporti sociali di produzione e rivolgendo lo studio verso le caratteristiche soggettive dei bisogni e quindi dell'individuo astrattamente considerato. La terza ragione si ricollega alla crescita del reddito individuale di strati sempre più ampi della popolazione. Mentre al tempo dei classici la gran massa della popolazione viveva al livello della sussistenza e il problema delle preferenze dei consumatori si poneva solo per un'esigua minoranza di privilegiati, nelle nuove condizioni quel problema si poneva invece per una maggioranza sempre più ampia; e le teorie marginaliste davano il massimo rilievo alle preferenze dei consumatori. Le tre ragioni vanno forse considerate congiuntamente, ricordando che i classici non erano riusciti a risolvere in modo soddisfacente il problema del valore. Un'ulteriore spinta all'affermazione del marginalismo fu data dalla sua vittoria nello scontro con la nuova scuola storica, che tendeva a risolvere la teoria nella storia economica.
Non sarebbe esatto, tuttavia, affermare che la costruzione marginalista sia integralmente statica. In effetti, vari economisti tentano di affrontare, all'interno dei diversi filoni dell'approccio marginalista, il problema delle situazioni 'di squilibrio', generalmente considerate come oscillazioni di breve periodo attorno alle situazioni 'di equilibrio' implicanti, come si è detto, il pieno utilizzo delle risorse disponibili. In questo quadro viene affrontato il problema del ciclo economico. Esso è attribuito a shock, cioè a variazioni improvvise e impreviste dei dati del problema che spingono il sistema economico fuori dell'equilibrio per qualche tempo prima che l'operare delle forze di mercato ve lo riporti; oppure a fenomeni monetari che si sovrappongono alle forze 'reali' determinanti l'equilibrio di mercato. Si tratta, in ogni caso, di eventi che rendono non più di equilibrio i prezzi relativi prevalenti nella situazione precedente; il protrarsi dello squilibrio e la sua trasformazione in ciclo economico sono ricollegati all'incapacità del mercato di condurre istantaneamente i prezzi relativi ai valori coerenti con il nuovo equilibrio. Da questa base comune, le specifiche teorie del ciclo si differenziano per l'accento posto su prezzi relativi particolari, quali salario reale, tasso d'interesse e tasso del profitto. In particolare Marshall e vari economisti americani della Scuola di Chicago mettono l'accento sui movimenti del salario e del tasso d'interesse confrontati con le aspettative sulle variazioni dei prezzi; lo svedese Knut Wicksell (1851-1926) sugli scostamenti del tasso d'interesse monetario da quello 'naturale' corrispondente al tasso di rendimento degli investimenti; l'inglese Ralph Hawthrey (1879-1975) sui movimenti dei tassi d'interesse sui crediti a breve termine, e quindi sul 'ciclo delle scorte'; l'inglese Dennis Robertson (1890-1963) su cause monetarie per quanto riguarda i cicli brevi, e sull'addensarsi degli acquisti per il rinnovo di impianti e beni di consumo durevoli determinato dall'alternarsi di 'sciami' di innovazioni con periodi di relativo ristagno tecnologico per quanto riguarda i cicli di media durata. Alle teorie austriache del risparmio forzato che almeno in parte derivano da quella di Wicksell, si è già accennato nel paragrafo precedente.
Da queste tradizioni provengono anche due economisti che tuttavia si scostano dalle fondamenta tradizionali dell'approccio marginalista in misura sufficiente da essere considerati 'eretici', fondatori di nuove scuole di pensiero: Schumpeter e Keynes.
L'economista austriaco Joseph Schumpeter (18831950) si contrappone alla tradizione marginalista (di cui pure dichiara di accettare le principali elaborazioni teoriche, come soluzione però di un problema specifico, quello 'statico', concernente la raffigurazione di un sistema economico che non cambia nel tempo) per il suo tentativo di costruire una teoria dello sviluppo. Tale teoria è basata sulle innovazioni, introdotte dagli imprenditori e finanziate dai banchieri; imprenditori e banchieri risultano così le figure attive, le cui scelte determinano l'evoluzione dell'economia, mentre le scelte di consumo e di risparmio, che risultavano centrali nella teoria tradizionale, appaiono qui come secondarie. Tutte le principali nozioni della teoria tradizionale risultano modificate da questo cambiamento d'ottica; ad esempio, la nozione di concorrenza della teoria statica risulta 'travolta' dalla forza della concorrenza dinamica, che viene dagli imprenditori che introducono nuovi processi produttivi o nuovi prodotti. I profitti degli imprenditori-innovatori derivano da beni nuovi, che riescono ad affermarsi nel mercato, e dai minori costi rispetto alle imprese che utilizzano i vecchi metodi produttivi; e, dato che la domanda di finanziamenti alle banche proviene essenzialmente dagli imprenditori-innovatori, sono le opportunità d'investimento aperte dalle innovazioni e la loro redditività che determinano i tassi d'interesse.
Il ciclo economico è spiegato dall'andamento irregolare del flusso delle innovazioni. Queste, d'altra parte, sono d'importanza molto diversa: le innovazioni di portata storica - la macchina a vapore per usi fissi e per il trasporto per terra o per mare, l'elettricità, l'automobile, l'aereo, oggi la microelettronica - danno origine a 'cicli di lunga durata' (i 'cicli Kondrat'v' di durata approssimativamente cinquantennale); le innovazioni di minor rilievo, che spesso s'innestano in quelle maggiori e ne costituiscono sviluppi specifici, danno origine a cicli di durata più breve: i 'Juglar', di circa nove anni, e i 'Kitchin', di circa tre anni (dal nome degli economisti che li hanno studiati sistematicamente, anche sul piano empirico). Il modello teorico di Schumpeter è originariamente presentato nella Teoria dello sviluppo economico del 1912 ed è poi riproposto, con diverse importanti modificazioni, nel trattato su I cicli economici del 1939, nel quale l'analisi teorica si combina con quella empirica (storica e statistica). Schumpeter parte dall'analisi del 'flusso circolare', ossia del processo economico che riproduce uniformemente se stesso: un concetto simile, se pure non identico, a quello dei classici e di Sraffa. La rottura di tale flusso è provocata dagli imprenditori tramite le innovazioni, ossia nuove e più efficienti combinazioni di fattori produttivi, dalle quali emerge il profitto. Gli imprenditori-innovatori per finanziare le innovazioni domandano prestiti alle banche, le quali creano mezzi di pagamento addizionali. Compare quindi una schiera di imitatori, crescono gli investimenti e, di conseguenza, la domanda di beni di consumo; si sviluppa così la fase di prosperità. Dalla prosperità si passa alla flessione, man mano che vengono a maturazione i frutti delle innovazioni e man mano che crescono le produzioni delle imprese che non s'innovano ma si avvantaggiano della generale prosperità. Alla fine del ciclo, il sistema dei prezzi risulta cambiato e i redditi reali accresciuti. Pertanto, il nuovo ciclo parte da un livello più alto del reddito complessivo e di quasi tutti i redditi individuali: cicli e sviluppo risultano le manifestazioni di un unico processo, il processo dello sviluppo ciclico.
Secondo Schumpeter, tale processo è caratterizzato da una tendenza di lungo periodo verso la concentrazione delle imprese, una tendenza condizionata dalla crescente importanza delle economie di scala nelle principali attività economiche. In tal modo sono emerse quelle grandi o grandissime imprese, specialmente nell'industria e nella finanza, che in diversi casi hanno assunto rilevanza internazionale. Schumpeter sostiene che nelle grandi imprese, le quali organizzano grandi laboratori di ricerca, l'innovazione tende a essere trasformata in un'attività di routine. La crescita assoluta e relativa delle grandi imprese e la burocratizzazione del processo innovativo renderebbero superflua la figura centrale del capitalismo moderno, l'imprenditore, e renderebbero pertanto sempre più difficile la sopravvivenza del capitalismo, favorendo l'avvento del socialismo centralizzato: il collettivismo pubblico verrebbe a sostituire un sistema che tende ad assumere sempre più le caratteristiche di un collettivismo privato. In tal modo Schumpeter, che ideologicamente era un conservatore, analiticamente si avvicina a Marx che aveva già considerato, sia pure per brevi cenni, la tendenza alla concentrazione; Marx, tuttavia, sosteneva l'ineluttabilità dell'avvento del socialismo su basi in gran parte diverse: il ruolo principale era svolto dal crescente immiserimento delle masse.
Oggi appare chiaro che la tendenza alla concentrazione, che è stata osservata in diverse importanti attività economiche, è stata interpretata in termini troppo schematici sia da Marx sia da Schumpeter. In particolare, Schumpeter ha sottovalutato gravemente il ruolo che tuttora svolgono gli inventori individuali e il ruolo dei ricercatori e degli inventori che operano in istituti universitari e in altri organismi autonomi. Il flusso delle nuove idee e delle invenzioni che hanno una tale origine riveste importanza essenziale anche per le grandi imprese, i cui laboratori spesso sviluppano invenzioni di provenienza esterna. Schumpeter ha inoltre sottovalutato il ruolo che piccole e piccolissime imprese possono avere e spesso hanno avuto nell'avviare importanti innovazioni, che in seguito sono riprese e sviluppate dalle grandi. Per di più, anche come conseguenza di certe innovazioni, come quelle connesse all'elettronica, sono sorti nuovi spazi per le piccole imprese, il cui peso, nonostante la tendenza verso la concentrazione, era sempre rimasto considerevole e negli ultimi due decenni è progressivamente cresciuto in tutti i paesi industrializzati.
Joseph Schumpeter è un economista, ma è anche un sociologo e un politologo: possono essere classificate con queste ultime due etichette alcune sue opere, come L'imperialismo e le classi sociali e Capitalismo, socialismo e democrazia. Un altro grande studioso, quasi contemporaneo di Schumpeter, Max Weber (1864-1920), viene generalmente considerato come un sociologo, ma è stato professore di economia politica (prima a Friburgo, poi a Heidelberg) e si è occupato fra l'altro anche di temi strettamente economici (quali i fondamenti della teoria marginalista del valore, in una recensione del 1908 a un libro di Brentano). La sua opera principale comunque resta Economia e società, pubblicata postuma nel 1922. Weber e Schumpeter sono due cospicui esempi dell'ampia sovrapposizione che spesso si crea fra le scienze sociali, in particolare fra economia e sociologia. Un altro esempio dello stretto collegamento tra economia e sociologia è fornito dall'opera dell'italiano Vilfredo Pareto, anche se, come si è accennato sopra, il contributo di Pareto alla teoria economica rientra nel filone marginalista dell'equilibrio economico generale e fa capo quindi a una concezione che ha contribuito più a separare che ad avvicinare le due discipline.
L'opera di Weber riguarda l'interpretazione del capitalismo moderno, concepito come un grandioso processo di trasformazione, che, a sua volta, è in primo luogo l'espressione di un processo di razionalizzazione non solo dell'attività economica, ma dell'organizzazione della società intera. Tale processo s'incontra e per certi versi si scontra con le convinzioni religiose, che possono essere più o meno favorevoli allo 'spirito del capitalismo'; tale processo s'incarna, fra l'altro, in una progressiva burocratizzazione dell'organizzazione statale e del sistema produttivo. Il processo di cui parla Weber si contrappone sotto diversi aspetti, se non altro sotto l'aspetto quantitativo, al processo di crescente proletarizzazione delineato da Marx. L'evoluzione storica ha dato ragione a Weber, non a Marx, giacché la burocrazia pubblica e privata è cresciuta enormemente nei paesi sviluppati, mentre la quota dei proletari - operai salariati- è cresciuta fin verso la fine del secolo scorso, e in seguito, durante questo secolo, ha mostrato tendenza a declinare. (Negli ultimi cento anni la massa degli impiegati è cresciuta dal 5 al 30% della popolazione attiva in Italia, dal 12 al 45% in Inghilterra e dal 14 al 49% negli Stati Uniti, con l'avvertenza che oggi in Italia la burocrazia pubblica rappresenta oltre la metà del totale, in Inghilterra poco meno della metà e negli Stati Uniti un terzo. La quota del 'proletariato', dopo aver toccato o superato il 50% della popolazione attiva, negli ultimi decenni è scesa nettamente sotto tale livello. Com'è noto, oltre che dagli impiegati e dagli operai, la popolazione attiva è costituita da lavoratori autonomi).
L'economista deve considerare il processo di burocratizzazione congiuntamente all'espansione degli interventi pubblici nella vita economica e, nei tempi più vicini a noi, alla crescita dello Stato sociale e degli apparati fiscale e parafiscale. Le stesse teorie economiche vanno considerate con riferimento a queste tendenze. Così, le politiche economiche ispirate da Keynes non sarebbero state concepibili se il processo di burocratizzazione nel senso di Weber non fosse andato molto avanti. Non pochi modelli teorici vanno visti nella stessa prospettiva. Ad esempio, una teoria delle retribuzioni - salari e stipendi - che miri ad avere efficacia interpretativa non può non riconoscere che nel nostro tempo le retribuzioni nominali sono rigide verso il basso: una rigidità che si ricollega in vari modi alle forme organizzative prevalenti nella burocrazia pubblica e privata e ai sindacati, che per diversi aspetti rientrano nel processo weberiano di burocratizzazione.
In opposizione alle tradizioni precedenti (classica e marginalista), che considerano la moneta un semplice 'velo', cioè priva di influenza sui livelli di equilibrio delle variabili 'reali' (quantità prodotte, prezzi relativi di equilibrio e variabili distributive), Keynes (1883-1946) insiste sull'influenza persistente, e non solo come fattore di disturbo ciclico, che le vicende monetarie possono avere su quelle reali. La formulazione matura della teoria keynesiana - quella della Teoria generale del 1936 - può essere illustrata a partire da tre elementi fondamentali: il concetto di domanda effettiva, la teoria degli investimenti e del moltiplicatore del reddito e una teoria monetaria basata sulla 'preferenza per la liquidità'. Consideriamo rapidamente questi tre elementi. La domanda effettiva esprime, per ogni livello di occupazione, l'ammontare di prodotto che gli imprenditori si attendono di vendere sul mercato; ed è considerata da Keynes come funzione crescente - ma a velocità decrescente - del livello di occupazione. Gli imprenditori decidono quanto produrre, e quindi in quale misura utilizzare la capacità produttiva disponibile e quanti lavoratori impiegare, confrontando la curva di domanda effettiva con la curva di offerta. Quest'ultima indica, in corrispondenza di ciascun livello di occupazione, l'ammontare di vendite che gli imprenditori ritengono necessario per recuperare i costi e ottenere un profitto appena sufficiente a indurli a continuare la produzione. La curva di offerta è quindi una funzione crescente del livello di occupazione; inoltre, nella Teoria generale, Keynes afferma che essa tende a crescere man mano più rapidamente a causa dell'aumento progressivo del costo unitario di produzione (postulato della produttività marginale decrescente). Pertanto, per livelli sufficientemente bassi dell'occupazione la curva di domanda effettiva risulterà superiore alla curva di offerta, mentre a un certo punto (detto 'punto di domanda effettiva') le due curve si incontreranno, e per livelli di occupazione superiori la curva di offerta risulterà superiore a quella di domanda.
Il livello di occupazione scelto dagli imprenditori corrisponde al punto di domanda effettiva. In questo modo, osserva Keynes, tutto dipende dalle aspettative degli imprenditori, e più precisamente dalle 'aspettative di breve periodo', relative alle possibilità di smercio dei prodotti. Inoltre, non vi è alcuna ragione per cui il livello di occupazione così determinato debba corrispondere a quello che assicura il pieno utilizzo della capacità produttiva disponibile e, soprattutto, la piena occupazione della forza-lavoro. Le aspettative degli imprenditori risultano realizzate quando la domanda per beni di consumo e d'investimento corrisponde al livello di produzione da loro prescelto; in questo caso, rileva Keynes, anche in presenza di disoccupazione e di capacità produttiva inutilizzata gli imprenditori non hanno alcuno stimolo a espandere produzione e occupazione. A sostenere quest'ultima tesi concorrono gli altri elementi costitutivi della teoria keynesiana, in particolare la teoria dell'investimento e quella della preferenza per la liquidità che illustreremo tra poco. In sintesi, Keynes ricorda che i consumi dipendono essenzialmente dal reddito e quindi dai livelli di produzione, mentre lo stimolo esterno alle variazioni della domanda aggregata viene dagli investimenti; questi, a loro volta, dipendono dalle aspettative degli imprenditori e dal tasso d'interesse, determinato sul mercato monetario: non vi è motivo per cui questi elementi debbano rispondere alla presenza di disoccupazione in modo da stimolarne il riassorbimento. Di qui la tesi della possibilità di 'equilibri di sottoccupazione', cioè di situazioni di disoccupazione persistente.
Il secondo elemento costitutivo della teoria keynesiana, come si è accennato, è la sua teoria dell'investimento. Anche in questo caso Keynes si pone dal punto di vista dell'imprenditore, che decide se e quanto investire confrontando i costi dell'investimento con i ricavi che ci si attendono da esso. Le aspettative dell'imprenditore - che in questo caso sono 'aspettative di lungo periodo', in quanto riguardano un arco di tempo piuttosto lungo, corrispondente alla vita attiva degli impianti in cui si concreta l'investimento - sono secondo Keynes piuttosto 'volatili', in quanto riguardano un futuro incerto, e sono quindi estremamente sensibili a variazioni del 'clima generale di opinioni'. Per confrontare i costi dell'investimento con i ricavi che ci si attende di ottenere da esso negli anni di funzionamento dell'impianto occorre scontare - cioè ridurre a valori attuali, in lire di oggi - il valore atteso dei ricavi, utilizzando il tasso d'interesse; per questa via le vicende monetarie, che come vedremo fra poco determinano il livello dei tassi d'interesse, influiscono sulle vicende 'reali' dell'economia, contribuendo a determinare il livello degli investimenti e, tramite esso, il livello della produzione e dell'occupazione. Infatti il livello della produzione è collegato agli investimenti tramite il cosiddetto 'moltiplicatore': un concetto originariamente elaborato da un allievo di Keynes, Richard Kahn (1905-1989), in un articolo del 1931, per indicare l'impulso espansivo prodotto da un investimento (o da una spesa pubblica) addizionale sul reddito in condizioni di diffusa disoccupazione; l'effetto espansivo è superiore al volume dell'investimento addizionale a causa dell'espansione della spesa per consumi da parte dei lavoratori precedentemente disoccupati e che ora trovano un impiego.
Il terzo elemento fondamentale della teoria keynesiana è costituito dalla teoria della 'preferenza per la liquidità'. Keynes respinge sia la 'teoria quantitativa della moneta', sia la teoria del tasso d'interesse basata sul confronto fra domanda e offerta di 'fondi disponibili per i prestiti'. Consideriamo per prima la teoria quantitativa. Essa si basa sull'equazione degli scambi, MV = PQ, che indica semplicemente che il valore dei beni e servizi scambiati sul mercato (pari a quantità Q moltiplicata prezzo P) è pari al valore della moneta che passa di mano in senso inverso (pari a M, quantità di moneta in circolazione, moltiplicata per V, velocità di circolazione, cioè numero di volte in cui viene utilizzata in media ciascuna unità di moneta in circolazione). La teoria quantitativa sostiene che il livello generale dei prezzi varia in proporzione alle variazioni dell'offerta di moneta (cioè che P varia in proporzione a M), in quanto suppone che sia possibile considerare relativamente stabili sia la velocità di circolazione della moneta V, determinata da fattori istituzionali che cambiano solo molto lentamente, sia il prodotto Q, che le forze di mercato tendono a mantenere al livello di piena occupazione. Viceversa, Keynes sostiene che né l'una né l'altra ipotesi possono essere considerate valide; infatti la velocità di circolazione della moneta cambia anche nel breve periodo, in conseguenza di spostamenti da moneta a titoli e viceversa nelle preferenze dei soggetti economici; il prodotto Q, come si è appena accennato, può variare in quanto per Keynes è possibile che gli imprenditori decidano di non utilizzare appieno la capacità produttiva e la forza-lavoro disponibili.
Come si è accennato sopra, Keynes respinge anche la teoria del tasso d'interesse dominante nella tradizione marginalista, secondo cui esso è determinato sul mercato dei fondi prestabili dal confronto tra l'offerta di tali fondi (i risparmi, che sono funzione crescente del tasso d'interesse) e la domanda, che viene essenzialmente dagli imprenditori. Questi ultimi infatti chiedono denaro in prestito per finanziare gli investimenti, che sono funzione decrescente del tasso d'interesse. Keynes replica che sia i risparmi sia gli investimenti dipendono essenzialmente da altre variabili: i risparmi dal livello del reddito, gli investimenti dalle aspettative degli imprenditori. Il tasso d'interesse risulta invece determinato sul mercato monetario dalla 'preferenza per la liquidità', cioè dalle scelte dei soggetti economici sulla forma in cui tenere la ricchezza accumulata (che è uno stock, e quindi generalmente ha dimensioni ben maggiori del flusso annuo di risparmi e investimenti). Tale scelta riguarda essenzialmente titoli (azioni e obbligazioni) e moneta (legale o bancaria); e dipende sia dai rendimenti, sia soprattutto dalle aspettative di variazioni dei prezzi delle attività finanziarie, che continuamente determinano guadagni e perdite in conto capitale. Le attività più 'liquide' sono quelle che all'occorrenza è più facile trasformare in moneta legale, con probabilità minime di ottenere guadagni o subire perdite in conto capitale: dopo le banconote vengono i depositi di conto corrente, e poi man mano, in ordine di liquidità decrescente, i buoni del Tesoro, le obbligazioni, le azioni, beni rifugio come l'oro e i diamanti, gli immobili.
Il tasso d'interesse dipende dall'offerta di attività liquide (moneta a corso legale e moneta bancaria), cioè dalle scelte delle autorità monetarie, e dalla domanda di moneta, cioè dalla 'preferenza per la liquidità' dei privati. Pertanto il tasso d'interesse risulta determinato sul mercato monetario, e non rappresenta una variabile 'reale' determinata dalle scelte di risparmio e investimento. In questo modo, come si accennava, le vicende monetarie influiscono su investimenti, reddito e occupazione. L'obiettivo fondamentale di Keynes consiste dunque nel mostrare che un'economia di mercato non tende automaticamente alla piena occupazione. Ma il ristagno produttivo e la disoccupazione costituiscono una minaccia per l'organizzazione civile della società. Perciò la stessa sopravvivenza del capitalismo, che sarebbe messa in discussione da condizioni di disoccupazione elevata e persistente, richiede, secondo Keynes, un vigoroso intervento pubblico per stimolare l'attività economica e sostenere l'occupazione.
Negli ultimi cinquant'anni, e in particolare negli anni cinquanta e sessanta, numerosi economisti 'keynesiani' hanno identificato tale intervento pubblico in politiche fiscali e monetarie espansive, cioè in politiche di spesa pubblica in disavanzo per sostenere la domanda aggregata di beni e servizi, e in politiche di espansione della liquidità dirette a ridurre i tassi d'interesse e quindi a favorire gli investimenti. In realtà, Keynes proponeva soprattutto di creare un ambiente di consuetudini e istituzioni, anche internazionali, tale da stimolare sia un clima di aspettative imprenditoriali favorevoli agli investimenti, sia una riduzione dell'incertezza che condiziona le decisioni sui livelli di produzione delle imprese; in quest'ambito rientrano proposte quali la predisposizione di programmi d'investimento pubblici da realizzare nei momenti di ristagno, o la riforma delle istituzioni monetarie e finanziarie internazionali diretta a favorire i commerci e lo sviluppo economico.
L'analisi di Keynes, concentrando l'attenzione su alcuni aspetti del funzionamento del sistema economico, fa passare in secondo piano altri aspetti non meno importanti di quelli considerati; in gran parte degli economisti postkeynesiani, ciò si traduce in una visione eccessivamente semplificata dell'economia. In particolare, l'assunzione della tecnologia data, fatta da Keynes nella Teoria generale per focalizzare l'attenzione sugli elementi al centro della sua analisi, ha spesso indotto gli economisti keynesiani a trascurare il ruolo del cambiamento tecnologico, e quindi a sottovalutare l'importanza dei fattori, anche 'di breve periodo', che lo favoriscono, come dei suoi effetti su reddito e occupazione, ma anche sulla struttura stessa del sistema economico. L'ottica 'aggregata' dell'analisi keynesiana, evidente nell'uso di un indice unico per il 'livello dei prezzi' (un uso che Keynes stesso aveva criticato nel suo Trattato della moneta del 1930), ha portato non solo a trascurare il rapporto tra mutamenti strutturali dell'economia da un lato e andamento del reddito e dell'occupazione dall'altro, ma anche a una perniciosa separazione tra analisi microeconomica (teoria dei prezzi relativi, della struttura dei consumi, delle forme di mercato e della distribuzione del reddito) e analisi macroeconomica (teoria della moneta, del reddito e dell'occupazione), già criticata dallo stesso Keynes ma ormai cristallizzata nella pratica di molti corsi d'insegnamento universitari. Anche da questo probabilmente deriva la scarsa attenzione spesso prestata nella concreta attuazione di politiche fiscali e monetarie espansive alla distinzione tra spese produttive e improduttive.
Nel variegato panorama contemporaneo sono presenti diversi gruppi di economisti, i principali fra i quali si richiamano più o meno direttamente alle maggiori scuole economiche illustrate sopra. Distinguiamo quattro gruppi principali: gli economisti della 'sintesi neoclassica', dominanti per oltre trent'anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, caratterizzati dall'innesto di elementi keynesiani - particolarmente per quel che riguarda la politica economica - sul tronco della tradizione marginalista; gli economisti monetaristi e la scuola delle aspettative razionali, caratterizzati dal rifiuto più o meno radicale dell'intervento pubblico nell'economia e, sul piano più strettamente teorico, da un rifiuto della teoria keynesiana in quanto contraddittoria con la struttura analitica dell'approccio marginalista; gli economisti postkeynesiani, che tendono a sviluppare gli elementi della teoria keynesiana più eterodossi rispetto alla tradizione marginalista; Sraffa e gli economisti che condividono il suo progetto culturale di un ritorno all'impostazione della scuola classica.
Di fronte all'esperienza della grande depressione degli anni trenta, molti economisti sono indotti a prestare orecchio alle idee di Keynes sui rimedi di politica economica alla disoccupazione, pur senza abbandonare la teoria marginalista del valore e della distribuzione che costituisce la base della loro formazione professionale. Questi economisti perciò cercano di reinterpretare la teoria di Keynes introducendo alcune ipotesi per rendere l'esistenza di disoccupazione compatibile con la teoria marginalista. Lungo questa strada procede in particolare John Hicks (1904-1989, premio Nobel nel 1972). In un articolo del 1939, Hicks propone il cosiddetto schema IS-LM, che traduce la teoria keynesiana nei termini più tradizionali di un modello di equilibrio economico generale semplificato, caratterizzato dalla presenza di tre mercati: il mercato dei beni, quello della moneta e quello dei titoli (quest'ultimo però gioca un ruolo puramente passivo, mentre l'attenzione si concentra sui primi due). Il mercato dei beni è in equilibrio quando l'offerta, cioè la produzione, è eguale alla domanda aggregata (che nell'ipotesi semplificata di un sistema senza rapporti con l'estero, senza spesa pubblica e senza prelievo fiscale corrisponde alla somma della domanda per beni di consumo e di quella per beni d'investimento); e ciò si verifica quando i risparmi, che sono funzione crescente del reddito, sono eguali agli investimenti, considerati funzione decrescente del tasso d'interesse. Il mercato della moneta è in equilibrio quando offerta e domanda di moneta sono eguali; secondo l'ipotesi della moneta esogena, l'offerta di moneta è determinata dalle autorità monetarie che controllano l'emissione di moneta a corso legale e, indirettamente, la quantità di moneta creditizia che può essere creata dalle banche; la domanda di moneta è pari alla somma della domanda di moneta a scopo di transazione, che è funzione crescente del reddito, e della domanda di moneta a scopo speculativo - quella su cui Keynes aveva concentrato l'attenzione, e che esprime la scelta sulla forma, moneta o titoli, in cui tenere la propria ricchezza -, che è considerata funzione decrescente del tasso d'interesse.
Lungo la strada intrapresa da Hicks procede anche Franco Modigliani (n. 1918, premio Nobel nel 1985), economista statunitense di origine italiana, emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali. Per certi aspetti Modigliani accetta lo schema IS-LM; accanto al mercato dei beni e a quello della moneta (e a quello dei titoli finanziari, che come si è detto resta sullo sfondo), egli però considera esplicitamente anche il mercato del lavoro. Come per gli altri mercati, le variazioni del prezzo tendono ad assicurare l'equilibrio tra domanda e offerta: nel nostro caso, dunque, le variazioni del salario reale - che è il prezzo dei servizi dei lavoratori -, portando in equilibrio domanda e offerta di lavoro, tendono ad assicurare la piena occupazione. Per ottenere il risultato keynesiano, cioè la possibilità di una situazione di disoccupazione persistente, occorre allora introdurre qualche ostacolo che impedisca il libero funzionamento del mercato del lavoro. Quest'ostacolo è individuato nella natura non concorrenziale del mercato del lavoro dovuta alla forza contrattuale dei sindacati.In questo modo la teoria keynesiana viene presentata come un caso particolare della teoria marginalista: quel caso in cui l'equilibrio di piena occupazione non può essere raggiunto, perché il mercato del lavoro non è concorrenziale, per cui la presenza di disoccupazione non influisce sui salari monetari e, tramite questi, sui salari reali. Si ha così la sintesi neoclassica, che in questo dopoguerra, e fino a un'epoca relativamente recente, ha dominato l'insegnamento della macroeconomia nelle università di tutto il mondo (grazie anche al successo del testo Economia di Paul Samuelson - n. 1912, premio Nobel nel 1970 -, che ha avuto oltre 10 milioni di lettori dal 1948 a oggi).
La sintesi neoclassica riassorbe la tesi keynesiana della possibilità di equilibri di sottoccupazione nell'ambito della concezione marginalista tradizionale, legata all'idea di mercati in cui le variazioni del prezzo tendono ad assicurare l'equilibrio tra domanda e offerta. La natura non concorrenziale del mercato del lavoro spiega la disoccupazione, causata come si è detto dalla rigidità dei salari verso il basso; ciò apre la strada a riconoscere l'utilità dell'intervento pubblico nell'economia, perché la disoccupazione può essere combattuta tramite l'utilizzo della politica fiscale e monetaria, utili in generale per regolare l'andamento dell'economia evitandone o riducendone le oscillazioni cicliche. Naturalmente, in presenza di un qualche potere di mercato da parte dei sindacati, l'intervento pubblico diretto a favorire la riduzione della disoccupazione può contemporaneamente favorire un aumento del tasso di crescita dei salari monetari, e quindi dell'inflazione. Il trade-off (relazione inversa) tra disoccupazione e tasso d'inflazione è stato riproposto in un celebre articolo del 1958 dall'economista neozelandese A.W. Phillips (1914-1975); la curva decrescente che rappresenta tale relazione inversa (detta 'curva di Phillips') costituisce, per gli economisti della 'sintesi neoclassica', l'insieme delle possibili scelte di politica economica. Ma, come si accennerà più avanti, tale concezione è stata oggetto di varie critiche negli ultimi venticinque anni.
All'interno della tradizione marginalista si apre, a partire dagli anni cinquanta, un vivace dibattito sulla plausibilità delle ipotesi necessarie per assicurare il risultato 'keynesiano' di una disoccupazione persistente. Questo dibattito in sostanza riguarda la forza dei meccanismi di mercato nel ristabilire l'equilibrio tra domanda e offerta nel caso del lavoro, e l'opportunità dell'intervento pubblico in campo economico. Fra quanti nutrono fiducia nei meccanismi riequilibratori del mercato e ostilità verso l'intervento pubblico nell'economia, particolare rilievo ha la Scuola di Chicago. Milton Friedman (n. 1912, premio Nobel nel 1976) è considerato il massimo esponente di questa scuola. Egli sviluppa una teoria della moneta diversa da quella di Keynes, riprendendo e sviluppando le tesi della vecchia teoria quantitativa. In particolare, nel lungo se non nel breve periodo, il livello di equilibrio del reddito dipende da fattori 'reali' come le dotazioni di risorse, la tecnologia e le preferenze dei soggetti economici; la velocità di circolazione della moneta è considerata come funzione stabile dei tassi di rendimento dei vari tipi di attività (moneta, titoli, beni, 'capitale umano').
Friedman sostiene quindi che le vicende monetarie, in particolare l'offerta di moneta (che è considerata esogena), possono influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo; nel lungo periodo le variazioni dell'offerta di moneta influiscono solo sul livello generale dei prezzi (in altri termini, la 'curva di Phillips' risulta inclinata negativamente solo nel breve periodo, ma diventa verticale nel lungo periodo).Inoltre Friedman condanna gli interventi di politica monetaria e fiscale diretti a sostenere la domanda globale e quindi il reddito e l'occupazione; non solo perché l'efficacia di questi interventi è limitata al breve periodo, ma anche perché gli stessi effetti di breve periodo sono incerti, e possono anzi risultare negativi. Infatti, ricorda Friedman, gli interventi di politica economica sono soggetti a tre tipi di ritardi e di incertezze: 1) quelli inerenti alla valutazione della situazione su cui intervenire; 2) quelli inerenti al passaggio dalla valutazione alla decisione dell'intervento e alla sua attuazione; e, infine, 3) quelli relativi al passaggio dall'attuazione dell'intervento al momento in cui si esplicano i suoi effetti. A causa di questi ritardi e incertezze è possibile, ad esempio, che gli interventi esercitino gli effetti previsti ma in una situazione diversa, in cui sarebbero necessari interventi di segno opposto. Quindi gli interventi di politica economica possono avere un effetto destabilizzante, cioè ampliare, anziché ridurre, le fluttuazioni del reddito.
Una tesi ancora più estrema viene sostenuta dai teorici delle 'aspettative razionali' (gli statunitensi J.F. Muth, R.E. Lucas, T.J. Sargent). Secondo questi ultimi, i soggetti economici imparano a tener conto dell'intervento pubblico nell'economia, scontandone gli effetti in anticipo; così, ad esempio, una spesa pubblica in disavanzo, cioè non finanziata con un aumento contemporaneo delle tasse, decisa per stimolare la domanda globale, viene controbilanciata da una riduzione dei consumi privati, decisa per accantonare i risparmi con cui pagare le tasse che prima o poi dovranno venire imposte per far fronte agli oneri del debito pubblico con cui viene finanziata la spesa pubblica. Pertanto, la 'curva di Phillips' risulta verticale anche nel breve periodo: gli interventi di politica monetaria e fiscale espansivi possono produrre solo aumenti del tasso d'inflazione, e non del livello di disoccupazione. (Si può notare, per inciso, che queste ipotesi presuppongono che tutti i soggetti economici condividano uno stesso modello di funzionamento dell'economia, e siano dotati di una cultura economica e di una capacità di previsione che sarebbe un eufemismo definire irrealistiche).L'unico tipo di politica economica ammessa dai teorici delle aspettative razionali è quello diretto a ridurre le frizioni nel funzionamento del mercato: le cosiddette 'politiche dell'offerta', consistenti ad esempio nel facilitare la mobilità dei lavoratori da un posto di lavoro a un altro, o nell'assicurare che le qualifiche di cui la forza-lavoro del paese viene dotata corrispondano agli sbocchi professionali offerti dal mercato.
Di fronte alla reinterpretazione della teoria di Keynes proposta dalla sintesi neoclassica e alle critiche monetariste, si è avuta una decisa reazione da parte di un gruppo di economisti noti come postkeynesiani (come gli inglesi Joan Robinson, 1903-1983, e Richard Kahn; l'ungherese, naturalizzato inglese, Nicholas Kaldor, 1908-1986 ; gli statunitensi Sidney Weintraub, 1914-1983, e Hyman Minsky, n. 1920).Questi economisti sottolineano che lo schema IS-LM proposto da Hicks e condiviso dagli economisti della sintesi neoclassica relega in secondo piano l'elemento più caratteristico della concezione keynesiana: l'incertezza sul futuro che domina le decisioni degli operatori economici. Nel caso della funzione degli investimenti, ben più importanti del tasso d'interesse sono le aspettative degli imprenditori sulla redditività dei vari progetti d'investimento: aspettative che Keynes considera 'volatili', nel senso che cambiano continuamente, a seconda ad esempio del clima politico e delle condizioni economiche generali.
Nel caso della domanda di moneta, Keynes considera le aspettative sul futuro (per la precisione, sull'andamento futuro del tasso d'interesse) essenziali nel determinare la domanda di moneta a scopo speculativo, che egli considera la componente principale della domanda di moneta, e soprattutto quella che ne determina la continua variabilità. Di fronte alla rilevanza dell'incertezza sul futuro, alla volatilità delle aspettative, e alla conseguente variabilità delle relazioni che legano gli investimenti e la domanda di moneta a scopo speculativo al tasso d'interesse, gli economisti postkeynesiani considerano fuorviante la rappresentazione di mercati in equilibrio, per i beni come per la moneta, cioè la concezione che è alla base dello schema IS-LM. In luogo dell'equilibrio simultaneo dei vari mercati, tipico della tradizione marginalista e ripreso nello schema IS-LM, gli economisti postkeynesiani propongono una caratterizzazione del sistema economico basata su una sequenza di nessi di causa ed effetto: la domanda speculativa di moneta, assieme alla politica monetaria della banca centrale, influisce sul tasso d'interesse; questo a sua volta, assieme alle aspettative, influisce sul livello degli investimenti; gli investimenti, tramite il moltiplicatore, determinano il livello del reddito e dell'occupazione. In questo modo si sottolinea l'influenza che le vicende dei mercati monetari e finanziari esercitano sul reddito e sull'occupazione, in contrapposizione alle tesi della tradizione classica e marginalista sulla 'neutralità' della moneta. Inoltre, vari economisti postkeynesiani sostengono che l'offerta di moneta è endogena: cioè che la quantità di moneta in circolazione (particolarmente la moneta bancaria) non è controllata in modo rigido dalle autorità monetarie, ma dipende, almeno in parte, dalle decisioni di altri soggetti.
Data l'importanza non solo teorica ma anche pratica che riveste la questione del modo di concepire l'offerta di moneta, conviene ritornare sui punti di vista espressi da Keynes e dai monetaristi.Si è già ricordato che vari economisti postkeynesiani hanno sostenuto che l'offerta di moneta è endogena; hanno sostenuto tale tesi in chiave critica sia dello schema IS-LM di Hicks sia delle teorie dei monetaristi. Ora, è necessario ricordare che la massa monetaria si compone di diversi tipi di mezzi monetari, fra cui i principali sono i biglietti della banca centrale e i depositi presso le banche ordinarie. Se per i biglietti il controllo dell'autorità monetaria è diretto, pur se neppure qui totale, per i depositi è solo indiretto. Le variazioni dei depositi dipendono infatti principalmente dalle decisioni delle imprese; tuttavia, le loro iniziative assumono rilevanza monetaria solo se le banche ordinarie accolgono le richieste di prestiti concedendo aperture di credito o trasformando titoli di credito che non hanno funzioni monetarie, come le cambiali, in depositi, che costituiscono moneta bancaria. A loro volta, le decisioni delle banche ordinarie nel creare depositi possono incontrare un limite superiore nella politica della banca centrale; tuttavia, l'affermazione che la banca centrale è in grado di porre un limite all'espansione della moneta bancaria è ben diversa dall'affermazione che la massa dei mezzi monetari sia determinata dalla banca centrale. Questi due flussi di mezzi monetari dipendono dunque da impulsi significativamente, anche se solo parzialmente, diversi: come è dimostrato dal fatto che in certe circostanze, quali quelle che si verificarono all'insorgere della grande depressione nel 1929, la massa dei biglietti non diminuì e anzi ebbe un sia pur limitato aumento, mentre la massa dei depositi subì una forte contrazione. Fra l'altro, ciò indica che anche nelle fluttuazioni cicliche l'influenza della politica monetaria adottata dalla banca centrale è importante ma non dominante, almeno di norma.
Né la tesi del carattere endogeno né quella del carattere esogeno della moneta sono dunque pienamente valide; sembra tuttavia più vicina al vero la prima tesi. Sia Keynes nella Teoria generale, sia Friedman assumono come esogena la moneta; sotto questo aspetto Hicks nel suo modello IS-LM non tradisce il pensiero di Keynes. Tuttavia, mentre nel caso della teoria keynesiana l'assunzione di moneta esogena può essere abbandonata senza gravi conseguenze (le conseguenze possono essere gravi per lo schema di Hicks), ciò non vale per la teoria monetarista, la quale non può fare a meno di quell'assunzione: soltanto con essa, infatti, la moneta può apparire come motore e non come cinghia di trasmissione. La teoria monetarista tuttavia - l'abbiamo già accennato - considera la moneta come motore non delle quantità reali (che possono variare per effetto della politica monetaria solo in via transitoria), ma solo delle quantità nominali, in particolare dei prezzi. La grave limitazione che i moderni monetaristi hanno in comune con i sostenitori dell'antica teoria quantitativa della moneta - tra cui emerge lo statunitense Irving Fisher (1867-1947) - sta proprio in ciò, che essi non riescono a concepire variazioni generalizzate dei prezzi che non siano da attribuire a variazioni della quantità di moneta, mentre in realtà hanno luogo sia diminuzioni sia aumenti generalizzati dei prezzi non provocati da impulsi monetari. Ad esempio, la moneta non gioca un ruolo attivo quando i prezzi variano perché i salari monetari crescono più rapidamente della produttività del lavoro, o perché variano i prezzi delle materie prime e delle fonti di energia, o per misure di politica tributaria capaci d'influire sui prezzi attraverso i costi; e gli esempi potrebbero continuare. Si verificano indubbiamente circostanze in cui variazioni generalizzate dei prezzi dipendono da quelle della massa dei mezzi monetari; così, per esempio, quando durante una guerra o in tempo di pace la banca centrale aderisce alla richiesta del governo di finanziare il disavanzo del bilancio statale con la creazione di biglietti, può aver luogo un processo inflazionistico.
In breve, la formula con cui Fisher aveva sintetizzato l'antica teoria quantitativa della moneta, rielaborata ma non radicalmente modificata da Friedman, e cioè MV = PQ ovvero P = MV/Q, ha la natura di una tautologia e non può non essere sempre vera; per trasformarla in una formula esplicativa, occorre fare delle ipotesi su quali fra le quattro variabili che compaiono nella formula vadano considerate date, cioè determinate da fattori esterni alla teoria (o 'esogeni'). Se si assumono come dati la velocità di circolazione, V, e la quantità di beni, Q, lasciando liberi di variare M e P; se inoltre si assume che M vari per effetto del finanziamento di un deficit pubblico; allora è vero che le variazioni del livello dei prezzi dipendono da quelle di M. Ma se si ipotizza che il livello dei prezzi vari per impulsi esterni alla formula, come quelli provenienti dai costi cui si è fatto riferimento poco fa, allora la massa dei mezzi monetari e la velocità di circolazione giocano un ruolo passivo e non attivo nelle variazioni dei prezzi. Anzi, se l'autorità monetaria adotta una politica accomodante e accresce la quantità di moneta, man mano che i prezzi aumentano per effetto dell'aumento di certi costi, allora all'aumento di P si accompagna l'aumento di M, ma il secondo aumento è essenzialmente effetto e non causa del primo aumento.
Se invece l'autorità monetaria adotta una politica non accomodante ma restrittiva, può aver luogo una recessione senza che essa blocchi l'aumento dei prezzi. (In un secondo momento, tuttavia, la crescita dei prezzi potrà rallentare o arrestarsi, se proviene da un aumento dei salari, e se questo viene frenato dall'aumento della disoccupazione che si accompagna alla recessione).Il fatto che la relazione P = MV/Q è sempre vera non autorizza dunque ad attribuire sempre alla massa monetaria la responsabilità di aumenti generalizzati dei prezzi. Osservazioni analoghe valgono per flessioni generalizzate dei prezzi, come quelle che avvennero ripetutamente nel secolo scorso: queste flessioni vanno collegate principalmente ad aumenti della produttività del lavoro accompagnati da aumenti più lenti nei salari nominali. In contrasto con certe spiegazioni che s'ispiravano a qualche variante della teoria quantitativa, il ruolo giocato dalla moneta - nel secolo scorso nei paesi più sviluppati la moneta di base era l'oro - fu, se non proprio nullo, decisamente secondario.
Il disegno culturale perseguito da Piero Sraffa (1898-1983) è decisamente di vasta portata: operare un capovolgimento delle linee di ricerca della scienza economica, detronizzando l'approccio marginalista dominante e proponendo in suo luogo l'impostazione originaria degli economisti classici.In analogia con la linea d'indagine seguita dagli economisti classici, in Produzione di merci a mezzo di merci (pubblicato nel 1960) Sraffa pone al centro della sua analisi i rapporti che intercorrono in condizioni 'normali' tra i vari settori, o industrie, in cui si articola un sistema economico basato sulla divisione del lavoro. Come si è già accennato a proposito dell'economia politica classica, ciascun settore deve entrare in contatto con gli altri settori dell'economia per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in cambio di una parte almeno del proprio prodotto. Si ha così quella rete di scambi che caratterizza le economie basate sulla divisione intersettoriale del lavoro. Come mostra Sraffa, il problema della determinazione dei rapporti di scambio che si stabiliscono tra i vari settori va affrontato, in un'economia capitalistica, simultaneamente al problema della distribuzione del reddito tra le classi sociali dei lavoratori, dei capitalisti e dei proprietari terrieri. L'intersezione tra questi due problemi costituisce ciò che nella tradizione classica è indicato come problema del valore.
La critica dell'approccio marginalista proposta da Sraffa pone in rilievo il fatto che il 'capitale' è in realtà un insieme di mezzi di produzione prodotti, i cui prezzi variano in modo non univoco al variare della distribuzione del reddito, di modo che non è possibile affermare a priori che una riduzione del salario provochi una riduzione nell'utilizzo di 'capitale' rispetto al lavoro.
Senza entrare nei dettagli analitici del dibattito, ci limitiamo a osservare che la critica di Sraffa colpisce una tesi vitale per la tradizione marginalista: l'idea che la riduzione del salario reale causata dalla disoccupazione nel caso di un mercato del lavoro concorrenziale porti a un riassorbimento della disoccupazione stessa, inducendo gli imprenditori a scegliere tecniche a maggiore intensità di lavoro (e a minore intensità di capitale). Questo meccanismo è essenziale per sostenere la tesi della capacità autoregolatrice del mercato, e la visione dell'economia come scienza che studia, appunto, i meccanismi equilibratori del mercato.Inoltre, Sraffa ripropone l'approccio classico (di cui con la sua edizione critica delle opere di Ricardo aveva riscoperto le fondamenta concettuali e la struttura analitica), risolvendo il problema centrale del valore lasciato aperto dagli economisti classici e da Marx. La soluzione di Sraffa consiste nel determinare simultaneamente prezzi relativi e una variabile distributiva 'residuale' (salario o saggio del profitto), data la tecnologia corrispondente a un determinato insieme di livelli di produzione e una variabile distributiva 'esogena'. Sulla scia del lavoro di Sraffa, numerosi economisti - fra i quali diversi italiani - hanno sviluppato i vari aspetti del progetto culturale di ripresa della concezione classica: con analisi di storia del pensiero economico, dirette a chiarire le fondamenta concettuali dell'approccio classico e a distinguerle da quelle proprie dell'approccio marginalista; con lavori di critica a specifiche teorie marginaliste, in particolare relative alla teoria della distribuzione, dell'occupazione, dell'accumulazione, del commercio internazionale, e così via; con sviluppi analitici diretti ad approfondire su punti specifici (come la produzione congiunta, il capitale fisso, la scelta delle tecniche) il contributo offerto nel libro di Sraffa; infine, con lavori meno direttamente connessi all'analisi sraffiana, ma diretti a proporre teorie d'impostazione classica sui diversi problemi dell'economia politica, dalla teoria della distribuzione e dello sviluppo alla teoria delle forme di mercato.
Attualmente fra le forme di mercato sembrano preminenti quelle di tipo oligopolistico, il cui studio può essere utilizzato sia in analisi parziali (analisi di singoli mercati), sia in analisi di carattere generale (come quella consentita dal sistema di Sraffa), sia nell'analisi delle variazioni nel tempo dei prezzi e delle quote distributive. (Un'analisi di questo tipo è stata elaborata dal polacco Michal Kalecki, 1899-1970, noto soprattutto per aver precorso e poi sviluppato in modo originale alcuni aspetti centrali della teoria keynesiana).
Le variazioni su cui si concentra l'analisi marginalista sono variazioni istantanee e ipotetiche, fuori dal tempo. In realtà, l'impostazione di quest'analisi è essenzialmente statica: i pochi modelli teorici dinamici che sono stati elaborati nell'ambito del marginalismo comportano spostamenti ipotetici delle funzioni, un metodo che è dubbio rientri nella dinamica. I modelli dell'analisi marginalista non soltanto sono statici, ma soprattutto non sembrano suscettibili, neppure attraverso successive approssimazioni, di sviluppi dinamici. È un limite grave, se si considera che la nostra epoca è dominata dai mutamenti tecnologici e dal processo di sviluppo economico.Gli economisti classici, segnatamente Adam Smith e David Ricardo, attribuivano invece importanza fondamentale a entrambi i fenomeni. Questo è manifestamente vero per Smith (il processo della crescente divisione del lavoro consiste appunto in una serie ininterrotta di mutamenti grandi e piccoli dei metodi produttivi da cui consegue un aumento sistematico della produttività del lavoro), ma è vero anche per Ricardo, non solo e non tanto per la sua famosa analisi riguardante i possibili effetti negativi sull'occupazione derivanti dall'introduzione di macchine, quanto per il fatto che l'analisi delle tendenze delle quote distributive (salari, profitti e rendite) è posta al centro della sua costruzione teorica proprio per la sua importanza fondamentale in relazione al processo di accumulazione e di sviluppo. In particolare Ricardo pensava che la tendenza, da lui presunta, all'aumento progressivo della quota del reddito nazionale destinata alle rendite fondiarie fosse preoccupante proprio perché avrebbe comportato la progressiva compressione della quota destinata ai profitti, da cui dipende il processo di accumulazione.
Fra i modelli teorici di sviluppo non formalizzati, oltre quelli degli economisti classici, troviamo il modello dello sviluppo ciclico di Schumpeter, di cui si è detto, e il modello di Marco Fanno (1878-1965), che riguarda principalmente il ciclo economico ma, subordinatamente, anche il processo di sviluppo. Fra i modelli formalizzati troviamo quello proposto dal grande matematico John von Neumann (1903-1957), e i modelli di derivazione keynesiana elaborati in Gran Bretagna da Roy Harrod (1900-1978) e negli Stati Uniti da Evsey Domar (n. 1914). L'originaria teoria keynesiana aveva essenzialmente carattere statico, ma si è rivelata suscettibile di sviluppi dinamici. Ci sono poi modelli formali di crescita collegati più alla lontana con la teoria keynesiana, come quelli di Nicholas Kaldor e di Luigi Pasinetti (n. 1930). In questi modelli, come già nelle analisi di Smith, si attribuisce il massimo rilievo al progresso tecnico, visto come originato all'esterno del sistema economico.
Quest'ultimo punto merita riflessione. Infatti, mentre certe innovazioni possono essere considerate indipendenti da impulsi economici, altre invece provengono essenzialmente da impulsi di tal genere, come l'espansione della domanda e l'aumento dei costi, cosicché è compito dell'economista studiarli. È da notare che Smith, secondo il quale la divisione del lavoro è condizionata dall'estensione del mercato, aveva già ben compreso che la crescita della domanda influisce in modo significativo sul ritmo del progresso tecnico. Di norma, possono essere considerate in gran parte indipendenti da impulsi economici le innovazioni di grande rilievo, originate da invenzioni scientifiche fuori dall'ordinario, mentre le innovazioni più frequenti, di rilievo più modesto, spesso semplici perfezionamenti di grandi innovazioni, sono indotte principalmente da impulsi economici, fra cui sono appunto l'espansione della domanda e l'aumento dei costi. Particolare importanza assumono le innovazioni determinate da aumenti del costo relativo del lavoro, ossia da aumenti del rapporto fra salari e prezzi delle macchine. In effetti, lo sviluppo del capitalismo industriale moderno è stato caratterizzato da un processo di progressiva meccanizzazione (e in tempi recenti di progressiva automazione) dei processi produttivi. L'aumento della produttività del lavoro che accompagna la meccanizzazione può aver luogo in presenza di salari monetari tendenzialmente stabili, o crescenti più lentamente della produttività; ovvero può aver luogo in presenza di salari monetari che crescono con la stessa velocità o più rapidamente della produttività. In tutti i casi, cresce il rapporto fra salari e prezzi (compresi i prezzi delle macchine); e l'aumento di questo rapporto stimola la sostituzione di macchine a lavoro. Il processo si autoalimenta, nel senso che l'aumento di quel rapporto, che stimola l'introduzione di nuove macchine, fa crescere la produttività; a sua volta, tale aumento consente un aumento dei salari rispetto a tutti i prezzi, compresi i prezzi degli stessi beni acquistati dai lavoratori; di conseguenza, quel rapporto subisce un nuovo aumento. Il processo comporta un aumento sistematico dei salari reali.
Nei periodi in cui l'aumento della domanda globale di beni è stato più lento dell'aumento di produttività è emersa una disoccupazione, che può essere vista come disoccupazione tecnologica in quanto l'aumento di produttività di norma trae origine da innovazioni tecnologiche. Non è affatto necessario, tuttavia, che le innovazioni determinino disoccupazione: spesso la domanda aggregata aumenta alla stessa velocità e anche più rapidamente della produttività, cosicché la disoccupazione non compare o, al contrario, ha luogo un aumento dell'occupazione. D'altra parte, in certe condizioni la domanda aggregata diminuisce: compare allora una disoccupazione particolare, di tipo keynesiano.
L'aumento dei salari reali può aver luogo quando i prezzi dei beni acquistati dai lavoratori diminuiscono mentre i salari monetari restano stabili o aumentano limitatamente; oppure quando i salari monetari aumentano mentre i prezzi restano stabili o crescono più lentamente dei salari. La prima tendenza ha avuto luogo nel secolo scorso (in Inghilterra i prezzi dei prodotti finiti sono diminuiti di oltre il 70%, negli Stati Uniti di quasi la metà, mentre i salari monetari sono aumentati, rispettivamente, del 70% e del 90%, ossia, in media, dello 0,5 o 0,6 % l'anno). La seconda tendenza - salari che aumentano più rapidamente dei prezzi, anch'essi in aumento - ha avuto luogo dopo la fine della seconda guerra mondiale. (Nel periodo compreso fra le due guerre mondiali salari e prezzi hanno subito violente oscillazioni; questo periodo è stato dominato dalla grande depressione e richiede un'analisi a sé stante). Non è indifferente che l'aumento di produttività dia luogo a un aumento dei salari reali attraverso una flessione dei prezzi mentre i salari monetari restano stabili o in moderato aumento, ovvero attraverso un aumento dei salari monetari mentre i prezzi restano stabili o in moderato aumento. Il primo meccanismo infatti stimola il processo di sviluppo, tramite una catena di diminuzioni di costi che si verifica quando l'aumento di produttività ha luogo in un settore che produce mezzi di produzione: in regime di concorrenza, la diminuzione dei costi crea extra-profitti che inducono le imprese a espandere la produzione, provocando diminuzioni di prezzo del prodotto (e quindi ulteriori diminuzioni dei costi nei settori che lo utilizzano come mezzo di produzione) fino a quando gli extra-profitti non vengono riassorbiti.
Questa specifica sequenza, favorevole al processo di sviluppo, viene meno quando - come accade se prevalgono forme di mercato oligopolistiche - i prezzi non diminuiscono e i lavoratori partecipano ai frutti del progresso tecnico tramite aumenti dei salari monetari. In quest'ultimo caso restano, come stimoli allo sviluppo già presenti nel periodo precedente (ma con importanza minore), le innovazioni e gli aumenti della domanda proveniente dall'estero o dal settore pubblico.
La transizione dalla prima alla seconda delle due tendenze alternative, che contrassegnano due successivi periodi storici, è collegata a profonde trasformazioni nella struttura delle moderne economie capitalistiche. Le principali trasformazioni sono la conseguenza del processo di concentrazione, che ha condotto alla formazione di grandi e grandissime imprese, spesso di dimensioni internazionali, e del processo di differenziazione dei prodotti, consentito da un crescente livello del reddito individuale anche nelle fasce relativamente più povere della popolazione e favorito dalla diffusione della pubblicità. I due processi si sono verificati nei mercati dei prodotti industriali e, con caratteristiche particolari, nelle attività finanziarie e creditizie. Al tempo stesso, si sono rafforzati i sindacati dei lavoratori e si sono diffuse, nel mercato del lavoro, varie forme di contrattazione collettiva, ciò che ha contribuito a determinare una crescente rigidità verso il basso dei salari. Nel secolo scorso e ancora fino alla seconda guerra mondiale accadeva che i salari monetari diminuissero; nei moderni paesi capitalistici ciò non si è più verificato dopo la seconda guerra mondiale, anzi, in questi paesi, i salari aumentano almeno in proporzione alla produttività. Corrispondentemente, i prezzi all'ingrosso dei prodotti finiti ben di rado diminuiscono e, se ciò accade, la diminuzione è minima. Restano flessibili verso l'alto come verso il basso i prezzi delle materie prime, nei cui mercati hanno avuto scarsa rilevanza i due processi, sopra ricordati, di concentrazione delle imprese e di differenziazione dei prodotti.
Con salari rigidi verso il basso e flessibilità minima dei prezzi dei prodotti finiti, quando si verifica una crisi o una depressione, la ripresa, che nel passato era pressoché automatica, oggi incontra difficoltà molto maggiori. Infatti, l'aumento della domanda reale non è più stimolato dal meccanismo concorrenziale di diffusione a catena di riduzioni dei costi, extra-profitti, aumenti di produzione e riduzioni dei prezzi. Nelle nuove condizioni, la ripresa può avere luogo o per effetto d'investimenti stimolati da innovazioni, o per un aumento della domanda estera, o per un'azione del governo. Nel caso che le prime due spinte siano insufficienti, è il governo che deve intervenire: la sua azione può consistere non solo in un aumento delle spese pubbliche, ma anche in una politica creditizia attiva. Gli stessi sindacati, spingendo in alto i salari, possono contribuire all'aumento della domanda.Le considerazioni appena svolte si collegano alla storia economica più che alla teoria economica, e costituiscono elementi di un'interpretazione che non è generalmente accolta. Ciò nonostante le abbiamo proposte, perché i più recenti sviluppi della teoria economica (di cui si è discusso sopra, nel cap. 3) ben difficilmente possono essere compresi se non si fa riferimento alle trasformazioni strutturali verificatesi nelle moderne economie capitalistiche. Inoltre, quelle considerazioni possono servire a illustrare un tema fondamentale già ricordato al principio della nostra trattazione, cioè i rapporti fra teoria economica e storia. Gli economisti che ignorano la necessità di tali rapporti continuano imperterriti a costruire modelli fondati sulle ipotesi, del tutto irrealistiche nel mondo di oggi, della concorrenza atomistica e della flessibilità verso il basso come verso l'alto dei prezzi e dei salari.
Pur non analizzandole esplicitamente, Keynes aveva correttamente interpretato le conseguenze di quelle trasformazioni, raccomandando, in particolari condizioni, una politica attiva del credito e una vigorosa espansione delle spese pubbliche, anche in deficit, per promuovere la ripresa economica. Sulla scia di queste raccomandazioni per l'assunzione di un ruolo attivo dello Stato nell'economia, e sulla scia del crescente peso politico dei lavoratori, un programma di spese sociali fu poi sistematicamente elaborato da lord Beveridge (1879-1963), la cui opera Pieno impiego in una società libera (1946), preparata con la collaborazione di Kaldor e ricollegandosi esplicitamente alle teorie keynesiane, ebbe grande influenza sulle politiche sociali di tutti i paesi capitalistici.
Già in passato lo Stato era intervenuto per proteggere le fasce più deboli della popolazione in diversi campi, segnatamente in quelli delle pensioni, della sanità e della disoccupazione. Ma solo dopo la seconda guerra mondiale l'azione pubblica ha assunto le dimensioni che tutti conosciamo. Ciò è stato reso possibile, fra l'altro, dall'accresciuto reddito individuale medio. Tuttavia in alcuni paesi una spesa pubblica eccessiva (anche per il suo utilizzo come 'ammortizzatore sociale' dopo la crisi petrolifera del 1973-1974) ha contribuito negli anni settanta e ottanta alla formazione e alla crescita dei disavanzi pubblici non di breve ma di lungo periodo. A sua volta, ciò ha contribuito - assieme alla diffusione, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, di dottrine monetariste favorevoli all'uso di politiche monetarie restrittive come strumento di lotta all'inflazione - a spingere verso l'alto il tasso dell'interesse, frenando così gli investimenti e la crescita produttiva (non solo nei paesi sviluppati, ma anche e soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, spesso appesantiti da enormi debiti esteri). Al tempo stesso, in vari paesi sviluppati si è avuta una reazione dell'opinione pubblica contro l'aumento della pressione fiscale (la cosiddetta 'rivolta fiscale'), e contro l'espansione delle spese pubbliche o, più in generale, contro gl'interventi pubblici nell'economia. La diffusione del monetarismo o di teorie come quella delle aspettative razionali, alle quali si è accennato sopra, costituiscono espressioni teoriche di questa reazione.
L'importanza dell'azione pubblica nella vita economica, comunque, non deve essere misurata semplicemente considerando il peso delle spese pubbliche rispetto al prodotto interno lordo: un peso che in certi paesi giunge al 50% e che nella patria del capitalismo privato, gli Stati Uniti, si aggira sul 35%. Occorre anche considerare il carattere dell'azione pubblica nei diversi settori, specialmente nel fondamentale settore del credito, il cui vertice - la banca centrale - è ormai in tutti i paesi un'istituzione pubblica, pur dotata di autonomia, e la cui base - le aziende di credito - è in vari modi controllata dall'autorità monetaria o è addirittura, in parte, posseduta dallo Stato o da enti pubblici (in Italia la quota dei depositi che fa capo ad aziende di credito pubbliche raggiunge il 70%; in altri paesi sviluppati la quota è minore, ma non è mai trascurabile). D'altra parte, il gran peso assunto dai titoli pubblici nei mercati finanziari ha reso possibile un controllo pubblico della politica creditizia impensabile nel secolo scorso. Anche questi interventi di carattere istituzionale hanno dato luogo ad abusi molto gravi, cosicché anche in questo caso le reazioni contro gl'interventi pubblici sono ben comprensibili. Tuttavia, il rimedio non sta nella condanna globale e acritica di tali interventi; il rimedio sta nell'introduzione di cambiamenti organizzativi tendenti a eliminare gli abusi, promuovendo con decisione, non la riprivatizzazione generalizzata delle aziende - creditizie e non creditizie - controllate dallo Stato, il che non sarebbe possibile, ma una privatizzazione ampia e differenziata secondo un ben meditato ordine di priorità.Si deve osservare tuttavia che l'idea, condivisa da parecchi economisti, che lo Stato da un lato e i sindacati dall'altro costituiscano un male in sé per l'economia, è un'idea erronea. Il fatto è che pur in presenza di sindacati relativamente forti e di un accresciuto ruolo dello Stato nell'economia, dopo la fine della seconda guerra mondiale lo sviluppo economico e civile è stato più, e non meno, sostenuto che nel passato: nonostante errori, eccessi e sprechi di ogni genere, la somma algebrica è stata positiva.
Fra i modelli dinamici ve ne sono alcuni che riguardano lo sviluppo dei paesi arretrati. Quello del sottosviluppo è forse il maggiore problema della nostra epoca, per i suoi riflessi umani, civili, ambientali. Qui possiamo fornire solo alcuni brevissimi cenni.In via preliminare, si può osservare che per diversi importanti aspetti l'analisi dei paesi sottosviluppati può trovare un valido punto di partenza nelle opere degli economisti classici, a cominciare dall'opera di Adam Smith, giacché la situazione odierna dei diversi paesi del Terzo Mondo, pur con profonde differenze, presenta non poche analogie con i paesi europei del Settecento. Gli economisti classici insistevano sull'impiego, produttivo o improduttivo, del sovrappiù, che allora era costituito da tutti i redditi non da lavoro (profitti, interessi e rendite), i quali potevano essere in parte risparmiati o tassati. Oggi la distinzione fra impieghi produttivi e improduttivi non è considerata rilevante dalla teoria moderna, mentre lo è se si considerano i paesi del Terzo Mondo, nei quali pertanto acquista importanza essenziale esaminare sia il reimpiego produttivo del sovrappiù da parte delle stesse unità produttive, sia l'apparato per il trasferimento volontario di una parte del sovrappiù (sistema creditizio), sia l'apparato per il trasferimento coattivo (sistema tributario).
Al tempo stesso, acquista importanza essenziale distinguere il sovrappiù che è tale per l'intera economia dal 'sovrappiù' che è tale solo per singoli privati: il primo comporta una crescita del reddito, il secondo una sua redistribuzione. Con riferimento ai profitti, questa distinzione corrisponde a quella proposta, sulla scia degli economisti classici, da Alberto Breglia (1900-1955), fra profitti 'sterili' e profitto 'fecondo'. I primi sono profitti 'da sottrazione', in quanto corrispondono a un trasferimento di risorse da un soggetto a un altro, e non a un aumento delle risorse complessive. I profitti 'da sottrazione' possono essere imputati a posizioni di monopolio o a operazioni puramente speculative in periodi di inflazione ovvero - ma qui i profitti sarebbero 'distruttivi' e non soltanto sterili - possono provenire dalla produzione e dal commercio di sostanze stupefacenti e attività consimili. Il profitto 'fecondo' o 'da addizione', invece, è quello proveniente da una crescita della produttività e dalla conseguente riduzione dei costi. Se si ammette che i soggetti economici tendono a ripetere le operazioni alle quali sono abituati, si può presumere che di regola coloro che ottengono un profitto 'fecondo' tendono a reimpiegarlo produttivamente, cosicché la spirale produttiva tende a perpetuarsi, originando un processo di sviluppo che è tale sia per il singolo sia per la società. Questi concetti sono tutti presenti, esplicitamente o implicitamente, nell'impostazione stessa delle analisi elaborate dai classici, e riacquistano tutta la loro importanza nello studio dei paesi sottosviluppati.
Tra i modelli teorici relativi ai paesi sottosviluppati quello di Arthur Lewis (n. 1915, premio Nobel nel 1979) - che riguarda specialmente i paesi delle fasce tropicali e subtropicali - si ricollega, sotto importanti aspetti, alle analisi degli economisti classici, e comunque si situa fuori dalla tradizione marginalista. Il modello di Lewis concentra l'attenzione sulle condizioni dell'offerta di lavoro, che in quei paesi è economicamente illimitata (com'era nella prima fase dell'industrializzazione dei paesi oggi sviluppati), non solo per la crescita demografica, ma anche per la possibilità, per le imprese capitalistiche, di reclutare manodopera sottraendola ad attività premoderne, come quelle svolte nelle tribù. Il modello considera inoltre le condizioni delle produzioni di beni alimentari di base, nelle quali, per la bassa produttività, è assai limitato il sovrappiù che può essere investito sia nella stessa agricoltura sia in attività extra-agricole: come già avevano messo in rilievo i classici, infatti, un sovrappiù limitato frena l'accumulazione. D'altra parte, l'offerta economicamente illimitata di lavoro - anche questa è una caratteristica che nella sostanza troviamo già nelle analisi dei classici - comporta un livello dei salari basso, vicino al livello di sussistenza, e relativamente stazionario, cosicché ogni aumento di produttività nelle attività basate sul lavoro salariato, come quelle svolte nelle piantagioni e nelle miniere, tende a tradursi in una flessione dei prezzi relativi (che nelle relazioni internazionali sono denominati 'ragioni di scambio'), in direzione sfavorevole ai paesi produttori, cioè in genere ai paesi in via di sviluppo.
Da notare che durante gran parte del secolo scorso, un periodo in cui gli aumenti di produttività si traducevano in flessioni dei prezzi dei beni prodotti dai paesi sviluppati, le 'ragioni di scambio' variavano non contro ma a favore dei paesi in via di sviluppo, giacché nell'industria manifatturiera dei paesi sviluppati la produttività cresceva e i prezzi diminuivano a ritmi più rapidi di quanto accadeva nei paesi arretrati.Il modello di Lewis riguarda in modo particolare i paesi sottosviluppati tropicali che producono materie prime agrarie e minerarie: paesi che si trovano in larghe zone dell'Africa e dell'Asia, e in zone più ristrette dell'America Latina. Per numerosi paesi sottosviluppati dell'America Latina e dell'Asia, tuttavia, valgono modelli interpretativi alquanto diversi. Occorre rilevare che in un numero ancora piccolo ma in continua crescita di paesi asiatici ha avuto luogo un processo di sviluppo economico e, in particolare, industriale, relativamente vigoroso: sono i 'paesi di nuova industrializzazione', fra i quali troviamo la Corea del Sud e Taiwan; l'Indonesia sta entrando in una fase di crescita sostenuta. L'India, oltre a un non trascurabile sviluppo industriale, è riuscita, grazie anche a innovazioni di tipo agrario ('rivoluzione verde'), a ottenere una crescita della produzione di beni alimentari un po' più rapida della pur ragguardevole crescita demografica, cosicché le frazioni della popolazione colpite dalla fame si stanno decisamente restringendo, mentre permangono estese le fasce di popolazione che soffrono di malnutrizione.
Non solo per l'India, ma in generale per molti paesi in via di sviluppo è importante la questione del rapporto fra crescita delle produzioni di beni alimentari e crescita demografica. Tale questione può essere risolta da paesi arretrati relativamente piccoli procurandosi i beni alimentari di cui hanno bisogno attraverso gli scambi internazionali piuttosto che attraverso la produzione diretta; ma per paesi grandi e popolosi come l'India tale via può rappresentare solo un contributo parziale. Accanto alla questione dello sviluppo produttivo c'è dunque un problema di crescita demografica. Dopo la seconda guerra mondiale nei paesi del Terzo Mondo tale crescita si è accelerata, non per un aumento della natalità ma per una rapida diminuzione della mortalità, imputabile alla costruzione di strutture igieniche e alla diffusione dei farmaci moderni e dei servizi sanitari. In larga misura, il problema della miseria del Terzo Mondo è da attribuire proprio alla rapida crescita demografica. È bene osservare che agli inizi della scienza economica moderna i problemi dello sviluppo produttivo e quelli della crescita demografica erano considerati congiuntamente e non separatamente, come oggi accade. Il problema demografico chiama direttamente in causa i problemi dell'evoluzione culturale e del grado dell'istruzione. Infatti per i demografi è ormai un dato acquisito che il grado dell'istruzione, in particolare quello delle donne (che nei paesi arretrati di regola hanno un'istruzione inferiore, non di rado assai inferiore, a quella degli uomini), condiziona la velocità del declino del saggio di natalità: a parità di reddito individuale, maggiore è il grado d'istruzione delle donne, più rapida è la flessione del saggio di natalità. (La flessione della mortalità prima o poi porta con sé quella della natalità, ma la velocità relativa delle due flessioni ha importanza fondamentale per l'andamento del reddito pro capite.) Una politica demografica tendente ad accelerare la flessione della natalità deve pertanto collegarsi alla politica di diffusione dell'istruzione; si possono poi utilizzare anche incentivi e disincentivi di carattere economico.
Questi temi vengono tutti trattati, spesso separatamente, da demografi e da economisti. Anche questi temi rientrano nell'ambito della dinamica economica, intesa in senso ampio; e anche per questi temi c'è una ripresa d'interesse da parte degli economisti, alcuni dei quali si rifanno esplicitamente, per questo come per altri aspetti, agli economisti classici come Adam Smith.
Il processo di sviluppo ha portato con sé, nei paesi in cui ha avuto luogo, cospicui benefici, ma ha avuto e sta avendo altresì costi rilevanti sotto l'aspetto dei valori morali e umani e sotto l'aspetto economico. Già al principio di questo secolo, alcuni economisti mettevano in rilievo i costi economici che lo sviluppo economico può comportare, per esempio, per via dell'inquinamento. Negli ultimi decenni gli effetti della crescita esplosiva delle produzioni industriali si sono manifestati in forme sempre più allarmanti. Si può stimare che nei paesi sviluppati la produzione industriale sia cresciuta di oltre venti volte negli ultimi cento anni; se si ammette che le esalazioni, i fumi, i rifiuti provenienti dai processi produttivi e i rifiuti provenienti dai consumatori siano cresciuti in una proporzione simile, ci si rende conto delle dimensioni gigantesche assunte dai problemi che oggi vengono definiti ambientali. Questi problemi inoltre sono stati fortemente aggravati dal fatto che certe produzioni sono risultate non semplicemente inquinanti ma addirittura tossiche, con effetti che si propagano attraverso l'aria, le acque e i terreni, e quindi attraverso le produzioni alimentari.
Di fronte a questi problemi, molti studiosi - economisti e non economisti - si sono chiesti in quale misura e in quale modo lo sviluppo economico sia 'sostenibile', cioè tale da non danneggiare l'ambiente naturale in cui viviamo. Il concetto di 'sviluppo sostenibile' ha attratto sempre più l'attenzione in questi ultimi anni; dal nostro punto di vista, il problema principale non riguarda la sua concreta definizione, che è affidata a campi scientifici in rapido sviluppo genericamente indicati con il termine 'ecologia', ma il modo in cui ci si può assicurare che le scelte degli operatori economici si muovano nella direzione desiderata. Le questioni rilevanti, da questo punto di vista, riguardano il conflitto tra interessi privati e interesse pubblico, e tra mercato e Stato, ma anche il rapporto tra economia e morale. Si tratta di questioni che sono state al centro del dibattito fin dalla nascita dell'economia politica, alle quali in parte abbiamo già accennato sopra parlando della concezione di Adam Smith (v. § 2b), e che di recente sono tornate a costituire oggetto di riflessione (ricordiamo ad esempio le ricerche di Amartya Sen). Così come non potrebbe funzionare un'economia di mercato in cui il macellaio e il fornaio fossero liberi di adulterare la loro merce, non sarebbe possibile evitare il degrado dell'ambiente naturale senza una coscienza civica che abbia interiorizzato la sua importanza per il benessere sociale, e senza istituzioni capaci di intervenire per imporre il rispetto dei vincoli ambientali nei casi di violazione della norma morale. Il problema del rapporto tra intervento pubblico e libera iniziativa privata nell'ambito di un'economia di mercato appare così come una questione di complementarità, piuttosto che di opposizione. Ma questo non vale solo per le macrostrutture giuridiche e amministrative: vale anche per gli interventi più specifici di politica economica. A titolo esemplificativo, consideriamo alcuni problemi relativi al settore energetico.
La crescita del settore energetico e i cambiamenti nella sua struttura interna sono collegati da complesse relazioni di causa ed effetto all'evoluzione dell'economia nel suo complesso. Così è evidente che i consumi energetici complessivi dipendono strettamente dall'andamento della produzione e del reddito; ed è altrettanto evidente che una crescente disponibilità di energia costituisce un prerequisito per lo sviluppo economico. In altri termini, lo sviluppo economico è condizionato dall'offerta di energia, ma allo stesso tempo ne determina la domanda. Non dobbiamo trascurare poi il ruolo del cambiamento tecnologico: da un lato la crescente meccanizzazione e l'aumento del prodotto pro capite spingono nella direzione di un'espansione dei consumi energetici; ma dall'altro lato il progresso tecnico, nella costante ricerca della riduzione dei costi di produzione, è anche la fonte di una riduzione dei fabbisogni energetici per unità di prodotto, e di una maggiore efficienza nell'uso di energia in generale. Il risultato netto di queste due spinte contrastanti dipende in misura probabilmente decisiva dall'andamento dei prezzi delle varie forme di energia: nei periodi di crescita di tali prezzi, si ha un processo di 'sostituzione dinamica', in cui imprese e famiglie dedicano maggiore attenzione allo sviluppo e all'applicazione pratica di nuove tecnologie che consentono risparmi energetici; mentre nei periodi di prezzi calanti dell'energia (non necessariamente in assoluto, ma rispetto ai prezzi degli altri mezzi di produzione e di consumo) la spinta a una riduzione dei consumi energetici viene meno, e questi ultimi tendono a seguire da vicino l'andamento della produzione e del reddito. Anzi, i consumi energetici possono crescere più rapidamente della produzione e del reddito, sia per i motivi indicati sopra (crescente meccanizzazione, e quindi crescente 'intensità energetica', della produzione), sia perché i consumi energetici delle famiglie corrispondono in misura notevole alla domanda di beni e servizi per soddisfare bisogni di ordine superiore, che per loro natura assorbono una quota crescente del reddito.
Il progresso tecnico, che procede a velocità diseguale nei vari campi, è il fattore principale anche nel determinare i cambiamenti nella struttura interna del settore energetico. La sua importanza è confermata da due circostanze. In primo luogo, la sequenza legna-carbone-petrolio-fissione nucleare e gas naturale-fusione nucleare ed energia solare, che indica la successione delle fonti di energia dominanti (dove l'ultimo anello della catena indica lo scenario più verosimile, anche se non l'unico possibile, per la metà del prossimo secolo), appare come una sequenza di miglioramenti nella capacità tecnologica dell'uomo di estrarre energia dalla natura, caratterizzata da fortissimi aumenti dell'offerta di energia a costi mediamente decrescenti. In secondo luogo c'è da registrare la crescente penetrazione dell'elettricità, cioè l'aumento della quota dei consumi di energia soddisfatti dall'elettricità. Tale tendenza assicura maggiore flessibilità all'offerta di energia, dato che l'elettricità può essere prodotta usando diverse fonti primarie, e quindi assicura una maggiore autonomia di politica energetica ai vari paesi, che possono compiere scelte diverse a seconda delle proprie dotazioni di risorse naturali; inoltre, nei sistemi industriali moderni l'elettricità permette un uso più flessibile dell'energia, oltre a costituire il supporto necessario per la diffusione dell'informatica nelle imprese manifatturiere (automazione) e nei servizi.
Lo sviluppo dei consumi di energia ha posto problemi gravissimi per la salvaguardia dell'ambiente naturale che, come si accennava sopra, vanno affrontati dalle autorità pubbliche. Infatti gli effetti sull'ambiente della produzione e dell'utilizzo delle diverse fonti di energia sono un caso classico di 'esternalità', cioè di effetti dell'attività di uno specifico gruppo di produttori o consumatori che non costituiscono costi o benefici per il singolo produttore o consumatore, ma vantaggi o svantaggi per un gruppo più ampio di agenti economici, talvolta per la società nel suo complesso. Nel caso di una 'esternalità negativa' (ad esempio le emissioni di sostanze inquinanti), l'impresa o il consumatore che ne sono responsabili non hanno alcun incentivo economico a limitarne la portata. Perciò, tradizionalmente, la teoria economica suggerisce di controbilanciare le 'esternalità negative' tramite apposite tasse o tramite specifiche norme che impongano limiti o interventi di depurazione. Tuttavia, in pratica, la difficoltà di individuare gli effetti ambientali delle varie attività umane, e in particolare di quelle connesse alla produzione e all'utilizzo di energia, e poi la difficoltà di determinarne con precisione la portata, hanno favorito in passato un atteggiamento lassista. Solo negli ultimi anni è diventato evidente che le conseguenze ambientali della produzione e del consumo di energia sono state sottovalutate, se non completamente ignorate, nei decenni successivi alla rivoluzione industriale e fino a un'epoca molto recente. Questioni come l'effetto serra, completamente ignorate fino a pochi anni fa, sono ora al centro dell'attenzione. Possiamo prevedere, dunque, che i problemi ambientali avranno un peso crescente nelle scelte strategiche nel campo dell'energia.
La necessità di favorire scelte compatibili con il rispetto dell'ambiente naturale implica sia una normativa sempre più precisa e vincolante sulle diverse fonti di energia (ad esempio sulla sicurezza delle centrali nucleari, o sulle emissioni inquinanti derivanti dall'utilizzo di combustibili fossili), sia un deciso stimolo a ricerche tecnologiche finalizzate a migliorare l'impatto ambientale delle diverse fonti di energia, sia una politica di imposte specifiche anche assai elevate (come quella sui consumi di benzina). Una politica decisa in questo senso può contribuire a ridurre l'elasticità rispetto al reddito dei consumi di energia, e in casi estremi a renderla negativa, permettendo una crescita del reddito accompagnata da una riduzione dei consumi di energia. Questa riduzione, tuttavia, potrà riguardare i paesi sviluppati, non quelli in via di sviluppo, molti dei quali presentano oggi consumi energetici pro capite bassissimi, destinati a crescere se appena - come tutti desiderano - il loro reddito pro capite tenderà a salire verso quello attuale dei paesi oggi industrializzati. La politica energetica dovrà perciò assicurare che la disponibilità di fonti di energia non costituisca un ostacolo per lo sviluppo economico; la compatibilità dello sviluppo con la difesa dell'ambiente dovrà essere assicurata, oltre che frenando i consumi di energia per unità di prodotto, anche favorendo le scelte più opportune tra le varie fonti di energia disponibili, e assicurando nell'utilizzo di ciascuna di esse il rispetto dei vincoli ambientali.Accanto ai contrasti tra interessi privati e pubblici, un altro tipo di contrasti emerge sul piano internazionale: se in un certo paese le imprese vengono obbligate ad adottare costosi accorgimenti per ridurre o eliminare l'inquinamento, tali imprese possono trovarsi in condizioni svantaggiose, nella concorrenza internazionale, rispetto alle imprese di altri paesi in cui questi obblighi non siano stati introdotti. I contrasti di questo tipo possono essere ridotti attraverso accordi internazionali che stabiliscano obblighi comuni. Lo sviluppo sostenibile non può essere conseguito da un solo paese, ma solo da una cooperazione internazionale su vasta scala: lo stesso tipo di cooperazione che è necessaria per affrontare i problemi drammatici del sottosviluppo.
Mentre nelle scienze chiamate sperimentali la costante preoccupazione degli studiosi è di verificare empiricamente i loro modelli teorici, in economia una simile preoccupazione è più l'eccezione che la regola. Ciò dipende solo limitatamente dal fatto che in questa disciplina, come nelle altre discipline sociali, non ci sono e non possono esserci laboratori: dipende soprattutto dalle caratteristiche assunte nel nostro tempo dalla teoria economica dominante, che ha privilegiato i ragionamenti assiomatici, nei quali ciò che conta è essenzialmente il rigore logico, mentre la rilevanza empirica conta poco o nulla. In effetti, nelle analisi economiche si assiste a una sorta di polarizzazione: da un lato troviamo modelli puramente astratti; dall'altro lato, indagini essenzialmente empiriche. Sono relativamente rari i lavori che mirano a combinare la riflessione teorica con l'analisi empirica: da un lato ci si preoccupa essenzialmente del rigore, dall'altro lato essenzialmente della rilevanza, mentre in qualsiasi disciplina scientifica entrambi i requisiti sono importanti.
Ciò non significa affatto sostenere che non siano apprezzabili e anzi raccomandabili i modelli astratti; né che non si debba far ricorso a metodi formali, particolarmente a metodi matematici; significa invece sostenere che quando si elaborano modelli astratti ci si deve domandare se potenzialmente siano suscettibili di successive approssimazioni che consentano di avvicinarsi progressivamente alla realtà economica e di interpretare i fenomeni concreti. Se gli economisti non dispongono di laboratori, dispongono tuttavia di una serie di strumenti analitici ausiliari, come quelli forniti dalla statistica e dall'econometria che, pur non consentendo controlli paragonabili agli esperimenti dei fisici e dei chimici, rendono possibili verifiche di carattere empirico. Si tratta di verifiche assai meno robuste di quelle compiute dagli scienziati sperimentali, che tuttavia, se usate con prudenza, possono suggerire ipotesi e problemi interessanti, stimolare dubbi e riflessioni critiche, e, più in generale, ridurre quelle incertezze e quella indeterminazione che sono connaturate a tutte le scienze, ma che sono particolarmente estese nelle discipline sociali.
In conclusione, le pecche più gravi della teoria economica moderna sono tre. In primo luogo, sono relativamente scarsi i lavori che combinano la riflessione teorica con l'analisi empirica. In secondo luogo, dominano ancora i modelli statici, che prescindono dal tempo e quindi ignorano in via di principio i più importanti fenomeni dell'epoca in cui viviamo, cioè il progresso tecnico e lo sviluppo economico. Infine, c'è una sorta di spaccatura fra microeconomia e macroeconomia, ossia, da un lato l'analisi dei prezzi e di tutti quei fenomeni che si collegano ai singoli soggetti, come le imprese e i consumatori, e dall'altro lato l'analisi dei grandi aggregati economici, come il reddito nazionale e l'occupazione. La divisione del lavoro, di cui Adam Smith parlava in senso concreto, è andata crescendo anche nelle diverse discipline, e quindi fra le discipline sociali e, in particolare, nell'economia. In questa esposizione abbiamo cercato di fornire un ragguaglio estremamente conciso dello stato e delle tendenze osservabili nell'analisi economica; la menzione delle tendenze non poteva non comportare l'indicazione di alcuni problemi e dibattiti critici oggi in corso. In trattazioni specifiche di questa Enciclopedia vengono illustrate, non meno concisamente, le linee essenziali sia delle discipline ausiliarie, come l'econometria, sia dei diversi rami in cui, a questo stadio della sua evoluzione, l'economia si è suddivisa (economia agraria, industriale, internazionale, monetaria, pubblica). Analogamente, resta affidata a trattazioni specifiche l'illustrazione di alcune tendenze recenti che qui non è stato possibile considerare: come il neoistituzionalismo, che spiega le istituzioni economiche e sociali mediante modelli contrattualistici; o come l'utilizzo di modelli di disequilibrio economico per spiegare la disoccupazione; o come la diffusione della teoria dei giochi nelle analisi dell'equilibrio economico generale da un lato e nelle moderne teorie dell'organizzazione industriale dall'altro lato, per considerare la possibilità di 'ragionamenti strategici' dei soggetti economici, che nelle loro decisioni tengono conto delle possibili reazioni degli altri alle loro scelte.
Un ultimo aspetto al quale è necessario dedicare almeno un cenno è costituito dai rapporti fra conoscenza e azione, ossia fra clima culturale e modelli teorici da un lato, e strategie politiche generali e linee di politica economica dall'altro lato.
A titolo illustrativo conviene considerare tre fra gli economisti precedentemente ricordati, e cioè Adam Smith, Karl Marx e John Maynard Keynes. Con la sua grande opera, Smith ha certamente contribuito a determinare un mutamento radicale nella cultura politica del suo tempo e, ancora di più, del tempo successivo. Sul piano pratico, Smith raccomandava la progressiva eliminazione delle barriere e dei vincoli all'attività economica che provenivano dall'epoca feudale e dalle politiche mercantilistiche. Il liberismo di Smith va inteso appunto in questo senso e non, come spesso si sostiene, nel senso di un atteggiamento passivo o inerte della pubblica autorità - governo e parlamento - nell'attività economica. (Così Smith era favorevole all'istruzione elementare pubblica, una posizione assolutamente minoritaria ai suoi tempi; era favorevole a interventi dello Stato per diverse opere pubbliche; raccomandava una riforma dei contratti agrari per favorire lo sviluppo agricolo: e questi sono solo tre esempi). L'analisi di Marx deve essere valutata con riferimento alle condizioni osservabili nel primo stadio del capitalismo, una fase in cui i salari erano ancora assai vicini al livello di sussistenza e molte donne e molti bambini erano costretti a svolgere lavori pesanti nelle fabbriche. È nota la grande influenza che le idee di Marx hanno esercitato su intellettuali - non solo economisti -, su partiti politici e su sindacati, soprattutto in Europa e in Asia: un'influenza che è stata enorme in certi paesi a regime dittatoriale, in cui la dottrina marxista era divenuta addirittura la dottrina ufficiale.
Il crollo dei regimi che si richiamavano al marxismo, verificatosi in diversi paesi a partire dal 1989, è almeno in parte legato al peggioramento delle condizioni economiche di tali paesi, imputabile principalmente alla loro incapacità d'introdurre innovazioni. Questa incapacità non si è manifestata in una prima fase, fino a quando è stato possibile concentrare lo sforzo economico sulle fondamentali infrastrutture, né in una seconda fase immediatamente successiva, quando è stato possibile acquistare dai paesi a economia di mercato impianti 'chiavi in mano' per l'industria di base; si è invece manifestata in modo drammatico quando dalle grandi unità industriali utilizzate per la produzione di beni di base qualitativamente omogenei è stato necessario passare alle medie e piccole unità produttive, che spesso impiegano tecnologie relativamente più sofisticate. Infatti, in un'economia pianificata, i dirigenti delle aziende monopolistiche di Stato potevano eseguire più o meno efficacemente gli ordini dell'ufficio centrale di pianificazione, ma non avevano alcun incentivo a introdurre innovazioni: un'attività che necessariamente presuppone l'iniziativa individuale e la disponibilità a correre rischi. Ciò vale non solo per le grandi innovazioni, ma anche per le piccole, quasi sempre scientificamente irrilevanti, ma molto importanti per lo sviluppo economico. Innovazioni di questo genere sono particolarmente rilevanti in agricoltura, a condizione che i contadini abbiano la proprietà della terra, ovvero operino nell'ambito di contratti agrari che riconoscano i miglioramenti introdotti da chi coltiva la terra.
Oggi nei paesi dell'ex Unione Sovietica e dell'Europa orientale si discute sulla necessità di passare da un'economia pianificata a un'economia di mercato, e non di rado si ragiona come se l'economia di mercato fosse sinonimo di puro laissez faire; ma non è così. Il mercato è l'espressione di un sistema di contratti e, più in generale, di un complesso sistema istituzionale. Il passaggio da un'economia pianificata a un'economia di mercato implica il passaggio a un nuovo sistema istituzionale, in cui sia consentita la proprietà privata dei mezzi di produzione (pur con correttivi e limitazioni, come ad esempio una legislazione antimonopolistica), siano incoraggiate le innovazioni grandi e piccole, e in cui lo Stato abbia un suo ruolo, non onnicomprensivo, ma neppure insignificante. Una tesi di questo tipo, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, è stata sostenuta da Keynes, la cui influenza è stata grande soprattutto nei paesi occidentali. La principale opera teorica di Keynes è nata quando, a causa della grande depressione (1929-1939), la disoccupazione aveva raggiunto proporzioni straordinariamente ampie. In generale, per combattere la disoccupazione e sostenere la crescita dell'economia, Keynes e i suoi discepoli raccomandano, oltre a politiche monetarie e fiscali espansive, anche il "controllo sociale degli investimenti". Gli interventi pubblici nell'area della sicurezza sociale hanno origini assai antiche, ma la teoria keynesiana ha dato alla loro crescita un nuovo vigoroso impulso, senza il quale il moderno Stato sociale, almeno in Europa, non avrebbe probabilmente assunto l'importanza che conosciamo. L'influenza di Keynes, tuttavia, ha fortemente indebolito le resistenze presenti nella fase precedente, almeno nei periodi di pace, alla diffusione dei controlli pubblici sull'attività produttiva e alla crescita delle spese pubbliche.
In tempi recenti gli eccessi hanno dato luogo a reazioni; tali reazioni hanno trovato una giustificazione teorica in certi modelli, come il monetarismo di Friedman e il modello delle aspettative razionali.
Da queste teorie emergevano precettistiche di carattere ultraliberistico, che negli ultimi vent'anni hanno influenzato in modo significativo le politiche economiche di diversi governi. Le misure di riduzione dei controlli - interventi di privatizzazione delle imprese pubbliche e di deregolamentazione - in vari casi hanno avuto effetti tutto sommato positivi. La stessa cosa non si può dire però per gli effetti delle nuove politiche monetarie e fiscali; fra l'altro, le politiche fiscali hanno accentuato la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e, quanto alle spese pubbliche, hanno determinato un freno alla loro espansione, ma non una loro riduzione. Inoltre, le politiche monetarie restrittive adottate nei paesi più sviluppati hanno avuto un pesantissimo effetto negativo a livello internazionale, frenando la crescita dei paesi in via di sviluppo, particolarmente attraverso l'aumento dei tassi d'interesse e quindi dell'onere per i debiti internazionali.Conoscenza e azione sono i due termini riscontrabili in ogni ramo della cultura e non solo nelle scienze sociali. Le forme sono tuttavia diverse: nelle scienze sociali, e soprattutto in economia, l'aspetto dell'intervento pubblico assume un rilievo tutto particolare, sia al livello delle manovre contingenti di politica economica, sia al livello delle grandi strategie. (V. anche Banca e sistema bancario; Benessere, Stato del; Cambio; Capitale; Capitalismo; Cicli economici; Credito; Debito pubblico; Diritto dell'economia; Diritto ed economia; Disoccupazione; Distribuzione della ricchezza e del reddito; Divisione del lavoro; Ecologia; Econometria; Economia e politica agraria; Economia e politica del lavoro; Economia e politica industriale; Economia e società; Economia internazionale; Economia pubblica; Equilibrio economico; Finanza pubblica; Finanziari, mercati; Fisco e sistemi fiscali; Moneta; Politica economica e finanziaria; Sottosviluppo; Sviluppo economico).
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