EDILIZIA
(XIII, p. 460; App. II, I, p. 816; IV, I, p. 626)
Settori di intervento - Edilizia residenziale. - Negli ultimi anni si è svolto un vasto dibattito sulla qualità e sulle dimensioni opportune degli interventi di e. residenziale, con orientamenti che, pur con notevoli differenze, valutano in generale conveniente un processo di ridimensionamento della scala d'intervento rispetto alle grandi operazioni portate a termine negli anni Settanta. Si può constatare a questo riguardo che nei paesi europei i piani a lungo termine privilegiano, con le dovute eccezioni, gli interventi edilizi di limitata estensione, mentre la costruzione di grandi complessi unitari di abitazioni, pure frequente, rappresenta spesso negli anni Ottanta l'esito di programmi impostati nel decennio precedente, o comunque la conseguenza di una filosofia dell'abitazione legata al produttivismo che ha contraddistinto gli anni Sessanta e Settanta, quando la pressione demografica imponeva all'attenzione di progettisti e amministratori problemi essenzialmente quantitativi.
A un'ottica utilitaristica, che tendeva a considerare prioritari i dati funzionali e la tecnologia produttiva, si va sostituendo, in modo evidente, l'idea che la casa debba tornare a svolgere anche il suo primitivo ruolo di strumento d'identità e protezione dell'abitante, ruolo che i grandi complessi abitativi derivati dalla ripetizione di ''cellule'' identiche tra loro, con poche varianti tipologiche nella composizione degli edifici, hanno dimostrato di svolgere in modo insufficiente. È possibile quindi affermare con buona approssimazione che l'idea di casa come ''macchina per abitare'', derivata dai presupposti del Movimento Moderno e volgarizzata nella produzione edilizia del dopoguerra, viene oggi ampiamente riconsiderata, mentre alle necessità dell'economia e della rapidità di produzione si vanno affiancando istanze di qualità strettamente abitative più vicine alle attese degli abitanti.
Alla stessa locuzione ''e. residenziale'', mutuata dalla cultura urbanistica anglosassone (dove i termini residential area, residential zone hanno il significato, acquisito con l'uso, d'insediamento autonomo, autosufficiente) viene oggi preferita quella di ''e. abitativa'', che sottolinea la caratteristica di dimora, di luogo in cui si abita, delle costruzioni: la radice etimologica del termine ''abitazione'' (habere, avere, possedere) indica infatti la stretta relazione dell'uomo col luogo costruito. È anche significativo al riguardo come sia rientrato nel linguaggio corrente dei progettisti un termine elementare, quasi desueto negli ultimi tre decenni, quale ''casa'', termine derivato direttamente dal latino dove stava a indicare non l'abitazione ordinaria (per la quale si usava il termine domus) ma la capanna, l'archetipo fondamentale dell'abitazione.
Un'altra locuzione che sta entrando nell'uso comune della letteratura architettonica è ''e. di base'', col significato di e. "atta alla residenza di una o più famiglie" (G. Caniggia), che sottolinea come, nella costruzione della città, il ''tessuto'' edilizio sia fondamentalmente determinato dal tipo delle abitazioni e dalla loro posizione rispetto agli assi viari, mentre le costruzioni destinate a uso diverso dalla residenza familiare rappresentano gli episodi eccezionali ottenuti dalla specializzazione dei tipi di base (e. specialistica).
In questo quadro di riferimento, nel quale è evidente il rapido consumo di alcuni lemmi linguistici parallelamente alla trasformazione del modo d'intendere l'abitazione, occorre distinguere, nel panorama tutt'altro che omogeneo della produzione edilizia, i fenomeni legati alle mode dai mutamenti strutturali. Una delle caratteristiche che si vanno consolidando attraverso gli interventi più significativi degli ultimi anni sembra essere il recupero del ruolo della tradizione edilizia e delle caratteristiche del luogo: per molte ragioni (non ultima le scarse qualità abitative di molti degli interventi realizzati con tecnologie industrializzate) all'istanza di un maggiore controllo sulle innovazioni si va affiancando il desiderio di stabilire un rapporto di continuità con le forme d'insediamento ereditate dal passato, desiderio che si è tradotto in alcune grandi città europee in norme edilizie tendenti a ricostruire gli allineamenti stradali e i profili della città tradizionale.
Va notato peraltro che, se i cambiamenti cui si è accennato risalgono agli anni Ottanta (e per molti versi sono ancora in atto), pure i primi sintomi evidenti di una mutata opinione sul ruolo della tradizione possono essere rintracciati già in alcuni antecedenti degli anni Cinquanta. Tra i molti esempi si può citare quello particolarmente significativo delle case Jaoul che lo stesso Le Corbusier, pioniere della modernità, costruì con tecnologie molto semplici; qui il calcestruzzo armato a faccia vista alludeva più all'immagine dell'opus concretum che al mondo di forme tecnologiche suggerite dalle case da lui costruite negli anni Venti e Trenta, basate sulla composizione astratta di volumi puri.
Nella ricerca edilizia che dal Movimento Moderno traeva origine, alcuni temi sono stati praticamente abbandonati: segnatamente quello della flessibilità integrale dell'abitazione (che negli anni Settanta era stato ampiamente indagato in sperimentazioni a volte molto avanzate, come quella olandese del SAR) e quello della partecipazione degli abitanti al processo edilizio. Anche alla prefabbricazione ''chiusa'', che prevede un numero limitato di componenti e non consente che la ripetizione di un numero limitato di modelli a somiglianza degli altri prodotti industriali, si preferiscono oggi criteri costruttivi che consentano, pur partendo dall'integrazione di prodotti industriali, una vasta gamma di esiti edilizi differenziati.
Ma è soprattutto dal punto di vista dei tipi abitativi utilizzati nei nuovi interventi che i cambiamenti in atto sono più vistosi. Mentre la drammaticità del problema degli alloggi aveva in pratica obbligato, dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta, a utilizzare in tutte le grandi città europee tipi edilizi plurifamiliari ad alta densità (soprattutto case in linea o a torre) che meglio si adattavano a una soluzione industriale del problema delle abitazioni, con la diminuita urgenza dei problemi quantitativi stanno incontrando crescente favore presso gli abitanti gli interventi a piccola scala con tipi edilizi unifamiliari aggregabili, anche in insediamenti pianificati su vaste aree.
Secondo un costume edilizio diffuso nei paesi nordeuropei, anche nella banlieu di Parigi, nei quartieri da risanare di Lisbona o nella periferia di Barcellona si prevedono con sempre maggiore frequenza insediamenti di case unifamiliari aggregate: il bisogno d'identità che la casa deve soddisfare viene ricercato attraverso l'uso di tipi che consentono un rapporto diretto tra edificio e abitante evitando, quando possibile, i grandi condomini in quartieri a elevata concentrazione edilizia che hanno fornito prove deludenti negli ultimi anni. Per le polemiche suscitate, emblematico il caso del quartiere di Corviale a Roma, costruito sul modello delle ''Unità di abitazione'' proposte dal Movimento Moderno: progettato a partire dal 1972 e terminato nel 1982 ad opera dell'Istituto Autonomo Case Popolari, questo intervento a grande scala ha provocato enormi problemi, oltre che per la mancata costruzione dei servizi previsti dai progettisti, soprattutto per le difficoltà di convivenza incontrate dai 6000 abitanti ospitati in un unico, grande edificio in linea. Va rilevata d'altra parte, per gli interventi di abitazioni unifamiliari aggregate, una tendenza imposta dal mercato edilizio, frequente soprattutto in Inghilterra e Francia, a costruire insediamenti ''vernacolari'', spesso con accentuati caratteri pittoreschi o addirittura folkloristici. Un tipo edilizio come la casa unifamiliare isolata, cui si è dato scarso rilievo nelle ricerche edilizie dei primi due decenni del dopoguerra, conosce oggi una notevole ripresa d'interesse ed è il tema di interessanti sperimentazioni negli USA e in Europa.
Un tipo di abitazione unifamiliare il cui uso si va diffondendo soprattutto nei paesi nordeuropei è la casa a corte, nella versione sia di villa isolata che di casa unifamiliare associata (a schiera, ad alloggi aggruppati, ecc.). Il vantaggio di questa forma di costruzione, rivolta verso uno spazio aperto centrale e quasi chiusa verso l'esterno, è di fornire, anche in aree a elevata densità edilizia, le condizioni di protezione e individualità che costituiscono le qualità della casa unifamiliare più apprezzate dagli abitanti. Uno schema distributivo molto usato per questo tipo edilizio è ancora quello a L, con un'ala occupata dal soggiorno, pranzo e cucina e l'altra dalle camere da letto servite da un corridoio, secondo una tradizione iniziata dagli architetti razionalisti europei negli anni Venti e continuata con esperimenti di e. economica nel dopoguerra (H. Häring, L. Hilberseimer, H. Mayer e, in Italia, I. Diotallevi, F. Marescotti, A. Libera). Anche nel campo delle abitazioni plurifamiliari, che rimangono di gran lunga quantitativamente le più importanti, si è assistito a una graduale riscoperta di tipi tradizionali, con il progressivo abbandono della costruzione staccata dai confini del lotto (abitazioni plurifamiliari isolate e in linea) e il rinnovato uso di costruire sul perimetro dell'area secondo le consuetudini edilizie delle città europee d'anteguerra. Questo criterio di costruzione permette di stabilire una gerarchia di spazi: da quelli pubblici esterni all'edificio (piazza, strada), a quelli semiprivati (corti e cortili), allo spazio privato dell'abitazione.
In Germania l'episodio più indicativo, e certamente il più divulgato, di questa tendenza è la mostra di architettura del 1984 coordinata dall'IBA (Internationale Bauausstellung Berlin) che ha dato inizio alla ricostruzione di molte aree centrali della città, ancora distrutte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, secondo i vecchi allineamenti stradali e con tipi edilizi tradizionali per lo più a blocco chiuso (con i corpi di fabbrica pressoché continui lungo il perimetro del lotto) o a blocco aperto (con i corpi di fabbrica discontinui e separati da ampi vuoti di accesso ai cortili interni). Alcuni di questi edifici sono costruiti secondo un piano generale di occupazione del lotto che coordina singole porzioni di edificio, la cui progettazione è stata affidata a diversi architetti in modo da ricostruire artificialmente la varietà del blocco antico. L'operazione, pur discussa per i modi affrettati con cui la sperimentazione è stata condotta, ha ottenuto lo scopo di proporre in sede teorica e verificare in sede di realizzazione edilizia metodi di costruzione della città alternativi allo zoning (la distinzione di aree monofunzionali all'interno della città) come criterio di costruzione della città contemporanea. Il piano generale per il rinnovo urbano di Berlino, studiato dall'architetto J.P. Kleihues già nel 1981, prevedeva infatti l'integrazione tra servizi e residenze e riconosceva alla strada non solo la funzione di sede di traffico ma anche quella di spazio sociale complesso.
In Francia si tende ad abbandonare, nella costruzione dei nuovi quartieri nelle aree periferiche delle città maggiori, gli interventi a grande scala che hanno caratterizzato la produzione edilizia fino alla metà degli anni Settanta, con l'uso di tipi abitativi a molti piani e cantieri per la produzione contemporanea di migliaia di alloggi che hanno imposto metodi industriali e una mentalità produttivistica rivelatasi spesso disastrosa sul piano della qualità abitativa dei nuovi insediamenti. Accanto a non frequenti realizzazioni di quartieri a case unifamiliari associate (spesso ad alloggi sovrapposti) si sperimentano piccoli quartieri di non oltre 200 alloggi costituiti da case plurifamiliari di altezza per lo più tra i quattro e i sei piani, con accorgimenti volti ad aumentare l'indipendenza dei singoli appartamenti, quali corpi scala di un solo alloggio per piano e l'uso frequente di duplex (appartamenti su due piani che, usati opportunamente, riducono la dipendenza degli alloggi dalle scale condominiali).
Nelle parti storiche e nelle periferie consolidate degli agglomerati urbani francesi si cerca di ricostruire l'immagine della città compatta, recuperando i tracciati stradali originari e utilizzando tipi edilizi derivati dalla tradizione locale, anche recente, riconsiderando quegli esempi di edifici prodotti dall'architettura moderna che sono entrati a far parte senza traumi del paesaggio urbano. Il problema dell'identità urbana è sentito in modo particolare a Parigi, dove il bilancio delle demolizioni e delle ricostruzioni operate negli anni Sessanta risulta disastroso, con interi quartieri − come Marne-Montparnasse, Italie, Front de Seine − che hanno perso il loro aspetto originario a causa di massicce demolizioni e di altrettante ricostruzioni che non hanno stabilito, programmaticamente, alcun legame di continuità con la città ereditata dal passato. A Parigi il POS (Plan d'Occupation des Soles) prevede fin dal 1974 il ritorno agli allineamenti stradali storici e la ricomposizione, dove possibile, dei volumi edilizi secondo l'uso consolidato nei diversi quartieri prima delle grandi trasformazioni del dopoguerra. L'effetto di questo cambiamento d'indirizzo nella politica edilizia della città comincia a essere evidente in alcune parti del tessuto edilizio parigino, come Montparnasse, dove più radicato era il rapporto tra abitante e quartiere, e dove i piani urbanistici che proponevano forti densità edilizie ed edifici a torre avevano trovato la maggiore opposizione da parte dell'opinione pubblica.
Anche in Inghilterra il tipo di abitazioni prefabbricate a torre, diffusosi rapidamente negli anni Sessanta per iniziativa sia pubblica che privata, si è mostrato, a distanza di tempo, poco adatto al modello di vita inglese, incontrando spesso l'aperta ostilità degli abitanti. Il crollo parziale di una grande torre di abitazioni prefabbricate a Ronan Point a Londra, nel 1968, ha dato inizio a una campagna di stampa (ripresa recentemente con successo da parte del principe Carlo d'Inghilterra) che ha interpretato il disagio degli abitanti per le costruzioni ad alta densità prodotte nel dopoguerra. La demolizione recente (1989) di grandi complessi edilizi come quello, costruito solo vent'anni prima, di Chelmsley Estate, e i progetti di demolire interi quartieri di abitazioni a torre, come quello del Bow a Londra, per ricostruirli con e. tradizionale, testimoniano di come anche in questo paese siano in atto notevoli cambiamenti nel campo delle costruzioni per abitazione, nonostante alcuni grandi interventi speculativi che utilizzano costruzioni alte, come per es. a ridosso della zona terziaria dei Docks londinesi.
In Italia, benché la situazione di emergenza provocata dall'espansione demografica nelle grandi città sia da tempo terminata, si continuano a realizzare grandi interventi di case in linea, anche a causa dei lunghissimi tempi che intercorrono tra piani edilizi, elaborati secondo la cultura urbana del tempo, e costruzione dei nuovi edifici. Che questa cultura sia profondamente modificata è dimostrato comunque non solo dalle nuove proposte di molti progettisti (si vedano per es. le recenti realizzazioni di G. Caniggia a Quinto di Genova o di F. Purini a Marianella, Napoli), ma anche dal cambiamento di tendenza del mercato edilizio che mostra difficoltà ad accettare i nuovi alloggi negli intensivi dell'e. agevolata.
Edilizia scolastica. - Una tendenza che ha avuto inizio negli anni Sessanta e che è ormai accettata in tutta Europa considera la scuola un edificio non dedito esclusivamente alla didattica ma da integrare per quanto possibile col mondo esterno. Anzi, una delle convinzioni più radicate della ricerca pedagogica recente vede nel rapporto stesso con la società esterna all'ambito scolastico uno dei più importanti fattori educativi. Dal punto di vista distributivo da tempo l'orientamento prevalente è quello d'integrare lo spazio delle aule nello spazio più generale dell'edificio, abbandonando schemi di origine ottocentesca nei quali la parte fondamentale della scuola è costituita da aule disposte in serie e distribuite da un corridoio. Tra i molti esempi si possono ricordare come particolarmente significativi la recente scuola elementare realizzata da H. Hertzberger ad Amsterdam, dove ogni aula partecipa dello spazio centrale, continuo su tre livelli, dei due corpi che costituiscono l'edificio, e l'esperimento di transizione della scuola media costruita da M. Botta nel 1977 a Morbio Inferiore (Svizzera), nella quale gli spazi per la didattica affacciano su una strada interna continua che scorre lungo l'edificio.
Anche l'e. scolastica italiana dell'ultima decade segue la tendenza generale europea ed è caratterizzata dall'applicazione delle norme innovative in materia emanate con D.M. 18 dicembre 1975 e 13 dicembre 1977, che consentono ampi margini per una sperimentazione progettuale riguardante sia il ruolo urbano dell'edificio che la tipologia stessa. Alla scuola ''funzionalista'', nella quale le piante degli edifici erano rigidamente organizzate secondo parametri di efficienza distributiva e il rapporto con la città definito dalla funzione, è succeduto un tipo di scuola (o meglio più tipi, dato l'ampio ventaglio di innovazioni sperimentate in molti degli edifici realizzati negli ultimi anni) nel quale gli spazi interni tendono a stabilire un rapporto di continuità e interazione tra le diverse funzioni, anche attraverso la formazione di unità pedagogiche che aggregano spazi comuni a più aule favorendo lo scambio tra gli alunni. La definizione dell'unità pedagogica parte dal presupposto che le aule aggregate lungo corridoi di distribuzione non costituiscono più l'elemento fondamentale della scuola, ma debbono essere organizzate come spazi complementari rispetto all'intero organismo edilizio, integrate agli spazi collettivi direttamente o attraverso elementi di distribuzione.
Per la scuola materna le norme prevedono uno stretto legame con il tessuto abitativo, anche per la necessità di una percorrenza non autonoma degli alunni dalla residenza all'edificio scolastico. La dimensione minima accettata per questo tipo di edificio è di una sezione e la massima di nove, con ciascuna sezione che raggruppa un massimo di 30 alunni. Le attività che devono poter essere svolte nell'edificio sono divise in ''ordinate'' (attività che si svolgono a tavolino o su un banco di lavoro), ''libere'' (attività di carattere motorio e ludico) e ''pratiche'' (attività come uso di servizi igienici, cambio dei vestiti, ecc.). Per quanto possibile i nuovi tipi di scuole materne tendono a mantenere la continuità dello spazio interno all'edificio, ricorrendo all'arredo per le divisioni interne. Nelle scuole materne l'unità pedagogica comprende gli spazi che fanno capo a un massimo di tre sezioni.
Per la scuola elementare le classi di alunni vengono divise in due cicli (1ª e 2ª classe; 3ª, 4ª e 5ª classe). Negli edifici per la scuola elementare le norme prevedono la formazione di spazi per attività didattiche esterne a quelle di classe (attività interciclo) e la possibilità di ottenere una continuità spaziale tra unità dello stesso ciclo attraverso pareti mobili e porte scorrevoli. A loro volta gli spazi delle unità pedagogiche debbono essere in relazione diretta con gli spazi comuni dell'intera scuola, per eliminare, per quanto possibile, disimpegni a corridoio. La palestra delle scuole elementari non dev'essere dimensionata per gli sport agonistici ma per un'attività ginnica ''di carattere ludico'': se da una parte questa indicazione permette una maggiore flessibilità al progettista, dall'altra recenti esperienze insegnano che è bene comunque, nella distribuzione dell'edificio, limitare l'integrazione degli spazi per la ginnastica con gli altri spazi didattici, tenendo nel debito conto le interferenze acustiche e distributive che si possono generare.
Per le scuole medie le norme prevedono, oltre a quelle normali, aule speciali per insegnamenti che richiedano attrezzature particolari. Gli spazi per le aule speciali sono distinti tra attività scientifiche, tecniche e artistiche, e debbono essere opportunamente corredati dei necessari spazi complementari (studi per gli insegnanti, spazi di preparazione, magazzini, ecc.). A questo proposito le norme prevedono che i nuovi edifici scolastici consentano la trasformazione di aule normali in aule speciali in funzione dell'eventuale cambiamento delle esigenze didattiche e che inoltre sia possibile svolgere attività tanto individuali, che in gruppi di media grandezza.
Allo scopo d'integrare l'edificio con il contesto urbano, ma anche per una maggiore economia di gestione dei servizi, alcuni spazi degli edifici scolastici destinati alle scuole medie tendono a essere utilizzati con sempre maggiore frequenza dagli abitanti dei quartieri dove gli edifici sono ubicati. È il caso soprattutto delle palestre (che anche per questa ragione andrebbero scorporate dall'edificio scolastico), delle biblioteche, e degli spazi utilizzabili per riunioni e spettacoli.
Occorre accennare infine ad alcune innovazioni legislative che possono comportare conseguenze dirette sui tipi edilizi per la scuola. Esse riguardano l'istituzione delle attività di sostegno per l'integrazione di alunni portatori di handicap (l. 517 del 1977), per il recupero di soggetti con difficoltà di apprendimento (l. 270 del 1982) e l'opzionalità dell'insegnamento della religione, mentre un ulteriore contributo al rinnovo dell'e. scolastica è dato dalla possibilità offerta dai nuovi programmi ministeriali (1985), che consentono di sperimentare orari alternativi all'orario antimeridiano e una maggiore flessibilità nell'impiego del corpo docente.
Edilizia universitaria. - Pur nelle differenti accezioni che l'istruzione universitaria ha avuto nei diversi paesi industrializzati, si possono ritenere tendenze generalizzate dei programmi degli ultimi due decenni: il tentativo di contrastare il progressivo isolamento delle diverse discipline, dovuto alla crescente specializzazione, con la formazione di dipartimenti interdisciplinari; la ricerca di strumenti di controllo della crescita dimensionale delle singole università dovuta alla diffusione crescente dell'istruzione superiore; la nuova attenzione per il ruolo urbano che l'e. universitaria è in grado di svolgere.
In Inghilterra già da tempo, nelle università, si tende a sostituire le facoltà con i dipartimenti, mentre i programmi governativi prevedono una dimensione ottimale per le sedi intorno ai 3000÷4000 studenti. In questo paese è ancora viva la tradizione dei tipi edilizi a corte (i quadrangle, la cui diffusione risale ai collegi cinquecenteschi di Oxford e Cambridge) con versioni locali molto variabili in rapporto al luogo e alle funzioni da accogliere.
In Germania la dimensione media auspicabile è stata stabilita da tempo dal Consiglio nazionale delle scienze in 6000÷10.000 studenti, anche se alcune nuove università (per es. quella di Bochum) tendono a espandersi oltre questo limite. In alcuni casi si cerca di contenere le dimensioni delle università integrando tra loro sedi diverse, come nel caso dell'università di Gottinga, dove la congestione delle strutture è stata evitata con la costruzione nella città di Marburg di una nuova sede per 10.000 studenti, nella quale sono stati trasferiti i dipartimenti di Medicina e Scienze naturali.
In Francia sono ancora valide le indicazioni del piano Faure, varato nel 1969 per far fronte alla violenta crisi dell'istruzione universitaria. Questo piano prevede l'istituzione di nuove università in tutto il territorio nazionale, per diminuire l'affollamento delle strutture della capitale, e il decentramento - nella stessa Parigi − della Sorbona in molte unità autonome. Le nuove università stanno sperimentando un rapporto più diretto con la città, come testimoniano i due progetti pilota della nuova università di Lione, organizzata intorno a un percorso urbano, e della nuova università per le discipline tecnologiche di Compiègne, la cui sede è collocata in diversi edifici, distanti tra loro ma collegati e integrati con il tessuto urbano.
Negli ultimi anni si è diffusa la tendenza a integrare anche le sedi universitarie esistenti nella città con progetti che dimostrano una generale attenzione per lo spazio urbano, sia attraverso edifici disegnati con il fine di stabilire un rapporto di affinità con l'ambiente, sia attraverso la formazione di spazi pubblici (piazze, strade) di raccordo con l'e. al contorno. Tra gli esempi più significativi degli ultimi anni si possono citare l'ampliamento del dipartimento di Chimica della Columbia University di New York progettato da J. Stirling (1983), che completa un lotto ottocentesco del campus nello spirito degli edifici originali costruiti dagli architetti McKim, Mead e White; il completamento (1986) della università libera di Berlino (uno degli esperimenti più importanti della fine degli anni Sessanta) ad opera di G. Candilis e collaboratori, che porta a compimento l'idea iniziale di ''universitàtessuto'', nella quale gli edifici sono articolati, come uno spazio urbano, su percorsi e piazze; infine il nuovo campus per la facoltà di Architettura di Porto progettato da A. Siza, costruito a partire dal 1988, che prevede la formazione di una grande corte triangolare sulla quale affacciano i volumi frammentati dell'aula magna, delle aule per lezioni teoriche e degli ateliers.
In Italia il programma statale per l'e. universitaria, finanziato con la l. 50 del 1973, ha prodotto numerosi progetti di nuove università (Firenze, Cagliari, Salerno, ecc.) ma non molti risultati pratici. Notevole influenza sta avendo, sia per la ristrutturazione delle attuali sedi che per le nuove costruzioni, la legge sulla docenza universitaria del 1980, che istituisce i dipartimenti. L'applicazione della legge ha dato luogo a diverse strutture quali i dipartimenti pluridisciplinari, costituiti da discipline diverse e complementari, i dipartimenti monodisciplinari, costituiti da discipline simili, i dipartimenti tematici, costituiti da raggruppamenti temporanei di discipline finalizzati allo studio di un singolo tema di ricerca.
Tra le realizzazioni italiane più interessanti vanno annoverate l'università della Calabria, progettata dallo studio Gregotti Associati e F. Purini lungo un asse di sviluppo che, partendo da Cosenza, si dirige verso la valle del Crati, e la nuova università di Udine, progettata da M. Nicoletti a partire da una maglia ortogonale di percorsi che organizza i rapporti tra gli spazi aperti delle corti e gli ambienti destinati alla didattica e ai servizi.
Edilizia per la sanità. - Fenomeno recente, nei paesi ad alto sviluppo industriale, è il graduale rallentamento nella costruzione di edifici per l'assistenza sanitaria con una marcata diminuzione nel numero e nella grandezza dei nuovi ospedali. Da una parte infatti il bisogno di posti-letto è divenuto meno pressante a seguito dell'intensa attività edilizia del settore che ha prodotto, soprattutto negli anni Settanta, una quantità di strutture tali da rendere il rapporto tra numero di abitanti e posti-letto disponibili vicino a quello considerato ottimale dagli standard urbanistici (in alcuni paesi, come la Francia, il numero di posti-letto costruiti per anno si è ridotto recentemente a un quarto della produzione degli anni Sessanta e Settanta). Dall'altra parte l'esperienza ha insegnato che le grandi strutture, fino a tempi recenti preferite per l'economia di scala che consentono, creano notevoli problemi di gestione e non sempre risulta agevole il loro adeguamento alle tecniche di cura che, in continua evoluzione, spesso richiedono importanti trasformazioni anche nelle strutture edilizie e negli impianti tecnologici, necessità che i cosiddetti ''piani tecnici'' non sempre riescono a risolvere. Mentre nel passato erano frequenti strutture ospedaliere di oltre 1000 posti-letto, la tendenza attuale è di non superare, normalmente, i 500. Anche il criterio di costruire infrastrutture regionali di ospedali generali, diffuso in tutta Europa alla fine degli anni Settanta, viene oggi progressivamente abbandonato in ragione dell'eccessivo costo, e in molti paesi si preferisce programmare razionalmente la gestione delle attrezzature concentrando le più costose in pochi centri legati alla ricerca.
In Italia i cambiamenti degli ultimi anni sono stati radicali, con l'introduzione, nel 1978, della l. 833 che istituisce il Servizio sanitario nazionale in sostituzione dei servizi di assistenza mutualistica fino a quel momento in uso. I criteri innovatori di questa legge sono rappresentati dalla sostituzione del criterio di ''prevenzione'' a quello della ''cura'' come base del sistema sanitario, e dall'istituzione di norme che prevedono il decentramento dei servizi, fino ad allora in larga misura concentrati negli ospedali.
Nella nuova organizzazione il Distretto sanitario di base (Dsb) fornisce i servizi di primo livello e pronto soccorso per un'utenza variabile tra i 500 e i 5000 abitanti nei territori privi di nuclei urbani, e tra i 20.000 e i 40.000 abitanti nelle aree metropolitane. Il Dsb fa capo al Centro socio-sanitario di base. L'Unità sanitaria locale (Usl), che serve invece un bacino di utenza compreso in genere tra i 50.000 e i 200.000 abitanti, ma variabile anche al di fuori di questi limiti in funzione delle caratteristiche del territorio, svolge tutti i compiti previsti dal Servizio sanitario nazionale, compresa l'educazione sanitaria, i servizi di prevenzione, l'igiene ambientale, l'assistenza domiciliare, ambulatoriale e ospedaliera dei cittadini. La legge prevede poi il Livello multizonale, che aggrega più Usl, con un bacino di utenza che può comprendere un'intera regione e concentra nelle proprie strutture le attrezzature più costose e tecnologicamente avanzate, le quali non solo richiedono un'alta specializzazione del personale che le utilizza, ma per il loro costo di acquisto e gestione necessitano di una particolare attenzione per le economie di scala.
L'attuazione del Servizio sanitario nazionale è prevista attraverso piani triennali le cui direttive generali vengono stabilite dal piano sanitario nazionale predisposto dal governo, che stabilisce i fondi a disposizione del servizio, e da indicazioni per la formazione dei piani sanitari regionali predisposti dalle giunte regionali. Questi ultimi a loro volta fissano i criteri per la redazione dei piani delle Usl, che sono lo strumento decisivo per la programmazione edilizia delle strutture sanitarie, fissando i criteri di gestione del patrimonio edilizio esistente e prevedendo la costruzione di nuove strutture ospedaliere o extraospedaliere. Queste ultime provvedono in pratica a fornire i servizi sanitari fondamentali nei Dsb, con il compito, oltre che di tutela della salute dei cittadini, di filtrare l'accesso alle strutture più specializzate.
Per quanto riguarda l'architettura dell'ospedale propriamente detto, in Europa le innovazioni tipologiche recenti sono relativamente poche. Le esperienze acquisite in decenni di ricerche dal dopoguerra a oggi hanno infatti condotto alla diffusione di alcune costanti dell'organismo edilizio che si ritrovano nella maggior parte degli ospedali, con la piastra tecnica collocata sotto le zone destinate ai degenti e i servizi direttamente collegati tra loro.
Alcuni cambiamenti riguardano i criteri da adottare in fase di progetto per prevedere la futura trasformazione degli ospedali. È questo un problema di evidente importanza in strutture che invecchiano rapidamente col progredire della ricerca medica e che hanno bisogno di continue, costose trasformazioni. Esistono in proposito due distinte tendenze. La prima, seguita da tempo, prevede la ''flessibilità'', la programmazione cioè delle trasformazioni, anche attraverso spazi destinati agli impianti dove è possibile operare sostituzioni e adattamenti delle attrezzature esistenti. A questo scopo da molti anni si prevedono interi piani praticabili (piani tecnici) destinati esclusivamente agli impianti dove i lavori di trasformazione (ma anche di manutenzione) sono estremamente facilitati. La seconda, più recente, prevede l'''adattabilità'', partendo dalla considerazione che non sempre è prevedibile l'evoluzione delle cure e la relativa necessità di spazi e impianti. Questa tendenza, che tiene anche conto dell'esperienza acquisita con gli ospedali ''flessibili'' dove gli alti costi dei piani tecnici sono giustificati solo in grandi ospedali completamente climatizzati, prevede soluzioni suscettibili di ampliamenti, adattamenti e trasformazioni non solo quando l'ospedale, una volta realizzato, mostrerà esigenze diverse dal programma originale, ma anche in sede di progetto. Si tenga presente infatti che i tempi di redazione dei progetti di ospedali, in particolare per i grandi complessi, sono talmente lunghi che le richieste della committenza mutano più volte dalla fase di prima stesura del progetto generale alla redazione completa dei disegni esecutivi.
Dal punto di vista distributivo una tendenza in atto è quella di ampliare l'importanza degli spazi destinati all'accettazione e agli ambulatori (per i quali si cerca di favorire il raggruppamento dei servizi tecnici) dedicando un'attenzione maggiore di quanto si facesse in passato agli ambienti destinati all'attesa, nel tentativo di umanizzare lo spazio interno dell'ospedale. Al contrario dell'immagine dell'ospedale destinata a comunicare l'idea di ''macchina per curare'' ereditata dai princìpi del Movimento Moderno, la tendenza attuale è piuttosto quella d'inserire l'edificio nel contesto ambientale, urbano o naturale, attraverso volumetrie di dimensioni contenute. Mentre nei decenni precedenti lo scopo dichiarato dei progettisti era quello di sottolineare attraverso l'architettura l'impressione di efficienza e rapidità delle strutture sanitarie, a partire dagli anni Settanta si assiste infatti a una progressiva diffusione di edifici nei quali l'aspetto tecnologico passa in secondo piano a favore dell'immagine di un edificio per grandi comunità, non dissimile dall'albergo o addirittura dal piccolo villaggio. Si veda per es. l'ospedale MacKenzie (1986), costruito con tecnologie molto sofisticate ad Alberta (Canada) e organizzato, come molte strutture alberghiere nordamericane, intorno a una grande hall sulla quale possono affacciarsi i degenti come in una piazza cittadina. Altri esempi significativi del nuovo ruolo dell'atrio sono l'ospedale universitario di Liegi progettato da C. Vandenhove, dove lo scenografico atrio d'ingresso coperto in ferro e vetro, elemento dominante della composizione, ricorda i padiglioni per le grandi esposizioni internazionali dell'Ottocento, o la nuova estensione dell'ospedale di Neukölln, a Berlino, dove l'architetto J. P. Kleihues ha distribuito l'intero edificio lungo una galleria di smistamento che, nella parte centrale, coperta in ferro e vetro, ricorda le strade urbane.
L'immagine del villaggio è adottata spesso dai piccoli ospedali, dove si vorrebbe che il paziente non provasse la sensazione di essere inserito in un ciclo che non può controllare, ma piuttosto in un luogo abitato dalle caratteristiche particolari, dove sono possibili relazioni sociali e dove lo spazio esterno è in comunicazione con l'interno. Un esempio significativo di questa versione è l'ospedale cantonale di Schwarzenburg (Svizzera), opera dello studio Atelier 5 di Berna, dove ogni sforzo è stato compiuto per ricreare nel piccolo edificio a due piani condizioni di abitabilità non troppo diverse da quelle di un normale edificio per abitazione collettiva, con particolare attenzione per l'illuminazione zenitale dei corridoi, di solito piuttosto lugubri in edifici di questo tipo. Nel caso di ospedali urbani si tende a volte a rendere l'ospedale quasi parte della città, nonostante i problemi che questo tipo edilizio, per sua natura ''introverso'', comporta. Un esempio piuttosto riuscito in questa direzione è costituito dall'ampliamento dell'ospedale di Kuopio in Finlandia, che ripete l'organizzazione formale di un vero quartiere attraverso la variazione dei volumi e la formazione di piazze interne.
Se si può indicare come generale una tendenza alla ''umanizzazione'' dell'ospedale, non mancano esempi di grandi strutture di questo tipo la cui immagine esalta le qualità tecnologiche dell'edificio, secondo le indicazioni di una corrente architettonica comunemente nota con il termine high tech (abbreviativo di high technology), la cui relazione con strutture destinate alle cure viene giustificata con la sensazione rassicurante che nel paziente crea l'impressione di macchina efficiente dell'edificio. Un esempio significativo di questa tendenza è l'ospedale di Aix-la-Chapelle, in Francia, dove l'efficienza strutturale dell'edificio è esibita in forma quasi monumentale.
Edilizia per il commercio. − Le grandi trasformazioni nell'e. per il commercio non sono di data recente, essendo avvenute negli anni Quaranta con la diffusione del supermercato self service (i primi esempi, come il King Kullen e il Big Bear a New York, risalgono addirittura ai primi anni Trenta) e negli anni Cinquanta con la costruzione dei centri commerciali isolati dalla città resa possibile dalla motorizzazione di massa. Da allora il processo di concentrazione e specializzazione degli esercizi di vendita non ha praticamente conosciuto soste, e i tipi edilizi per il commercio hanno seguito la tendenza delle strutture economiche all'aumento di scala. L'immagine del moderno centro commerciale è caratterizzata da grandi volumi edilizi che contengono i magazzini e la distribuzione, spesso nelle immediate vicinanze dei centri urbani, isolati da vaste superfici destinate a parcheggio; specialmente negli USA e in alcuni paesi dell'Europa settentrionale questi centri sono completamente avulsi dalla vita cittadina.
La versione recente dei centri commerciali ha assunto la forma della shopping plaza, struttura per la distribuzione a grande scala organizzata intorno a spazi pubblici e dotata di tutti i servizi capaci d'incoraggiare l'afflusso dei clienti, dai parcheggi sorvegliati alla custodia dei bambini. Le ultime realizzazioni mostrano una spiccata propensione a integrare la finalità commerciale di questi edifici con funzioni legate al tempo libero: poiché le compere sono divenute, nelle società occidentali più ricche, un'attività considerata piacevole, alcuni centri commerciali hanno organizzato veri parchi di divertimenti al loro interno per rendere più appetibile e meno meccanica la funzione dell'acquisto. Esempio tipico di questo orientamento è la West Edmont Mall presso Toronto, in Canada (1981), dove le attività di vendita sono organizzate intorno a uno specchio d'acqua che ospita ogni genere di attrazioni, dalle foche alla riproduzione in scala reale di un galeone.
Se la costruzione di grandi strutture per il commercio continua in tutti i paesi ad alto reddito pro capite, si è d'altra parte sviluppata negli ultimi anni, segnatamente in Europa, una corrente di pensiero che critica la tendenza alla concentrazione delle strutture di distribuzione e l'isolamento degli edifici per il commercio. Una delle ragioni di questa valutazione risiede nella constatazione che la separazione delle attività commerciali dalla vita urbana prodotta dagli shopping centers toglie alla strada l'essenziale funzione di scambio. I grandi centri commerciali delle new towns inglesi come quelli al servizio dei grands ensembles francesi, per es., non hanno dato nel tempo buona prova proprio perché tolgono vitalità alle strade, senza riuscire peraltro a riprodurre al loro interno le qualità urbane. Altra ragione di critica è costituita dal fatto che i tipi edilizi derivati dai grandi magazzini tolgono agli abitanti il contatto spontaneo e casuale con i negozi: una delle caratteristiche tradizionali della città europea è infatti proprio il rapporto di continuità degli edifici con la strada, sovente appunto attraverso la collocazione dei negozi al piano terreno. Recentemente, nelle grandi strutture commerciali urbane, sono stati fatti tentativi per superare il distacco tra la strada e i grandi edifici per la distribuzione mediante la costruzione di spazi di raccordo dotati di attività di piccolo commercio (bar, piccoli negozi, ecc.) che diminuiscono l'impatto tra scala, edificio e strada.
Le realizzazioni più innovative degli ultimi anni in questa direzione appartengono alle grandi capitali del consumo asiatiche e nordamericane, delle quali Hong Kong (trasformatasi negli ultimi anni in un immenso mercato), Tokyo e New York sono gli esempi più indicativi. In queste città, al declino dei tradizionali department stores (sintomatica è la chiusura a New York dei giganteschi magazzini Gimbels) è corrisposto negli anni Ottanta lo sviluppo della midtown mall, un nuovo tipo di struttura commerciale costruita intorno a uno spazio centrale a diretto contatto con la strada, dove le comunicazioni verticali (scale mobili, ascensori) acquistano grande rilievo raccordando i ballatoi che, ai diversi piani, smistano i percorsi ai negozi. Il termine mall, che in origine indica un viale adatto al passeggio, per estensione indica qui uno spazio interno all'edificio nel quale si vogliono riprodurre le condizioni dell'ambiente urbano esterno. Per rafforzare questo effetto quasi sempre il piano terreno è organizzato come area pubblica, con ristoranti, caffè, edicole di vario tipo destinate a suggerire l'immagine di una piazza europea. Pur avendo antecedenti remoti nel Woolworth Building (1913) e, più tardi, nel Rockefeller Center (1935), la midtown mall attuale deriva da regolamenti edilizi che, come quello di New York, incoraggiano l'uso pubblico dei piani terreni nelle grandi torri per uffici delle aree più dense della città destinandoli a passaggi coperti, piazze interne, ecc. Derivate da un prototipo di buone qualità edilizie e urbane come il Citicorp Center, le recenti malls hanno poi proliferato in versioni più banali e di ridotte dimensioni. Sebbene siano destinate nei programmi a rinforzare la funzione commerciale della strada urbana, anche le nuove malls finiscono in realtà per togliere gran parte della vitalità che gli spazi esterni agli edifici possedevano, sia perché riportano all'interno degli edifici ingressi e vetrine dei negozi, sia perché sostituiscono all'esercizio commerciale spontaneo catene di identici esercizi per la distribuzione con punti vendita identici ripetuti in molte città e, spesso, all'interno della stessa città.
Molti architetti e urbanisti sostengono oggi che le grandi strutture di distribuzione, distruggendo un'importante componente della vita urbana, hanno prodotto enormi guasti nell'equilibrio delle città, guasti cui si può porre rimedio solo ripristinando la vendita al dettaglio tradizionale. Buoni risultati hanno dato al riguardo le riconversioni di grandi magazzini ottocenteschi in contenitori di esercizi per la vendita al dettaglio, come Covent Garden a Londra e Quincy Market a Boston. Vivaci polemiche stanno suscitando, d'altra parte, le trasformazioni a grandissima scala che investono intere aree di depositi portuali a Londra, come l'enorme operazione del Canary Wharf che diverrà il più grande complesso commerciale d'Europa, rendendo irriconoscibile, con la costruzione di false facciate in stile e di un grattacielo di 240 m di altezza, l'antica immagine dei Docks lungo il Tamigi.
Anche il ritorno all'uso dei passaggi porticati tende a ricostruire il tessuto di attività della distribuzione a piccola scala, mentre l'adozione di gallerie coperte permette a volte trasformazioni commerciali non eccessivamente traumatiche di parti degradate della città storica. A questo proposito va notato come alcuni autori sostengano la revisione dei criteri di protezione integrale delle aree commerciali nel centro delle città dal traffico: dopo la pedonalizzazione degli anni Settanta da diverse parti si sostiene che una limitata reintroduzione del traffico veicolare nei centri cittadini contribuirebbe a un migliore funzionamento delle aree per il commercio al dettaglio.
Edilizia amministrativa. − Lo sviluppo recente dell'e. amministrativa in grandi costruzioni monofunzionali risponde alla tendenza generalizzata della città moderna alla specializzazione del tessuto urbano in aree destinate in modo omogeneo alla produzione, alla residenza e al terziario, con l'ulteriore specializzazione di quest'ultima in settori dei quali quello amministrativo sembra utilizzare i tipi edilizi più caratterizzati. L'edificio per uffici sembra infatti un'espressione peculiare della città moderna, che si sviluppa attraverso la costruzione di edifici formalmente conclusi, in opposizione alla città storica, dove è invece sempre presente l'idea di tessuto urbano costituito da edifici tipologicamente aperti, ripetibili o aggregabili a formare un'e. continua e polifunzionale. Sotto questo punto di vista è indicativo come gli edifici a torre per uffici (si pensi al Grattacielo di cristallo per Berlino, di L. Mies van der Rohe) siano diventati il simbolo delle qualità e delle manchevolezze dell'architettura moderna presso una larga parte dell'opinione pubblica.
In paesi dove questo processo è in atto da lungo tempo (ma spesso anche in città che hanno visto un rapido sviluppo del terziario avanzato negli anni Sessanta e Settanta) si sono formati interi quartieri direzionali utilizzati nelle sole ore di lavoro, che diventano deserti nel resto del giorno. Tali quartieri, in alcuni casi concentrati in aree esterne alla città (centri direzionali), tendono in altri a espandersi e a occupare parti della città storica, contribuendo a trasformare l'immagine stessa della città europea, tradizionalmente fondata sulla preminenza degli spazi pubblici (piazze, strade, ecc.) sull'edificio isolato.
Valgano per tutti gli esempi del processo di trasformazione di aree centrali a Bruxelles, imposto dalla costruzione di numerosi edifici amministrativi relazionati al nuovo ruolo europeo che la città andava assumendo negli anni Sessanta, e l'attuale avanzamento a Londra della città degli affari, la City, nell'East End, dove il paesaggio urbano consueto di questi quartieri, con gli edifici strettamente legati alla strada formalmente (le quinte continue delle facciate lungo la strada) e funzionalmente (i piani terra a negozi, gli uffici professionali di dimensioni locali, ecc.), è stato completamente sostituito da edifici isolati e chiusi verso l'esterno, destinati a uffici che operano a livello nazionale e internazionale. Questa tendenza ha incontrato non pochi oppositori tra amministratori, urbanisti e architetti interessati alla conservazione del patrimonio edilizio della città e contrari alla terziarizzazione incontrollata dei centri cittadini, senza che peraltro sia stata sviluppata una strategia convincente in grado di consentire la coesistenza del grande edificio per uffici con l'e. cittadina tradizionale.
Il problema rimane dunque aperto, né sembra che le nuove tecnologie di trasmissione delle informazioni riusciranno, in tempi brevi, a risolverlo: anche se sarebbe teoricamente possibile permettere agli impiegati di operare in luoghi di lavoro isolati e distanti tra loro (perfino nella loro stessa abitazione) e garantire la comunicazione con i centri decisionali attraverso terminali, l'edificio per uffici svolge ormai un ruolo sociale di tale importanza da garantirne la sopravvivenza ancora per molti decenni. Se infatti per l'impiegato costituisce una possibilità di scambio difficilmente sostituibile, l'edificio per uffici rimane per le aziende il simbolo tangibile dei valori cui esse aspirano (solidità finanziaria, efficienza, potere economico). Questo spiega come ancora oggi venga sovente privilegiato per l'e. amministrativa il tipo a torre, a volte con poca attenzione per i costi di costruzione e, dopo i ripensamenti momentanei dovuti alla crisi energetica degli anni Settanta, senza preoccupazione eccessiva per le spese di gestione. Si veda, come esempio estremo, il monumentalismo della Lloyd's Tower, costruita da R. Roger nel centro di Londra nel 1986 e ritenuta a ragione uno degli esempi più vistosi della tendenza high tech che impiega ed esibisce tecnologie costruttive sofisticate: la metafora proposta dall'edificio è quella di un meccanismo complesso e dinamico, del quale viene mostrato all'esterno il funzionamento (le canalizzazioni degli impianti, il sistema statico, i dettagli costruttivi).
Pure oggi, come nel passato, viene spesso usato l'edificio a torre anche quando disponibilità di aree consentirebbero l'impiego di tipi edilizi di altezza ridotta. Esemplare è a questo proposito il caso del quartiere della Défense a Parigi, ispirato in origine ai principi della Carta d'Atene che sanciva la soppressione nella città moderna del ruolo tradizionale della strada e proponeva la concentrazione dei volumi in edifici di grande altezza. Sviluppatosi in base a un piano che risale al 1959-60, il quartiere della Défense ha visto rapidamente trasformare i progetti che prevedevano funzioni diversificate (residenze, aree verdi, commercio) a favore della costruzione di un grande numero di torri per uffici, a partire dalla Tour Nobel del 1966 (degli architetti J. de Mailly e J. Depusse), da molti considerata la prima traduzione francese del grattacielo americano, alla Tour Fiat costruita nel 1974 da R. Saubot e F. Jullien, fino alla Tour Elf realizzata recentemente dagli stessi architetti.
Dal punto di vista della distribuzione interna, il processo di trasformazione dagli impianti cellulari d'inizio secolo allo spazio aperto degli edifici per uffici attuali rimane ancora il dato più rilevante: dai tipi a corpo doppio derivati dalla casa a blocco, con corridoio interno che perimetrava un cortile e ambienti in serie con affaccio esterno per il lavoro (tipo edilizio utilizzato anche nella produzione più avanzata dei primi decenni del secolo, dagli uffici Mannesmann di Behrens a Düsseldorf, del 1912, al progetto di Gropius e Meyer per gli uffici Sommerfeld a Berlino, del 1920), si è passati, a partire dagli anni Cinquanta, a edifici la cui pianta è condizionata, come nelle catene di montaggio delle fabbriche, dal solo involucro esterno, mentre lo spazio interno è virtualmente continuo, modificabile attraverso l'uso di pannelli da organizzare secondo una griglia ortogonale per garantire la massima flessibilità agli spazi e alle relazioni reciproche dei diversi gruppi di lavoro. Una variante europea di questo tipo di ufficio di origine americana (open space) è il Bürolandschaft, spazio aperto dove l'organizzazione delle funzioni avviene non secondo assi ortogonali costituiti dai percorsi, ma secondo ''isole'' funzionali, corrispondenti ai diversi reparti direzionali od operativi, liberamente relazionabili tra loro.
Un'altra tendenza recente, relativamente diffusa, vuole l'ufficio organizzato come comunità, privilegiando nell'edificio il ruolo del posto di lavoro come occasione d'incontro e scambio sociale. L'immagine dell'ufficio viene in questi casi legata a quella del piccolo nucleo urbano, della strada o di uno spazio pubblico nel quale ai comportamenti programmati si possano sovrapporre quelli spontanei. Antecedenti remoti di questo tipo di ufficio possono essere rintracciati in alcuni esempi molto noti dell'architettura moderna come gli uffici Larkin a Buffalo di F. L. Wright o il Rautatolo Building di A. Aalto, dove lo spazio centrale, come una piazza racchiusa, ricostruisce il rapporto di mediazione tra interno ed esterno che nella città tradizionale viene svolto dal cortile. Il capostipite della produzione recente di questo tipo (e senz'altro l'esempio più noto) è il Centraal Beheer costruito ad Apeldorn, in Olanda, da H. Hertzberger, dove gli ambienti di lavoro sono organizzati in moduli che partecipano, senza soluzione di continuità, dello spazio interno dell'edificio. Questo filone dell'e. amministrativa, sebbene non rappresentato da realizzazioni numerose, sembra dare buoni risultati soprattutto nel settore dei piccoli uffici dove è possibile raccordare lo spazio di lavoro con lo spazio urbano attraverso aree commerciali e spazi per la sosta.
Quanto all'e. amministrativa pubblica, il passato decennio non ha introdotto tipi edilizi radicalmente nuovi, mentre può essere notato, sul piano del linguaggio architettonico, uno spiccato ritorno a quelle caratteristiche auliche che distinguevano nel passato l'edificio pubblico tanto per i grandi interventi (si veda per es. il nuovo ministero delle Finanze di Parigi, progettato da P. Chemetov come porta d'ingresso alla città) quanto per le costruzioni nelle cittadine di provincia. Si segnalano in questo senso alcuni piccoli municipi nei centri minori francesi e italiani, quali quelli realizzati per Rezé-les-Nantes, presso Nantes (A. Anselmi), per Borgoricco, presso Padova (A. Rossi), per Pioltello e Pieve Emanuele, entrambi piccoli centri presso Milano (G. Canella e M. Achilli).
Edilizia per il culto. − Le realizzazioni di chiese di culto cattolico degli ultimi anni, seguendo lo spirito del Concilio Ecumenico Vaticano ii, hanno interpretato con grande libertà le indicazioni emanate dalle autorità vaticane. Del resto anche le disposizioni contenute nelle Istruzioni della Sacra Congregazione dei riti, a parte alcune prescrizioni particolari che riguardano per es. la collocazione dell'altare, offrono ampi spazi all'interpretazione architettonica del rito. Come negli anni Settanta, anche negli anni Ottanta i tipi di edifici per il culto elaborati dagli architetti abbracciano un'ampia gamma di soluzioni edilizie e difficilmente consentono una classificazione sintetica.
Mantenendo ferme le indicazioni di Paolo vi (Allocutio ad Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, 1964), il dibattito si è svolto in tempi recenti sull'interpretazione delle indicazioni che da quel primo documento hanno preso le mosse e che, essendo di tipo generale e non edilizio, richiedevano una traduzione pratica.
Un esempio importante è costituito dal problema della collocazione del battistero, sul quale le indicazioni ufficiali della Chiesa si esprimono in termini generici, consentendo di disporlo in una cappella interna o esterna alla chiesa, purché le scelte siano fatte "in modo da consentire la partecipazione comunitaria" (Rituale Rom.: Introduz. gen., 1970). Una tendenza recente è quella di collocare il battistero nell'ultimo tratto della navata verso il presbiterio, in modo da rappresentare simbolicamente l'unione tra assemblea e celebrante nel rito della Messa. Non mancano comunque sperimentazioni singolari, come nella nuova chiesa cattolica di Littleton (Colorado) degli architetti Hoover, Berg e Desmond, dove l'aula assembleare, contenente in un angolo il battistero, è separata dalla zona destinata al rito, la quale è sistemata in una cappella immediatamente a ridosso dell'atrio d'ingresso. La chiesa di Garden Grove in California, costruita nel 1980 dagli architetti Ph. Johnson e J. Burgee, è invece occupata interamente dallo spazio per l'assemblea e le grandi dimensioni dell'edificio, interamente rivestito di speciale vetro opaco, vengono accentuate dagli spazi rastremati che falsano le fughe prospettiche.
Molto noto in Italia è l'esperimento compiuto dall'architetto G. Michelucci nella chiesa di Longarone, dove è stato ottenuto un doppio luogo destinato al rito, disponendo, oltre allo spazio interno per l'assemblea, una cavea sulla copertura dell'edificio, che circonda l'altare per le celebrazioni all'aperto ed è collegata al suolo da una strada pensile che avvolge la costruzione. Altro esempio italiano di grande interesse è la chiesa progettata da L. Quaroni (con L. Anversa e G. D'Ardia) in corso di realizzazione a Gibellina, dove i segni architettonici impiegati (il parallelepipedo di base, la sfera centrale) ricordano i sincretismi dell'e. locale con la cultura islamica. Da notare infine la recente costruzione, in Italia, di alcuni edifici per il culto da parte di comunità acattoliche, conseguenza anche delle immigrazioni dai paesi in via di sviluppo. Tra queste, spesso di modeste dimensioni e ottenute dalla trasformazione di edifici preesistenti, l'episodio più significativo è senz'altro la realizzazione della moschea della comunità islamica di Roma, costruita dall'architetto P. Portoghesi con una personale interpretazione dei tipi tradizionali.
Edifici per lo spettacolo. − Il problema dell'e. per lo spettacolo sta divenendo tanto più complesso quanto più aumenta, col progredire delle tecniche di registrazione, elaborazione e diffusione delle immagini, il distacco tra la fonte dello spettacolo e lo spettatore. Mentre l'evoluzione delle tecniche teatrali è stata lentissima e lo sviluppo della cinematografia prima e della televisione poi è stato relativamente graduale, l'attuale diffusione dei mezzi individuali di riproduzione dello spettacolo diviene sempre più rapida e sofisticata. Dal punto di vista dei cambiamenti che interessano i tipi edilizi va rilevata la tendenza a trasferire il luogo fisico della rappresentazione dalle sale collettive a luoghi individuali o privati.
Molta della letteratura specializzata s'interroga, già da alcuni anni, su quale sarà il ruolo degli edifici per lo spettacolo, considerato che nel futuro sembrerebbero destinati a prendere il sopravvento canali di comunicazione che non richiedono un luogo organizzato per la rappresentazione collettiva. Lo spettacolo del futuro sembrerebbe destinato a essere prodotto dalle grandi multinazionali specializzate che alimentano un mercato di dimensioni planetarie dove già oggi informazione e spettacolo utilizzano gli stessi canali. Tuttavia, nonostante le previsioni che vorrebbero in crisi il ruolo tradizionale dell'architettura per le rappresentazioni, i dati statistici dimostrano come sia in atto una diffusa domanda di spettacoli teatrali rappresentati in sale convenzionali. In forte diminuzione è invece il numero delle sale cinematografiche (sostituite dalla televisione): dal 1973 al 1986 al dimezzamento del numero delle sale cinematografiche è corrisposto il raddoppio nel numero delle rappresentazioni teatrali. Questi dati contraddicono la previsione di una società in cui lo spettacolo sembra destinato a divenire monopolio di forme di comunicazione sempre più mediate (attraverso cavo, onde, cassette, ecc.): è evidente infatti la tendenza a un aumento della domanda di luoghi fisici per lo spettacolo, organizzati per lo più secondo tipologie sostanzialmente simili a quelle del teatro tradizionale, con la separazione dell'area per la rappresentazione scenica, dello spazio destinato agli spettatori, degli ambienti per le macchine sceniche.
In realtà si ricerca nelle forme tradizionali di rappresentazione quella componente rituale che per elezione distingue il messaggio dei media dallo spettacolo teatrale, dall'opera, dal concerto (di musica sia classica che moderna). È questa forse la chiave di lettura della ricerca architettonica più recente: se si osservano attentamente gli esempi dell'ultima decade, non si può non rilevare che all'aggiornamento del linguaggio architettonico corrisponde quasi sempre una notevole permanenza di schemi tipologici tradizionali. Gli esempi della produzione contemporanea più significativa sembrano non tener conto delle sperimentazioni del teatro underground che avevano incontrato consensi soprattutto negli anni Sessanta, in un clima di ricerca caratterizzato dal tentativo di superamento del teatro convenzionale attraverso l'improvvisazione e il coinvolgimento dello spettatore. Non a caso queste sperimentazioni avevano abbandonato i luoghi teatrali convenzionali per utilizzare spazi che permettessero di sviluppare liberamente le idee di registi e scenografi: magazzini, cantine, locali abbandonati dove, ostentatamente, le regole della scenografia e dell'acustica venivano trascurate.
Non c'è dubbio che oggi si assiste a un ritorno alla disciplina e a un rapporto tra spettatore e scena che risale ai modelli più consolidati della storia del teatro: per es. la pianta del teatro Fossati, recentemente terminato a Milano da M. Zanuso e progettato insieme al regista G. Strehler, mantiene la forma ellittica della sala dell'antico teatro che sorgeva sul luogo e sembrerebbe progettato da un architetto settecentesco se nell'alzato non comparissero spoglie murature e parapetti che ricordano certa e. minore milanese. La tendenza è ancora più accentuata in un tipo edilizio come il teatro dell'opera, dove la conservazione del valore della scena teatrale è altrettanto importante quanto la qualità dello spazio per gli spettatori, che in questo tipo edilizio acquista l'importanza di una vera e propria seconda scena: si vedano, come testimonianza evidente di questo orientamento, l'edificio dell'Opéra Bastille a Parigi, di C. Ott, o la ricostruzione del Carlo Felice a Genova, di Gardella, Rossi, Reinhart, Sibilla. Da notare a questo proposito che il completamento (1989) dell'opera di Essen, progettata trent'anni prima da A. Aalto, ricorda come anche edifici di questo tipo progettati da pionieri dell'architettura moderna tenessero nel debito conto le tipologie convenzionali. Non mancano comunque, nel panorama estremamente articolato della produzione contemporanea, proposte fortemente innovative, come il progetto di J. Nouvel per il nuovo palazzo dell'opera di Lione, una gigantesca macchina calata tra le pareti del vecchio edificio e coperta da un lucido semicilindro d'acciaio, riconducibile all'eredità del teatro futurista dove la macchina diviene spettacolo di per sé (Prampolini, polemicamente, considerava l'attore "inutile e dannoso" per il futuro del teatro).
Dell'eredità del teatro sperimentale e del tentativo di superare la divisione tra gli elementi che compongono l'edificio teatrale (la scena, la sala per gli spettatori, i locali per le macchine) rimangono tracce nelle sale pluriuso che consentono diversi tipi di adattamento degli ambienti all'evento teatrale che vi si svolge.
I tipi di teatro pluriuso possono essere classificati in base a caratteristiche che riguardano i posti, il volume, le caratteristiche acustiche, il tipo di palcoscenico (mobile o meno), e possono variare tra l'estremo del teatro tradizionale (posti fissi, volume fisso, assorbimento acustico fisso) e l'estremo opposto del teatro dove tutte le componenti sono adattabili al tipo di spettacolo (teatro con volume e assorbimento acustico variabile, posti variabili, palcoscenico mobile). È continuata nell'ultimo decennio anche la costruzione di grandi centri teatrali, composti da più sale (per rappresentazioni tradizionali e sperimentali, cinema, auditorium, ecc.), che avevano avuto vasta diffusione negli anni Sessanta e dei quali gli esempi più rappresentativi possono essere considerati il Lincoln Center a New York (degli architetti Skidmore, Owing e Merrill) e il Krannert Center a Urbana, di M. Abramovitz. Tipico esempio recente, completato nel 1989 con la costruzione della sala per il teatro sperimentale, è il complesso del National Theatre a Londra degli architetti D. Lasdun e P. Softley, che contiene, oltre a una galleria di pittura, ristorante e laboratori, tre distinte sale per spettacoli: l'Olivier Theatre, con una grande sala semicircolare per circa 1000 spettatori e palcoscenico aperto su tre lati (open stage), che consente in particolare la rappresentazione delle opere del teatro elisabettiano; il Lyttelton Theatre, con una sala rettangolare per circa 900 posti e una differenziazione tradizionale tra palcoscenico e spettatori; il Cottesloe Theatre, adatto alla sperimentazione, che ha una capacità variabile dai 200 ai 400 spettatori in funzione della diversa disposizione dei posti e della posizione della scena che può essere posta al centro della sala come su un lato.
Per ragioni molto diverse anche per le sale cinematografiche è in atto la tendenza alla concentrazione, allo scopo di superare la crisi che investe attualmente il settore attraverso l'aumento e la diversificazione dell'offerta. Il fenomeno è comunque ancora limitato nel nostro paese: a Roma, su 80 sale cinematografiche, esistono solo due cinema con due sale, mentre a Parigi i cinema multisale sono 43 (con 9 cinema di 7 sale) e a Londra i cinema a sala unica stanno scomparendo (solo 23 su 248 sale totali). Significativo è anche l'esempio di Bruxelles, dove esiste un cinema dotato di ben 23 sale. Una stagione di particolare favore presso il pubblico stanno vivendo nell'Europa mediterranea i teatri temporanei all'aperto, allestiti spesso con costi contenuti in occasione di manifestazioni culturali estive che riprendono la tradizione dei teatri provvisori, costruiti nelle piazze in occasione di feste o cerimonie, secondo una consuetudine italiana che interpretava la città stessa come sfondo scenico dello spettacolo. Un episodio di particolare successo tra i teatri provvisori è costituito dalla costruzione del Teatro del Mondo per la Biennale di Venezia del 1979, struttura galleggiante costruita da A. Rossi in ponteggi da cantiere e rivestita in legno, che riprendeva la tradizione veneziana, in auge nel 18° secolo, dei teatri galleggianti.
Anche in Giappone recentemente si stanno sperimentando teatri provvisori, a volte destinati a diffondere il teatro classico giapponese (Nō), storicamente destinato alle élites sociali e rappresentato in origine all'aria aperta: la diffusione di queste strutture effimere è anche favorita dall'alto costo del terreno, che supera di gran lunga il costo di costruzione dei teatri permanenti.
Gli edifici per la musica seguono la tendenza generale degli altri edifici per lo spettacolo, con un notevole incremento nel numero e nella capacità degli auditorium in ragione della notevole espansione della domanda. Da rilevare a questo proposito come la componente acustica acquisti un'importanza determinante nella progettazione delle grandi sale per la musica, in cui sorge il problema di non facile soluzione di far pervenire agli ascoltatori più lontani anche le frequenze più alte, per non alterare la composizione originale del suono. Benché molti autori consiglino, per soddisfare le necessità acustiche, sale di forma rettangolare, l'impianto circolare o comunque avvolgente, con l'orchestra posta il più vicino possibile agli ascoltatori (sull'esempio della Filarmonica di Berlino di H. Scharoun), sembra preferito per ragioni distributive nelle costruzioni recenti. Si veda a questo proposito il Centro musicale di Utrecht, del 1977 (arch. H. Hertzberger), nel quale il palco dell'orchestra è completamente circondato dagli ascoltatori.
Da notare la crescente diffusione di manifestazioni musicali all'aperto, in luoghi a volte appositamente attrezzati per risolvere, almeno parzialmente, il problema della deformazione del suono. Esempi notevoli al riguardo sono il Concord Pavillon, grande copertura metallica costruita da F. O. Gehry vicino a San Francisco, e il recentissimo Riverbend Music Center di M. Graves, che ospita un pubblico di 5000 spettatori nella platea a quarto di cerchio e altri 10.000 nel parco circostante, entro un'area destinata a concerti estivi che viene abbandonata in inverno agli allagamenti delle piene del fiume Ohio. Edilizia per i musei. − Sul futuro dei musei è in corso un vivace dibattito suscitato da problemi di fondo sui quali gli operatori del settore sono divisi. Schematizzando i termini di una polemica in realtà molto articolata, si può in linea generale distinguere tra quanti considerano il patrimonio storico un bene che va solo conservato e quanti propongono un uso ''aperto'' dei beni culturali, accettando innovazioni nella gestione del patrimonio museale e prevedendo un esteso uso didattico e divulgativo delle testimonianze del passato.
Sul piano pratico queste posizioni hanno interessato i temi di maggiore importanza per l'e. museale recente e ne hanno condizionato lo sviluppo. Uno degli argomenti attualmente di maggior interesse è quello dell'uso degli edifici storici come contenitori di musei, argomento sul quale divergono le opinioni delle diverse categorie professionali interessate (soprintendenti, conservatori dei musei, restauratori, progettisti). Se da un lato, infatti, l'utilizzazione (sempre più diffusa) a museo dell'e. esistente, spesso di notevole pregio storico e architettonico, è utile a garantire, di fronte al drammatico degrado del patrimonio edilizio, una manutenzione continua delle strutture, dall'altro sorge il problema della compatibilità tra l'edificio che contiene il museo e le necessità espositive dei materiali contenuti: non di rado l'edificio ha un valore ''museale'' autonomo il cui apprezzamento da parte del visitatore può risultare danneggiato dalla presenza di collezioni e reperti che impongono, inoltre, adattamenti edilizi tali (prese di luce dalle coperture, adeguamento dei solai, ecc.) da rendere spesso problematica l'integrale conservazione delle architetture originali. Un'opinione che si va diffondendo tra gli specialisti è quella di limitare l'uso del patrimonio edilizio di maggior valore ai casi in cui le raccolte contenute siano legate da ragioni storiche in modo inscindibile all'edificio, o quando l'evidente indipendenza dalle strutture edilizie del materiale esposto consenta la lettura autonoma delle testimonianze.
Occorre rilevare peraltro come i più recenti esempi realizzati abbiano adottato soluzioni innovative nei confronti delle preesistenze, con costruzioni ex novo che integrano le strutture antiche. Ne sono un esempio gli interventi del gruppo Albini, Helg, Piva, che a Padova hanno ampliato il Museo Civico sistemato nell'antico convento degli Eremitani con gallerie metalliche per la pinacoteca (1985) e che hanno adattato a museo (1986) il convento di Sant'Agostino, nel centro storico di Genova, con ampio uso di strutture metalliche e calcestruzzo armato per ricostruire le parti mancanti e adattare alle nuove funzioni l'edificio antico. Un esempio tra i più noti di riuso a museo di un edificio esistente è quello realizzato da G. Aulenti a Parigi (1986), riadattando l'ottocentesca stazione ferroviaria d'Orsay, non utilizzata dal 1939, della quale agli inizi degli anni Settanta era stata prevista la demolizione. L'intervento ha dimostrato come edifici di questo tipo si prestino particolarmente bene alla funzione di grande contenitore delle strutture museali, pur consentendo una lettura indipendente delle testimonianze di archeologia industriale.
Altro problema di crescente importanza per l'e. museale è costituito dal sovraffollamento di materiale espositivo. La quantità di beni depositati nei magazzini di molti musei, specie di quelli più importanti, è cresciuta nel tempo fino a presentare ai nostri giorni, oltre a difficoltà per la buona conservazione, problemi di accessibilità, da parte dei visitatori, a un patrimonio, spesso importante, che di fatto si sottrae all'uso pubblico: viene così meno una delle funzioni principali dell'istituzione museale, il cui scopo non è solo quello di conservare a proteggere dal degrado alcuni beni culturali, ma anche quello di renderli accessibili. D'altra parte anche l'aumento del numero di opere o reperti esposti nelle sale per il pubblico fa nascere il problema della corretta valorizzazione dei materiali, poiché spesso, considerando il museo come uno strumento di comunicazione, il modo in cui reperti e testimonianze vengono esposti è importante quasi quanto le raccolte esposte. A questo riguardo molti autori, mentre ipotizzano forme di espansione edilizia programmata per le nuove costruzioni, propongono che le grandi strutture dei musei metropolitani vengano destinate a conservare quei beni culturali che hanno valore universale e interesse autonomo rispetto ai contesti di origine, mentre altri materiali, in particolare quelli in eccesso, dovrebbero essere ospitati in edifici periferici per formare collezioni legate preferibilmente al luogo di provenienza.
Un aspetto importante che investe il dibattito sul futuro dell'e. per i musei è il nuovo ruolo che queste istituzioni stanno svolgendo nella vita culturale di molti paesi europei. A partire dagli anni Settanta, ma segnatamente negli anni Ottanta, si è assistito a un crescente ruolo propositivo di molte istituzioni rispetto all'uso dei beni conservati attraverso l'organizzazione di attività complementari al museo, delle quali le mostre temporanee sembrano le più vitali. Si tratta di una forma di conservazione attiva dei beni del museo che tende a superare la staticità dell'istituzione e a rispondere ai bisogni della cultura di massa proponendo l'aggregazione di materiali di provenienza eterogenea (magazzini, collezioni di altri musei o private) secondo temi particolari (una tendenza artistica, un autore, un periodo storico, ecc.). Questa attività è ormai divenuta tanto importante da costringere molti grandi musei ad adattare le strutture edilizie esistenti in funzione di nuovi spazi da destinare a mostre temporanee, ma essa comporta, d'altra parte, una ''politica dei prestiti'' sulla quale si sono aperte molte polemiche: se da una parte molte mostre temporanee hanno ottenuto uno straordinario successo di pubblico e fanno ormai parte della storia della critica dell'autore o del materiale presentato, dall'altra non tutti i conservatori dei musei sono d'accordo sulla rotazione continua dei beni, che in pratica rischia di alterare l'unità e inscindibilità di molte raccolte. Questa disparità di opinioni trova un'attiva sede di dibattito nell'ICOM (International Council of Museums) che si è fatto promotore negli ultimi anni di importanti iniziative a favore del nuovo ruolo di divulgazione culturale del museo.
Occorre infine accennare all'intensa attività di e. museale, sostenuta da una crescente domanda culturale, svolta da alcune grandi città europee negli ultimi anni. Particolarmente indicativo è il caso di Parigi dove, oltre al citato museo d'Orsay, sono state costruite grandi strutture che rappresentano un campione significativo delle possibili forme che può assumere oggi il museo, dal Centro Pompidou, grande macchina espositiva della quale i progettisti R. Piano e R. Rogers hanno esaltato gli aspetti dinamici e tecnologici, all'enorme museo della scienza, che una volta completato disporrà di 165.000 m2 di superficie utile, costruito nel parco de La Villette dall'architetto A. Fainsilber come una città intorno alla piazza centrale dell'ingresso, all'ampliamento del museo del Louvre dell'architetto I. M. Pei, dove la sotterranea sala Napoleone, destinata all'accesso del pubblico, inserisce un elemento moderno come la piramide vetrata della copertura al centro delle strutture antiche.
Anche la città di Francoforte ha svolto una politica di e. museale molto oculata, soprattutto nel programmare la costruzione di una serie di edifici specializzati (in parte realizzati) che s'integreranno in una struttura a scala urbana. Da segnalare in particolare il museo di architettura di O. M. Ungers, il museo di arti applicate di R. Meier, il museo di storia antica di J. P. Kleihues, l'ampliamento dello Städel Museum di G. Peichl.
Edilizia per le biblioteche. − Le biblioteche costruite nell'ultimo decennio seguono la tendenza, già evidente negli anni Settanta, a costituire un sistema bibliotecario diffuso. D'altra parte sono in corso in tutta Europa anche lavori per rinnovare le grandi biblioteche nazionali, arrivate in tutti i paesi ad alto indice di scolarizzazione a livelli tali di complessità di gestione da richiedere interventi radicali sulle strutture edilizie esistenti o, più spesso, la costruzione di nuovi edifici. Per il dimensionamento delle strutture piccole e medie, il cui compito è fornire il servizio di base alla popolazione su tutto il territorio nazionale, l'IFLA (International Federation of Libraries Associations) ha stabilito uno standard di riferimento di due volumi per abitante con una soglia minima di 6000 volumi per le piccole biblioteche, avvertendo della necessità di modificare questo indice in base all'affollamento del territorio. Se l'adeguamento a nuovi standard, insieme alla naturale crescita dei fondi librari, ha comportato notevoli problemi in tutti i paesi avanzati, l'adozione di nuovi strumenti per la gestione delle biblioteche esistenti ha consentito d'altra parte il buon adattamento alle accresciute necessità di molti edifici, sotto il profilo dei tre servizi fondamentali che la biblioteca deve fornire: conservazione, recupero e fruizione dell'informazione.
La conservazione dell'informazione, che fino a tempi recenti era limitata alla manutenzione del patrimonio librario, avviene ora anche attraverso la riproduzione dell'informazione su supporto diverso dall'originale (fotografia, microform, ecc.). La diffusione su vasta scala di queste tecnologie, tutt'altro che nuove, ha risolto il problema dell'ampliamento dei depositi di molte biblioteche, insieme all'adozione generalizzata della ''scaffalatura compatta'' per la conservazione dei volumi, che prevede la possibilità di movimento degli scaffali (rotazione, scorrimento secondo l'asse degli scaffali od ortogonalmente a esso). La diffusione dei supporti non cartacei delle informazioni (microriproduzioni su film per le informazioni scritte, nastri per quelle sonore, videocassette per quelle audiovisive) ha poi contribuito, insieme all'organizzazione di mostre e conferenze, ad ampliare i servizi forniti dalla biblioteca, al punto che per alcune nuove strutture si va diffondendo l'uso del termine ''mediateca'' (specie in Francia con l'uso appunto del termine médiath'eque).
Il recupero dell'informazione, che nelle strutture tradizionali avveniva attraverso indici e schedari contenuti nella sala catalogo, avviene oggi, spesso anche in biblioteche di modeste dimensioni, attraverso archivi elettronici che in molti paesi sono già collegati a una rete nazionale. In alcune strutture importanti si va diffondendo anche l'uso della ricerca e distribuzione automatica dei volumi. La fruizione dell'informazione che richiedeva alla biblioteca tradizionale esclusivamente l'organizzazione di una o più sale di lettura, avviene ora anche attraverso apparecchi di lettura che richiedono spazi specializzati (ambienti destinati ai visori per nastri, diapositive, microfilm, sale destinate agli apparecchi per la riproduzione del suono, ecc.) oltre alla possibilità di riprodurre le informazioni per la fruizione fuori sede.
Una tendenza recente nella progettazione dei nuovi edifici è però anche quella di favorire la cosiddetta ''consultazione asistematica'', consentendo il rapporto diretto con una parte dei fondi dei quali la biblioteca è dotata (particolarmente enciclopedie e volumi di consultazione generale). Nel rinnovamento delle grandi biblioteche nazionali, in corso in molti paesi, si seguono criteri molto diversi tra loro, in funzione della politica culturale perseguita, delle necessità locali, dell'immagine architettonica che dell'istituzione si vuole dare.
Tra i programmi in fase di attuazione uno dei più ambiziosi è quello per la costruzione della nuova sede della British Library a Londra, che prevede la concentrazione e distribuzione automatica alle sale di lettura dei 16 milioni di volumi di cui la biblioteca è dotata (attualmente dispersi in 16 diversi edifici) e la possibilità di ospitare fino a 25 milioni di volumi. La costruzione dell'edificio, progettato dallo studio Colin St. John Wilson e Partners, ha avuto inizio nel 1982, suscitando vivaci polemiche per le dimensioni e i problemi di gestione che comporterà, oltre che per l'immagine dimessa del nuovo complesso, considerata inadeguata all'eredità delle antiche strutture di R. Smirke. Ne è prevista l'apertura parziale al pubblico nel 1993.
A Parigi, su un'area industriale abbandonata lungo la Senna, sta per iniziare la costruzione della Nouvelle Bibliothèque de France, prevista per 12 milioni di volumi. Il progetto di D. Perrault prevede un nuovo ruolo urbano per la biblioteca secondo lo slogan ''un luogo, non un edificio'': verrà costruita una grande piazza sistemata in gran parte a verde e scavalcata da passaggi pedonali, mentre sui quattro angoli troveranno posto i servizi della biblioteca propriamente detta, gestiti con le tecnologie più avanzate. La biblioteca sarà al centro di un sistema di comunicazione a distanza delle informazioni, dapprima a scala nazionale e in secondo tempo a scala europea. La prima fase di realizzazione dovrà essere completata per il 1995.
In Germania, seguendo una politica di decentramento che coinvolge anche altri settori della cultura, esistono tre biblioteche nazionali: a Monaco, Francoforte e Berlino. Quest'ultima, terminata nel 1978 (una delle opere maggiori dell'architetto H. Sharoun), è molto nota per le innovazioni che ha comportato, col magazzino libri concentrato in un blocco di 42 m di altezza e le sale lettura, pur distribuite su diversi livelli per consentire l'isolamento del lettore, che partecipano visualmente dello spazio interno continuo dell'edificio. Sono attualmente in fase di avvio i lavori della nuova Deutsche Bibliothek di Francoforte, dove l'edificio progettato dallo studio Arat e Kaiser consentirà la sistemazione di circa 4 milioni di volumi con una gestione completamente automatizzata e informatizzata, tanto che non è nemmeno prevista una sala catalogo perché le ricerche avverranno direttamente attraverso elaboratore.
In Italia una nuova Biblioteca Nazionale è stata costruita a Roma su progetto di Castellazzi, Dall'Anese, Vitellozzi, a seguito di un concorso bandito nel 1959, e aperta completamente al pubblico solo nel 1975.
Per quel che riguarda le prospettive per il futuro, infine, si può affermare che quello della biblioteca è uno dei tipi edilizi per i quali si prevedono le trasformazioni più radicali, trasformazioni dovute all'adozione di nuove tecnologie che, già sperimentate in sede di ricerca, troveranno nei prossimi anni vaste applicazioni. Non sarà necessario, per es., che l'informazione arrivi attraverso libri o copie di qualunque tipo: essa potrà arrivare direttamente a un monitor non necessariamente ubicato nell'edificio della biblioteca. I nuovi strumenti di conservazione delle informazioni potrebbero poi essere costituiti dai dischi ottici, su ognuno dei quali è possibile riportare decine di milioni di pagine, mentre per il trasporto diretto delle immagini a distanza potranno venire utilizzate le fibre ottiche.
In Italia è stato compiuto recentemente uno sforzo nella direzione dell'aggiornamento del sistema bibliotecario nazionale con l'istituzione dell'Ufficio per il Catalogo unico affidato al ministero dei Beni culturali con lo scopo di realizzare una rete di collegamento tra biblioteche, in modo da rendere praticamente individuali tutte le informazioni disponibili nelle raccolte nazionali.
Edilizia per lo sport e il tempo libero. − È continuata a ritmi costanti la diffusione delle strutture per attività sportive non competitive, in linea con una tendenza alla propagazione dello sport di massa che sta comportando in alcuni casi, accanto a fenomeni indubbiamente positivi, problemi di difficile soluzione a causa del grande numero di praticanti e del conseguente impatto sull'ambiente (si pensi alle infrastrutture necessarie a far fronte alla diffusione degli sport invernali, o al crescente favore della nautica da diporto e regata). Peraltro un fenomeno di tendenza opposta ma ugualmente rilevante è costituito dall'importanza assunta dallo sport inteso come spettacolo, per l'attenzione internazionale che viene dedicata ai principali avvenimenti sportivi e l'enorme diffusione data loro dai mezzi di comunicazione di massa. Avviene così che le scadenze periodiche delle grandi manifestazioni sportive a scala mondiale (Olimpiadi, campionati mondiali delle diverse discipline sportive), creando problemi organizzativi insoliti e concentrando sui paesi o le città che le ospitano l'attenzione internazionale, forniscono spesso l'occasione e lo stimolo per la costruzione non solo di grandi strutture sportive o per il rinnovo di quelle esistenti, ma anche dei servizi urbani destinati a integrarle.
Caso esemplare è quello della città di Barcellona, che ha colto l'occasione delle Olimpiadi del 1992 per costruire grandi attrezzature pubbliche e rinnovare intere parti di città degradate, secondo una tradizione che ha avuto antecedenti famosi nelle esposizioni internazionali del 1888 e del 1929, quando fu costruito il vecchio stadio. Il piano ha previsto la ristrutturazione della rete viaria di grande collegamento, la formazione dell'Anello Olimpico (completo rinnovo del vecchio stadio, nuovo palazzo dello sport, ecc.) e la costruzione del Villaggio Olimpico per l'alloggio di delegazioni e atleti, che ha comportato la ricostruzione di un'intera parte degradata di Barcellona.
In Italia, in occasione dei Campionati mondiali di calcio (1990), sono state completate importanti opere di e. sportiva, consistenti in genere nell'ampliamento della capacità degli stadi (sia nella dimensione delle tribune che nelle strutture viarie di collegamento e parcheggio), nella copertura delle tribune per gli spettatori con strutture spesso di notevole impegno tecnico, nell'adeguamento a nuovi criteri di sicurezza resi necessari in tutta Europa dai problemi di ordine pubblico che, con sempre maggiore frequenza, la tensione degli avvenimenti sportivi ha creato tra gli spettatori. I lavori di ristrutturazione di questo tipo hanno impegnato soprattutto gli stadi delle grandi città (l'Olimpico a Roma, il Meazza a Milano, il Bentegodi a Verona, il Ferraris a Genova, il Comunale a Firenze, il Dall'Ara a Bologna, il San Paolo a Napoli, La Favorita a Palermo), mentre nuovi stadi si sono costruiti a Torino su progetto di V. Gregotti e a Bari su progetto di R. Piano.
Edilizia cimiteriale. - Una rinnovata attenzione per l'aspetto architettonico dei luoghi di sepoltura ha caratterizzato negli ultimi quindici anni il modo di costruire i cimiteri. Il fenomeno, generale in tutta Europa, ha interessato in modo particolare i paesi mediterranei dove, come in Spagna o in Italia, si era sviluppata nel passato una tradizione di spiccata monumentalità nel campo dell'e. cimiteriale.
Per comprendere la portata del cambiamento in atto va rilevato come il cimitero sia l'unico grande tema di architettura trascurato, con rare eccezioni, dalla ricerca del Movimento Moderno e come, nelle costruzioni del dopoguerra, il problema dell'e. cimiteriale sia stato ridotto a servizio pubblico ispirato a criteri quasi esclusivamente funzionali. Negli anni Cinquanta e Sessanta la progettazione dei cimiteri era affidata in genere agli uffici tecnici comunali che operavano l'ampliamento delle vecchie strutture attraverso semplici piani di lottizzazione e aggiunte successive di edifici per tumulazioni fuori terra, la cui architettura era informata a ragioni di rapidità costruttiva. Il ruolo simbolico del cimitero aveva perso così progressivamente importanza.
Alcuni sintomi di cambiamento sono comparsi tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, con i progetti dei cimiteri di Modena (Rossi e Braghieri) e Parabita, presso Lecce (Anselmi e Chiatante). Da allora si sono succedute numerose esperienze tese al recupero dei valori storicamente consolidati dell'architettura funeraria.
Il nuovo cimitero di Modena costituisce l'espansione dell'antico cimitero della città costruito dall'architetto C. Costa secondo uno schema chiuso a impianto assiale tipicamente ottocentesco. Il fatto che l'amministrazione del comune di Modena abbia affidato a un concorso nazionale il compito di elaborare le scelte per l'ampliamento del cimitero ha rappresentato un'innovazione ripresa in seguito da molte altre amministrazioni, aprendo il dibattito architettonico su un tema a lungo trascurato.
Il progetto di Rossi è caratterizzato dalla monumentale semplicità della soluzione e si ricollega agli studi degli architetti illuministi francesi (segnatamente a L. E. Boullée). Come il cimitero ottocentesco che ha nella nostra cultura un'immagine familiare e quotidiana, "questo progetto di cimitero − si legge nella relazione al progetto − non si discosta dall'idea di cimitero che ognuno possiede". Nella distribuzione del cimitero si possono distinguere, come in una città, un tessuto continuo, costituito dalle gallerie delle tumulazioni e degli ossari, e alcuni episodi eccezionali in cui si concentra la carica simbolica del progetto, un cono in cemento armato che sovrasta lo spazio della fossa comune e un grande cubo forato da bucature quadrate destinato in origine a famedio.
La novità del nuovo cimitero di Parabita (Lecce) risiede nell'intenzione di programmare l'ampliamento dell'area delle sepolture esistente secondo criteri di rigida coerenza geometrica: in luogo della giustapposizione di elementi derivati dalle necessità funzionali, i progettisti hanno proposto una struttura edilizia monumentale, ordinata secondo un metodo elaborato sulla scia delle esperienze di L. Kahn.
Le esperienze dei cimiteri di Modena e di Parabita hanno segnato una svolta nell'e. funeraria: alle valutazioni puramente tecniche che orientavano le scelte dei progettisti dal dopoguerra agli inizi degli anni Settanta, si vanno sostituendo considerazioni sul valore di testimonianza e trasmissione di valori di cui il cimitero è portatore. Molti dei tipi edilizi oggi adottati per le nuove gallerie delle tumulazioni fuori terra (ma anche per altri elementi della composizione del cimitero, come gli ossari o gli edifici per il rito funebre) derivano direttamente dal cimitero ottocentesco italiano, la cui tradizione sembra essere stata ripresa e adattata a nuove istanze a partire dall'esempio del cimitero di Modena. Alcuni dei nuovi progetti mostrano anche come per gli edifici collegati alla sepoltura e al rito funebre si vada riscoprendo il fascino dei simboli legati alle funzioni primarie dell'uomo, come la copertura a tetto che richiama, insieme all'idea di protezione, l'immagine dell'"ultima dimora''.
Il tema del recinto costituisce un altro dei motivi ricorrenti nei nuovi cimiteri, soprattutto di piccole dimensioni, secondo un'eredità ottocentesca che vuole la ''città dei morti'' perimetrata e distinta anche simbolicamente dal mondo esterno. Si veda per es. il cimitero di Voltabarozzo, presso Padova (Rosa e Cornoldi), dove il recinto costituisce la struttura stessa della costruzione, secondo l'uso degli edifici rurali a corte della campagna veneta. La divisione netta tra interno ed esterno dell'area cimiteriale, ottenuta attraverso il riferimento simbolico alle mura urbane, sembra essere anche il motivo ricorrente di tanti cimiteri posti a contatto con aree rurali, dove la delimitazione netta del perimetro rende riconoscibile l'intervento e stabilisce spesso un limite visivo verso la campagna. È il caso del cimitero di Viadana, presso Mantova (Gozzi e altri), o del costruendo ampliamento del cimitero di Terni (Strappa e altri), le perimetrazioni dei quali, completamente chiuse dalla cortina esterna di mattoni o pietra, alludono a una cinta fortificata. O anche del cimitero di Fiesso d'Artico presso Venezia (Aldegheri e altri), dove il muro degli ossari recinge su tre lati la piazza centrale ed è circondato a sua volta, al di là dei campi d'inumazione e delle cappelle private, dal recinto perimetrale dei colombari costituito da un portico aperto verso l'interno e da una muratura continua che protegge dall'esterno le tumulazioni.
Uno dei problemi che si riscontra nella nuova e. cimiteriale è l'impossibilità di controllare il risultato finale del processo di crescita: una volta che le strutture vengono progettate secondo criteri formali definiti, dove le diverse parti sono necessarie le une alle altre per conseguire l'unità dell'organismo, le alterazioni del programma iniziale rischiano di compromettere l'esito del progetto. Queste alterazioni sono del resto inevitabili, dati i lunghissimi tempi di costruzione e crescita di un cimitero. Il progetto dell'ampliamento del cimitero suburbano di Pisa (Carmassi e Andolfi) propone un'interessante risposta di metodo a questo problema: viene qui accettata l'ipotesi che il disegno del cimitero costituisca solo un'indicazione generale destinata ad accogliere ripensamenti e modifiche che i molti anni di sviluppo edilizio comporteranno, e il progetto è sostituito da un piano ''aperto'', destinato a ordinare l'edificazione successiva all'interno di un recinto rettangolare.
Edilizia per l'industria. - La tendenza da tempo in atto nell'e. per l'industria verso un'estrema razionalizzazione dei cicli produttivi è proseguita negli anni Ottanta, con l'abbandono anche di quei limitati esperimenti di ''umanizzazione'' del lavoro in fabbrica che avevano costituito nel decennio precedente una caratteristica importante nella ricerca sul futuro di questo tipo di edifici. In realtà il progresso dell'automazione è stato talmente rapido negli ultimi anni, da portare in qualche modo a una rivalutazione del lavoro umano al quale, in misura sempre maggiore, sembra saranno evitate le lavorazioni più ripetitive, con una nuova professionalità del lavoratore che riguarderà le scelte tecnologiche, il controllo dei flussi di informazioni, la determinazione dei parametri produttivi. L'automazione integrata ha investito infatti l'intero ciclo produttivo, non solo nelle fasi di montaggio, ma anche nella movimentazione dei materiali, nel controllo della qualità del prodotto finito, nei programmi di manutenzione.
Uno dei problemi posti dalla complessità dei cicli lavorativi automatizzati è quello dell'adattabilità ai cambiamenti di produzione. Questa infatti è oggi direttamente condizionata dalle strategie di mercato e richiede spesso rapide conversioni dell'apparato produttivo, imponendo tra i nuovi requisiti che si richiedono agli edifici industriali quello di una grande versatilità. Altro problema che riguarda direttamente l'aspetto edilizio del ciclo lavorativo è quello dell'immagine aziendale, alla quale da qualche anno viene posta una particolare attenzione. Notevole successo hanno avuto a questo riguardo i progetti di architetti che fanno dell'esibizione di tecnologie costruttive sofisticate quasi un repertorio di forme architettoniche tese a suggerire quell'immagine di progresso e organizzazione cui l'azienda aspira. Si vedano a questo proposito alcuni significativi esempi inglesi, come il centro Renault a Swindon (N. Foster, 1983) o la fabbrica di microprocessori a Newport (R. Rogers, 1984), collocabili nel filone delle architetture high-tech cui si è accennato in precedenza.
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Edilizia per le infrastrutture: P. Taccheo, Spostamenti nella città, le ferrovie urbane come elemento primario nella mobilità metropolitana, Roma 1978; P. Carbonara, Comunicazioni, trasporti e servizi urbani, in Architettura pratica, aggiornam., vol. ii, sez. xii, Torino 1989.
Statistiche dell'edilizia in Italia. − La maggiore richiesta di informazioni statistiche e il conseguente potenziamento delle strutture preposte alla loro offerta, in primo luogo l'Istituto nazionale centrale di statistica, hanno prodotto, nel più recente periodo, un discreto ampliamento della base informativa anche nell'ambito dell'edilizia. Si possono distinguere, a questo proposito, le informazioni statistiche che riguardano le imprese, nella loro struttura e nella loro evoluzione, e le informazioni relative ai flussi produttivi delle imprese, in altre parole ai diversi prodotti dell'edilizia.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è il censimento dell'industria e commercio, effettuato con cadenza decennale, a fornire le informazioni più attendibili e complete. Da tale censimento è infatti possibile disporre di dati relativi alle imprese (per numero di unità locali, diffusione territoriale, forma giuridica, numero di attività esercitate, ecc.) e alle unità locali (per numero di addetti, potenza utilizzabile, spese per il personale, capitali in dotazione, ecc.). Oltre al censimento, l'Istituto centrale di statistica svolge annualmente anche un'indagine sui bilanci delle imprese, che rileva informazioni sulla situazione patrimoniale a fine esercizio, sugli addetti, il fatturato, ecc. Alcuni dati del più recente censimento sono riportati, in confronto con i due precedenti censimenti, nella tab. 1, che mette in evidenza il netto incremento delle imprese e l'aumento assai più contenuto degli addetti. In particolare si può sottolineare la riduzione del numero di operai e manovali, mentre le altre categorie di lavoratori, in netta minoranza al 1961, sembrano avviate a diventare maggioranza.
Limitatamente alla consistenza totale delle imprese e degli occupati a fine anno, oltre che per le nuove iscrizioni e le cessazioni di attività, una fonte interessante è rappresentata dall'anagrafe delle ditte che è tenuta, a livello delle singole province, dalle Camere di commercio. Altri enti (INPS, associazioni di categoria, casse edili, ecc.) raccolgono inoltre, e talora pubblicano, dati limitati ad alcuni segmenti, anche importanti, del settore edilizio.
Sui flussi produttivi delle imprese di costruzione la disponibilità di statistiche è meno soddisfacente. Per difficoltà tecniche di rilevazione l'industria delle costruzioni non è infatti coperta dall'indagine mensile svolta dall'ISTAT sulla produzione industriale, e tutte le altre rilevazioni, a cominciare da quella sull'attività edilizia che si basa sulle concessioni rilasciate dai Comuni fino alla rilevazione sulle opere pubbliche svolta attraverso gli enti della pubblica amministrazione, risultano tradizionalmente carenti e devono essere integrate da stime sull'attività cosiddetta ''sommersa'' effettuate dallo stesso Istituto di statistica. Da tali rilevazioni è comunque possibile ottenere, con riferimento all'e. residenziale, dati su: numero di stanze, superficie, volume, struttura portante dell'opera, forma di finanziamento, ecc. Per l'e. non residenziale vengono inoltre fornite indicazioni sulla destinazione d'uso dei fabbricati (agricolo, industriale, sportivo, scuola, ecc.) e la dimensione.
Alcune statistiche sull'andamento dell'attività edilizia in Italia sono riportate nella tab. 2. Per le opere pubbliche o di pubblica utilità, definite come le costruzioni o gli impianti funzionalmente destinati all'impiego come capitale fisso nella produzione di beni e servizi da parte degli enti o aziende della pubblica amministrazione, vengono rilevate, distintamente per i lavori iniziati ed eseguiti, le seguenti caratteristiche: natura del lavoro, tipo di opera, forma di finanziamento. Per i lavori iniziati viene anche rilevata la durata prevista e l'importo complessivo dei lavori, mentre per i lavori eseguiti si rileva l'importo della produzione realizzata sulla base degli stati di avanzamento.
Dati sulla produzione in termini di valore vengono elaborati dall'ISTAT, a partire dagli anni Cinquanta, nel quadro della Relazione generale sulla situazione economica del paese, presentata annualmente dal governo al Parlamento entro la fine di marzo. Tali dati fanno riferimento al valore aggiunto e agli investimenti del settore. Di tali dati si riporta nella tab. 3, per il periodo 1987-90, la serie annuale in lire correnti e, per eliminare dal confronto l'effetto dell'inflazione, in lire costanti del 1985.
Oltre che la struttura industriale e la produzione, altri aspetti dell'e. risultano coperti dalle rilevazioni statistiche ufficiali. Per l'occupazione, per es., si dispone trimestralmente, dal 1958, delle informazioni desumibili dalla rilevazione corrente sulle forze di lavoro (occupati per sesso, posizione professionale, regione, ore di lavoro effettuate, ecc.). Sono altresì disponibili, come per la maggior parte delle altre classi di industria, le tradizionali informazioni desumibili dal censimento demografico relative alla popolazione attiva per sesso, età, residenza, professione, ecc., e dal censimento industriale, sugli occupati dichiarati dalle imprese secondo le relative caratteristiche anagrafiche. Con cadenza più ravvicinata − si ricordi che i censimenti vengono effettuati ogni 10 anni − si può far ricorso anche alle tradizionali fonti di natura amministrativa (liste di collocamento per la disoccupazione, cassa integrazione, ecc.).
Infine, per i costi di costruzione l'ISTAT elabora, da diversi anni, indici mensili con riferimento a tre produzioni tipiche del settore: fabbricato residenziale, capannone industriale e tronco autostradale. Si tratta di indici che permettono di seguire nel tempo la dinamica del costo dell'opera complessiva, o di sue singole componenti, con riferimento a opere tipiche le cui caratteristiche tecniche (qualità e quantità dei materiali, manodopera e servizi impiegati) vengono mantenute costanti nel tempo. Serie storiche relative a tali fenomeni vengono prodotte, fin dal 1928, dal Centro statistica aziendale di Firenze.
Disciplina giuridica. − Dal 21 dicembre 1961 fino al 27 luglio 1978, data della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della innovativa l. 392, è stato un susseguirsi ininterrotto di provvedimenti legislativi, per lo più decreti legge, non sempre convertiti, che, nell'ottica di una legislazione sostanzialmente vincolistica, sono venuti a porre limiti rigorosi a due elementi fondamentali del rapporto di locazione: la durata del contratto e il corrispettivo (per i precedenti v. casa, App. II, i, p. 525; III, i, p. 316; IV, i, p. 382).
Questa intensificazione della legislazione vincolistica, sia di proroga dei contratti di locazione che di proroga o di sospensione dell'esecuzione degli sfratti (ben 32 provvedimenti legislativi dal 1962 al 1978), ha totalmente stravolto e snaturato il principio della "funzione sociale della proprietà", prevista dalla Costituzione, venendo a comprimere, in modo drastico, i diritti dei proprietari, anziché favorire la diffusione della proprietà. Proprio in relazione al protrarsi per quasi trent'anni della disciplina vincolistica, più volte sottoposta all'esame della Corte costituzionale (da vedere, tra le altre, le sentenze del 9 aprile 1963 n. 43, 12 luglio 1972 n. 132, 3 gennaio 1976 n. 3), alcune disposizioni generali dell'istituto della locazione risultano abrogate o derogate o quantomeno sospese nella loro efficacia, in pendenza dei vincoli di proroga del contratto di locazione e di blocco del canone.
Si era affermato così, in giurisprudenza, l'orientamento secondo cui, in presenza di locazione soggetta a proroga legale, la disciplina generale dettata dagli artt. 1575, 1576 e 1577 cod. civ. doveva considerarsi sostituita da quella speciale prevista dall'art. 41 della l. 253 del 1950, con sospensione dell'obbligo giuridico, per il locatore, di provvedere alla manutenzione, sia ordinaria che straordinaria, dell'immobile locato. Ciò per "attenuare il sacrificio del locatore che, per effetto del vincolo, non poteva chiedere aumenti di canone, mentre la manutenzione degli immobili comportava spese non più adeguatamente compensate dal corrispettivo del canone, rimasto fermo a livelli irrisori".
Con la l. 27 luglio 1978 n. 392 il legislatore ha inteso eliminare il cosiddetto regime vincolistico dei contratti di locazione, emanando una disciplina organica della complessa materia intesa a un equo contemperamento dei contrapposti interessi del proprietario e dell'inquilino, così come auspicato dalla Corte costituzionale con sentenza 3 gennaio 1976 n. 3, e chiaramente superare la pregressa posizione di preminenza del conduttore. A giudizio della Corte sarebbe stato inaccettabile confermare il principio, fatto proprio dalla legislazione vincolistica, dell'attuazione del postulato costituzionale della funzione sociale della proprietà con la protezione del solo conduttore.
La l. 392 del 1978 (cosiddetta legge sull'''equo canone'') si poneva, fra le altre finalità, quella della progressiva liberalizzazione del mercato delle locazioni, con la definitiva eliminazione, alla fine degli anni 1982-83 (alla scadenza cioè del regime transitorio previsto dagli artt. 58 e 65 per le locazioni a uso abitativo, e 65 e 71 per quelle a uso diverso) del regime vincolistico; una durata minima dei contratti di locazione (anni quattro, art. 1, per gli immobili destinati a uso abitativo; anni sei, art. 27 e 42, per quelli a uso diverso: commerciale, artigianale e industriale, e per quelli adibiti ad attività ricreative e assistenziali, a sede di partiti o sindacati o stipulati dallo Stato o altri enti pubblici territoriali; anni nove per le locazioni alberghiere). Inoltre, la legge proponeva un equo canone stabilito e predeterminato sulla base di specifici coefficienti o elementi (artt. 13-21), o tale da non superare, comunque, il 3,85% del valore locativo dell'immobile oggetto di locazione; un aggiornamento del canone, nella misura del 75% della variazione percentuale assoluta dell'indice dei prezzi al consumo, da doversi richiedere, comunque, dal proprietario, e la cui variazione annuale entra a far parte integrante del canone; la liberalizzazione totale, in regime normale, del canone di locazione per immobili a uso diverso da quello abitativo; un compenso automatico per l'avviamento commerciale a favore del conduttore, purché in presenza di attività svolta a contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori; il diritto di prelazione, e il conseguente diritto di riscatto (artt. 38 e 39), a favore dei conduttori di immobili a uso diverso da quello abitativo, con esclusione, peraltro, degli immobili adibiti all'esercizio delle attività professionali, dei locali ove vengono svolte le attività non comportanti contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori o una delle attività previste dall'art. 42; il ricorso al rito del lavoro per le controversie giudiziarie, la nullità assoluta di clausole o patti contrari alla legge, a danno dei conduttori, con azione proponibile fino a sei mesi dalla data del rilascio; l'istituzione di un fondo sociale per le famiglie meno abbienti.
Nel frattempo, nel settore di intervento diretto dello Stato nell'e. privata, specialmente rivolto all'incremento della costruzione di alloggi economici e/o popolari, si era tentato di regionalizzare il sistema. Significativa, al riguardo, in una visione più generale e uniforme della disciplina giuridica, era stata la l. 18 aprile 1962 n. 167, che ha introdotto una nuova disciplina in materia di aree da acquisire al settore pubblico e da porre a disposizione degli utenti per la realizzazione di case economiche e popolari, combattendo così alla radice la speculazione sulle aree e, nel contempo, consentendo la progettazione di piani urbanistici dotati delle infrastrutture necessarie.
Soltanto con la cosiddetta legge sulla casa (22 ottobre 1971 n. 865) e i due decreti delegati del 30 dicembre 1972 n. 1035 e 1036 si cominciò a intravedere un disegno più uniforme, nel quale vengono inserite anche le Regioni, gli enti locali e tutte quelle istituzioni che si occupano delle case economiche e popolari. Il fenomeno viene affrontato ampiamente con la predisposizione di piani poliennali; ciò si riflette sulla modifica del titolo della legge, che si trasforma in "edilizia residenziale pubblica" per distinguerlo da quello relativo alle scelte private, cioè "edilizia residenziale privata".
Tuttavia, in questo periodo si assiste a un fenomeno inverso a quello descritto prima; infatti da una parte, in base alle leggi richiamate, si predispongono programmi poliennali di ampio respiro e notevolmente finanziati dallo Stato e dalle Regioni, dall'altra si assiste a un continuo proliferare di altre leggi che predispongono piani, non collegati con quelli generali e definiti ''di emergenza'', per far fronte non tanto a situazioni imprevedibili quanto all'incapacità delle strutture burocratiche di produrre una quantità di alloggi necessari a soddisfare il fabbisogno degli utenti, che, nel frattempo, sono aumentati a dismisura anche a causa della rigidità del mercato delle locazioni, determinata proprio dalla cosiddetta legge sull'equo canone.
Permanendo però confusa la situazione e auspicandosi da più parti il riordinamento della materia, si giungeva all'approvazione della l. 8 agosto 1978 n. 457, la cui finalità precipua era quella di porre ordine nella materia e, nel contempo, predisporre le strutture tecniche e amministrative necessarie a renderla effettivamente operante. Ma, come è stato detto prima, non sembra che tale intento sia stato raggiunto, dal momento che la legge in questione contiene discipline diversificate fra loro, o riconducibili a unità solo in relazione al più ampio concetto di edilizia. Essa privilegia infatti il sistema della programmazione finanziaria al fine di coordinare i diversi interventi in materia di e. residenziale, con particolare attenzione all'e. residenziale pubblica, senza tralasciare l'altro aspetto della produzione di alloggi di iniziativa privata, al fine di coordinare gli interventi nei due settori, per ottenere un risultato ottimale, sia prevedendo finanziamenti per l'e. pubblica sia introducendo particolari manovre, creditizie, normative e fiscali, per quella privata.
In tale prospettiva appare degno di rilievo il disegno del legislatore che forse per la prima volta si rende conto che non tutta la produzione di alloggi debba e possa gravare sulla spesa pubblica, e che considera, seppure con particolari precauzioni, come anche quella privata possa concorrere a soddisfare le esigenze abitative della popolazione, incentivando e potenziando la capacità di risparmio e di capitalizzazione di quella parte di cittadini che non presentano i requisiti per accedere agli alloggi pubblici, e, nel contempo, non hanno neanche la possibilità di acquistare una casa senza l'aiuto, pur se modesto, dell'intervento pubblico.
L'art. 1 della l. 457 del 1978 suddivide il piano decennale per l'e. residenziale in comparti quadriennali: esso può essere aggiornato in relazione alle varie esigenze che via via si possono manifestare, concentrando, in un solo momento, tutte le risorse disponibili, secondo i criteri che dovranno essere espressi dal CIPE, in relazione al fabbisogno complessivo di e. abitativa. Per rendere, poi, il piano decennale più aderente alle esigenze locali (che possono essere molto diverse sotto il profilo non solo quantitativo ma anche qualitativo), si coinvolgono le Regioni alla risoluzione del problema imponendo loro la predisposizione di propri piani quadriennali (sulla base del piano nazionale) e di piani biennali d'intervento operativo, con i quali riportare a livello più strettamente esecutivo la più generale visione del piano nazionale.
Le indicazioni di programma del piano decennale devono soddisfare diverse esigenze in riferimento all'e. residenziale: più precisamente predispongono gli interventi per l'e. sovvenzionata intesa alla realizzazione di nuove costruzioni nonché al recupero del patrimonio edilizio esistente, tramite piani che la stessa legge disciplina e che servono a invogliare i privati proprietari e le amministrazioni comunali alla ricerca di metodi più idonei per acquisire almeno due risultati, fra loro connessi: il risanamento di ampi spazi storici e l'utilizzazione degli immobili esistenti promuovendo parametri di abitabilità più moderni e quindi rendendo le abitazioni più appetibili da parte dell'utenza. Al riguardo va osservato che il legislatore ha saputo cogliere per tempo l'emergente tendenza all'insediamento nei centri urbani, che sinora era stato lasciato del tutto nelle mani della speculazione edilizia privata. Analoghi interventi sono previsti per l'e. convenzionata, in ordine alla quale le previsioni normative della l. 26 gennaio 1977 n. 10 sembrano aver sortito effetti positivi, determinati dalla possibilità per molti di realizzare alloggi in condizioni economiche agevolate. Certo l'intervento relativo all'e. residenziale non può restare avulso dalla programmazione urbanistica, in quanto l'esperienza insegna che il costo delle aree edificabili lievita in rapporto alla loro scarsità, determinata dalla mancanza di un'idonea pianificazione urbanistica di primo e secondo livello, nonché dalla mancanza di idonei piani per l'e. economica e popolare di cui alla l. 18 aprile 1962 n. 167. Di qui l'esigenza, posta in luce dall'art. 1 della citata legge, di creare tutte le condizioni necessarie all'acquisizione e urbanizzazione delle aree destinate agli insediamenti residenziali.
Il problema dell'e. residenziale rientra pertanto negli obiettivi più importanti della manovra economica generale. Viene quindi statuito che, alla relazione previsionale e programmatica e alla relazione generale della situazione economica, vada allegata anche una relazione concernente il settore edilizio e la realizzazione dei programmi di e. residenziale.
Per la predisposizione dei piani e per la loro attuazione, nonché per le competenze espresse, vengono individuati specifici organi: il CIPE, con competenze sia programmatiche e d'iniziativa sia strettamente operative; il CER (Comitato per l'Edilizia Residenziale), con competenze d'impulso e proposta nei riguardi del CIPE o del Comitato Interministeriale del Credito, e con competenze strettamente operative in materia di e. residenziale autonoma e nella specificazione dei criteri individuati dal CIPE (tale organismo è dotato di ampia autonomia al fine di realizzare, nel miglior modo possibile, tutti gli interventi sia di carattere programmatico che, più specificatamente, attuativi); infine le Regioni, alla cui competenza vengono demandati diversi compiti, tra cui, importanti: l'individuazione del fabbisogno abitativo; la formazione di piani quadriennali e progetti biennali destinati a utilizzare le risorse finanziarie disponibili per l'e. residenziale, eventualmente integrando le stesse con appositi piani regionali; la ripartizione dei fondi disponibili; l'individuazione degli operatori del settore; l'esercizio della vigilanza; la formazione e la gestione dell'anagrafe degli assegnatari; la definizione dei costi massimi ammissibili; la comunicazione al CER e alla Cassa depositi e prestiti della situazione di cassa riguardante la gestione; la predisposizione di una relazione annuale sullo stato di attuazione dei programmi; la disposizione dei contributi pubblici previsti dalla legge; l'esercizio della vigilanza sui requisiti soggettivi dei beneficiari del contributo.
Oltre alla previsione di una disciplina puntuale per la gestione finanziaria del piano decennale che, per la sua caratteristica d'intervento previsto per dare una risposta alla necessità di realizzare alloggi nella maggiore quantità possibile, necessita anche di un'agile autonoma struttura finanziaria, la legge 457 del 1978 prevede un nuovo strumento urbanistico, denominato ''piano di recupero''. Con questo strumento, i comuni individuano, nell'ambito degli strumenti urbanistici generali, le zone dove, per le condizioni di degrado, si rende opportuno il recupero del patrimonio edilizio e urbanistico esistente. Si tratta quindi di uno strumento che, in particolare per i centri storici, consente interventi rivolti alla conservazione, ristrutturazione, risanamento e migliore utilizzazione del relativo patrimonio.
Con gli strumenti generali o particolari previsti col piano di recupero si viene a creare un sistema in cui coinvolgere i privati proprietari di singoli immobili, di complessi edilizi isolati, di aree, nonché di edifici destinati ad attrezzature. Diversamente i comuni non avrebbero avuto a disposizione né gli strumenti autoritativi né i mezzi, rispondenti a una visione più moderna del fenomeno, per intervenire sulle singole costruzioni o tanto più su interi complessi edilizi. Né al riguardo può dirsi che abbiano sortito effetti di un qualche rilievo le agevolazioni fiscali o creditizie contenute in diverse leggi del 1978. Il legislatore si è preoccupato infatti di inserire i piani di recupero nell'ambito degli strumenti urbanistici generali (piani regolatori generali e programmi di fabbricazione). Al che si deve aggiungere che gli stessi non risultavano appetibili a causa del contesto edilizio in cui si trovavano, normalmente fatiscente, degradato, privo di servizi e strutture. Viene, infatti, statuito dalla l. 457 del 1978 che i piani di recupero devono essere individuati all'interno dei piani regolatori generali, mentre qualche dubbio sorge circa i programmi di fabbricazione (si ritiene, però, che la relativa assimilazione di questi ultimi ai primi, secondo la giurisdizione della Corte costituzionale e di quella amministrativa, possa far supporre che sia possibile individuare i piani di recupero anche nell'ambito di strumenti più limitati, come il programma di fabbricazione). L'individuazione delle zone di recupero e la predisposizione dei relativi piani è compiuta dal Consiglio comunale, o in sede di formazione dello strumento generale o all'interno dello stesso, se già esistente, e deve muoversi in sintonia con le direttive generali in esso contenute. Per agevolare la realizzazione dei piani di recupero, d'iniziativa sia pubblica (art. 29) che privata (art. 30), l'art. 33 prevede interventi finanziari sotto forma di mutui agevolati.
Va osservato, a conclusione di questo esame della normativa del settore, come negli anni 1978-79, con l'emanazione di tre leggi fondamentali − la l. 10 del 1978 (sulla edificabilità dei suoli), la l. 392 del 1978 e la l. 457 del 1978 − si riteneva di aver risolto, in modo definitivo, il problema della casa, sia per le famiglie abbienti che per quelle meno abbienti. Così non è stato. A distanza di oltre dodici anni risulta chiaro che molte speranze sono state deluse.
Una moderna legge sul regime dei suoli appare oggi indispensabile, non solo per il governo del territorio e dell'ambiente, ma anche per il regime delle aree fabbricabili, necessario per un rilancio dell'e. pubblica, sovvenzionata e agevolata. Appare, altresì, indifferibile una legge in materia di indennità di espropriazione delle aree fabbricabili, che dia certezza agli enti pubblici che si trovano, ora, ad agire nell'assenza di una qualsiasi legge e di una qualsiasi certezza, in un regime assai gravoso dal punto di vista della spesa, avendo la Corte costituzionale, con sentenza 25 gennaio 1980 n. 5, dichiarato l'incostituzionalità dei principi-base della l. 10 del 1978 e della l. 865 del 1971 nonché, con successiva sentenza 15 luglio 1983 n. 223, avendo dichiarato anche la incostituzionalità delle leggi 385 del 29 luglio 1980, 481 del 29 luglio 1982 e 43 del 23 dicembre 1982, con le quali si era inteso tamponare la falla prodotta dalle dichiarate incostituzionalità. In mancanza di adeguata e coerente legge in materia, torna valida l'applicazione delle disposizioni della l. 25 giugno 1865 n. 2359, che prevede il valore venale del bene. E viene a essere, altresì, vanificato il principio base della legge Bucalossi (l. 10 del 1978) e che in un moderno stato di diritto appare irrinunciabile, e cioè quello che riconosce "il diritto alla società di controllare il territorio, la necessità di una programmazione agile ed efficace, l'esigenza di evitare che valori prodotti da uno sforzo collettivo ricadano a vantaggio della rendita fondiaria o del profitto parassitario di pochi ed a svantaggio della collettività, l'esigenza di disporre di vaste aree fabbricabili a prezzi accessibili".
La l. 392 del 1978 doveva costituire nell'intento del legislatore una soluzione definitiva all'''emergenza casa'' e far cessare il ventennale regime vincolistico; si era promesso, solennemente, che non vi sarebbero state proroghe dei contratti di locazione transitori e che gli sfratti in corso, non esecutivi, non sarebbero stati prorogati. I successivi provvedimenti legislativi cosiddetti ''tampone'' (dalla l. 25 del 1980 alla l. 94 del 1982, dalla l. 637 del 1983 al D.L. 582 del 1984, dalla l. 708 del 1986 alla l. 15 del 1987, dalla l. 899 del 1986 alla l. 478 del 1987 e al D.L. 26 del 1988, senza parlare della l. 118 del 1985, dichiarata parzialmente incostituzionale con sentenza del 22 aprile 1986 n. 108), con continue, lunghe, generalizzate proroghe degli sfratti esecutivi, hanno, tra l'altro, minato alla radice la fiducia del cittadino-proprietario nelle istituzioni e nello stato, tanto che, oggi, nessuno concede più in locazione appartamenti, se non in rarissimi casi e con corresponsioni di canoni (contratti fuori legge) elevatissimi.
Anche la l. 457 del 1978 venne accolta, a suo tempo, da tutti gli operatori del settore come un fatto estremamente positivo per la risoluzione del problema della casa (per la prima volta si programmava l'intervento pubblico e si favoriva l'industrializzazione del settore della produzione). Si sperava, concretamente, con i previsti 6500 miliardi di investimenti garantiti per il primo quadriennio, di raggiungere il numero di 100.000 case costruite ogni anno. Nel termine di 2 o 3 anni si è passati, invece, dalle previste 100.000 case da costruire in un anno (1979) a 40-50.000 nell'1980, e la media è ancora diminuita nel tempo fino a scendere al di sotto dei 20.000 alloggi costruiti per anno. Il giudizio negativo su tale legge non è dunque né settoriale né demagogico, dato che è condiviso da un ente al di sopra di ogni sospetto, come il CER.
Si può dire che la l. 457 del 1978 non sia andata mai a regime per mancanza (o ritardi, in alcune regioni) della necessaria programmazione regionale, e soprattutto perché, con la motivazione dell'emergenza, sono state approvate leggi (la 25 del 1980 e la 91 del 1982) che l'hanno svuotata del suo peculiare contenuto programmatico. Le contraddizioni reali e l'effettiva imperfetta logica intrinseca alla l. 392 del 1978 (sull'equo canone), la demagogica esagerazione del problema degli sfratti, le notevoli e notorie discrasie del modello programmatico definitivo dalla l. 457 del 1978, i ritardi e le deficienze manifestatisi nella sua prima fase di attuazione hanno contribuito non poco a far approvare, con sempre maggiore incoerenza, leggi straordinarie e/o d'emergenza. Rimane, però, da dire che la l. 457, come fatto conclusivo del periodo di riforma della legislazione del settore, iniziato con l. 865 del 1971, ha comunque introdotto un prezioso elemento innovativo, costituito dai livelli temporali di programmazione.
Il contenuto economico e normativo del piano decennale è stato, peraltro, stravolto dalle l. 25 del 1980 e 94 del 1982, con l'attribuzione di migliaia di miliardi a determinati comuni "nell'ambito delle aree metropolitane" (quelli con popolazione superiore a 350.000 abitanti) per l'acquisto di alloggi, ultimati o in fase di costruzione, da assegnare a famiglie interessate da provvedimenti di sfratto; a tutti gli altri comuni, a tasso agevolato (del 4%), per la costruzione o l'acquisizione di alloggi, nonché per l'acquisizione e l'urbanizzazione delle relative aree, oppure per "l'acquisto di alloggi anche degradati da risanare"; con l'assegnazione di contributi in conto capitale per l'acquisto di immobili (i cosiddetti ''buoni casa''). Va rilevata inoltre l'assoluta mancata (o solo parziale e settoriale) erogazione di finanziamenti stanziati, sia con la l. 457 del 1978 che con la l. 94 del 1982, per i programmi organici di e. sperimentale. A ciò si aggiungono i ritardi, infine, con cui alcune Regioni hanno programmato gli interventi o completato quelli avviati (oltre 54 mesi dal loro avvio), oppure il mancato prelievo dei fondi loro spettanti in base ai progetti biennali. L'eccesso di spesa, rispetto ai finanziamenti inizialmente attribuiti, per ciascun piano biennale, è divenuto così alto che, per la quasi totalità, il quinto piano biennale è servito a risanare i disavanzi dei precedenti piani biennali. Con l. 30 dicembre 1991 n. 412 (disposizioni in materia di finanza pubblica) è stata concessa la possibilità di cessione di alloggi di e. residenziale pubblica a quanti li avevano in uso a titolo di locazione da oltre un decennio, e che non erano in mora col pagamento dei canoni. L'avvio a un aumento della politica edilizia si ha con la l. 8 agosto 1992 n. 352 di conversione del D.L. 11 luglio 1992 n. 332 recante misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica. Questa dispone che nei contratti di locazione relativi agli immobili di nuova costruzione e in quelli stipulati o rinnovati successivamente alla sua entrata in vigore non si applicano le disposizioni di cui alla l. 27 luglio 1978 n. 392 concernenti l'equo canone. In tali casi è riconosciuta alle parti la facoltà di stipulare, con l'assistenza delle organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori più rappresentativi a livello nazionale, tramite le loro organizzazioni provinciali, accordi in deroga al complesso delle disposizioni di cui alla l. 392 del 1978. Per i contratti di locazione a uso abitativo, condizione per poter usufruire di tale deroga, è la rinuncia da parte del locatore alla facoltà di disdetta del contratto alla prima scadenza. Tale facoltà resta comunque salva nelle ipotesi che ne autorizzano il recesso nei contratti soggetti a proroga legale ai sensi della l. 392 del 1978 e in altri casi (esigenze abitative del coniuge e di parenti, riattazione dell'immobile, destinazione ad attività produttive o professionali proprie o di familiari, ecc.).
Bibl.: F. Salvia, F. Teresi, Diritto urbanistico, Padova 1986; G. Torregrossa, Introduzione al diritto urbanistico, Milano 1987; V. Giuffr'e, Gli illeciti edilizi nel nuovo assetto normativo, Napoli 1988; M. Annunziata, La costruzione edilizia ed altri manufatti, in Rass. ediliz. Cedam, 1989; M. Solinas, Edilizia residenziale pubblica: profili giuridici, s.l. 1989; E. Beretta, A. Bozzi, Codice dell'edilizia, Milano 19902.