Economia
sommario: 1. Tra scienza e politica: contenuti e metodi. 2. Dalla contabilità aziendale alla contabilità nazionale. 3. Lo sviluppo economico. 4. Le forze produttive. 5. La remunerazione delle forze produttive. 6. L'evoluzione delle domande e delle offerte. 7. L'equilibrio delle domande e delle offerte. 8. Dopo la ‛rivoluzione keynesiana'. 9. La scelta del sistema economico e politico. □ Bibliografia.
1. Tra scienza e politica: contenuti e metodi
Nell'ultimo decennio la scienza economica ha conseguito importanti risultati, smentendo il pessimismo iniziale di molti economisti. È vero che nel mondo capitalistico gli affari sono andati a rilento e il numero dei disoccupati si è ingrossato, senza che gli economisti siano riusciti a trovare rimedi pronti e decisivi; è inoltre vero che anche nei paesi del cosiddetto socialismo reale il progresso produttivo è rallentato, impedendo ai pianificatori di raggiungere tutti i loro obiettivi. Ma spesso i fallimenti sono dipesi, più che dall'ignoranza degli economisti e dei pianificatori, dai troppi fini ambiziosi e incompatibili fra loro che i governanti e gli stessi governati pretendevano di raggiungere.
Così, per esempio, sarebbe facile curare l'inflazione, se davvero lo si volesse a ogni costo. Senonché esistono nelle società moderne forti richieste pubbliche e private di spendere più di quanto si produce, richieste cui non si rinuncia volentieri. Del pari sarebbe facile curare la disoccupazione, purché si sacrificassero l'efficienza produttiva, le libertà sindacali, le alte paghe (gli animali da lavoro non sono mai disoccupati). È chiaro che nessuna avanzata della scienza economica potrà mai renderci onnipotenti, e anzi parecchie conquiste di tale scienza consistono proprio in una più rigorosa valutazione dei limiti (tecnici o d'altro genere) contro i quali cozziamo inevitabilmente. Fra questi limiti rientra l'impossibilità di costruire il futuro esattamente come lo vorremmo, e di prevederlo oltre un certo grado: del che invero dobbiamo almeno in parte rallegrarci. Una storia umana senza sorprese e senza ignoranza sarebbe una storia noiosa o addirittura disperata, perché non lascerebbe posto alla speranza e ci trasformerebbe tutti in condannati a morte che conoscono il giorno della loro esecuzione. Sapere fin le più remote conseguenze buone e cattive del nostro benché minimo gesto ci paralizzerebbe di terrore. E se poi ottenessimo sempre tutto ciò che vogliamo (ma come volere tutti le stesse cose?) saremmo dei, e non scienziati la cui ragion d'essere sta appunto nel fatto che il mondo non sia manifestazione di volontà arbitrarie.
Il premio Nobel per l'economia John Hicks (v., 1979) ha scritto: ‟Siamo certi che il sole sorgerà domani così come due più due fa quattro. Ma non è possibile attribuire un tale grado di certezza ad alcuna previsione economica. Anche il minor grado di certezza attribuito alle predizioni in meteorologia o in medicina è ben lontano dall'essere raggiunto in economia. Tuttavia, questa constatazione non deve allarmare oltre modo, e va interpretata alla luce di un'altra constatazione, e cioè che ‟la previsione in economia è impossibile" (v. McCloskey, 1983). D'altronde, come Popper ha illustrato convincentemente, nelle condizioni naturali dell'economia le scienze fisiche sarebbero esse stesse impotenti.
In Miseria dello storicismo Popper argomenta come segue: ‟Abbiamo tendenza a paragonare ciò che invece non andrebbe paragonato, cioè da una parte situazioni sociali concrete, e dall'altra situazioni fisiche artificiali ossia sperimentali, le quali si presterebbero piuttosto a un paragone con una situazione sociale artificiale, come una prigione o una comunità sperimentale [...]. Soltanto per mezzo dell'isolamento artificiale sperimentale possiamo predire eventi fisici, mentre siamo molto lontani dal predire i risultati precisi di una situazione concreta, per esempio di un temporale o di un incendio [...]. Il sistema solare è un caso eccezionale, è il caso di un isolamento naturale e non artificiale: una volta che l'isolamento venisse turbato dall'introduzione di un corpo estraneo di dimensioni sufficienti, tutte le nostre previsioni verrebbero infrante".
Lo stesso Popper assegna alle scienze sociali, e all'economia in particolare, il compito di capire e spiegare perché così spesso ci sbagliamo nelle previsioni. In questo senso vi sono errori utili, e il metodo scientifico si identifica col metodo del trial and error. Nessuno può esigere che un modello economico sia una perfetta rappresentazione della realtà. Ogni modello economico è soltanto una rappresentazione semplificata della realtà: volutamente semplificata, giacché sarebbe inutile duplicare nel modello tutti i dettagli della realtà. Ne consegue che modelli diversi, cioè diversamente semplificati, della medesima realtà possono essere compatibili fra loro e tutti utili, pur quando la realtà li smentisca in qualche particolare.
È comune in economia che siano simultaneamente in uso più teorie contrastanti e magari tutte falsificate, ma non abbastanza falsificate da perdere ogni convenienza nell'uso per scopi specifici. È questo criterio utilitario che si è fatto strada fra gli economisti negli ultimi tempi e ha portato a una maggiore tolleranza fra scuole rivali, nonché a una epistemologia più liberale, seguendo la direzione indicata da Lakatos (v., 1978) e da altri. Si è attenuata la severità metodologica (in fondo più apparente che sostanziale) quale si notava per esempio nella Scuola di Chicago, nella positive economics di Friedman (v., 1953).
Tuttavia, questa evoluzione non significa che qualunque teoria sia ormai accettabile e che alla teorizzazione sia permesso di trascurare la realtà e di non fare i conti con essa. Al contrario, l'economia contemporanea accentua il suo ricorso alla critica come base del metodo scientifico, e trova nei fatti empirici il principale sostegno della critica stessa. È con questo in mente che vanno lette le pagine seguenti, in cui si passeranno in rassegna alcuni fra i maggiori e più recenti successi della scienza economica. Per comodità dei lettori saranno mantenuti in questo aggiornamento i medesimi titoli dei capitoli dell'articolo economia dell'Enciclopedia del Novecento (1977).
2. Dalla contabilità aziendale alla contabilità nazionale
Il patrimonio contabile e statistico si è notevolmente accresciuto nell'ultimo decennio, nonostante le difficoltà create dalla grande inflazione degli anni settanta. Il forte rincaro dei prezzi ha fatto esplodere i valori monetari e imposto particolari cautele per evitare che i conti economici, pur tenuti nella medesima moneta nominale, risultassero eterogenei a causa dei rapidi cambiamenti del potere d'acquisto subiti dalla moneta. Si sono dunque affinati i metodi di indicizzazione per convertire i valori monetari in valori reali (in moneta con potere d'acquisto costante), mediante l'uso di indici dei prezzi.
Anche così, non si sono del tutto evitati gli inconvenienti contabili dell'inflazione, un esempio dei quali è l'incertezza a proposito del vero ammontare dei profitti d'impresa in Italia. Lo testimonia la discussione tra O. Ragazzi (v., 1976 e 1977), O. Castellino (v., 1977) e altri dopo l'unanime osservazione che i profitti, come si calcolano secondo le norme fiscali, non sono quelli effettivi. Pertanto, fra i danni dell'inflazione va annoverato il turbamento che essa provoca nella razionalità economica per causa di errori contabili non sempre riparati e riparabili.
Intanto, anche per capire sempre meglio le origini e le conseguenze dell'inflazione, si sono infittite le ricerche di storia quantitativa delle monete. In questo campo spicca il lavoro di Friedman e Schwartz (v., 1963 e 1982) sulla storia del dollaro. Esso indica, fra l'altro, un crescente interesse per il lungo periodo, dopo le preferenze keynesiane per il breve periodo, e contribuisce a infoltire le preziose serie secolari di dati a disposizione degli economisti.
Un'altra tendenza che si è rafforzata nell'ultimo decennio è quella di tentare la costruzione di serie di dati sovrannazionali e cioè mondiali. Questo a motivo della più netta percezione di problemi a scala planetaria, come mise in evidenza con drammaticità il famoso rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo (1972). Tale rapporto ebbe come autori D. H. e D. L. Meadows, J. Randers e W. W. Behrens, studiosi in qualche modo collegati alla scuola di Forrester, presso il Massachusetts Institute of Technology. La visione pessimistica di Forrester (v., 1971) trovò conferma nei Limiti dello sviluppo, che auspicava un'economia mondiale stazionaria quale unico rimedio ai mali dell'inquinamento e dell'esaurimento delle risorse naturali irriproducibili.
Si trattava però, metodologicamente parlando, di superare non solo l'ostacolo di ricostruire serie storiche di dati mondiali, ma pure quello, anche più grave, di estrapolare tali serie fino all'anno 2000, 2100 e oltre. Non stupisce dunque la valanga di critiche che furono mosse contro il rapporto di Meadows e altri (che lo stesso committente, il Club di Roma, in seguito corresse con altri rapporti e la pubblicazione di libri con intenti analoghi, ma metodi diversi e conclusioni sovente meno pessimistiche). Scese in lizza anche Leontief (v., 1977), premio Nobel per l'economia, con il suo apparato matriciale che si è dimostrato adatto a sempre nuove applicazioni.
Al confronto risulta scarso l'apporto dei metodi strettamente econometrici, vale a dire dei metodi di stima probabilistica dei parametri delle equazioni economiche. Sui quali metodi, tuttavia, non sono mancati contributi nuovi, che hanno perfino indotto a iniziare la pubblicazione di una rivista periodica di sintesi: la ‟Econometric reviews", il cui primo numero è apparso nel 1982.
3. Lo sviluppo economico
A dispetto del fosco quadro dipinto dalla scuola di Forrester per il 2000, l'ultimo decennio ha visto un vivace progresso economico in vari paesi già sottosviluppati, e un ritorno a condizioni meno perturbate sui mercati del petrolio e di altre materie prime, dopo gli scossoni degli anni precedenti. È divenuta corrente la sigla NIC (New Industrialized Countries) per designare il gruppo di paesi di nuova industrializzazione che si raggruppano specialmente nell'area del Pacifico. E come è facile immaginare, su questo importante fenomeno, che sta spostando il baricentro economico mondiale, si sono pubblicati numerosi studi, fra cui, in Italia, quello di Sylos Labini (v., 1983), che conclude il suo saggio rilevando che ‟le prospettive economiche del Terzo Mondo non appaiono ormai così cupe come apparivano fino a pochi anni fa".
Se poi ci si chiede, come gli economisti hanno il dovere di chiedersi, quali forze regolino l'emergere di alcune economie e il declino di altre, allora oggi è comune sentir proporre risposte in gran parte extraeconomiche. È sempre più marcata fra gli economisti stessi la convinzione che sia lo sviluppo economico, sia l'arretratezza e l'involuzione, abbiano radici di tipo culturale, che si distendono per lunghi tempi storici. Di qui un continuo allargamento degli orizzonti di ricerca, e una sempre maggiore compenetrazione tra storia economica e scienza economica. Un esempio di questa letteratura è il libro di E. L. Jones (v., 1981), che si propone di confrontare nel lunghissimo periodo la storia culturale dei diversi continenti in cerca di cause remote del loro sfasamento nel progresso economico.
È comprensibile che, in tali prospettive, la tecnologia diventi un anello (importante finché si vuole, ma non più di un anello) della catena culturale. L'innovazione e la diffusione tecnologica, i processi di apprendimento, la dialettica tra scienza e tecnica, tutto ciò viene affrontato da economisti come N. Rosenberg (v., 1982) per colmare lacune non più sopportabili nella conoscenza di fatti sociali di enorme portata.
Infine, merita segnalare la serie di ricerche sull'incipiente era postindustriale, che dovrebbe manifestarsi con uno straripamento del settore dei servizi (il settore terziario, che segue il settore secondario, o industriale, e il settore primario o agricolo). Ne sono esempi l'articolo di Momigliano e Siniscalco (v., 1982), di prevalente interesse metodologico, e il libro di R. K. Shelp (v., 1981), di prevalente interesse politico.
4. Le forze produttive
Mentre in passato l'analisi della costituzione e della crescita delle capacità produttive avveniva spesso solo a scala macroeconomica, distinguendo tra lavoro, capitale, ecc., ma non tra agricoltura, industria, servizi, ecc., oggi gli economisti sono più propensi a tener conto minutamente delle varie branche produttive (settori, sottosettori, rami). Infatti, proprio con la transizione verso l'economia postindustriale, si impone il modo rivoluzionario in cui le capacità produttive sono di continuo distrutte e di continuo ricostruite in nuovi settori, mentre le forze produttive, se sono mobili, vengono spostate incessantemente da vecchie a nuove branche produttive. Sono cambiamenti strutturali che influiscono sulla velocità con cui può crescere nel complesso la dimensione produttiva di una economia.
Un libro che ha decisamente affrontato la questione sul piano teorico è Structural change and economic growth di L. Pasinetti (1981). Questo autore ha tratto lucidamente le implicazioni del disaggregare l'analisi, spostarsi dalla macroeconomia verso la microeconomia (e dal breve periodo al lungo periodo). Non si tratta più soltanto di bilanciare il totale della domanda col totale dell'offerta, come nella macroeconomia di Keynes: si tratta di ottenere quel bilancio per ogni singola merce, per ogni singolo mercato, per ogni singola branca produttiva, il che è molto più difficile, poiché la struttura interna dell'economia può cambiare all'improvviso per effetto del progresso tecnico e merceologico.
Una crisi puo nascere dal mero accidente che una certa attività produttiva ha fatto il suo tempo e deve perire (non si producono più crinoline), oppure che i consumatori non hanno ancora ‛imparato' nuovi modi di consumo a loro proposti. Come scrive Pasinetti (v., 1981): Ciò è abbastanza per rendere tutti i modelli macrodinamici intimamente incapaci di fornire qualunque spiegazione degli slumps ricorrenti. La stessa natura macroeconomica di quei modelli implica che si assuma una composizione costante nel tempo della produzione totale [...]. Questo significa che il sentiero di crescita in equilibrio, corrispondente a tutti i modelli macroeconomici, è tale che tutti i settori debbono espandersi nella medesima proporzione. Ma un sentiero di crescita del genere non comporterebbe alcuna difficoltà di ‛imparare'. E senza difficoltà di ‛imparare' non abbiamo alcuna ragione di attenderci che l'economia fluttui". Sebbene Pasinetti abbia radici keynesiane, egli non esita ad ammettere che, dalla impostazione disaggregata, ‟la teoria keynesiana e le politiche keynesiane anticicliche escono drasticamente ridimensionate, e i loro effetti e limiti chiaramente ridefiniti". Per di più il mercato e i suoi difetti ricevono molte attenuanti, giacché ‟per l'origine delle difficoltà è inessenziale avere una società industrializzata capitalistica o socialistica [...]. Si può immediatamente chiedere perché la storia non mostri finora crisi periodiche rilevanti nei paesi socialistici. Ma la risposta è a portata di mano. Nessun paese socialistico ha finora raggiunto i livelli di reddito pro capite propri dei più avanzati paesi capitalistici. È quindi stato possibile profittare di tutte le esperienze accumulate in precedenza nei paesi capitalistici, non solo nella tecnologia, ma pure nei consumi".
5. La remunerazione delle forze produttive
Questo argomento, che sta al centro della scienza economica, ha beneficiato del lungo dibattito innescato dall'enigmatica opera sraffiana Produzione di merci a mezzo di merci (1960). Piero Sraffa, che secondo molti suoi seguaci è ‟il più grande economista italiano e uno dei più grandi di tutti i tempi" (v. Roncaglia, 1983), si confermò in tale opera il massimo critico della scuola marginalistica, da lui identificata come la scuola che vorrebbe il salario di equilibrio determinato dalla produttività marginale del lavoro, e il profitto di equilibrio determinato dalla produttività marginale del capitale.
Preso in senso rigido, il principio marginalistico pareva possedere due connotazioni politiche che Sraffa, economista di sinistra, rifiutava di accettare. La prima inaccettabile conseguenza marginalistica era che il salario sembrava sfuggire sia alla contrattazione sindacale, sia alla lotta di classe, per farsi dato puramente tecnico che un qualunque ingegnere avrebbe potuto calcolare se gli fosse riuscita la stima della produttività marginale del lavoro. La seconda inaccettabile conseguenza marginalistica era che, almeno in apparenza, il profitto dei capitalisti risultava giustificato, anche moralmente, dalla produttività marginale del capitale. L'intento di Sraffa era di abolire completamente dal discorso teorico il concetto di produttività marginale, e di mostrare come tuttavia si restasse in grado di erigere una teoria, una costruzione logica capace di spiegare i ‛valori', ossia i prezzi, compreso il prezzo del lavoro.
La teoria sraffiana del valore è foggiata in modo che le equazioni dei prezzi, cioè i vincoli tecnico-economici che influiscono sui prezzi, mantengano un grado di libertà, e quindi determinino tutti i valori tranne uno. Il valore che resta incognito può essere determinato ricorrendo a motivi extraeconomici ed extratecnici, per esempio a motivi politici. Ciò è conforme all'impostazione classica, che fu ancora quella di Marx, nella quale il salario era la variabile indipendente il cui valore restava fisso al minimo della sussistenza, per cause demografiche se non politiche. La scuola sraffiana è talora a favore del tasso di profitto quale variabile indipendente da lasciarsi alla lotta di classe. Esiste comunque una stretta relazione, una relazione ovviamente inversa, tra il salario e il tasso di profitto, nel senso che l'aumento dell'uno provoca per forza la diminuzione dell'altro, quando non vi sia progresso tecnico.
Oggi è generalmente ammesso che la teoria sraffiana del valore sia ineccepibile, ma da parte dei marginalisti si sostiene che essa non inficia il marginalismo correttamente inteso, e anzi ne è una parte mascherata (v. Ricossa, 1981 e 1982; v. Tani, 1982). L'elemento decisivo che concilia le due teorie è il tempo. La produzione richiede tempo, e l'impresa sostiene i costi per il lavoro e il capitale almeno in parte prima di realizzare i ricavi. Quindi, il salario anticipato non può essere, neanche per i marginalisti, eguale al valore della futura produttività marginale del lavoro; ma sarà soltanto il valore attuale (nel senso della matematica finanziaria) di quella produttività, cioè ne sarà il valore scontato, proprio come si sconta il valore di una cambiale che si voglia incassare prima della scadenza.
A una certa produttività marginale del lavoro possono corrispondere anche per i marginalisti infiniti salari diversi, secondo gli infiniti diversi tassi di interesse adottabili per scontare quella produttività. Più alto è il tasso di interesse, maggiore è lo sconto, e minore è il salario: questa è, nell'ottica marginalistica, la stessa relazione inversa tra il salario e il tasso di profitto cara agli sraffiani. È evidente che rimane largo spazio alla contrattazione sindacale, ed è pure evidente che esiste una stretta parentela tra tasso di interesse e tasso di profitto. L'uno e l'altro non sono la produttività marginale del capitale: sono invece ciò che serve a scontare tutte le produttività (del lavoro, del capitale, ecc.), qualora i proprietari del lavoro, del capitale, ecc. vogliano farsi pagare in anticipo rispetto al termine della produzione.
L'interesse e il profitto assumono così l'aspetto di pagamenti che effettuano coloro i quali ricevono da altri uno specifico servizio utile, il servizio di anticipazione nel tempo di un valore ancora non interamente maturato. È vero che, così stando le cose, otteniamo una giustificazione dell'interesse e del profitto, ma non è una giustificazione ‛classica', e anzi questi tipi di reddito diventano logicamente necessari in qualunque economia, non importa se capitalistica o socialistica (cambia solo la loro destinazione). Per rendersene conto si immagini che un medesimo prodotto sia ottenibile con due tecniche diverse, che richiedono le medesime quantità complessive di lavoro, ma quantità diversamente scaglionate nel tempo. Se trascuriamo il tempo, le due tecniche sono indistinguibili; tuttavia, qualunque produttore (purché il salario e gli altri prezzi si suppongano costanti nel tempo) preferirebbe delle due la tecnica che richiede meno anticipazioni di lavoro e di costi salariali.
Questo avviene semplicemente perché più si anticipa e più si corrono rischi: anticipare quando non è inevitabile significa sciupare tempo. Anche nell'Unione Sovietica ci si è accorti di questo aspetto dell'efficienza, e con vari nomi e accorgimenti si calcolano interessi e profitti proporzionati ai tempi di anticipazione, affinché i prezzi dei prodotti ne tengano conto e si sappia quale tecnica consente i costi e i prezzi più bassi. Nulla di ideologico emerge da tali considerazioni, nulla dunque che separi economisti di orientamento politico contrastante. Se poi ci si convince che nel modello di Sraffa le produttività marginali non sono abolite, bensì soltanto nascoste, si arriva alla recente conclusione dei marginalisti, per i quali esisterebbe ormai una sola teoria del valore, che potrebbe soddisfare tutti, compresi gli sraffiani.
Il dibattito non è comunque terminato (mai esso termina in campo scientifico). Se per il momento, dopo gli attacchi sferrati dagli antimarginalisti (riassunti in Pasinetti, 1975), prevalgono le voci filomarginalistiche (v. Blaug, 1974; v. Hahn, The neo-Ricardians, 1982), non si può escludere che nel prossimo futuro gli sraffiani esibiscano nuovi argomenti, che spostino la bilancia dalla loro parte. Intanto, ciò che induce forse la maggioranza degli economisti a restar fedeli al marginalismo è la capacità di questa tecnica analitica di applicarsi a qualunque tipo di condotta razionale, economica, paraeconomica, politica, ecc. I suoi campi di applicazione sono estesissimi e continuano ad allargarsi, come si evince, per esempio, dagli studi di public choice (scelta pubblica): economia della politica, della famiglia, dei diritti di proprietà, economia della criminalità e delle pene, e così via. Fra gli autori più noti per simili sviluppi è G. S. Becker.
6. L'evoluzione delle domande e delle offerte
Le pagine più interessanti o almeno curiose della recente letteratura economica in argomento riguardano la cosiddetta supply-side economics, l'economia dell'offerta. Lo spunto iniziale venne da Laffer che, riprendendo una vecchia osservazione, denunciò l'aumento della pressione fiscale quale fonte di danni per lo stesso fisco, e non solo per i contribuenti. Infatti, è probabile che tale aumento oltre un certo limite freni l'espansione del reddito nazionale (l'offerta di prodotti), al punto di ridurre gli incassi potenziali del fisco, il quale verrebbe a prelevare una percentuale maggiore, sì, ma di un reddito troppo inferiore per compensarlo. Anziché combattere la tendenza della spesa pubblica a crescere incessantemente, fenomeno che i sostenitori dell'economia dell'offerta ritengono ben difficile da arrestare, costoro si propongono di regolarlo in modo che l'espansione del reddito nazionale non ne sia danneggiata.
Anche a proposito della lotta contro l'inflazione, costoro sono propensi ad ampliare l'offerta più che a restringere la domanda. Senonché, mentre la domanda può essere tagliata di molto e in brevissimo tempo, per esempio mediante restrizioni monetarie e creditizie, l'offerta si amplia solo a poco a poco e nel lungo periodo. L'inconveniente politico dell'economia dell'offerta, che è divenuta di moda nell'America del presidente Reagan, sta appunto nel suscitare i suoi eventuali effetti benefici solo in via mediata e differita, il che non si addice a governi di vita breve, quali talvolta sono caratteristici delle democrazie. Resta comunque utile l'avvertenza di non dimenticare il lato dell'offerta, dopo l'insistenza forse eccessiva della scuola keynesiana sul lato della domanda.
Ciò è tanto più vero in quanto oggi, grazie alla ‛sicurezza sociale' estensivamente intesa, la domanda pubblica e le domande private indotte dagli interventi governativi hanno assunto una tale ampiezza da rendere anacronistici i timori di un tempo sulla loro insufficienza. Perfino i fautori dell'intervento pubblico in economia parlano oggi più di una sua riqualificazione che di un suo ulteriore allargamento.
Così sembrano interpretabili le pagine che alcuni economisti (v., per esempio, Lombardini, 1977) dedicano ai ‟consumi socializzati", improntate a fiducia in una loro programmazione che sappia adeguarli in qualità e quantità agli standard politici ideali. I capricciosi consumi privati passerebbero dunque in subordine: finiti i tempi in cui Keynes incitava le famiglie a comperare pur di comperare, attualmente si criticano piuttosto gli eccessi del consumismo e si bada soprattutto a difendere i consumatori dagli assalti della pubblicità commerciale e dai rischi di prodotti in qualche modo pericolosi. Sono oscillazioni di opinione con andamento pendolare.
7. L'equilibrio delle domande e delle offerte
La tanto criticata teoria dell'equilibrio generale ha dimostrato la sua vitalità riprendendo importanza proprio quando la si dava per spacciata. È fuor di dubbio che la realtà economica sia sempre poco o tanto squilibrata, e anzi è bene che sia così: un perfetto equilibrio implicherebbe un mondo statico, privo di novità, di imprevisti, di progressi rivoluzionari, di avventure, insomma un mondo privo di vita. Ed è anche fuor di dubbio che gli economisti debbano prestare più attenzione a quanto accade nelle condizioni più tipiche o più permanenti del disequilibrio, ciò che infatti si comincia a fare sistematicamente (v. Arcelli, 1980). Tuttavia, resta utile se non indispensabile il concetto teorico di equilibrio, come termine di paragone senza il quale non si riesce nemmeno ad afferrare la vera natura del disequilibrio.
Come Hahn (un fautore dei modelli di equilibrio) giustamente osservava a proposito di Kornai (un fautore dei modelli di disequilibrio): ‟Kornai fa un gran uso delle teorie dell'equilibrio generale sostenendo che la realtà ne differisce". Merita citare anche Coddington, là dove egli nota che i modelli di equilibrio permettono di ‟isolare un problema maneggevole dal circostante ammasso di problemi non maneggevoli, e in tal modo permettono alla ricerca sistematica di procedere affrontando un problema maneggevole alla volta". In fondo, torniamo ad applicare il criterio utilitaristico: una teoria è buona se è scientificamente utile in qualche circostanza, e la teoria dell'equilibrio generale lo è.
Certo, a mano a mano che si precisano le condizioni di validità dell'equilibrio generale, si vede che esse sono molto restrittive (v. Arrow e Debreu, 1954; v. Hahn, Teoria dell'equilibrio generale, in Bell e Kristol, 1981). La stessa impressione suscitano recenti indagini sulle ‟aspettative razionali" (R. Lucas e altri, dall'inizio degli anni settanta), in cui si suppone, alquanto eroicamente, che gli operatori economici siano aderenti al modello dell'homo œconomicus anche nel fare un uso razionale delle informazioni sul futuro di cui dispongono. Nondimeno, vi sono problemi di interesse pratico in cui il concetto di equilibrio e quello di aspettativa razionale si dimostrano convenienti.
È il caso di quando l'equilibrio generale riesce a spiegare a grandi linee il comportamento secolare delle economie reali prossime al regime di capitalismo concorrenziale, nelle loro manifestazioni tendenziali più regolari e appariscenti. Pur riconfermando che queste economie non sono mai state in equilibrio, la storia insegna che esse, in generale, non sono nemmeno ‛esplose' o ‛collassate' (a parte qualche rara e temporanea eccezione). Lo stesso fatto di ‛funzionare', grosso modo, rende tali economie interpretabili anche secondo gli schemi dell'equilibrio.
Nei paesi industrializzati occidentali, negli ultimi due secoli, le paghe reali sono migliorate all'incirca come la produttività media del lavoro, mentre il tasso di profitto nelle medie di lungo periodo non ha mostrato una spiccata tendenza a diminuire ma neppure a crescere. In presenza di un certo tipo di progresso tecnico, che sostituisce il lavoro umano con le macchine, il tasso di disoccupazione non è salito, ma è rimasto stazionario, se si prescinde dai cicli congiunturali. Ebbene, il complesso di questi fatti storici, insieme ad altri simili, si può spiegare comodamente con una teoria dinamica dell'equilibrio generale, che è una teoria marginalistica, purché si trovi il modo di collegare la produttività marginale del lavoro (concetto teorico) alla produttività media (concetto empirico).
Nei lavori del genere (v., per esempio, Ricossa, 1981) non si pretende che il mercato, il laissez faire, porti sempre e subito in equilibrio l'economia. Non è così, ed è frequente che occorra qualche intervento pubblico per aiutare il riequilibrio nel breve periodo. Come scrive Hahn, a proposito di una deflazione di tipo keynesiano, ‟se in una crisi del genere ci affidiamo esclusivamente al gioco per cui gli agenti economici comunicano fra loro soltanto coi segnali dei prezzi, il risultato è lento [...]. Molto ragionevolmente Keynes pensò non fosse sensato raggiungere il buon esito, desiderato da tutti, in quel modo così costoso, incerto e mediato da sembrare assurdo. Giacché proprio il medesimo esito era raggiungibile per una via più diretta" (v. Hahn, Some Keynesian..., 1982). (La via più diretta è, s'intende, un appropriato intervento pubblico sulle domande; il che a sua volta non esclude errori di dosaggio e di tempismo da parte dei governanti che dovrebbero intervenire, in specie se costoro trascurano la possibilità che i privati reagiscano psicologicamente alle nuove politiche e in qualche modo le invalidino).
8. Dopo la ‛rivoluzione keynesiana'
Negli anni settanta la grande inflazione balzò quasi ovunque alla ribalta per una serie di avvenimenti, che comprendevano gli eccessi monetari e fiscali dei governi, le forti rivalutazioni delle paghe nominali ottenute con mezzi sindacali, gli squilibri su taluni mercati delle materie prime, gli eventi bellici e i rincari politici del petrolio, l'abbandono dell'oro e dei cambi fissi nei regolamenti internazionali, i più alti costi unitari di produzione per il minore sfruttamento delle capacità produttive. Non sorprende quindi che il keynesismo declinasse (salvo che nell'accentuarsi di richieste protezionistiche, contrarie al libero scambio) e il monetarismo prendesse piede.
Si trattò tuttavia più di nuovi orientamenti politici che di nuove analisi teoriche. La stag-flazione (o stagninflazione) non andava tanto contro particolari teorie bene intese, quanto contro le ingenue speranze di trovare a portata di mano nell'armamentario politico keynesiano una panacea infallibile, senza controindicazioni e di uso semplicissimo. Naturalmente le cose erano ben più complicate, e per accorgersene bastava vedere come diversi modelli econometrici stimavano gli effetti moltiplicatori di una data spesa pubblica in un dato momento e in una data economia: le enormi discrepanze calcolate rendevano di scarsissima utilità pratica il concetto di moltiplicatore, così caro ai keynesiani.
Si parlò sempre più spesso di ‟spiazzamento" (v. Arcelli e Valiani, 1979), cioè del pericolo che la spesa pubblica, anziché addizionarsi a quella privata o addirittura moltiplicarla, quando lo si desiderava, la sostituisse facendo fallire la politica di espansione della domanda. Non solo, si ebbe pure ragione di temere che un successivo taglio della spesa pubblica non servisse a risuscitare dalle ceneri la spesa privata, la quale poteva essere cronicamente danneggiata dalle incertezze della politica economica governativa. Il cosiddetto neo- o post-keynesismo, più spesso sulla difensiva che all'attacco, si è pertanto impegnato nel tentativo di salvare la fama del maestro Keynes dall'usura del tempo, recuperandone il ‛vero' insegnamento perenne ed eliminando le scorie, i punti deboli, le interpretazioni e le applicazioni transeunti o sbagliate dei discepoli e dei commentatori (v. Robinson, 1980; v. Davidson, L'economia post-keynesiana, in Bell e Kristol 1981).
9. La scelta del sistema economico e politico
Per quanto sia pacifico che i paesi occidentali vorranno restare fedeli a forme di economia mista, è più che mai serrata la discussione su quali caratteri essa debba avere, e in quali proporzioni. Va sottolineato che negli ultimi anni la controversia è giunta a toccare di frequente gli stessi principi della convivenza sociale, con sforzi per ridefinire l'idea di giustizia tout court e di giustizia sociale. Meno intense le voci di parte marxista (v., comunque, Garegnani, 1981), hanno invece acquistato forza le tesi neoutilitaristiche e alcune correnti liberali non unisone.
La ripresa e l'affinamento delle tesi benthamiane dell'utilitarismo (v. Harsanyi, 1983) mirano a confermare con nuovi argomenti che la scelta sociale ottimale sia quella che rende massima l'utilità complessiva, ottenuta sommando le utilità individuali nella popolazione. Viene dimostrato che, in certe condizioni invero discutibili, l'utilità complessiva massima corrisponde al ‛bene comune'. In tal modo si perverrebbe al tanto agognato modello sociale dell'unanimità permanente, fin qui ritenuto utopico, che gli economisti limitano ai casi di ‛ottimo paretiano'.
Un ottimo paretiano è, notoriamente, una situazione raggiungibile col libero accordo di tutti gli interessati, dalla quale non è possibile allontanarsi per migliorare ancora lo stato di qualcuno senza peggiorare lo stato di qualcun altro. Nella politica corrente è assai più frequente che non ci si fermi in un punto di ottimo paretiano, ma si vada oltre, decidendo per esempio a maggioranza, e quindi lasciando una minoranza insoddisfatta e danneggiata. L'espediente dei neoutilitaristi consiste nell'immaginare che le regole del ‛gioco sociale' siano adottate all'unanimità, in quanto scelte dalla gente dietro un ‛velo di ignoranza' che impedirebbe a ciascuno di sapere se egli ne trarrà o non ne trarrà dei vantaggi. Per esempio, se nessuno sa con certezza quale reddito e quale ricchezza avrà in futuro, poiché parte da una situazione di tabula rasa (come tutti gli altri), ciascuno sceglierà le regole in base al loro intrinseco valore di giustizia, e non perché esse favoriscono i ricchi o i poveri.
Anche il liberale Rawls (v., 1971), nel suo famoso saggio sulla giustizia, si appoggia alla finzione del ‛velo di ignoranza'. Ma contro queste tesi sono apparse ben presto critiche veementi, fra cui quella di Nozick (v., 1974) che interpreta il liberalismo in senso liberistico, prossimo all'individualismo anarchico, e lontano dai gusti di Rawls. Non meno radicali sono gli attacchi di Rowley e Peacock (v., 1975) contro lo stesso concetto di ottimo paretiano, e anzi contro qualunque politica ottimizzante. In questo dobbiamo scorgere la manifestazione di un ‛imperfettismo' assai scettico a proposito delle pretese di ottimizzare alcunché. L'imperfettista, che dubita e si contenta, procede par tâtonnement, impara per trial and error, mira alle mediazioni fra opposti inconciliabili, e non pretende di raggiungere il meglio. Si attiene al proverbio secondo il quale il meglio è nemico del bene.
bibliografia
Arcelli, M. (a cura di), Moneta, prezzi e teoria del disequilibrio, Padova 1980.
Arcelli, M., Valiani, R., Il crowding-out: alcune riflessioni per la politica economica, in ‟Economia italiana", 1979, n. 2, pp. 197-230.
Arrow, K., Debreu, G., Existence of an equilibrium for a competitive economy, in ‟Econometrica", 1954, XXII, pp. 265-290.
Becker, G.S., A theory of the allocation of time, in ‟Economic journal", 1965, LXXV, pp. 493-517 (tr. it.: Una teoria della distribuzione del tempo, in Il mercato del lavoro, a cura di B. J. McCormick ed E. Owen Smith, Milano 1972, rist. 1974, pp. 86-117).
Becker, G.S., A treatise on the family, Cambridge, Mass., 1981.
Bell, D., Kristol, I. (a cura di), The crisis in economic theory, New York 1981 (tr. it.: La crisi della teoria economica, Milano 1982).
Blaug, M., The Cambridge revolution, London 1974 (tr. it.: La rivoluzione di Cambridge, Napoli 1979).
Castellino, O., Ancora sulla redditività reale delle imprese italiane, in ‟Rivista di politica economica", 1977, LXVII, pp. 758-766.
Coddington, A., The rationale of general equilibrium, in ‟Economic inquiry", 1975, XIII, pp. 539-558.
Forrester, J. W., World dynamics, Cambridge, Mass., 1971.
Friedman, M., Essays in positive economics, Chicago 1953.
Friedman, M., Schwartz, A. J., A monetary history of the United States, 1867-1960, New York 1963 (tr. it.: Il dollaro: storia monetaria degli Stati Uniti, Torino 1979).
Friedman, M., Schwartz, A. J., Monetary trends in the United States and the United Kingdom, Chicago 1982.
Garegnani, P., Marx e gli economisti classici, Torino 1981.
Hahn, F., Some Keynesian reflections on monetarism, Cambridge, Mass., 1982.
Hahn, F., The neo-Ricardians, in ‟Cambridge journal of economics", 1982, 6.
Harsanyi, J. C., Decision making and rationality, in Atti del convegno sull'individuale e il collettivo (a cura del Club Turati), Torino 1983.
Hicks, J., Causality in economics, Oxford 1979 (tr. it.: Analisi causale e teoria economica, Bologna 1981).
Jones, E. L., The European miracle, Cambridge 1981.
Kahn, H., The coming boom, New York 1982.
Kornai, J., Anti-equilibrium, Amsterdam 1971.
Laffer, A. B., The monetary crisis, Rolling Hills 1979.
Lakatos, I., The methodology of scientific research programmes, Cambridge 1978.
Leontief, W. W. (a cura di), The future of the world economy. A United Nations study, New York 1977 (tr. it.: Il futuro dell'economia mondiale, Milano 1977).
Lombardini, S., I problemi della politica economica, Torino 1977.
Lucas, R. E., Sargent, T. J., Rational expectations and econometric practices, Minneapolis 1981.
McCloskey, D. N., The rhetoric of economics, in ‟Journal of economic literature", 1983, XXI, pp. 481-517.
Meadows, D. H., Meadows, D. L., Randers, J., Behrens, W. W., The limits of growth, New York 1972 (tr. it.: I limiti dello sviluppo, Milano 1973).
Momigliano, F., Siniscaldo, D., The growth of service employment, in ‟Banca Nazionale del Lavoro quarterly review", 1982, n. 142, pp. 269-305.
Morishima, M., Walras' economics, Cambridge 1977.
Nozick, R., Anarchy, state and utopia, New York 1974 (tr. it.: Anarchia, stato e utopia, Firenze 1981).
Pasinetti, L., Lezioni di teoria della produzione, Bologna 1975.
Pasinetti, L., Structural change and economic growth, Cambridge 1981 (tr. it.: Dinamica strutturale e sviluppo economico, Torino 1984).
Popper, K., The poverty of historicism, London 1957 (tr. it.: Miseria dello storicismo, Milano 1975).
Ragazzi, G., Contabilità dell'inflazione e redditività reale delle imprese italiane, in ‟Rivista di politica economica", 1976, LXVI, pp. 1303-1326.
Ragazzi, G., Risposta al prof. Castellino, in ‟Rivista di politica economica", 1977, LXVII, pp. 767-770.
Rawls, J., A theory of justice, Cambridge, Mass., 1971 (tr. it.: Una teoria della giustizia, Milano 1982).
Ricossa, S., Teoria unificata del valore economico, Torino 1981.
Ricossa, S., Risposta a Tani, in ‟Banca Toscana. Studi e informazioni", 1982, V, 4, pp. 103-105.
Robinson, J., Collected economic papers, Cambridge, Mass., 1980.
Roncaglia, A., Piero Sraffa and the reconstruction of political economy, in ‟Banca Nazionale del Lavoro quarterly review", 1983, n. 147, pp. 337-350.
Rosenberg, N., Inside the black box, Cambridge 1982.
Rowley, C., Peacock, A. T., Welfare economics, London 1975.
Shelp, R. K., Beyond industrialization, new York 1981.
Sraffa, P., Produzione di merci a mezzo di merci, Torino 1960.
Sylos Labini, P., Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, Bari 1983.
Tani, P., Per una teoria unificata del valore, in ‟Banca Toscana. Studi e informazioni", 1982, V, 4, pp. 95-102.