economia
Sebbene il ritratto che Leon Battista Alberti fece degli abitanti di Firenze fosse assai realistico, con quel sottolineare la loro propensione al guadagno e al «congregare molte ricchezze» e per l’individuazione di una certa consonanza tra i loro ragionamenti e la masserizia e l’arte dell’acquistare (I libri della famiglia, a cura di R. Romano, A. Tenenti, 1969, 19803, p. 49), non pare che tale ritratto si attagliasse alla personalità di Machiavelli. Discutendo infatti con Francesco Vettori, nella lettera del 9 aprile 1513, M. si dice votato a ragionare dello Stato, non sapendo «ragionare né dell’arte della seta e dell’arte della lana, né de’ guadagni né delle perdite», insomma, di ciò in cui sembrava fossero esperti i suoi concittadini.
È lecito chiedersi se la collocazione del politico su una linea alternativa rispetto alla ricchezza e ai modi della sua produzione significhi una disattenzione o una svalutazione machiavelliana nei confronti dell’economia. Sebbene questa non sia centrale nel suo pensiero, non si può tuttavia argomentarne nemmeno la sua estraneità, come testimonia, a tacer d’altro, l’introiezione nella sua scrittura di lacerti del gergo mercantile, come, per esempio, «fare capitale» della storia (Discorsi I x 10), o «di lunge il premio non contrappesa il danno» (III xxxv 3), o, in senso più specifico, «fare vivi quelli denari che suo padre doveva avere da molti» (Istorie fiorentine VII x 9), «che il Monte fermasse gli interessi e solo i capitali si restituissero» (III xv 3), e così via.
Di certo, rispetto alla visione di uno Stato interventista, come quella che era propria di alcuni pensatori della seconda metà del Quattrocento, quali Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (De optimo cive), o Matteo Palmieri (Della vita civile), M. mostra una diversa posizione, che si sarebbe tentati di leggere nell’ottica della separazione degli ambiti. Per la verità, il Rapporto di cose della Magna attesta un primo momento in cui M. guarda alla ricchezza, che dell’economico rappresenta il fine, in un’ottica protomercantilistica, come risultato cioè di una tesaurizzazione di denari che vengono da fuori e, in conseguenza, grazie al risparmio e alla frugalità degli abitanti: «ne risulta che non esce danaro dal paese loro, sendo contenti a quello che el lor paese produce» (§ 43). La sottolineatura del nesso tra ricchezza e frugalità, determinata da una visione etica della politica – tesa a contenere le spinte acquisitive dei privati, viste come disgregatrici del pubblico – lo porta d’altro canto a espressioni assai negative nei confronti della ricchezza e del denaro (→), come quando manifesta la sua preferenza per la ricchezza pubblica e la povertà privata, o quando, rovesciando un antico adagio, proclama non essere i denari il nervo della guerra, ma piuttosto un pericolo per lo Stato (Discorsi II x 7). Questo era consono al suo imperialismo repubblicano, che vedeva nella guerra, più che nelle industrie, il mezzo a disposizione di un popolo per la conquista della ricchezza. Ma non impediva una sua valutazione più articolata, meno dipendente da certe posizioni pauperistiche nei confronti della ricchezza. Nelle lettere private, il rapporto denari/guerra appariva meno squilibrato:
Volendo al presente vedere donde la vittoria potessi pendere, dico che quelli re, per essere danarosi, possono tenere lungo tempo gli eserciti insieme; quelli altri, per essere poveri, non possono. Di modo che, considerato l’armi, l’ordine e il danaio dell’uno e dello altro, credo si possa dire che se si viene subito a giornata, la vittoria starà dalla parte di Italia (M. a Francesco Vettori, 10 dic. 1514).
Nel Principe si raccomandava di consentire ai cittadini
di potere quietamente essercitare li essercizi loro, e nella mercantia e nella agricultura e in ogni altro essercizio delli uomini; e che quello non tema di ornare la sua possessione per timore che la gli sia tolta, e quello altro di aprire uno traffico per paura delle taglie (xxi 26).
Anche nei Discorsi l’apologia della libertà si colora di toni tesi a riconciliarla con la moltiplicazione delle ricchezze e con la valutazione positiva dei modi con cui «gli uomini a gara pensono a’ privati e publici commodi, e l’uno e l’altro viene maravigliosamente a crescere» (II ii 47).
Su questa linea tesa a riconciliare le categorie del pubblico e del privato, dopo le aspre tensioni con cui queste erano state declinate, si assiste infine a una sorta di sguardo non più sospettoso nei confronti della ricchezza nelle Istorie fiorentine. Lì, in almeno due significative occasioni, sembra che M. si avvicini allo specifico dell’e. senza alcun criterio moralistico. Nel discorso che il gonfaloniere Luigi Guicciardini rivolge ai Ciompi, appare tutta l’importanza delle ricchezze nella vita dello Stato:
Che trarrete voi [...] de’ beni che voi ci avete rubati o rubasse, altro che povertà? Perché sono quelli che, con le industrie nostre, nutriscono tutta la città, de’ quali sendone spogliati, non potreno nutrirla; e quegli che gli aranno occupati [...] non gli sapranno perservare: donde ne seguirà la fame e la povertà della città (Istorie fiorentine III xi 15-16).
Analogo sembra l’atteggiamento esplicativo nei confronti delle vicende genovesi del Banco di S. Giorgio in cui il comune,
non potendo sodisfare [...] a quelli cittadini che gran somma di danari avevano prestati, concesse loro l’entrate della dogana, e volle che, secondo i crediti, ciascuno per i meriti della principale somma di quelle entrate partecipasse, infino a tanto che dal comune fussero interamente soddisfatti (VIII xxix 5).
Bibliografia: V. Tangorra, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli, in Id., Saggi critici di economia politica, Torino 1901, pp. 121-59; G. Arias, Il pensiero economico di Niccolò Machiavelli, «Annali di economia», 1928, 4, pp. 1-31; C. Lefort, Machiavel: la dimension économique du politique, in Id. Les formes de l’histoire, Paris 1978, pp. 127-40; D. Taranto, Arte dello Stato e valutazione dell’economia in Machiavelli, in Id., Le virtù della politica. Civismo e prudenza tra Machiavelli e gli antichi, Napoli 2003, pp. 147-67.