dimensione, economie di
Vantaggi produttivi connessi con l’aumento dei livelli di attivazione del processo produttivo. Sono misurati in termini di riduzione dei costi unitari di lungo periodo, generati dall’incremento della d. dell’unità di produzione considerata, che può essere il singolo impianto o estensivamente l’intera impresa. Tali vantaggi possono derivare sia dalla specializzazione della produzione (➔ scala, economie di) sia dalla complementarietà legata alla eventuale offerta contestuale di prodotti fra loro parzialmente differenziati (➔ scopo, economie di).
L’analisi delle economie di d., per quanto vagamente richiamata in precedenti studi, trovò la sua prima trattazione esplicita in The wealth of nations (1776). In A. Smith le economie di scala sono del tutto legate a quelle di apprendimento, che i lavoratori e l’intera organizzazione sviluppano, ampliando la quantità prodotta. Suddividendo il ciclo produttivo in fasi e applicando le competenze dei dipendenti e dell’imprenditore a quella specifica attività, si genera un processo di conoscenza che porta a contrarre i tempi di realizzazione della sequenza operativa, si stimola la creazione di strumenti adatti e di macchine idonee, si definiscono le modalità di razionalizzazione e innovazione in continuo del processo.
L’analisi della divisione del lavoro, con particolare riferimento ai rendimenti crescenti dell’industria, in contrasto con i rendimenti decrescenti presenti in agricoltura – base stessa della teoria della crescita ricardiana – diviene poi una costante degli studi economici fino a N.W. Senior, che fu il primo titolare della cattedra di economia politica a Oxford nel 1825. In Outline of the science of political economy (1836), Senior mise in evidenza il ruolo dei rendimenti crescenti di scala presenti nell’industria, ma ne spostò l’enfasi sulle macchine, quindi sul capitale, di fatto svuotando di significato le economie dinamiche connesse con l’apprendimento. J.S. Mill, in Principles of political economy (1848), pose esplicitamente l’enfasi sul rapporto tra rendimenti crescenti e scala di produzione, richiamandosi al lavoro di C. Babbage (On the economy of machines and manufactures, 1832), citato poi più volte dallo stesso K. Marx.
Il ruolo del carattere centrale di un elemento strutturale come la d. produttiva divenne poi ancor più evidente nei processi di sviluppo derivati dalla concentrazione industriale (➔ concentrazione), legata all’introduzione delle macchina a vapore come forza motrice di intere unità produttive, le cui componenti, interconnesse fra loro in impianti sempre più integrati, funzionavano in aree urbane ad alto grado di industrializzazione. Questi elementi vennero ripresi da A. Marshall in The economics of industry (1879), dove si rileva come, oltre a economie di scala di impianto, vi siano anche quelle di agglomerazione (➔). date dalla concentrazione di imprese interagenti nello stesso settore in un medesimo contesto territoriale (➔ anche distretto industriale). In Principles (1890), dopo aver analizzato le dinamiche della concorrenza, e aver analizzato le scelte di ottimizzazione della singola impresa, Marshall evidenziò come l’esistenza di economie interne ed esterne di scala porterebbe a una concentrazione, che sarebbe deleteria per la concorrenza. Arrivò poi necessariamente a far convergere questa analisi in un quadro di equilibri parziali di industria, stilizzando un processo che non ritenne né istantaneo né finale.
P. Sraffa sottolineò (Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta, «Annali di economia», 1925, 2; The laws of return under competitive conditions, «The Economic Journal», 1926, 36, 144) come l’ipotesi di esistenza di rendimenti crescenti di scala, rilevabile dalla evidenza empirica, si scontra con l’assunzione di concorrenza perfetta indotta dall’analisi marginalista. Gli studi delle economie di d. vennero ripresi negli anni 1940 e 1950 proprio per verificare come le economie di scala possano svolgere funzioni di deterrenza strategica nei confronti di potenziali concorrenti. J.S Bain e P. Sylos Labini nel 1956 stilizzarono questi primi modelli di concorrenza in presenza di economie di scala; essi furono rielaborati nel tempo, fino alla definizione dei mercati contendibili (➔ contendibilità) di W.J. Baumol, J.C. Panzar e R. Willig (Contestable markets and the theory of industry structure, 1982).
Più di recente si è posta l’attenzione sulle economie di scopo, come elemento fondamentale per la flessibilità produttiva e per la possibilità di differenziare e innovare i prodotti e, nel contempo è riemersa l’importanza delle economie di apprendimento, come fattore essenziale per lo sviluppo.