editoria e lingua
La tecnica della stampa a caratteri mobili, nata a Magonza prima dell’agosto 1456 (la data non compare nella Bibbia di Gutenberg, ma si ricava da un’indicazione manoscritta su di un esemplare dei quarantasei sopravvissuti tra i forse 200 stampati), si diffuse presto anche al di qua delle Alpi. Artigiani tedeschi cercarono fortuna là dove il vivace tessuto culturale poteva assicurare alla nuova invenzione quel successo economico che era mancato all’inventore, visto il fallimento della sua bottega. I libri del Quattrocento sono detti incunaboli (dal latino incunabula «fasce»; cfr. cuna «culla»), in quanto appartenenti alla neonata arte tipografica. I primi tipografi furono tedeschi, ma presto si ebbero artigiani italiani, in particolare a Venezia. Nel Quattrocento, Venezia divenne la capitale della stampa e produsse da sola oltre il 50% degli incunaboli italiani. Confermò il suo primato nel Cinquecento e nel Seicento, raggiungendo tra il 1526 e il 1550 oltre il 70% della produzione dei titoli stampati in Italia. Ciò significa che tre libri su quattro furono di editori-tipografi che risiedevano a Venezia, anche se pochi di essi erano veneziani (Quondam 1983: 584).
In Italia, molte testimonianze di intellettuali del Quattrocento mostrano che il ceto colto ebbe piena consapevolezza dell’importanza della nuova tecnica e del suo significato rivoluzionario. All’inizio, la produzione in latino ebbe di gran lunga il primo posto: si calcola che, tra i libri stampati in Italia nel Quattrocento, siano in volgare circa il 20%, e l’80% in latino. I primi volumi stampati nel nostro paese furono in latino, un Cicerone e un Lattanzio usciti nel 1465 dai torchi di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, due artigiani tedeschi che avevano bottega a Subiaco, nel monastero benedettino di Santa Scolastica.
Questa datazione potrebbe tuttavia essere anticipata, se fosse certa la data del 1462 attribuita al cosiddetto Parsons fragment, così chiamato dal nome del proprietario americano E.A. Parsons, che lo aveva acquistato nel 1928 in Germania dalla libreria Rosenthal di Monaco. Il Parsons fragment è un libretto di preghiere di cm 13,5 x 10,5, in caratteri gotici, scritto in un rozzo italiano ricco di vistosi dialettismi settentrionali, sopravvissuto in unica copia mutila (8 cc. in tutto), battuto all’asta nel 1998 da Christie’s di Londra per un miliardo di lire, ora in possesso di privati fuori dal territorio italiano (Marazzini 1999). Se la data del 1462 fosse certa per il Parsons fragment, il più antico libro italiano sarebbe dunque in volgare (non in latino), e si tratterebbe di un’opera di devozione popolare, non di un autore classico. Tuttavia i dubbi sulla datazione e anche sul luogo di stampa (che potrebbe essere addirittura in Germania) erano stati sollevati ben prima dell’asta del 1998 (Donati 1954).
Le prime righe impresse in lingua italiana, prescindendo dal Parsons fragment, dovrebbero essere allora le due terzine di Dante (Inf. XXIV, 106-111) introdotte a raffronto della mitica Fenice, dopo una citazione dalle Metamorfosi di Ovidio che segue il Phoenix, in un’edizione romana di Lattanzio del 1468, terzine già segnalate da Migliorini (1960; tav. X tra le pp. 256 e 257). Tradizionalmente, sempre prescindendo dal Parsons fragment, il primo libro in volgare era indicato in un’altra opera popolare e devota: un’edizione dei Fioretti di S. Francesco pubblicata probabilmente a Roma nel 1469 circa (Trovato 1991: 103). Subito dopo, però, uscirono importanti edizioni di classici della lingua volgare: l’editio princeps (così si chiama la prima edizione a stampa di un testo) del Canzoniere di Petrarca di Vindelino da Spira (il nome rivela l’origine tedesca) è del 1470 (Venezia). Tra il 1470 e il 1471 uscì il Decameron di Boccaccio. La princeps della Commedia di Dante uscì a Foligno nel 1472. Tra gli incunaboli di materia non religiosa, secondo i calcoli di Quondam (1983: 589 segg.), le edizioni di Dante, Petrarca e Boccaccio costituiscono l’8,5% del totale, con una nettissima prevalenza di Petrarca, di gran lunga l’autore più diffuso fra i tre. Alta è anche la percentuale dei volgarizzamenti dai classici, che tocca quasi il 10%. Nel Cinquecento la quantità dei libri in volgare aumentò notevolmente, e non solo a Venezia, tanto che alla fine del secolo si può considerare normale una percentuale in volgare anche superiore al 60% dell’intera produzione: il libro in italiano sorpassò dunque quello in latino.
Una particolare importanza nell’editoria delle origini assunse il lavoro dei correttori tipografici (➔ correzione di bozze) e dei collaboratori editoriali, che esercitarono un’azione notevole sulla lingua, facendo sì che la stampa diventasse un’occasione di stabilizzazione normativa (Trovato 1991 e 1998; Bartoli Langeli & Infelise 1992; Trifone 1993). Però nel corso del Quattrocento il lavoro dei correttori rivela ancora la mancanza di una norma e mostra la frammentazione dell’Italia del tempo. Ciò significa che la stampa di un libro comportava l’introduzione di elementi linguistici locali, a seconda del luogo in cui si trovava la bottega tipografica: «Se a Napoli la stampa di un testo toscano (mettiamo il Decameron) implica la proliferazione di meridionalismi non necessariamente inconsci, a Venezia correggere un testo mediano o meridionale significa spesso costellarlo di venetismi» (Trovato 1991: 112).
Presto, tuttavia, e talora già nel Quattrocento, le correzioni editoriali portarono verso la norma che si impose nel Cinquecento, quella del fiorentino letterario, agendo dunque come una forma di regolarizzazione e come una fonte di omogeneità. Trovato (1991: 111) indica alcune correzioni del genere, precocemente regolatrici, ancor prima che si imponesse la norma dell’italiano grammaticale su base toscana, introdotte nel 1477 in un volgarizzamento in prosa dal francese già stampato a Venezia nel 1472: incomencia → incomincia, buovi → bovi, piecore → pecore, ussire → uscire (introduzione di anafonesi, eliminazione di dittonghi impropri e assibilazione).
Il legame tra tipografia e grammatica si rende del resto esplicito nel maggior teorico cinquecentesco del volgare, ➔ Pietro Bembo, il quale iniziò la propria attività e gettò le basi del proprio sapere linguistico proprio lavorando come filologo e collaboratore editoriale di Aldo Manuzio, allestendo le edizioni di Petrarca (1501) e di Dante (1502). Egli diede testi filologicamente rivisti e corretti, stampati nel celebre corsivo aldino (ancor oggi il corsivo ha in inglese il nome di italic), modernizzati nella grafia, nella demarcazione delle parole e nella ➔ punteggiatura, con l’introduzione dell’➔apostrofo, segno adottato per primo proprio dal Bembo in quest’occasione (poco conta infatti il precedente occasionale e con altra funzione, ad opera dello stesso Bembo, nel testo latino del De Aetna, 1495).
Nel corso del Cinquecento alla correzione editoriale, diventata un’attività professionale vera e propria, si dedicarono molti letterati anche piuttosto noti e attivi, non di rado autori di opere originali, di interventi legati alla questione della lingua o alla normativa grammaticale. La stampa, negli aspetti grafici, nella punteggiatura e nella lingua (morfologia e lessico) divenne via via più omogenea, fra l’altro diminuendo e quasi abolendo le forme di tachigrafia ereditate dalla scrittura manoscritta e stabilendo molte convenzioni che sono ancora in uso.
Talora la revisione delle stampe di testi letterari fu condotta dall’autore medesimo, che introdusse varianti linguistiche, come ➔ Ludovico Ariosto, il quale nell’edizione del 1532 dell’Orlando furioso si adeguò alla norma di Bembo. Si consideri la correzione dell’ottava 76 del canto I, al v. 6. Nell’edizione del 1516 si legge «e volge tutto in odio il primo amore». Nell’edizione del 1521, Ariosto modificò il verso e introdusse un riferimento al ghiaccio, metafora petrarchesca, ma nella correzione si insinuò una forma palatalizzata padana, cioè giaccio, che fu corretta nell’edizione del 1532, la definitiva, uscita dopo la pubblicazione delle Prose della volgar lingua di Bembo, dove il v. 6 divenne: «e volge tutto in ghiaccio il primo ardore». Questo è un intervento correttorio da parte dell’autore, nel momento in cui ristampa la propria opera, secondo una modalità che continua nel tempo, ed ha esempi celebri più moderni, come le due edizioni dei Promessi sposi di ➔ Alessandro Manzoni.
Cosa diversa è l’introduzione di varianti in corso di tiratura, da parte dell’autore medesimo o da parte degli addetti alla tipografia. Lo studio delle varianti di composizione tipografica apportate in corso d’opera ha dato origine a una recente branca della filologia, denominata, con calco sull’inglese, bibliografia testuale o, più italianamente, filologia dei testi a stampa (Fahy 1988; Harris 1998). Infatti i libri a composizione manuale potevano differire nella medesima tiratura, a differenza di quanto accade oggi: le correzioni introdotte in fase di lavorazione non comportavano che fossero eliminati i fogli già passati al torchio. Fahy (1989), applicando lo speciale metodo delle ‘fotocopie trasparenti’, che permette il confronto immediato tra le pagine di vari esemplari di una medesima opera, ha studiato le correzioni apportate all’Orlando furioso nell’edizione del 1532. Non si tratta solo di banali refusi eliminati in extremis: talora sono introdotte varianti con effettivo valore di scelta linguistica, in quanto sentite come più toscane, o più comuni, come dimando → domando (dimando era anche nell’edizione del 1521), abarbaglia → abbarbaglia, rivera → riviera, fasine → fascine, lochi (nell’edizione del 1521 luochi) → luoghi, putana → puttana.
Bartoli Langeli, Attilio & Infelise, Mario (1992), Il libro manoscritto e la stampa, in L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, UTET, pp. 941-977.
Donati, Lamberto (1954), “Passio Domini nostri Jesu Christi”. Frammento tipografico della biblioteca parsoniana, «La Bibliofilia» 6, pp. 181-215.
Fahy, Conor (1988), Saggi di bibliografia testuale, Padova, Antenore.
Fahy, Conor (1989), L’“Orlando furioso” del 1532. Profilo di una edizione, Milano, Vita e Pensiero.
Harris, Neil (1998), Filologia dei testi a stampa, in Fondamenti di critica testuale, a cura di A. Stussi, Bologna, il Mulino, pp. 301-326.
Marazzini, Claudio (1999), Il frammento che cambia la storia, «Letture» 54, 553, pp. 42-43.
Migliorini, Bruno (1960), Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni.
Quondam, Amedeo (1983), La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 15 voll., vol. 2° (Produzione e consumo), pp. 555-686.
Trifone, Pietro (1993), La lingua e la stampa nel Cinquecento, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 425-446.
Trovato, Paolo (1991), Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna, il Mulino (rist. Ferrara, UnifePress, 2009).
Trovato, Paolo (1998), L’ordine dei tipografi. Lettori, stampatori, correttori tra Quattrocento e Cinquecento, Roma, Bulzoni.