Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nell’Ottocento si compie il processo di modernizzazione dell’editoria italiana, attraverso l’industrializzazione dei processi di produzione, la diversificazione delle tipologie editoriali e la concentrazione delle tipografie nelle grandi città. Mentre Venezia perde il plurisecolare primato di capitale della stampa a favore di nuovi poli – Torino, Milano, Firenze –, l’unificazione politica, con l’abolizione delle barriere doganali e la spinta alla scolarizzazione, tende sempre più a livellare gli squilibri e a favorire la nascita di un mercato "nazionale".
Torino
L’editoria piemontese del XIX secolo è dominata dalla figura di Giuseppe Pomba, il cui spirito imprenditoriale consente alla sua azienda – la UTET (Unione Tipografico-Editrice Torinese), tuttora esistente – di divenire in breve tempo una delle più produttive e tecnologicamente avanzate, tanto da impiegare, prima in Italia, il torchio meccanico Koenig e Bauer fin dal 1830. Accanto alla Collezione di classici latini, pubblicata dal 1820 in 108 volumi e destinata a un pubblico colto, Pomba cerca di rispondere all’istanza di acculturazione proveniente dalle classi subalterne con la Biblioteca popolare, 110 volumi in-32° dedicati ai capolavori della letteratura italiana, da Dante a Manzoni, che riscuotono un grande consenso di lettori. Sull’onda del successo pubblica altre due serie della stessa collana, una dedicata alle scienze e alle arti, l’altra alla religione; una Storia universale, compilata da Cesare Cantù; un’Enciclopedia popolare (1844-1849); infine, il "Mondo illustrato", prima rivista settimanale italiana di attualità.
Altro editore piemontese di spicco è Alessandro Fontana (1808-1852), proveniente da una famiglia biellese di tipografi. Trasferitosi a Torino, fonda una casa libraria di vaste dimensioni, con 162 dipendenti, dotata di torchio meccanico a cilindri e 23 torchi tradizionali, dai quali escono edizioni particolarmente raffinate per l’impiego di carta pregiata e il corredo di belle incisioni.
La Torino di metà secolo, politicamente libera (Statuto albertino) e culturalmente vivace, è in grado di attrarre stampatori d’Oltralpe. È il caso del tedesco Hermann Loescher (1831-1892), nipote dell’editore Benedictus Gotthelf Teubner (1784-1856), che nel 1861 fonda la casa editrice che porta il suo nome, tuttora attiva. Oltre a testi per la scuola e a una collana di classici greci e latini, pubblica riviste specialistiche, fra cui il "Giornale storico della letteratura italiana" (dal 1872) e l’"Archivio glottologico italiano" di Graziadio Isaia Ascoli (dal 1873).
Altra storica stamperia torinese specializzata nell’editoria scolastica è la Paravia, nata nel 1802 per opera di Giovanni Battista (1765-1826) e ampliata nel 1873, quando Innocenzo Vigliardi (1822-1896) rileva la Stamperia Reale, già tecnicamente all’avanguardia, diventando l’unico proprietario della casa editrice e investendo nel potenziamento della sua capacità produttiva e commerciale, anche attraverso l’apertura di filiali nelle maggiori città italiane.
Significativa è, infine, l’attività svolta nell’ultima parte del secolo dalla casa editrice Roux, passata da Lorenzo (1811-1878) al figlio Luigi (1848-1913), politico e giornalista. Fra le principali pubblicazioni si ricordano le Lettere edite e inedite di Camillo Cavour raccolte da Luigi Chiarla e Il regno di Vittorio Emanuele II: trent’anni di vita italiana di Vittorio Bersezio.
Milano
Giacomo Leopardi
Lettera a Francesco Cancellieri del 20 dicembre 1816
[... ] A Milano si stampa quel che si vuole da chi ha la fortuna di trovarvisi, e tutto a conto degli Stampatori o con sicurezza dell’esito. Il Mai nel corso di dodici mesi, scrivendo infaticabilmente e stampando appena ha scritto, ha pubblicato sette o otto opere una dopo l’altra in superbissime carte, dalla prima Tipografia di Milano e d’Italia, eccetto quella di Bodoni che forse non la supera. Io so di un altro giovane, disprezzato anche comunemente dai letterati, il quale non è in istato di rimettere in un’impresa, e stampa continuamente col più gran lusso, e torna sempre a stampare alzando il prezzo delle sue cose invece di diminuirlo. Solamente le opere vastissime si stampano in Milano per associazione, le altre d’ordinario a tutto rischio dell’intraprendente: e le associazioni poi si trovano così facilmente, che in quest’ultimi mesi il Fiocchi (il quale so per relazioni a voce, essere un uomo disprezzato da tutta Milano), volendo pubblicare la sua pessima traduzione dell’Iliade, e non avendo il Sonzogno voluta prenderne l’impresa se non assicurato da un’associazione, questa si è trovata in un momento, e l’opera è già uscita tutta colla più grande eleganza. Tutti stampano, e solamente a noi miserabili non è concesso di stampare nulla. Quando abbiamo scritta e copiata un’opera, non abbiam fatto niente. Convien languire anni interi, e poi gettarla sul fuoco. Sono otto mesi che ho spedito a Milano due lunghe opere a chi mi aveva promesso di stamparle a suo conto. So che le ha ricevute e che le tiene sul suo tavolino, ma non altro, e son per iscrivergli che il freddo mi obbliga a ridomandargliele per servigio del focolare domestico [...].
Giacomo Leopardi, Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, a cura di L. Felici e E. Trevi, Roma, Newton Compton, 2010
Alessandro Manzoni
Lettera al signor professore Girolamo Boccardo intorno a una questione di così detta proprietà letteraria
[...] L’uomo che, dopo aver impiegato più o meno tempo, studio e, se occorre, anche spese a comporre un libro, si risolve a pubblicarlo, s’espone a un risico. L’opera che a lui pareva dover esser gradita e forse avidamente cercata dal pubblico, il pubblico che, a ragione o a torto, sarà d’un gusto diverso, gliela può lasciare; e allora, tempo, studio, e spese della stampa, con dell’altre, se ce ne furono, tutto riesce a un disinganno costoso. Condizione incomoda davvero, ma che nasce dalla natura della cosa, e alla quale nessuna legge può voler metter riparo.
Ma a questo risico nato dalla cosa medesima se ne può aggiungere un altro, cagionato dalla volontà arbitraria d’altri uomini, e da un motivo di speculazione privata; cioè che l’opera sia, senza il consenso dell’autore, ristampata da un terzo che, non ci avendo messo né tempo, né studio, né spese, trovi cosa comoda il profittare, a danno dell’autore medesimo, de’ molti vantaggi della sua diversa condizione. Primo vantaggio è il non esporsi a quel risico, a cui 1° autore non si può sottrarre, perché chi vien dopo non ristampa se non gli scritti, ai quali la prima prova dia una forte probabilità d’un novo smercio. S’aggiungano altri vantaggi secondari e minori, come quelli di stampare sullo stampato, di non aver a fare correzioni per cagione di pentimenti, e, se dà il caso, di servirsi anche, per la correzione tipografica, d’un Errata corrige. Ma il vantaggio maggiore e, dico senza esitare, il più contrario all’equità, è quello di non aver a dividere il provento con nessuno, e di poter quindi, con l’offrire il libro a un minor prezzo, far che l’edizione dell’autore rimanga all’autore, e cagionargli così una perdita positiva, oltre all’averlo privato "del prezzo del lavoro, del compenso del servigio prestato alla società", ch’Ella pure trova dovuto in una certa misura.
A Lei, autore di belle, utili e riputate opere d’Economia politica (del che ogni amatore del ben pubblico, e particolarmente ogni Italiano, deve ringraziarla), sarebbe ridicolo il rammentare la potenza del minor prezzo. Ma gli effetti, anche in questo particolare, sono manifesti a ognuno; e chi ha l’onore d’indirizzarle queste righe, è di quelli che li conoscono anche per esperienza, avendo acceso molte volte il foco con esemplari di qualche suo scritto stampato qui a sue spese, mentre le contraffazioni dello scritto medesimo si spacciavano nell’altre parti d’Italia, e in questa piccola parte medesima, di dove si sarebbe potuto col favor della legge, ma era difficile in fatto, tenerle fuori.
"Il produttore di ricchezze immateriali" dic’Ella, "fa con la civile società un contratto sui generis". Accetto la tesi, e dico che, se un autore potesse (mi passi l’ipotesi) venir con la società a un vero e formale contratto, gli parlerebbe a un di presso in questa forma: "Io ho qui un mio scritto che posso buttar nel foco o dare alle stampe; e, dico la verità, preferirei il secondo partito. Ma, o il libro sia per piacervi, o no, la mi può andar male ugualmente. Se il libro non vi piace, lo lasciate dormire nelle vetrine; e in quanto a questo, pazienza! non avrò ragione di prendermela con nessuno. Ma se il libro vi piacesse, potrà venire un altro, o più d’uno che, trovando il suo conto a farne un’edizione lui, metta a dormire la mia in un’altra maniera. Per liberarmi da questo non meritato pericolo, vi propongo un patto: che voi società, cioè voi tutti che la componete, v’impegniate a non ristampare il mio libro. Voi non ci mettete punto di vostro, perché, a pagarlo un po’ meno di quello che dovrei farvelo pagar io, non avete nemmeno l’ombra d’un diritto; e io posso, senza lederne alcuno, fare che non abbiate il libro in nessuna maniera. Non vi chiedo altro, che di liberar me da un risico, senza correrne alcuno voi altri. Ci state?"
È una cosa evidente, che la società non potrebbe, senza stravaganza, rifiutare un contratto così equo riguardo a uno de’ suoi membri, e che agli altri potrà portare o qualche utilità o certamente nessun danno. E non si potendo con la società fare contratto di sorte veruna, la legge, uno degli ufizi importanti della quale è per l’appunto di stipulare per la società, fa una cosa e sensatissima e giustissima realizzando gli effetti d’un tal contratto coi mezzi propri a lei, cioè con un divieto e con una sanzione.
Non crederei di farla ridere, aggiungendo che, oltre il danno che può venire a un autore dalla contraffazione, gliene può venire anche un dispiacere, che la legge, se può, deve risparmiargli. Non già che le leggi devano prevedere e impedire tutti i dispiaceri non meritati, grossi e piccoli, come cercano di fare per i danni; ma una legge che non abbia uno scopo iniquo, fa questa cosa naturalmente, senza alcuna clausola diretta, e per mezzo dell’altre sue disposizioni; e in questo senso mi par che si deva interpretarne ognuna, quando non ci sia nulla di manifesto in contrario. Poco prima, o poco dopo aver pubblicato il Génie du Christianisme, il celebre suo autore ricercò e raccolse, con gran cura e con dispendio, gli esemplari d’un’opera irreligiosa pubblicata da lui, qualche anno prima, in Inghilterra; e distrusse tutti quelli che poté ripescare. Mettiamo che quest’opera fosse stata pubblicata dall’autore in Francia, e prima del ’93; non mi par davvero che sarebbe stata equa una legge, o l’interpretazione d’una legge, per cui qualunque stampatore avesse potuto riprodurre quell’opera odiosa sul viso, dirò così, dell’autore, e fargliela vedere annunziata sulle cantonate, esposta nelle vetrine de’ librai, registrata ne’ cataloghi; e, a un bisogno, fargliela anche vedere nelle mani de’ suoi conoscenti. Per questo riguardo, si sarebbe trovato in peggior condizione, che se gli fosse stata ristampata un’opera pubblicata di fresco.
Facendo ora un salto a precipizio da Chateaubriand e dal Génie du Christianisme a me e a un romanzo, Le dirò che un dispiacere dello stesso genere, ha fatto provare a me l’incessante riproduzione del romanzo medesimo. Riuscendomi (dopo il fatto, come avviene in altri casi non pochi) odiosa, in tutt’altro grado, s’intende, la dettatura di esso; e vedendo che c’erano ancora persone disposte a leggerlo; avevo procurato, con un’edizione corretta, di levar la prima dalle mani di questi lettori; e il vederla riprodotta, con la realtà degli effetti che ho supposti nel caso del celebre autore citato, avrebbe potuto essere un motivo bastante per determinarmi a usar di tutti i mezzi che mi fossero concessi, per far cessare questo che per me era e è un vero dispetto.
Sugl’inconvenienti del privilegio, del monopolio ch’Ella adduce, citando anche un passo dell’illustre Macaulay (autorità imponente, senza dubbio), il quale chiama perfino la facoltà esclusiva riservata agli autori una tassa pei lettori, non m’occorre di parlare, perché tanto Lei quanto lo scrittore citato non professano di combattere altro che una troppo lunga durata della facoltà suddetta.
Se s’avesse a trattar la questione più in esteso e posatamente, non sarebbe, credo, difficile di mostrar le ragioni per cui quella facoltà differisce, come specie, da quelle poco belle cose, monopolio, privilegio, tassa, con le quali ha una somiglianza generica. Ma, per levare da essa l’odiosità che le viene da quella trista compagnia, può esser bastato il dimostrare, anche succintamente, l’equità del fine a cui è diretta; cioè, non solo di procurare, per quanto ci concorrano altre circostanze, e senza offesa d’alcun diritto, un legittimo e limitato compenso a chi ha lavorato; ma d’impedire a delle speculazioni private di punire il lavoro.
Del resto, riguardo al sentimento universale, non ci sarebbe nemmeno bisogno di levare una tale odiosità; per che nel sentimento universale non è mai entrata: que’ nomi non sono mai stati associati dal pubblico, oserei dire di nessuna parte d’Europa, alla causa degli autori; e, nel tanto scrivere e parlare che s’è fatto su questa materia, non è contro le loro proteste, che s’è gridato; ma bensì contro la speculazione che gli opprimeva; e questo in Italia principalmente, dove la divisione in diversi che si chiamavano Stati (e al bisogno anche nazioni!); dove, dico, quella divisione, funesta per tanti e tanti altri ben più importanti e vitali riguardi, rendeva più facili e più disastrosi anche gli effetti d’una tale speculazione; e dove il tristo, ma allora unico rimedio, delle convenzioni tra alcuni di questi Stati, invocato da gran tempo come un mancomale, fu accolto come una tarda giustizia.
L’abuso poi che gli autori possano fare della privativa, mettendo alle loro opere un prezzo esorbitante (oltreché non sarebbe mai ingiusto, anzi non si potrebbe rettamente chiamare abuso, trattandosi di cosa che avrebbero potuta, con pieno diritto, sottrarre affatto al pubblico), è poco da temersi, per la ragione, che sarebbe anche qui ridicolo il rammentare a Lei; cioè che chi vuol vendere una merce qualunque, è costretto a proporzionare il prezzo, non alla sua cupidigia, ma, alla probabilità di trovar de’ compratori. E ben più d’un tale pericolo è degno di considerazione il vantaggio reale che la privativa porta alla società, con l’incoraggire i lavori dell’ingegno, rassicurandoli, com’è generalmente riconosciuto [...].
Alessandro Manzoni, Tutte le Opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari e F. Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1970
Nei primi decenni dell’Ottocento Milano conquista il primato di capitale editoriale (oltre che culturale) italiana, strappandolo a Venezia, che, dopo tre secoli di splendore, vede ora iniziare una lunga stagione di declino. Anche per questo motivo diversi intellettuali si trasferiscono dalla città lagunare nell’allora capitale del regno italico, contribuendo ad animare il già vivace clima culturale cittadino. Fra questi c’è anche Antonio Fortunato Stella, libraio oculato e prudente, che pubblica alcune opere di Antonio Cesari e la rivista "Lo Spettatore" (1814-1818), divenuta in seguito "Il Ricoglitore" (1820-1824), poi "Il Nuovo Ricoglitore" (1825-1833) e, infine, "Rivista europea" (1838-1847). Uno dei documenti più significativi per ricostruire la sua figura è il fitto carteggio intrattenuto con Leopardi, cui lo lega un rapporto di profonda amicizia e affetto. Durante la Restaurazione, Vincenzo Ferrario (1868-1744) pubblica il "Conciliatore", importante periodico uscito tra il 1818 e il 1819 in 118 numeri su carta azzurra, cui collaborano gli intellettuali della scuola romantica milanese, e diverse opere di Alessandro Manzoni, tra cui l’edizione dei Promessi sposi del 1825-1827 (la cosiddetta Ventisettana), mentre Carlo Giuseppe Redaelli (1804-1879) pubblicherà l’edizione del 1840 e le sue Opere varie, a fascicoli illustrati.
Alcuni anni più tardi i fratelli Vallardi, Francesco (1809-1895) e Antonio (1813-1876), danno vita rispettivamente a due distinte imprese editoriali: la Casa Editrice dott. Francesco Vallardi (1840), specializzata in pubblicazioni scientifiche e universitarie, e la Antonio Vallardi Editore (1843), orientata invece alla scolastica.
Negli stessi anni si impone a Milano il modello della grande azienda editoriale, che si diffonderà soprattutto nella seconda metà del secolo. Giovanni Ricordi, dopo aver appreso a Lipsia la nuova tecnica dell’incisione su lastre di piombo, stampate con il torchio calcografico, avvia l’omonima tipografia nel 1808, che si specializza in edizioni musicali, anche grazie all’acquisto del fondo dei manoscritti del Teatro alla Scala.
Altra azienda importante è quella dei fratelli Treves, specializzata in opere d’arte, storia, politica, scienze, ma soprattutto letteratura, da D’Annunzio a Verga, da Capuana a Pirandello. Fondata da Emilio Treves (1834-1916), nel 1870 vi si associa il fratello Giuseppe (1838-1904); insieme danno vita nel 1873 all’"Illustrazione italiana", periodico di cronaca e attualità, anticipatore della "Domenica del Corriere", famosa per le sue celebri copertine illustrate.
Se i Treves si rivolgono in particolare alla borghesia acculturata proprio negli anni del suo trionfo, Edoardo Sonzogno si specializza invece nell’editoria popolare, con le collane "Biblioteca Universale", "Biblioteca del Popolo", con l’Enciclopedia Popolare, la Storia della Rivoluzione Francese, Le capitali del mondo, e in quella musicale, come editore di importanti operisti quali Georges Bizet, Jules Massenet e Pietro Mascagni, anche attraverso le riviste specializzate "Il teatro illustrato" e "La musica popolare".
Lo svizzero Ulrico Hoepli (1847-1935), infine, decide di occuparsi di un settore fino a quel momento da tutti ignorato, quello della manualistica pratica. Dopo i primi esperimenti (fra cui una grammatica francese per principianti) si dedica interamente alla pubblicazione di manuali e guide di ambito tecnico-scientifico, sempre più necessarie nella Milano industriale di fine secolo.
Bologna
Dopo un’iniziale fase di dinamismo in età napoleonica, sotto la Restaurazione pontificia l’editoria bolognese attraversa un periodo di declino, o quantomeno d’inerzia, se si eccettua il versante delle pubblicazioni scientifiche e accademiche, legate al vivace e prolifico ambiente universitario. Tra i primi tipografi del secolo si ricordano Jacopo Marsigli (1762-1836), prima libraio, poi editore in proprio, noto in particolare per aver pubblicato la prima edizione (interrotta) delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, e il livornese Riccardo Masi (1780-1839), bandito dalle terre toscane per il suo passato giacobino, editore, fra l’altro, di un Dizionario della lingua italiana in sette volumi e delle Lettere di Annibal Caro. Anche Annesio Nobili è bolognese d’adozione; inizia come apprendista tra le Marche e Roma, per poi trasferirsi nella città emiliana in seguito al ritorno della giurisdizione pontificia (1816). Acuto e lungimirante imprenditore, apre una stamperia anche a Pesaro, dai cui torchi esce "La voce della Ragione", periodico reazionario fondato insieme al conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo.
Nel secondo Ottocento va ricordata l’attività svolta dalla Regia Tipografia dei soci Tinti e Merlani, impiantata dopo l’annessione al Regno di Sardegna ed erede dell’officina Della Volpe, editrice di periodici quali "L’Arpa", "Il frustino", "L’Aristarco", e dalla stamperia di Giacomo Monti, specializzato invece nelle pubblicazioni ufficiali della locale università.
Nel corso del secolo, inoltre, nascono a Bologna due importanti e longeve case editrici. La Zanichelli, tuttora esistente, è fondata da Nicola Zanichelli (1819-1884) nel 1859 a Modena, per poi essere trasferita definitivamente a Bologna nel 1866. Nell’ultimo quarto del secolo essa diventa il centro culturale della città, grazie alla collaborazione con Giosue Carducci, del quale escono diverse opere, e altri poeti e letterati bolognesi (Panzacchi, Stecchetti, Chiarini). La seconda è la Cappelli, fondata da Licinio Cappelli (1865-1951) a Rocca San Casciano (Forlì), ma presente con filiali anche a Bologna e Trieste. Tra le pubblicazioni, rivolte a un pubblico eterogeneo, si ricordano le collane Biblioteca romantica illustrata, Biblioteca della Roma letteraria e Archivi della storia d’Italia.
Firenze
L’Ottocento è, per Firenze, un secolo prolifico di editori e stampatori, al pari di Torino e Milano. Il baricentro culturale, punto d’incontro tra la cultura italiana e quella europea, è rappresentato dal Gabinetto di lettura fondato nel 1820 a Palazzo Buondelmonti da Giovan Pietro Vieusseux, mercante ginevrino convertitosi agli studi letterari. Qui è possibile sfogliare giornali italiani e stranieri; da qui escono due prestigiose riviste, l’"Antologia" e l’"Archivio storico italiano", con collaboratori stipendiati nel pieno rispetto della proprietà letteraria e della professionalità.
Tra gli editori della prima metà del secolo si ricordano David Passigli (1783-1857), che esordisce nel 1828 con la Commedia di Dante e le Commedie di Goldoni; Guglielmo Piatti, la cui fama è sostanzialmente legata all’edizione leopardiana dei Canti (1831); Vincenzo Batelli (1786-1858), la cui piccola tipografia in breve si ingrandisce fino ad assumere 150 operai.
Intanto emerge sullo scenario editoriale il francese Felice Le Monnier (1806-1884), che nel 1845, approfittando di una norma ambigua, pubblica I promessi sposi senza l’autorizzazione di Manzoni (e per questo diversi anni dopo sarà condannato a risarcirlo). Dalla sua stamperia escono opere di carattere nazionale, nella collana dal nome programmatico e, a quel tempo, provocatorio di Biblioteca nazionale italiana (dal 1840), e la rivista "Nuova antologia" (1866-1878), diretta da Francesco Protonotari.
Dopo la metà del secolo si impone la figura del torinese Gaspero Barbèra (1818-1880), la cui stamperia diviene in breve tempo un’importante casa editrice, grazie anche alla collaborazione di intellettuali di primo piano, fra cui D’Azeglio, Carducci, D’Annunzio e De Amicis. Altrettanto importante per gli studi letterari è l’officina editoriale fondata nel 1874 da Giulio Cesare Sansoni (1837-1885), specializzata nella produzione di testi scolastici di alto livello, da Alessandro D’Ancona ad Adolfo Bartoli, fino alla Biblioteca scolastica di classici italiani diretta da Giosue Carducci (dal 1885).
Roma
Per tutta la prima metà dell’Ottocento lo scenario editoriale romano è dominato dalle stamperie pontificie – la Stamperia Camerale, la Stamperia dell’Ospizio di San Michele a Ripa e la Tipografia di Propaganda Fide –, che si spartiscono il monopolio della quasi totalità delle pubblicazioni. Inoltre la rigida censura e, a partire dagli anni Venti, l’inasprimento dei controlli nei luoghi della produzione e dello smercio dei libri non fanno che deprimere ulteriormente l’iniziativa privata.
Intorno al 1850 le cose iniziano a cambiare. Proprio in quell’anno si inaugura la stamperia de "La civiltà cattolica", dotata del primo torchio meccanico; sette anni più tardi Baldassarre Boncompagni (1821-1894), matematico e storico della scienza, fonda la Tipografia delle Scienze Matematiche e Fisiche. In seguito all’annessione del Lazio, nel 1878 la prestigiosa rivista fiorentina "Nuova antologia" si trasferisce a Roma, dove proseguirà le sue pubblicazioni fino al 1966. Da Firenze arriva anche un importante editore del tardo Ottocento, il torinese Edoardo Perino (1845-1895), che, dopo aver fondato un’"azienda giornalistica" che mette a disposizione libri, riviste e giornali, apre una tipografia dai cui torchi escono libri di autori esordienti, romanzi a dispense, opere illustrate; inoltre, la collana Biblioteca fantastica illustrata (classici) e un giornale in dialetto romanesco, "Rugantino", diretto da "Giggi" Zanazzo.
Infine, nel 1881 approda a Roma anche il milanese Angelo Sommaruga (1857-1891), editore di due importanti riviste: "Cronaca Bizantina", tirata in 12 mila copie, sulla quale scrivono importanti letterati – fra cui Carducci, Verga, De Amicis – e "Le Forche Caudine", diretta da Pietro Sbarbaro, con articoli di D’Annunzio, Mazzoni, Capuana, Serao e Guerrini.
Napoli
Nei primi decenni dell’Ottocento a Napoli si registra un considerevole incremento del numero di tipografie attive, anche se la tipologia di pubblicazioni resta legata a logiche e a schemi tradizionali e non dà impulso a iniziative culturalmente rilevanti. Questa condizione d’inerzia è anche dovuta alla separazione fra l’attività tipografica in senso stretto, come detto assai diffusa, e quella più propriamente editoriale, ancora limitata. I più si orientano a un mercato sicuro, quello dei classici, oppure ristampano opere già pubblicate negli altri Stati italiani in edizioni contraffatte, stante il totale vuoto legislativo in materia di proprietà letteraria e diritto d’autore. In questo quadro, va segnalata l’impegnativa, ma solitaria, impresa di Raffaele Liberatore e Luigi Dragonetti, compilatori del Vocabolario Universale Italiano, pubblicato per i tipi di Agnello Tramater e meglio conosciuto con il nome dello stampatore.
Verso la metà del secolo soltanto Gaetano Nobile mostra un apprezzabile spirito imprenditoriale, che si traduce in importanti innovazioni tecniche, che gli consentono fra l’altro di stampare diversi libri illustrati, come la Descrizione della città di Napoli e delle sue vicinanze, edito nel 1863 in tre volumi xilografati. Non si può tralasciare, inoltre, Saverio Starita, la cui fama è essenzialmente legata ancora una volta a Leopardi (Canti e Operette morali, 1835).
Soltanto dopo l’unificazione italiana si avvertono i primi segnali di sviluppo, legati al nuovo e fecondo clima culturale di fine secolo. In questa fase si distingue la famiglia Marghieri, originaria della Toscana, con il padre Giuseppe e poi i figli Riccardo, specializzato nell’editoria scolastica, ed Eugenio, editore della Biblioteca giuridica diretta da Pasquale Fiore, legata all’ambiente dell’allora prestigiosa facoltà di diritto. Altro importante editore di testi scolastici e universitari è Antonio Morano (1831-1911), dalla cui stamperia escono trattati, manuali, sussidi didattici, ma anche e soprattutto diverse opere di Francesco De Sanctis, dai Saggi critici dal 1869 allo Studio su Giacomo Leopardi del 1885.
Nello scorcio del secolo vanno infine ricordati i Bideri, in particolare Ferdinando (1850-1930), editore de "La tavola rotonda", rivista letteraria e musicale, nonché di opere di autori emergenti (come D’Annunzio, residente a Napoli dal 1891 al 1893), e Luigi Pierro (1843-1920) – tipografo, editore e libraio, sebbene illetterato –, che impianta una solida azienda dalla produzione estremamente diversificata, dalle dispense illustrate per le classi popolari a saggi di Benedetto Croce e Francesco Saverio Nitti.