Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il lavoro di Husserl, padre della fenomenologia filosofica, si presenta come un grande cantiere che restituisce il carattere al tempo stesso sistematico e sperimentale della fenomenologia, il cui motto è “alle cose stesse”, cioè un approccio descrittivo basato sull’intuizione (apprensione diretta) della nostra esperienza. Utilizzando la nozione di intenzionalità e di oggetto intenzionale, Husserl procede alla descrizione delle regolarità tipiche (essenze) dei vari tipi di esperienza. Di qui il progetto di un’ontologia formale, che riguarda il costituirsi in oggetto di qualsiasi cosa, e di un’ontologia regionale, che riguarda oggetti specifici. Nella fase tarda del suo lavoro, Husserl ha dato una svolta “genetica” a tali analisi ontologiche, tematizzando, in particolare, la nozione originaria, “pre-categoriale” di “mondo” (chiamato perciò “mondo della vita”). Di quest’ultima analisi fa parte la genealogia della “crisi”, razionalità scientifica moderna.
Cenni sulla vita e le opere
Edmund Husserl
L’Epoché
Al tentativo cartesiano di un dubbio universale potremmo ora sostituire l’universale epoché nel nostro nuovo e ben determinato senso. Ma a ragion veduta noi limitiamo l’universalità di questa epoché. Poiché, se le concediamo tutta l’ampiezza che può avere, non rimarrebbe piú alcun campo per giudizi non modificati e tanto meno per una scienza: infatti ogni tesi e ogni giudizio potrebbero venir modificati in piena libertà e ogni oggetto di giudizio potrebbe venir messo in parentesi. Ma noi miriamo alla scoperta di un nuovo territorio scientifico, e vogliamo conquistarlo proprio col metodo della messa in parentesi limitato però in un certo modo.
[...] Facendo questo, come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso proprio l’epoché fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita pratico-naturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente e, in definitiva, come un mondo che non è un terreno universale d’essere per una conoscenza che procede attraverso l’esperienza e il pensiero. Io non attuo piú alcuna esperienza del reale in un senso ingenuo e diretto.
[...] Proprio questo valere preliminarmente, che mi porta attualmente e abitualmente nella vita naturale e che fonda la mia intera vita pratica e teoretica, proprio questo preliminare essere-per-me “del” mondo, io mi inibisco; gli tolgo quella forza che finora mi proponeva il terreno del mondo dell’esperienza, e tuttavia il vecchio andamento dell’esperienza continua come prima, salvo il fatto che questa esperienza, modificata attraverso questo nuovo atteggiamento, non mi fornisce piú il “terreno” sul quale io fino a questo momento stavo.
[...] Cosí io neutralizzo tutte le scienze riferentesi al mondo naturale e, per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi ad accusarle di alcunché, non ne faccio assolutamente alcun uso.
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965
Edmund Husserl
Il compito del filosofo e la crisi delle scienze europee
Il compito del filosofo, lo scopo della sua vita di filosofo: una scienza universale del mondo, un sapere universale, definitivo, un universo delle verità in sé attorno a mondo, al mondo in sé. Che dire di questo scopo e della possibilità di raggiungerlo? È possibile cominciare con una verità - con una verità definitiva? Una verità definitiva, una verità attraverso cui io possa enunciare qualcosa su un essente in sé, nella certezza indubitabile di enunciare qualcosa di definitivo? Se io dispongo già di verità “immediatamente evidenti”, è possibile che da esse ne possano derivare mediatamente altre. Ma io dispongo veramente di queste verità? È possibile che un essente in sé sia per me tanto indubitabilmente certo in un’immediata esperienza, che io possa, mediante concetti descrittivi immediatamente adeguati all’esperienza e al suo contenuto, enunciare immediate verità in sé? Ma che dire di tutte le esperienze del mondano, di tutto ciò che io ho in una certezza immediata, che è nella spazio-temporalità? Tutto ciò è certo, ma questa certezza può modalizzarsi può diventare dubbia, può trasformarsi lungo il processo dell’esperienza, in apparenza: nessun enunciato sperimentale immediato mi dà un essente in sé; mi dà soltanto un che di supposto con certezza, che lungo la mia vita di esperienza deve verificarsi. Ma la mera conferma, costitutiva della concordanza dell’esperienza reale, non esclude la possibilità dell’apparenza.
[...] Come può il pensiero produrre altro che verità relative?
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1983
Edmund Husserl
Il mondo della vita
Il mondo della vita come tale non è forse l’universalmente noto, l’ovvietà che inerisce a qualsiasi vita umana, ciò che nella sua tipicità ci è già sempre familiare attraverso l’esperienza? I suoi orizzonti ignoti non sono forse semplicemente orizzonti d’una conoscenza semplicemente imperfetta, e cioè già noti almeno nella loro tipicità piú generale? Certo alla vita pre-scientifica questa conoscenza basta come le basta il suo modo di trasformare la non conoscenza in conoscenza e di attingere occasionalmente una conoscenza sulla base dell’esperienza e dell’induzione (di un’esperienza che continuamente viene verificata e che esclude costantemente le apparenze). Ciò basta alla prassi quotidiana. Ma se si vuole compiere un passo in avanti, per pervenire a una conoscenza “scientifica”, che cosa può essere messo in discussione se non gli scopi e le operazioni della scienza obiettiva? Ma la conoscenza scientifica non è forse, come tale, conoscenza “obiettiva” - orientata verso un substrato della conoscenza valido per chiunque in una generalità incondizionata? Eppure, paradossalmente, noi teniamo fermo alle nostre precedenti affermazioni ed esigiamo che non ci si lasci ingannare da una tradizione di secoli, dalla tradizione in cui siamo stati educati, e che non si sovrapponga il concetto tradizionale di scienza in generale.
E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1983
Edmund Husserl (1859-1938), nato a Prossnitz, in Moravia, si laurea nel 1883 in matematica presso l’Università di Berlino discutendo una tesi sul calcolo delle variazioni con il matematico tedesco Kurt Weierstrass (1815-1897). Successivamente segue le lezioni di Franz Brentano (1838-1917) a Vienna, che determinano la decisione di dedicarsi alla filosofia. Il primo frutto di questa decisione è la Filosofia dell’aritmetica (1891). Con le Ricerche logiche, costituite da un primo volume, i Prolegomeni alla logica pura (1900), e da un secondo (1901) contenente sei studi su argomenti di logica e teoria della conoscenza, si ha l’atto di nascita della sua riflessione sulla fenomenologia. Dopo aver insegnato ad Halle dal 1887, nel 1901 è chiamato a Gottinga; comincia così un’intensa stagione di insegnamento, che vede anche la formazione di due “circoli fenomenologici” (a Gottinga e Monaco) e la fondazione dell’Annuario di filosofia e ricerca fenomenologica (1911). Le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913; gli altri due volumi dell’opera vengono pubblicati postumi nel 1952-1953) costituiscono la prima compatta e globale fondazione della teoria e del metodo fenomenologico. Nel 1916 comincia l’insegnamento a Friburgo, dove ha per assistente, tra gli altri, Martin Heidegger (1889-1976). A questo periodo risalgono due opere di consuntivo e di chiarificazione, la Logica formale e logica trascendentale (1929), le Meditazioni cartesiane (frutto di conferenze tenute a Parigi nel 1929, e pubblicate in francese nel 1931) e, inoltre, quello che viene ritenuto il suo testamento spirituale la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (elaborazione di conferenze tenute a Vienna e a Praga nel 1935; pubblicazione parziale nel 1936-1937, poi, postuma e comunque incompiuta, nel 1954). Nel 1936 viene sospeso dall’insegnamento dal governo nazista; muore nel 1938. Immediatamente dopo, grazie al padre francescano Herman Leo van Breda (1911-1974), l’insieme dei suoi manoscritti viene trasferito a Lovanio, dove è stato fondato lo Husserl Archiv che, a partire dal 1950, cura l’edizione integrale delle opere del maestro. Tra gli innumerevoli manoscritti stenografati – anche trascrizioni dei corsi universitari –, vanno segnalati alcuni già pubblicati: L’idea della fenomenologia (1950); Filosofia prima (1956-1959); Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1966); Analisi sulla sintesi passiva (1966); Cosa e spazio (1973); Sulla fenomenologia dell’intersoggettività (1977). Di particolare importanza, infine, anche il manoscritto dedicato alla “genealogia della logica”, pubblicato autonomamente dal suo assistente Ludwig Landgrebe: Esperienza e giudizio (1939).
La fenomenologia: intuizione e intenzione
Edmund Husserl è il padre della fenomenologia, uno dei più influenti orientamenti della filosofia contemporanea. Insieme all’ermeneutica, infatti, la fenomenologia ha improntato gran parte del pensiero novecentesco, anche dopo la cosiddetta “svolta linguistica”, poiché essa ne condivide lo stesso atteggiamento osservativo e non prescrittivo, la tendenza a “cambiare le banconote in moneta spicciola”: rinuncia alla generalizzazione e pone l’attenzione sulle differenze.
La progressiva pubblicazione degli inediti di Husserl conferma quello che i testi pubblicati in vita suggeriscono: la fenomenologia di Husserl è un grande cantiere di lavoro teorico, con molte grandi opere avviate, tante altre abbozzate, rimaste allo stato di progetto, che spesso indicano solo l’area da dissodare. L’immagine del cantiere non significa incompiutezza ma restituisce lo spirito della fenomenologia husserliana: una minuziosa descrizione di come si viene costituendo la nostra esperienza, da quella sensibile a quella astratta, dagli oggetti della percezione, della fantasia, del ricordo, agli oggetti ideali della logica e della matematica. Il tutto accompagnato da una inesausta interrogazione sul senso, le condizioni e le modalità di una simile impresa.
Invece di cominciare da conoscenze acquisite o di procedere alla costruzione di un sistema concettuale mediante definizioni e deduzioni, il motto di Husserl è: “noi vogliamo tornare alle cose stesse”, nella convinzione che anche le cose ritenute più ovvie e scontate – per esempio che ci sia un mondo di fronte a noi e che le scienze ne spieghino la vera natura – siano tutt’altro che ovvie e chiare. Perciò la fenomenologia si definisce anche come “scienza delle ovvietà”, provando a ricondurre parole, schemi, concetti, dati e fatti a un terreno di evidenze immediate ed elementari, dette anche intuizioni. Le cose a cui si vuol tornare sono tali evidenze, ossia i molteplici modi in cui l’esperienza ci si manifesta. Di qui il termine fenomenologia(dal termine greco phainomenon che deriva dal verbo phainestai: mostrarsi, apparire): osservazione di come le cose originariamente si mostrano, al fine di chiarire e descrivere come si costituisce e si articola quel continuo infinito, molteplice eppure unitario, che chiamiamo esperienza.
Ben presto Husserl giunge a definire i compiti della fenomenologia. Più difficile e tormentosa è invece la fondazione teorica, la ricerca di motivi e metodi cogenti per eseguire l’indagine dell’esperienza in modo non empirico ma neanche astratto, cioè senza né dare per scontato cosa siano i “fatti” che accadono, né ricorrere a facoltà intellettuali o principi logici che dovrebbero ordinarli. Degli uni e degli altri va data una ragione immanente, aderente al loro modo di manifestarsi, senza altri presupposti o presunzioni.
Il punto di partenza resta quindi la “vita di coscienza”, poiché è a noi, alla nostra coscienza che le cose si mostrano; d’altra parte, la nostra coscienza è sempre coscienza-di, si manifesta come un continuo aver presente o dirigersi su qualcosa, una serie intrecciata di atti orientati: un intenzionare. Sicché osservare e descrivere i fenomeni fa tutt’uno con l’osservare e descrivere la vita di coscienza, i vissuti. Questa correlazione tra fenomeno e coscienza, intuizione e intenzione, diventa così il tema peculiare della filosofia fenomenologica, il cui scopo è chiarire che vi è un’intima e stabile legalità della correlazione. La correlazione, cioè, segue delle regole definite, che non sono prescritte da qualche sistema convenzionale, da un patrimonio di “facoltà” in dotazione dell’uomo, e nemmeno da “proprietà” insite nelle cose, ma sono invece immanenti a come si manifesta, come è presente qualcosa. Proprio tale legalità, tale “come”, la sua natura e il suo significato, sfuggono alla psicologia empirica che sembra avere il medesimo tema, ma che non distingue tra il fatto psicologico e il contenuto intenzionale, il quale ha una sua fisionomia e delle sue leggi peculiari. Sul piano empirico abbiamo un incessante mutare di sensazioni e stati psichici, ma il mutamento segue dei precisi decorsi e le cose restano virtualmente identificabili nei contesti e nelle situazioni empiriche e psicologiche più varie. Tale stabilità fenomenica dipende dalla relazione intenzionale – che possiamo anche chiamare “campo fenomenico” –: anche se varie e vaghe, le mie sensazioni o rappresentazioni sono polarizzate su qualcosa (un suono, una luce, un albero), sull’oggetto intenzionale, che resta tale sia che io lo stia percependo ora, sia che lo stia significando verbalmente o ricordando o immaginando. Cambierà certo il vissuto che ne ho, il suo senso, il modo in cui lo intenziono, ma sempre nella direzione di quell’oggetto determinato o via via determinantesi secondo una sua peculiare grammatica fenomenica (come suono, luce, albero percepito oppure immaginato oppure ricordato oppure significato verbalmente).
Decorsi e modalità della correlazione sono indipendenti dai singoli stati psicologici o dall’esistenza concreta dell’oggetto, e questo lo si può esprimere dicendo che noi non abbiamo solo una intuizione sensibile (sensazione di rosso, sensazione di un certo oggetto con superfici e angoli) ma anche categoriale (l’unitario “esser rosso del tavolo”, che non è semplice addizione di rosso + insieme di angoli e superfici): cogliamo più di quello che è dato in concreto, in una somma di sensazioni, come quando pur vedendo sempre solo un lato di una cosa spaziale, riteniamo di vederla per intero, di vedere il tavolo e non un suo lato anteriore o posteriore. Cogliamo dunque una determinatezza (il tavolo rosso) la specificità che distingue qualcosa, la sua essenza, che non è nulla di empirico, bensì la forma (eidos) che ne scandisce la costanza fenomenica, la sua peculiare modalità d’essere. Questo vale tanto per i vissuti percettivi, quanto per gli altri tipi di vissuto; anche di un ricordo, di un calcolo, di una immaginazione cogliamo la sua specifica forma, cioè che si tratta appunto di quella e non di un’altra esperienza: di un suono e non di una luce; di un suono o di una luce ricordati e non di un suono o di una luce immaginati.
Le caratteristiche del vissuto intenzionale, l’intuizione delle essenze eidetiche, pur operando costantemente, restano tuttavia irriflesse e inavvertite nell’esperienza “naturale”, sempre mossa e sollecitata da urgenze, bisogni, interessi, condizionamenti vari. Perciò la loro esplicitazione richiede una epoché, la “sospensione” dell’esperienza naturale, ossia la sua riduzione fenomenologica a pura presenza fenomenica, a prescindere da ogni esistenza concreta, seguendo il precetto di purificare lo sguardo e “guardare quello che c’è, solo nei limiti e nei modi in cui c’è”. La “liberazione dal fatto” è necessaria per non incorrere nell’empirismo ingenuo tanto delle scienze positive quanto del senso comune. Se si parte da fatti, a fatti si arriva, precludendosi l’accesso alla dimensione intenzionale, articolata in stati e connessioni, in modi di presenza possibili (l’albero percepito, significato o immaginato, ha la sua esistenza intenzionale, indipendentemente dal fatto che esista in concreto). Sicché, operata l’epoché, si procede alla riduzione eidetica, alla riconduzione dei vissuti alle loro specie eidetiche (ciò che connota un vissuto logico rispetto a un vissuto percettivo, volitivo, fantastico).
La “svolta trascendentale” della fenomenologia
Il metodo della riduzione risale al periodo in cui Husserl maturò la “svolta trascendentale” della fenomenologia, attuata con le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Se nelle Ricerche logiche si è limitato a scandagliare la struttura del vissuto (materia e qualità dell’atto intenzionale, gradi e modi dell’intuizione), in seguito gli pare di dovere sciogliere questa struttura statica nella sfera dinamica dell’“io trascendentale”, inteso quale orizzonte di apparizione di ogni e qualunque cosa. E ciò allo scopo di comprendere meglio la vita intenzionale, inoltrandosi nel flusso infinito della pura – cioè non empirica – soggettività, là dove vengono configurandosi le correlazioni tra oggettualità (ora chiamate noemi) e atti di coscienza (ora chiamati noesi), attraverso l’intreccio e la stratificazione, anche temporale, di operazioni costitutive. A questo scopo viene introdotta anche una riduzione trascendentale del mondo naturale precostituito, al mondo originario in via di costituzione dell’io o soggettività trascendentale. Dalle singole unità oggettuali, che si manifestano già pronte e stabilizzate, si passa alla gamma di operazioni che rendono ciascuna unità un sistema in movimento di manifestazioni fenomeniche interrelate: il percorso nel quale si formano e modificano, si sovrappongono, si intessono in unità sintetiche complesse le “cose” dell’esperienza, che tuttavia restano specifiche e distinguibili, altrimenti non avremmo stratificazione e sintesi ma caos indefinito. I vissuti, i campi fenomenici percettivi, immaginativi, rimemorativi, linguistici, non avrebbero allora più alcuna legalità e riconoscibilità, e la costituzione progressiva dell’esperienza si arresterebbe o si annullerebbe in semplice arbitrio.
A partire dalle Ricerche logiche e soprattutto dalle Idee, la procedura fenomenologica si è tradotta nel vasto programma di una descrizione dell’esperienza conoscitiva riferita a oggetti astratti (ontologia formale) e di quella riferita a oggetti del mondo naturale e spirituale (ontologie regionali). L’ontologia formale è una fenomenologia della logica, cioè dei vissuti che intenzionano i concetti (unità, pluralità, tutto, parte…) e i loro collegamenti, i giudizi (“S è p”, “A è uguale ad A”, “Se A allora B”…), che riguardano oggetti qualsiasi, in generale: le idealità. Le teorie scientifiche, ma poi ogni discorso significante, si compongono di concetti e giudizi di questo tipo; quanto più sono formalizzate, universali, tanto più si occupano di oggetti, relazioni e leggi ideali, astratte. Le ontologie regionali si riferiscono invece a vissuti strettamente legati a contenuti particolari: ci sono delle regioni della nostra esperienza – per esempio i suoni, i colori, i corpi organici, i valori, le motivazioni – che hanno loro specifiche modalità di articolazione, loro peculiari grammatiche, dalle quali non si può prescindere. Posto che ontologia formale e ontologie regionali non sono sovrapponibili, giacché trattano di oggetti diversi, è però vero che anche gli oggetti regionali sono comunque oggetti e ricadono quindi nell’ontologia formale. Il compito del fenomenologo sarà tenere conto dei rapporti e delle differenze che vi sono tra entrambi, chiarendoli reciprocamente.
Un approccio “genetico” alla fenomenologia
In questa direzione Husserl perverrà, nell’ultima fase del suo lavoro, a un approccio genetico, per cui i rapporti tra le varie ontologie non vengono analizzati solo in termini di operazioni costitutive trascendentali (intreccio di sistemi manifestativi per ciascun tipo di oggetto), ma sottoponendo a ricostruzione genetica queste stesse operazioni di costituzione, dove il tempo, la sedimentazione progressiva dei vissuti, le relazioni tra sensazione e movimento, corpo vissuto (Leib: il mio corpo sentito dall’interno) e corpi spaziali (Körper: i corpi materiali percepiti dall’esterno), giocano un ruolo sempre più marcato.
Frutto di tale approccio sono le ricerche genealogiche (confluite in parte nel volume postumo Esperienza e giudizio) sulle origini della logica e a partire dall’esperienza “antepredicativa”, cioè prelinguistica, inconcettuale, legata a esperienze precedenti qualsivoglia categorizzazione, al primordiale incontro senso-motorio con il mondo. E poi le ricerche sul “mondo della vita” (Lebenswelt), che è il nome assegnato da Husserl (nella Crisi delle scienze europee) all’esperienza antepredicativa vista però soprattutto nella sua dinamica intersoggettiva. Il mondo della vita è infatti il mondo dell’immediatezza intuitiva, del mutuo orientarsi delle persone, delle loro intrecciate prassi vitali, della reciproca compenetrazione psicosomatica, in una quotidianità fatta di gesti, azioni, interessi, motivazioni, abitudini. Quella stessa “ovvietà” che è il mondo del nostro comune vivere, viene ora messo specificatamente a tema, poiché ogni senso e ogni possibilità dell’esperienza lì hanno origine. Le operazioni di costituzione, la genesi della logica e delle oggettualità regionali, vanno pertanto comprese sul terreno dei mondi intersoggettivi vitali, che è tuttavia proprio il terreno ignorato e frainteso dall’“obiettivismo” tipico della razionalità moderna. L’obiettivismo è quell’atteggiamento che assume come ovvia la propria rappresentazione delle cose e il proprio modo di conoscerle. Sicché, radicalizzando i compiti che fin dall’inizio si era dati, la fenomenologia intende risalire alle origini stesse dell’intenzionalità e del mondo intersoggettivo, ponendosi in modo volutamente speculare all’obiettivismo, al progresso tecno-scientifico, ritenuto cieco in quanto ignora la provenienza dei suoi presupposti e delle sue certezze. Questa cecità spiega il perché della crisi delle scienze nonostante il loro imponente trionfo: si tratta della crisi di una razionalità non più in grado di conoscere se stessa.
Alla luce della ricostruzione fenomenologica, lo scientismo e l’obiettivismo moderno, nonché il relativismo empiristico, loro corollario, si rivelano conseguenza estrema di un processo di matematizzazione della natura cominciato con Galileo Galilei, con la nascita della scienza moderna, la quale ha preso per “mondo naturale” il mondo dei costrutti logici e scientifici. Così essa ha deviato, interrotto e occultato sia il suo radicamento nel “mondo della vita”, sia il senso originario della razionalità, allorché nell’antica Grecia sorse l’“atteggiamento teoretico”, la conoscenza disinteressata e non tecnico-strumentale, ossia la conoscenza mirante alla verità e non all’efficienza fine a se stessa. Risalire al “mondo della vita” sul piano ontologico significa sul piano storico risalire e recuperare le radici della razionalità europea, poiché l’Europa, la filosofia e una certa scienza universale, capace di riflettere su se stessa, sono un’unica e medesima cosa.