Economia
di Pier Luigi Sacco
Economia
sommario: 1. La teoria neoclassica a un bivio. 2. L'economia comportamentale (behavioral economics). 3. La socio-economia. □ Bibliografia.
1. La teoria neoclassica a un bivio
Il Novecento è stato senza dubbio il secolo dell'economia neoclassica: un approccio alla teoria economica nato nel pieno dello sviluppo industriale per analizzare le proprietà e i limiti del funzionamento del mercato nella produzione di beni e servizi. Un tentativo rigoroso e coerente di costruire una 'meccanica del comportamento economico' che nel suo formalismo si richiama apertamente alla fisica tardo-ottocentesca, in particolare alla meccanica hamiltoniana (v. Mirowski, 1989). Nel corso degli ultimi cento anni, l'economia neoclassica ha conquistato spazi sempre più ampi, coabitando con paradigmi alternativi come il marxismo, l'istituzionalismo o il keynesismo, quest'ultimo parzialmente assimilato attraverso la cosiddetta 'sintesi neoclassica' dell'immediato secondo dopoguerra. Negli ultimi due decenni, il predominio si è fatto assoluto: nessun economista che intendesse ambire a una credibilità scientifica poteva - né può tuttora - permettersi di non padroneggiare perfettamente e utilizzare in modo appropriato lo strumentario dell'economista neoclassico.
Le ragioni di questo successo sono tutto sommato semplici: l'approccio neoclassico, con la sua enfasi sulle scelte ottimizzanti operate da agenti economici individualizzati, offre uno schema analitico compatto ed efficace per l'analisi delle proprietà allocative dei mercati, permettendo inoltre di formulare previsioni chiare e falsificabili. In linea di principio, la teoria neoclassica dispone di strumenti di analisi applicabili a una qualunque scala fenomenica, dalla scelta dell'individuo isolato fino al sistema economico nel suo complesso (v. Townsend, Arrow-Debreu ..., 1987) o all'intera economia-mondo, sebbene si ammetta comunemente che un allargamento eccessivo della scala fenomenica possa condurre a problemi tecnici di aggregazione sempre più complessi e al limite potenzialmente insormontabili, quantomeno dal punto di vista operativo.
Nelle sue formulazioni più ambiziose, l'economia neoclassica si è spinta fino alla rivendicazione di una capacità descrittiva ed esplicativa estesa all'intero spettro dei comportamenti sociali: in ogni forma di comportamento, per quanto elaborata e complessa, si nasconderebbe un homo œconomicus che potrà essere individuato con facilità non appena si saranno specificati in modo sufficientemente preciso e accurato le opportunità e i vincoli che definiscono il contesto di scelta (v. Townsend, Models as ..., 1987). Non ci sarebbe aspetto del comportamento umano - dalle scelte matrimoniali (v. Becker, The economic approach ..., 1976) all'altruismo parentale (v. Becker, Altruism, egoism ..., 1976), dalla religione (v. Iannaccone, 1992) alla creatività (v. Adler, 1985), alla devianza sociale (v. Ehrlich, 1996), per limitarci solo a qualche esempio - per il quale una lucida e rigorosa applicazione della metodologia neoclassica non sarebbe in grado di rivelare le ragioni profonde delle scelte individuali ottimizzanti che si celano dietro la 'sovrastruttura' di comportamenti in apparenza contrari a ogni logica economica.
Negli stessi anni in cui il paradigma neoclassico trovava la sua definitiva affermazione, si è tuttavia assistito a una proliferazione di contributi che tendevano, in genere non programmaticamente, a metterne in discussione 'dall'interno' alcuni aspetti, evitando l'interpretazione unilaterale dei comportamenti umani appartenenti ai domini più vari delle scelte sociali in termini di scelte ottimizzanti appropriatamente formulate, per realizzare invece contaminazioni abbastanza complesse e ardite tra categorie economiche e categorie mutuate da altre scienze sociali, come la psicologia, la sociologia o la political science. Un vero caposcuola in questo senso è stato George Akerlof (v., 1984), premio Nobel per l'economia nel 2001. Questi sviluppi in senso transdisciplinare non rinnegano in genere le premesse dell'approccio neoclassico, ma le mettono selettivamente in discussione dando luogo a 'mutazioni' più o meno sostanziali delle metodologie di analisi. Ancora una volta, le ragioni di questa svolta non del tutto inaspettata sono abbastanza chiare: il dominio 'elettivo' della teoria neoclassica è quello dell'analisi dei contesti di produzione e scambio di beni tipici di un'economia nella quale le scelte economiche sono guidate da un substrato motivazionale stabile e ben definito, che si esprime in precisi ordinamenti di preferenze individuali. Tuttavia, l'avvento dell'economia postindustriale ha comportato una discontinuità fondamentale nella logica dei comportamenti economici: le società 'del primo mondo' si trovano oggi, per la prima volta nella storia economica dell'umanità, in una condizione nella quale le scelte individuali prescindono pressoché completamente da una logica di 'sopravvivenza', che richiede l'allocazione di risorse scarse tra bisogni essenziali alternativi (nutrirsi, vestirsi, avere un luogo in cui abitare, curarsi, ecc.), per privilegiare invece una logica di espressione e di realizzazione delle proprie potenzialità identitarie (v. Buscema e Sacco, 2001). Le caratteristiche stesse dei prodotti assumono un peso secondario rispetto alla loro capacità di conformarsi alla posizione identitaria di chi è chiamato a sceglierli e ad acquistarli e di corroborarla. Questo mutamento è stato colto ancora una volta con il consueto acume da Akerlof, il quale in un recente saggio dall'eloquente titolo Economics and identity (v. Akerlof e Kranton, 2000) arriva ad affermare che le conseguenze della scelta individuale dal punto di vista dell'identità sociale possono assumere un peso preponderante rispetto al valore utilitario vero e proprio della scelta stessa.
L'economia neoclassica è in parte impreparata ad affrontare questi nuovi ordini di problemi, in quanto la logica della costruzione identitaria chiama in causa aspetti del comportamento umano che non possono essere adeguatamente mediati dal mercato. Se motivazioni di carattere puramente strumentale possono governare la produzione di beni e servizi, che diventano quindi oggetto di uno scambio impersonale, altrettanto non può dirsi per la produzione di identità e relazioni sociali, che richiedono una logica di interazione intrinsecamente irriducibile alla transazione di mercato (v. Sacco e altri, 2004). Inoltre, questo nuovo ordine di problemi comporta un profondo ripensamento del ruolo delle preferenze all'interno dei processi di scelta: le preferenze, infatti, non possono più essere considerate la 'causa prima' delle scelte individuali, in quanto divengono esse stesse espressione di un livello più profondo, quello delle motivazioni, e acquistano una plasticità molto superiore a quella normalmente prevista all'interno del quadro descrittivo ed esplicativo neoclassico (v. Albanese, 1987; v. Samuelson, 2001).
La teoria neoclassica si trova dunque, agli albori del XXI secolo, di fronte a un bivio. La prima opzione è quella di arroccarsi nella difesa di un approccio che ha grandi meriti e grande tradizione, ma è filogeneticamente legato a una fase ormai superata del capitalismo, caratterizzata dallo sviluppo e dal consolidamento di un sistema produttivo industriale e da una società dai ritmi di mutamento elevati ma ancora relativamente contenuti sulla scala temporale intra-generazionale. Un'economia e una società, in altre parole, caratterizzate da una ragionevole presunzione di stabilità dal punto di vista dei piani d'azione e delle scelte individuali (e dei sistemi motivazionali che li sottendono). Come si è già sottolineato, la teoria neoclassica è ancora senza rivali nella capacità di analisi di fenomeni economici e sociali nei quali è possibile riscontrare modalità di interazione essenzialmente riconducibili allo scambio impersonale di mercato; non può quindi stupire il fatto che la maggior parte dello spazio sulle riviste di teoria economica di questi anni sia dedicato a significativi risultati di applicazione ad ambiti specifici di interesse. D'altra parte, la ricerca fondamentale sull'architettura concettuale profonda del paradigma è più o meno ferma da circa vent'anni, denunciando chiaramente la sua mancanza di progressività (v. Ackerman, 2002).
La seconda opzione è invece quella di assecondare le nuove istanze evolutive, nella consapevolezza che queste porteranno gradualmente all'emergere di un paradigma più consono alle reali esigenze descrittive ed esplicative dello scenario economico postindustriale, che significativamente riprendono e attualizzano alcuni temi portanti della riflessione compiuta dai 'padri' della moderna economia politica nelle prime fasi della rivoluzione industriale circa la sostenibilità 'sociale' e i fattori di criticità istituzionale dell'organizzazione di mercato (v. Pulcini, 2001). Nel tentativo di espandere indefinitamente il dominio di pertinenza del mercato, come si è tentati di fare portando la logica neoclassica alle sue estreme conseguenze, si rischia infatti di perderne di vista le precondizioni sociali, che non sono mediate né mediabili dal mercato e che anzi ne costituiscono il presupposto, finendo così per indebolirne le fondamenta comportamentali e istituzionali e l'efficienza allocativa. È opinione di chi scrive che il futuro della ricerca vada cercato soprattutto in questa seconda direzione. Nelle pagine che seguono ci proporremo quindi di fornire un breve resoconto ragionato di alcuni dei filoni più interessanti e rappresentativi di questa nuova stagione della ricerca teorica.
Il fatto che il premio Nobel per l'economia sia stato conferito nel 2001 a George Akerlof (assieme a Michael Spence e Joseph Stiglitz) e l'anno successivo a due studiosi dal profilo intellettuale eterodosso, come lo psicologo sociale Daniel Kahneman e l'economista sperimentale Vernon Smith, può essere considerato un evento di notevole valenza simbolica per le scienze sociali contemporanee. Sembra infatti del tutto naturale scorgere dietro questi riconoscimenti una piena legittimazione di quello spazio di ricerca transdisciplinare, situato sul crinale tra l'economia e le altre scienze sociali come la psicologia e la sociologia, che rappresenta con tutta probabilità il nucleo generatore di un nuovo, importante paradigma per la teoria economica. Un primo filone significativo, ormai rubricato sotto l'etichetta di 'economia comportamentale' (behavioral economics), esplora la frontiera tra economia e psicologia cognitiva e sociale. È opportuno chiarire subito - a scanso di equivoci terminologici - che l'economia comportamentale non solo non fa riferimento al comportamentismo nella sua comune accezione in psicologia, ma anzi presenta in un certo senso uno statuto metodologico anti-comportamentista: se infatti nell'approccio teorico neoclassico si assume che le preferenze individuali possano essere 'rivelate' dalle scelte degli agenti, l'economia comportamentale si affida a test di laboratorio, partendo dal presupposto che non sia possibile interpretare in modo univoco i comportamenti economici se non in presenza di speciali condizioni ambientali. Un secondo filone, che potremmo sinteticamente etichettare come 'socio-economia', sviluppa invece il dialogo tra economia e sociologia. Vi sono poi altri importanti filoni al confine tra economia e political science (v. Grossman, 2000 e 2002) o tra economia e antropologia (v. Henrich e altri, 2001), ma dei quali non possiamo purtroppo qui occuparci per limiti di spazio. Sullo sfondo di ciascuno di questi filoni si delinea una nuova 'microeconomia dei comportamenti sociali' che fa riferimento in misura crescente a una delle più significative e promettenti innovazioni teoriche degli ultimi anni, la cosiddetta 'teoria dei giochi evolutivi' (v. Weibull, 1995; v. Gintis, 2000), nella quale si combinano in modo estremamente complesso e sofisticato elementi di razionalità ottimizzante e processi di selezione sociale fortemente sensibili al contesto storico, sociale e culturale.
2. L'economia comportamentale (behavioral economics)
Il punto di partenza per il recente interesse degli economisti nei confronti dell'economia comportamentale può essere rintracciato nel lavoro fondamentale di John Geanakoplos, David Pearce ed Ennio Stacchetti (v., 1989), che inaugurando il filone dei cosiddetti 'giochi psicologici' consente alla psicologia di entrare direttamente nel cuore della modellizzazione economica contemporanea, imponendosi con forza all'attenzione degli studiosi della teoria dei giochi non cooperativi. La teoria dei giochi ha sempre mantenuto uno statuto 'ibrido' nei confronti dell'economia neoclassica. Da una parte, attraverso la nozione di 'equilibrio di Nash', essa ha di fatto fornito agli economisti un chiaro equivalente delle condizioni di ottimizzazione - precedentemente sviluppate per i problemi decisionali non strategici - nel contesto dell'interazione strategica, tanto che nei modelli di equilibrio economico generale (che rappresentano l'espressione più compiuta e articolata dello schema concettuale neoclassico), nei quali sono presenti elementi almeno embrionali di interazione strategica, si parla ormai di 'equilibri Walras-Nash', accomunando il nome di John Nash (premio Nobel per l'economia nel 1994, ma i cui contributi fondamentali risalgono ai primi anni cinquanta) a quello di Léon Walras, l'ottocentesco padre della teoria dell'equilibrio economico generale. Dall'altra, la teoria dei giochi è stata, soprattutto negli ultimi venti anni, uno dei principali terreni di coltura di approcci teorici eterodossi e allo stesso tempo caratterizzati da un elevato livello di formalismo. Il già citato studio di Geanakoplos, Pearce e Stacchetti rappresenta un chiaro esempio in questo senso: esso dimostra in modo rigoroso come l'introduzione di un nesso diretto - e non puramente strumentale - tra fattori di carattere psicologico e dimensione individuale del benessere (formalmente rappresentata dai 'pagamenti' del gioco) renda indispensabile l'adozione di una prospettiva analitica differente rispetto a quella tradizionale nello studio dell'interazione strategica tra agenti economici. L'articolazione di tale programma di ricerca resta comunque ancora largamente compatibile con l'apparato concettuale neoclassico.
Un'ulteriore, e per molti aspetti decisiva, accelerazione al processo di (palin)genesi e sviluppo dell'economia comportamentale è stata impressa dal contributo di Matthew Rabin (v., 1993), che - innestando la propria analisi formale nel solco tracciato dall'articolo di Geanakoplos, Pearce e Stacchetti - ha introdotto la nozione di fairness equilibrium. A differenza di altri importanti e pionieristici contributi elaborati in precedenza su tematiche affini (v., in particolare, Akerlof e Dickens, 1982), il lavoro di Rabin ha prodotto un forte impatto sulla comunità accademica: il suo merito principale consiste nell'aver presentato risultati formali innovativi e nel contempo dotati di elevata generalità, che hanno stimolato la rapida produzione di una mole notevole di ricerche teoriche e sperimentali a vario titolo incentrate sulla rilevanza delle preferenze socialmente condizionate nell'interazione economica (v., ad esempio, Berg e altri, 1995; v. McCabe e altri, 1998). L'importanza dello studio di Rabin non consiste tanto nell'aver sottolineato la centralità dei problemi di fairness per la teoria e la politica economica - in fondo, non si può certo negare che tali istanze abbiano da sempre permeato il vivace dibattito sulle finalità del welfare State e sulla ineliminabilità dei giudizi di valore dal discorso economico. L'effettiva originalità del suo lavoro risiede piuttosto in una 'rivoluzione copernicana' che pone al centro dell'analisi sulla fairness gli agenti economici stessi, con la loro 'naturale' tendenza a costituire l'uno il 'metro di valutazione' del comportamento (e delle intenzioni) dell'altro. Tale radicale spostamento di prospettiva non è ovviamente privo di implicazioni rilevanti (benché a tutt'oggi largamente inesplorate), anche e soprattutto in chiave normativa, sul piano della policy e dell'economia del benessere.
Se la prima fase del processo di sviluppo dell'economia comportamentale è stata segnata da ricerche aventi carattere prettamente teorico (pur in una costante interazione con le analisi sperimentali), la ricerca più recente si contraddistingue per il proliferare di una 'seconda generazione' di studi sperimentali tesi a mostrare la rilevanza delle nuove assunzioni comportamentali in un'ampia gamma di contesti socio-economici significativi. Un impulso decisivo in tale direzione è stato fornito dall'importante serie di esperimenti condotti da Ernst Fehr assieme ad altri studiosi (v. Fehr e altri, 1993 e 1997; v. Fehr e Schmidt, 1999; v. Fehr e Gächter, 2002), che hanno dimostrato la rilevanza empirica di un fenomeno a lungo considerato poco più di una curiosità intellettuale o, nel migliore dei casi, un residuo in via di estinzione di una cultura premoderna: la reciprocità. Si tratta di un ambito comportamentale molto complesso e articolato, che trova in effetti ampia espressione nel sistema normativo di società e culture premoderne (v. Sahlins, 1972), ma che non per questo perde la sua attualità nelle moderne società di mercato. Gli economisti hanno sempre dato poco peso alla reciprocità, in quanto essa richiede una disponibilità individuale a intraprendere azioni costose e prive di benefici per chi le mette in atto in nome di un determinato criterio 'astratto' di equità: un comportamento che sembra apertamente in contrasto con la logica ottimizzante dell'homo œconomicus.
Dalle ricerche di Fehr e dei suoi collaboratori emerge con chiarezza la tendenza di una frazione consistente di soggetti sperimentali tanto a 'premiare' comportamenti altrui di segno positivo (reciprocità positiva), quanto a 'punire' comportamenti percepiti invece come 'ingiusti' (reciprocità negativa). È importante sottolineare come per questi soggetti l'attuazione della norma di reciprocità sia generalmente preponderante rispetto ai calcoli di convenienza individuale; in altre parole, lo schema di reciprocità viene attivato anche in presenza di costi o di mancati benefici materiali quantitativamente rilevanti. E significativa appare la profonda convergenza, rispetto alla nozione di fairness come reciprocità, esistente tra i risultati sperimentali ottenuti da Fehr e la nozione teorica di fairness equilibrium sviluppata da Rabin. Il richiamo alla reciprocità appare in grado di fornire spiegazioni plausibili a una vasta e crescente evidenza empirica e sperimentale secondo cui, all'interno di numerosi contesti di interazione, si assiste alla creazione di reti cooperative stabili anche là dove la teoria economica tradizionale prevederebbe il diffondersi su larga scala di comportamenti improntati all'opportunismo. In particolare, la nozione di reciprocità sembra dotata di elevato potere esplicativo in ordine a fenomeni di cooperazione a tutta prima 'irrazionali', come quelli che si verificano in assenza di relazioni di conoscenza o parentela tra gli agenti, o quando le dimensioni complessive del gruppo sono talmente ampie da rendere l'interazione sostanzialmente non ripetuta (e dunque anonima) e i potenziali guadagni 'reputazionali' derivanti dall'adozione di scelte cooperative praticamente nulli (v. Fehr e Gächter, 2002).
In tali contesti, sarebbe proprio la disponibilità di una frazione non trascurabile di agenti a ricompensare i comportamenti pro-sociali e a sanzionare le tendenze anti-sociali a configurarsi come un meccanismo di self-enforcement potenzialmente in grado di generare esiti cooperativi pur in presenza di condizioni ambientali non favorevoli. La reciprocità si rivela dunque come un meccanismo di governance estremamente potente ed efficace in una pluralità di contesti. Un esempio significativo è costituito dal problema dell'enforcement dei contratti tra privati: a questo riguardo, sappiamo dalla tradizionale teoria dei contratti che fenomeni di asimmetria informativa, nonché l'assenza di autorità 'terze' in grado di assicurare un enforcement esogeno dei contratti stessi, renderebbero necessario il rispetto di requisiti particolarmente stringenti in termini di incentive compatibility. In questo caso, l'economia correrebbe il rischio di allontanarsi dalle allocazioni socialmente ottimali, se non addirittura di non raggiungere i punti di ottimo paretiano vincolato (v. Hart e Holmström, 1987; v. Milgrom e Roberts, 1992). Fehr e altri (v., 1997) mostrano come in tali contesti di interazione, la cui struttura riproduce quella del classico dilemma del prigioniero, la presenza di un orientamento alla reciprocità sufficientemente forte e diffuso può portare al raggiungimento della soluzione Pareto-efficiente. Più specificamente, l'evidenza sperimentale mostra come sia possibile realizzare notevoli miglioramenti in senso paretiano sempre ipotizzando meccanismi di self-enforcement guidati dalla reciprocità anche nell'importante contesto delle relazioni (di tipo principale/agente) tra datore di lavoro e lavoratore.
Le ricerche sulla reciprocità hanno mostrato come la complessità motivazionale degli agenti economici possa modificare profondamente la valutazione dei comportamenti economici rispetto al caso nel quale si attribuisce rilevanza soltanto alle conseguenze che si producono a favore o a carico del soggetto che sceglie (ipotesi del self-interest). Ulteriori indicazioni in questo senso provengono dalla ricerca sui cosiddetti fenomeni di 'spiazzamento motivazionale' (motivation crowding-out; v. Frey e Jegen, 2001; v. Seabright, 2002). Con tale espressione si intende fare riferimento a quel meccanismo in forza del quale, in determinati contesti economici, schemi di (presunta) incentivazione imperniati sulla promessa di benefici monetari (extrinsic motivation) finiscono per produrre in realtà uno spiazzamento nella propensione a contribuire del soggetto (fondata invece su una motivazione 'intrinseca', di natura psicologica o etica), determinando in ultima analisi un effetto opposto a quello desiderato. Anche questo fenomeno, come quello della reciprocità, ha una lunga storia, come documenta il pionieristico studio di Richard Titmuss (v., 1970) sulle donazioni di sangue nel Regno Unito; come nel caso della reciprocità, però, soltanto negli ultimi anni, con il consolidarsi del nuovo filone di studi dell'economia comportamentale, quella che sembrava una curiosità empirica senza particolare importanza è divenuta la pietra angolare di una nuova e affascinante area di ricerca.
Se l'elemento comune agli studi sperimentali finora esaminati è identificabile in una focalizzazione sulle implicazioni economiche prodotte da specifici fattori motivazionali, un'altra area in forte espansione all'interno della letteratura comportamentale si concentra invece sulle limitazioni psicologiche e cognitive che caratterizzano i processi di scelta individuale. Si tratta di lavori che cercano di consolidare e approfondire assunzioni comportamentali maturate in seno alla ricerca psicologica nel corso degli ultimi decenni, nel tentativo di inserire tali ipotesi all'interno di opportuni modelli analitici.
L'ipotesi di 'avversione alle perdite' (v. Kahneman e altri, 1986) - una delle acquisizioni più rilevanti di questo filone di ricerca - può essere facilmente spiegata nei termini seguenti: gli individui tendono ad attribuire alle perdite conseguite un peso superiore a quello assegnato a guadagni di uguale entità. In altri termini, di fronte a una scommessa che offre la prospettiva di un guadagno pari a 11 con una probabilità pari a 0,5 e una perdita pari a 10 con probabilità 0,5, l'evidenza sperimentale mostra come la preferenza ricada quasi sempre sullo status quo, malgrado il valore atteso della scommessa sia strettamente positivo. In termini ancora più generali, gli esseri umani sembrano valutare le conseguenze delle alternative che hanno di fronte in relazione a determinati 'punti di riferimento': ad esempio, i soggetti sperimentali sembrano più interessati a eventuali cambiamenti nel proprio livello di ricchezza che non al livello assoluto della stessa, anche se esibiscono comunque una 'sensitività decrescente' (decreasing sensitivity), nel senso che l'importanza attribuita ai cambiamenti pare dipendere negativamente dall'entità dei cambiamenti stessi (siano questi guadagni o perdite). Uno dei campi nei quali questi risultati stanno producendo implicazioni di particolare interesse è la teoria della finanza (v. Odean, 1998; v. Froot e Dabora, 1999; v. Shleifer, 2000). Nella riflessione sviluppata con riferimento a queste tre caratteristiche comportamentali (avversione alle perdite, dipendenza da punti di riferimento e sensitività decrescente) possiamo individuare il contributo più significativo della prospect theory (v. Kahneman e Tversky, 1979) allo sviluppo dell'economia comportamentale.
Ulteriori fenomeni di grande interesse, sui quali la ricerca è attualmente molto attiva ma che in questa sede dobbiamo limitarci a elencare, sono rappresentati dall''effetto dotazione' (endowment effect; v. Thaler, 1985), dalla propensione per lo stato attuale (status quo bias; v. Knetsch, 1989), dall'effetto dei costi irrecuperabili (sunk cost fallacy; v. Dawes, 19984) e dalla ricerca di una valorizzazione identitaria (positive self-image o self-esteem; v. Tirole, 2002). L'agente economico sembra inoltre essere affetto da non trascurabili problemi di autocontrollo (v. Tirole, 2002) che possono produrre conseguenze economiche individuali e aggregate particolarmente rilevanti: pensiamo, ad esempio, ad alcuni fenomeni che sono stati recentemente oggetto di attenzione, quali il 'sovraconsumo' (v. Banks e altri, 1998) e la tendenza alla 'procrastinazione' (v. Ainslie, 1992; v. Rabin, 2002). Quando dallo studio di questi effetti emergeranno risultati più chiari, sarà importante riuscire a elaborare un'analisi delle modalità di rapporto esistenti tra tali meccanismi comportamentali: sembra, ad esempio, che gli stessi giudizi che gli agenti economici formulano in merito all'equità di una determinata allocazione siano profondamente influenzati dallo status quo e da altri punti di riferimento. Daniel Kahneman e altri (v., 1986) hanno dimostrato in particolare che la valutazione dei consumatori sull'equità dei prezzi praticati da una determinata impresa dotata di potere di monopolio dipende in larga misura dal livello dei prezzi praticati in passato dalla stessa impresa.
3. La socio-economia
Come ampiamente mostrato dalla letteratura sociologica e psicologica, l'identità si forma primariamente attraverso meccanismi di interazione sociale. Un'area in grande crescita nella ricerca economica contemporanea (che possiamo sinteticamente indicare come socio-economia) è quella che si propone di collocare i comportamenti economici all'interno di una descrizione ricca e articolata delle varie dimensioni della relazionalità interpersonale. Per semplicità, possiamo distinguere due meccanismi elementari di determinazione della propria identità, che peraltro non si escludono affatto a vicenda: quello per differenza, per cui si cerca di distinguersi dagli altri, e quello per somiglianza, per cui si cerca invece di avvicinarsi a essi. Il primo meccanismo ha attirato maggiormente l'attenzione degli economisti, almeno a partire dall'analisi di Fred Hirsch (v., 1976) della competizione posizionale, ossia del desiderio di arrivare 'più in alto' degli altri all'interno della scala dello status sociale. Harold Cole, George Mailath e Andrew Postlewaite (v., 1992), ad esempio, si soffermano sull'importanza dello status come strumento che stabilisce un ordinamento tra le persone e determina il loro successo relativo nell'allocazione dei beni non di mercato. Il fatto che il reddito o il consumo possano avere il ruolo di segnalare lo status sociale è stato studiato a fondo da Giacomo Corneo e Olivier Jeanne (v., 1997, 1998 e i contributi del 1999).
Un altro esempio di attenzione per tali fenomeni viene dall'economia del lavoro, la quale mostra come tanto la decisione se lavorare o meno quanto la soddisfazione per il proprio lavoro dipendano molto di più dal reddito relativo che non dal reddito assoluto; ciò vale sia che si definisca il reddito relativo per confronto con il reddito di un gruppo di riferimento, sia che lo si rapporti alle aspirazioni personali (v. Clark e Oswald, 1996; v. Clark, 1997; v. Neumark e Postlewaite, 1998). Crescente interesse ha destato negli ultimi anni anche il secondo meccanismo, ossia la ricerca di identificazione tramite vicinanza con gli altri, nonché il bisogno di relazioni sociali dirette. Un contributo significativo in questa direzione viene da Carole Uhlaner (v., 1989), che definisce 'bene relazionale' ciò che soddisfa tale bisogno. Esempi di beni relazionali sono l'approvazione sociale, la solidarietà, l'amicizia, il senso di appartenenza a un determinato gruppo, nonché l'identificazione con le sue norme. L'argomentazione di Uhlaner parte dalla constatazione che i modelli tradizionali di 'scelta razionale' non riescono a spiegare fenomeni come la partecipazione alle elezioni nonostante la consapevolezza che l'influenza del proprio voto sui risultati finali è pressoché nulla, per cui la disponibilità degli individui a sostenere dei costi per andare a votare non risulta compatibile con un comportamento ottimizzante. Le cose cambiano se si prende in considerazione il fatto che una dimensione rilevante del voto consiste nel definire l'identità individuale attraverso la relazione con la comunità di appartenenza. In altre parole, gli individui determinano la propria identità attraverso la partecipazione a un evento sociale. In tal caso, sostenere dei costi per andare a votare non appare più 'irrazionale', in quanto il voto fornisce socialmente un bene che non può essere acquisito privatamente. Alcuni autori (v. Corneo e Jeanne, Social organization ..., 1999) preferiscono parlare di 'bene privato fornito socialmente', piuttosto che di 'bene relazionale', ma non pare di poter ravvisare differenze sostanziali tra le due espressioni, cosicché le useremo entrambe come sinonimi. Altri autori (v. Gui, 2000) analizzano più in dettaglio gli aspetti comunicativo-affettivi dei beni relazionali.
Strettamente collegata alla nozione di beni relazionali è quella di capitale sociale. L'espressione 'capitale sociale' è stata resa popolare dai contributi di James Coleman (v., 1988 e 1990) e di Robert Putnam (v., 1993 e 1995) e ha incontrato rapidamente il favore di molti studiosi: la Banca Mondiale, ad esempio, dispone di un'intera biblioteca elettronica di studi sull'argomento. In uno di questi, Deepa Narayan definisce il capitale sociale al livello più generale come quell'insieme di "norme e relazioni sociali, incorporate nelle strutture di una determinata società, che consentono il coordinamento delle azioni individuali per raggiungere gli obiettivi desiderati" (v. Narayan, 1999, p. 6). Il tratto che distingue il capitale sociale dalle altre forme di capitale, segnatamente da quello fisico e da quello umano, consiste nel fatto di essere incorporato nella struttura delle relazioni sociali, anziché in beni fisici o in singoli individui. L'uso del termine 'capitale' appare legittimo quando si consideri la sua natura di risorsa accumulabile e il fatto che la sua accumulazione richiede un 'investimento' relazionale, misurabile in termini di rinuncia allo sfruttamento di opportunità private.
Detto ciò, la complessità delle strutture sociali ha indotto diversi autori ad attribuire significati differenti al medesimo termine, cosicché oggi si designa come 'capitale sociale' un intero filone di ricerca più che un concetto univoco. Tuttavia, le varie definizioni di capitale sociale si possono raccogliere attorno a due nuclei fondamentali: alcune lo identificano con il livello di fiducia e di effettività delle norme civiche all'interno di una società, altre si concentrano piuttosto sul livello di partecipazione in organizzazioni orizzontali volontarie. Entrambi gli aspetti hanno una radice comune, in quanto sono il prodotto di un'attività di partecipazione sociale e quindi possono essere considerati come un 'effetto collaterale' della produzione di beni relazionali: ad esempio, la fiducia interpersonale si produce inizialmente all'interno dei gruppi primari, ma si generalizza attraverso la partecipazione a gruppi d'interazione allargata, a patto che non vi predomini la tendenza allo sfruttamento delle possibilità di profitto privato a scapito di altri.
Stephen Knack e Philip Keefer (v., 1997) hanno verificato l'impatto del capitale sociale sulla crescita economica, a partire da entrambe le definizioni cui abbiamo accennato, in 29 economie di mercato e hanno trovato una correlazione positiva significativa tra livello di fiducia e tasso di crescita, mentre le attività associative non paiono giocare un ruolo di rilievo per la crescita. Ciò contrasta con la visione di Putnam, il quale spiega la differenza fra lo sviluppo dell'Italia settentrionale e meridionale proprio attraverso la diversa presenza di associazioni orizzontali nelle due zone. Una possibile spiegazione di tale contrasto viene dalle due considerazioni seguenti: da un lato, l'indice utilizzato, che calcola il numero medio di gruppi associativi a cui un individuo appartiene, potrebbe non essere una misura empirica adeguata del livello di partecipazione sociale, poiché trascura l'intensità della partecipazione; dall'altro, le associazioni formali, mentre includono i propri membri, possono anche avere una funzione di esclusione degli esterni, cosicché una fervida vita associativa non solo non è incompatibile con forti divisioni sociali, per esempio di natura etnico-linguistica, ma può addirittura rafforzarle. Ciò significa che per una società eterogenea non basta considerare la partecipazione a gruppi associativi formali, ma bisogna analizzare più in dettaglio il loro processo di formazione, per vedere se essi stabliscano legami all'interno di segmenti predefiniti della popolazione o se invece pongano in collegamento membri appartenenti a gruppi diversi.
Come ha notato Narayan (v., 1999), tale aspetto è cruciale per determinare i livelli di integrazione sociale e di identificazione come membri di una medesima comunità, da cui dipendono l'adesione alle sue norme civiche, nonché l'interiorizzazione dell'altro generalizzato che genera fiducia interpersonale e affidabilità individuale. Questi fattori hanno un grande impatto economico, poiché determinano le possibilità di cooperazione fra membri di gruppi diversi e i costi a essa associati. Una ulteriore prova empirica di ciò viene da Jonathan Temple e Paul Johnson (v., 1998), che hanno mostrato come un indice di 'capacità sociale' costruito all'inizio degli anni sessanta per 74 paesi in via di sviluppo sia stato un ottimo previsore della loro crescita nei 25 anni seguenti.
Naturalmente, esistono altre dimensioni della fiducia oltre a quella interpersonale. Vi è ad esempio anche un aspetto legato al buon funzionamento delle istituzioni statali: si pensi al ruolo giocato da un buon sistema di amministrazione della giustizia, nonché alla percezione del sistema fiscale come equo e adeguato rispetto alle prestazioni sociali, nel determinare la propensione a seguire le norme di cooperazione civica e nello stabilire condizioni di possibilità per lo sviluppo di una fiducia interpersonale generalizzata. Questo è sicuramente un aspetto più direttamente controllabile dalle autorità pubbliche. Paul Collier (v., 2002) distingue tra il capitale sociale prodotto al livello della famiglia, dello Stato e della società civile. La maggior parte della letteratura recente sul capitale sociale si è concentrata su quest'ultimo aspetto, non perché gli altri siano di minore importanza, ma perché questo è quello che fino a oggi è stato studiato meno. Lo stesso Collier (ibid.), fra l'altro, sottolinea come nella società civile le interazioni che generano capitale sociale siano determinate tipicamente da scopi autonomi, cosicché esso si configura come un effetto collaterale di tali scopi, ovverosia come un'esternalità che si accumula nel tempo in conseguenza di una logica non strumentale di partecipazione sociale. Tale osservazione riprende le considerazioni di Coleman (v., 1990) sul fatto che del capitale sociale, nella maggior parte delle sue forme, non ci si può appropriare privatamente, cosicché ai suoi effetti positivi non corrispondono adeguati incentivi individuali all'accumulazione. Siccome poi non vi è pianificatore, per quanto benevolo, che possa sostituirne la produzione, ossia che possa forzare gli individui ad atti volontari di partecipazione, il problema di un sotto-investimento si impone, dal punto di vista teorico, con estrema forza. Un ulteriore aspetto interessante è che la relazione fra funzionamento dei servizi statali e capitale sociale accumulato dalla società civile non è univocamente di complementarità o di sostituzione: Narayan (v., 1999) spiega teoricamente, e documenta empiricamente, che quando uno di questi due aspetti è carente, l'altro funge da sostituto, mentre vi sono indiscutibili complementarità quando entrambi sono soddisfacenti (v. anche Bowles e Gintis, 2003). Di converso, ma per ragioni simili, istituzioni mal funzionanti possono indurre le persone a fare affidamento più sui gruppi primari che su meccanismi pubblici, statuali o di mercato, per ottenere ciò che desiderano.
In sintesi, il capitale sociale, inteso come patrimonio accumulato di relazioni e strutture associative, di fiducia e di osservanza delle norme civiche, ha certamente un impatto positivo sulla crescita economica, per quanto sia corretto distinguere fra diverse sue forme e fra diversi processi di accumulazione, alcuni dei quali possono anche avere effetti negativi. In particolare, è opportuno distinguere fra società omogenee ed eterogenee, poiché in queste ultime è possibile che allo sviluppo di un consistente capitale sociale all'interno dei singoli gruppi non corrisponda un'integrazione fra gruppi diversi, bensì un'accentuazione delle fratture sociali, la quale rende difficile la cooperazione fra membri di gruppi distinti e dunque limita le possibilità di sviluppo economico.
In definitiva, mentre l'orientamento relazionale corrisponde al desiderio di aumentare il proprio grado di prossimità nei confronti di altri individui attraverso forme di interazione come l'amicizia, la simpatia, la condivisione di fini, di norme, di appartenenza a gruppi o al limite la convivenza e il matrimonio, l'orientamento posizionale, tutto centrato sull'acquisizione di uno status differenziale, corrisponde al desiderio di 'stare al di sopra' degli altri. I due orientamenti non sono però banalmente contrapponibili: il perseguimento posizionale di un certo status sociale può essere finalizzato alla creazione di relazioni con altri individui dello stesso status, mentre al contrario la creazione di determinate relazioni interpersonali può essere funzionale alla conquista di uno status superiore. Di volta in volta, i due orientamenti si configurano come sostitutivi o complementari, senza che sia possibile al momento pervenire a una precisa caratterizzazione dei loro rapporti nei vari contesti di interesse. Si tratta di problematiche molto sottili e ancora troppo poco studiate per poter arrivare a concettualizzazioni chiare e ampiamente condivisibili, ma è comunque già abbastanza evidente che il filone di ricerca aperto dalla socio-economia solleva questioni molto diverse da quelle che caratterizzano la teoria economica di orientamento più tipicamente neoclassico. Il futuro ci dirà se questo e gli altri approcci qui presentati e discussi o anche soltanto accennati saranno capaci di dare vita a un nuovo e fecondo paradigma di teoria economica.
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