Vedi EDESSA dell'anno: 1960 - 1994
EDESSA (῎Εδεσσα)
Città della Mesopotamia settentrionale, sul luogo della città turca di Urfa, che rinnova nel nome la città pre-ellenistica di Orra, sull'estremità settentrionale del crescente fertile.
Il luogo è a circa 500 m sul livello del mare; dallo stagno formato da 25 sorgenti (Kallirhoe) nasce il Daisan, lo Skirtos dei Greci, disastroso per le sue inondazioni (del 201, del 303, del 413, del 524-5). Poco a S di E. si entra nella regione delle steppe della Siria settentrionale. La città era dominata da un monte, su cui ebbe la sua cittadella. Tanto il monte quanto il fiume ebbero le loro divinità effigiate sulle monete. Dall'antico nome Orra (῎Ορρα, ῎Ορραι) derivò alla regione il nome di Osroene (v.).
Storia politica. - La storia di E. prima dell'ellenizzazione è praticamente sconosciuta. Varie ipotesi sono state formulate per spiegare il nome preellenistico (il rapporto più probabile sembra che sia con l'aramaico Ru'a). Nel 303 a. C. Seleuco I Nicatore vi stabilì una colonia, cui dette il nome macedone di E. (dal frigio βέγυ, acqua, o dallo slavo voda, acqua). E. fu detta anche Antiochia, ma quanto superficiale rimanesse la sua ellenizzazione è confermato anche dall'aggettivo μιξοβάρβαρος che talora l'accompagna (Malalas, 418 s.). La popolazione (᾿Εδεσσαῖοι, ᾿Εδεσσηνοί) era infatti costituita, secondo Plinio, di Arabes Orrhei (Nat. hist., v, 85; vi, 25), ricordati nelle iscrizioni in estranghelo come ῾RB, ῾Arbāyē per i Siriaci. Questi Arabes di E. erano fortemente aramaizzati. Con la caduta del regno dei Seleucidi nel II sec. a. C. e il profilarsi della potenza parthica, fu possibile, tra il 137 e il 132 a. C., il costituirsi di uno stato semitico autonomo, retto da un dinasta (forse iranico) che era chiamato Filarca o Toparca dei Saraceni.
Dal 109 al 159 d. C. E. fu governata da dinasti armeni. Regnante Abgar VII ben Izak (104-116), E. fu sottomessa da Traiano, ma dal 116 era di nuovo libera, benché legata alla politica romana. Tuttavia, sotto nuova influenza parthica furono coniati a E. poco dopo medaglioni del re partho Vologeso. Questi e le monete del re Wa῾ēl (163-65) hanno iscrizioni siriache, e così le coniazioni edessane di Ma῾nu VIII (167-79), in contrasto con quelle di Carre (Harrān), città dell'Osroene, con l'iscrizione Βασιλεὺς Μάννος Φιλορώμαιος; con Abgar VIII vi compariranno anche i ritratti di Settimio Severo e di Caracalla. Il II-III sec. segnò il fiorire culturale di E.; nel grande fermento di idee di questo periodo sarebbe avvenuta la conversione al cristianesimo del suo re Abgar VIII. Nel 216 Roma reagì alle correnti di opposizioni edessane sopprimendo il re Ma῾nu IX; lo Pseudo Dionigi mantiene un regno nominale di Ma῾nu IX fino al 242, e cioè al ristabilimento, sotto Gordiano III, della dinastia con Abgar X Fraate, con la cui uccisione l'autonomia di E. finisce per sempre.
Sotto Caracalla, dal 216, E. fu colonia romana, sotto Alessandro Severo, dal 232 al 242, anche metropolis. Sotto Decio (248-52) a E. cessa la coniazione di monete. Nel 259 Valeriano fu fatto prigioniero di Sapore I nella battaglia presso E. e la città fu tenuta per breve tempo dai Persiani; più tardi essa fu sottomessa ai Palmireni, per tornare ai Romani nel 272. Dopo che a S di E. Galerio era stato sconfitto nel 297, Diocleziano costruì una linea di castelli, più a oriente, a Chaboras, da cui conseguì nuova sicurezza per Edessa. Nel IV sec. le difese dell'Impero erano sempre più a Oriente. Ma dopo la perdita di Nisibi in Mesopotamia, con la pace del 363, E. divenne praticamente fortezza di frontiera.
Nel V sec. il potere del vescovo si accrebbe sempre più; era lui che costruiva strade, ponti, torri di guardia. Gravissime furono le pestilenze e la carestia del 494-96, che colpirono in E. uno dei principali centri di vettovagliamento delle truppe romane. Nel 503 il re persiano Kavad devastava i sobborghi di E. e distruggeva le terme e gli acquedotti (in seguito ricostruiti). Dopo una grave inondazione del 524-25, Giustiniano eseguì grandi restauri e aprì attraverso la montagna una galleria alle acque del fiume. Nel 607 i Persiani conquistarono E. e trasferirono gli abitanti nella Mesopotamia orientale, dove gli Edessani trapiantarono la loro chiesa giacobita. Dopo la breve riconquista bizantina nel 628 (Eraclio) la città cadde definitivamente nelle mani dei Musulmani.
Storia religiosa. - Dal punto di vista religioso E. ha un'importanza particolare poiché il suo re sarebbe stato il primo sovrano che si convertì al cristianesimo. Delle divinità locali anteriori alla adozione del cristianesimo conosciamo i nomi quasi soltanto attraverso fonti cristiane siriache. Inoltre una eccezionale documentazione degli antichi culti di E. fu per gli antiquari arabi sino al 1035 il persistere a Ḥarrān nell'Osroene (sede di un antichissimo culto lunare), dei culti pagani lunari presso i "Sabei". Si distingue una divinità che ha come attributo i pesci, legata alle sacre fonti di Kallirhoe (sul simbolo v. Dölger, Ichthys, 1939, pp. 66-69); il luogo è tuttora venerato come lo stagno di Abramo (Birket Ibrahim) e luogo del sacrificio di Isacco.
Al centro della città sorgeva un altare su cui si deponevano le offerte per Ba῾al e Nebo (Nabū), divinità astrali, o ai genî locali. Fuori dalla porta di Beit Shemish era la cosiddetta Casa del dio del Sole (Shemish), da identificarsi con Bel-Zabul (βιϑελακικλᾶ). Insicure sono le testimonianze a E. del dio iranico del sole, Mitra. Fino alla loro distruzione ordinata dal vescovo Rabbula sorgevano quattro templi pagani non si sa a chi dedicati. Così si sa anche di un tempio eretto da Seleuco I e convertito in chiesa dal missionario Addai e il silenzio delle fonti, sempre più tarde, sui nomi delle divinità cui erano dedicati questi templi ha fatto pensare a divinità greche e a divinità locali fortemente ellenizzate. Altri templi di divinità ignote sono indicati sulle monete.
I culti pagani perdurarono ad E. ben dentro il IV sec. d. C., e se ne ebbero reviviscenze sino all'islamizzazione. Tuttavia assai per tempo il giudaismo occupò nell'atmosfera religiosa di E. una parte principale. Questa vasta base ebraica favorì l'introduzione e l'accettazione del cristianesimo in E., che, secondo la leggenda, sarebbero dovute all'intervento personale dello stesso Gesù, di cui si conservava ad E. una lettera miracolosa.
Alla metà del II sec. i cristiani dovevano già essere organizzati in E., come testimonia l'epitaffio di Abercio e come apprendiamo dalla notizia (Eus., Hist. eccl., v, 23) di un sinodo dell'Osroene già nel 197. Non sembra del tutto sicura la tradizione secondo cui Abgar VIII (179-212 o 13) si sarebbe convertito al cristianesimo. Sotto il suo regno però, E. ricevette da Serapion di Antiochia il suo primo vescovo cattolico, Palut, e quindi E. cessò di far parte della corrente giudaico-cristiana per entrare tra le chiese greche. Durante il III sec. E. fu il centro di irradiazione del cristianesimo in Siria e in Persia; dal 220 il trasporto a E. delle reliquie dell'apostolo Tommaso dette alla sede episcopale il prestigio apostolico. Nel suo dialetto aramaico, cioè il siriaco letterario (da E. proviene il più antico manoscritto in estranghelo, del 411: Add. 12150 del British Museum), era stata scritta la versione del Vecchio Testamento detta Peshīṭtā' (v. bibbia). E. subì la persecuzione di Decio e di Diocleziano e quando nel 363 Gioviano cedette Nisibi ai Persiani, la scuola cristiana di Nisibi si trasferì ad E. (scuola di Edessa). Gravi controversie cristologiche portarono nel 485 alla soppressione della scuola da parte dell'imperatore Zenone. L'adesione al monofisitismo aveva provocato nel 457 il ritorno a Nisibi dei nestoriani; dal vescovato di Giacobbe Baradeo (541-78) si ebbero a E. due gerarchie, una monofisita e l'altra ortodossa.
Monumenti. - Le antichità di E. non sono state sinora oggetto di scavo sistematico. Molti monumenti citati dalle fonti non sono identificati e quanto ci è pervenuto è dovuto piuttosto a trovamenti fortuiti.
Il monumento più importante della città è il cosiddetto "Trono di Nemrud", una terrazza sul monte della cittadella su cui si innalzano, su basi alte circa 8 m, grandi colonne formate da 27 tamburi dal diametro di circa 2 m ciascuno sormontate da un capitello e da un dado sul quale alcuni suppongono fosse collocata una statua. Secondo altri le colonne non erano un monumento isolato ma parte di un tempio di Ba῾al. L'opera rimase probabilmente incompiuta, poiché i rocchi delle colonne conservano ancora le protuberanze che erano servite alla posa. Sul fusto di una delle colonne si legge ancora in parte un'iscrizione siriaca in cui sembra riconoscere le parole: colonna, statua e Shalmat, la regina figlia di Ma῾nu. Il nome è già noto nella onomastica di E. come quello della moglie di quell'Abgar che avrebbe per primo adottato il cristianesimo. Secondo il Segal vi può essere confusione nei nomi tra quello della moglie dell'Abgar della leggenda e quello della moglie di Abgar VIII (179-212 o 13) che nella realtà si sarebbe convertito al cristianesimo. La Shalmat della colonna potrebbe effettivamente essere stata la consorte di quest'ultimo; e cioè quella stessa che è raffigurata, insieme a suo padre Ma῾nu, a suo nonno Moqīmū e ad altri famigliari, in un mosaico del II-III sec. scoperto nei pressi della cittadella (tale indentificazione è accolta con riserva dal Leroy). Tra i mosaici di E. appaiono sempre i ritratti dei defunti, solitamente i soli busti, raramente, come nel caso del mosaico di Moqīmū, a figura intera, in abiti che ricordano quelli parthici degli affreschi di Paliuira e di Dura, dai quali le figure di E. non sono lontane neanche stilisticamente. Ancora nel VI sec. questi caratteri stilistici parthici si ritrovano in un mosaico di E. (J. Euting, in Florilegium de Vogüé, Parigi 1909, p. 231 ss.). Altri mosaici, ancora inediti, sono venuti alla luce nel corso di ricerche condotte da J. B. Segal nel 1956.
A circa 100 km da E., in località Sumatar Harabesi e a 40-50 km a N-E di Ḥarrān, entro l'attuale vilāyet (circoscrizione) di Urfa, si leva un gruppo di rovine che, secondo una ipotesi di J. B. Segal, sembra aver avuto grande importanza per i culti pagani di Edessa. Un rilievo naturale, alto circa una cinquantina di metri, domina il luogo, prossimo a sorgenti d'acqua, tuttora centro di riunioni dei pastori nomadi. A una distanza che varia da un quarto a metà di miglio sono distribuite, lungo un arco da O a N, le rovine di sette edifici, ciascuno con l'ingresso orientato verso il colle, che risulta essere un monte sacro.
Sei di questi edifici hanno un ambiente sotterraneo scavato nella roccia; il settimo ha un ambiente a livello del suolo. Tutti sono costruiti con blocchi squadrati di pietra; alcuni sono a forma cilindrica (circonferenza di m 34,50), altri quadrata (m 5,70 di lato), o rettangolare; di altri si distingue a stento la forma, ma il Segal suppone che avessero tutti forme diverse. Sulla sommità del monte centrale si vedono rovine probabilmente di un tempio; sul fianco N del colle sono scolpiti un busto e una figura entro nicchie con iscrizioni. Una statua è anche presso uno degli edifici già descritti. Nei pressi del santuario è scavata una grotta (iscrizioni in H. Pognon, Inscript. sémitiques, Parigi 1907, p. 23 ss.) in cui appare il simbolo lunare del pilastro sormontato dal crescente e da una stella a forma di croce. Sembra che le sette costruzioni fossero templi della divinità connessi con i varî pianeti, mentre, come rilevano le iscrizioni, sul monte si innalzavano l'altare e i simboli del culto. Dalle iscrizioni risulta la data 164-165 d. C. e vi è ricordato Wā῾el, figlio di Sahrū, il re filo-partho di E. che fu cacciato dalla città da L. Vero appunto nel 165. Non è improbabile che il centro di culto edessano sorgesse, in questo luogo di difficile accesso, in conseguenza delle difficoltà sorte con l'offensiva romana iniziatasi nell'estate del 164. La grotta rilevata dal Pognon doveva essere un tesoro collettivo, posto sotto la protezione della divinità lunare. Dalle pratiche dei "Sabei" di Ḥarrān, sappiamo che si soleva raccogliere i fondi per il tesoro comune tre volte l'anno, al tempo degli equinozî di autunno e di primavera e del solstizio invernale. Malgrado l'abbondanza di documenti sulla storia religiosa e sui monumenti cristiani di E., quasi inesistente è la testimonianza archeologica, perché quasi tutte le antiche chiese sono scomparse (status quaestionis e topografia cristiana della città in Kirsten). Ancora nel 1507 un anonimo veneziano, la cui relazione fu pubblicata dal Ramusio, ne contava "da dieci in dodici grandissime et fabbricate di marmi di tale sorte, ch'io con parole non saprei esprimere". Della chiesa di S. Sofia, ricostruita dal vescovo Amazonio sotto Giustiniano, dopo l'inondazione del 524-25, ci è pervenuta una descrizione poetica in un carme del VII sec. che ha notevole importanza, poiché oltreché illuminare l'archeologo sull'aspetto del tempio di E., è importante documento di interpretazione simbolica dell'edificio sacro. La chiesa, secondo l'interpretazione di A. Grabar, era a cupola e di pianta quadrata. La cupola, in pietra e priva di finestre, riposava su quattro grandi archi sostenuti da quattro pilastri massicci. Il raccordo con la cupola era ottenuto da trombe d'angolo i cui archi di testa scendevano fino al suolo. Salvo il lato su cui si apriva l'abside, l'edificio era perfettamente simmetrico. Il Grabar lo ha paragonato al S. Clemente di Ankara. Alcuni identificano la cupola nella torre ottagonale che sovrasta la grande moschea della città. Non sembra che i mosaici che ne decoravano l'interno fossero figurati. Di scarso interesse l'epigrafia cristiana della città e del vicino convento di S. Giacomo. Non lungi da E. Constantina (oggi Vīzān Sahir) ha conservato una necropoli e rovine di un monumento di età cristiana, tra cui una chiesa (o un mausoleo?) costituita da un grande recinto circolare che racchiudeva un ottagono ad esso concentrico definito da otto grandi pilastri. Secondo due assi tra loro perpendicolari si aprivano tre porte precedute ciascuna da un portico quadrato e sulla quarta estremità delle due assi si apriva un lungo coro absidato. Si ignora il tipo di copertura dell'ottagono centrale (tetto o cupola).
È discussa la datazione all'età di Giustiniano del castello attuale, sul monte, e di parte delle mura.
Bibl.: Lo studio più approfondito e aggiornato su E. è quello di E. Kirsten, Eine römische Grenzstadt des 4. Jh. n. Chr. im Orient, in Festschrift f. Fremersdorf, 1959; v. anche l'ottimo riassunto dello stesso Kirsten in Reallex. f. Antike u. Christentum, a cura di Th. Klauser, Disp. 28, c. 552 ss ss., s. v. Edessa. In questi due articoli tutta la bibliografia sull'argomento, cui aggiungi: J. Leroy, Mosaïques funéraires d'Edesse, in Syria, XXXIV, 1957, p. 306 ss.; J. B. Segal, Pagan Syriac Monuments in the Vilayet of Urfa, in Anatol. Stud., III, 1953, p. 57 ss. (sulle rovine di Sumatar Harabesi); J. B. Segal, New Mosaics from Edessa, in Archaeology, XII, 3, 1959, p. 150 ss.; id., in Bull. of the School of Or. a. Afr. Stud., 1959, pp. 23-40. Il mosaico di Moqīmū è stato pubblicato a colori da Seton Lloyd, Seeking the Teple of Sin, Moon-god of Harran, in Illustr. Lond. News, 21 febbr. 1953. Sull'immagine di Cristo di E. esiste una vasta letteratura, su cui v. soprattutto s. v. Cristo. aggiungi: S. Runciman, Some Remarks on the Image of E., in Cambridge Historical Journal, III, 1931, pp. 238-252; L. Bréhier, Icones non faites de main d'homme, in Revue Arch., 1932, pp. 68-77; A. Grabar, L'iconoclasme byzantin, Parigi 1957, passim. Cfr. anche la bibl. s. v. acheropita.