FABBRI, Edoardo (Odoardo)
Nacque a Cesena (prov. Forlì) il 13 ott. 1778 da Mario Antonio, possidente, e da Caterina Riganti.
Il padre, esponente della piccola nobiltà locale, non colto ma dotato di una personalità vivace che avrebbe espresso in una Cronaca manoscritta su Cesena dal 1781 al 1811 (Cesena, Bibl. Malatestiana), era insoddisfatto della propria condizione di suddito del papa; la madre, di origine pugliese, proveniva da famiglia i cui esponenti avevano ricoperto posti di riguardo nell'amministrazione pontificia: negli anni seguenti, dei suoi fratelli uno, Francesco, avvocato concistoriale, sarebbe stato console della Repubblica Romana, l'altro, Nicola, sarebbe stato creato cardinale.
Proprio su consiglio di costui il F. a otto anni fu mandato a Roma a frequentare il Collegio Romano, da dove nel 1791 passò al collegio dei nobili di Urbino, retto dagli scolopi, per completarvi gli studi di retorica, filosofia e scienze, avendo come compagni i tre fratelli del futuro Pio IX. Insofferente del latino, il giovane F. si appassionava ai grandi della letteratura italiana da cui gli veniva soprattutto il senso di una più ampia identità nazionale che gli avvenimenti dell'ultimo decennio dei secolo, innestandosi su un'avversione quasi congenita per il dominio temporale, avrebbero contribuito a rafforzare.
Nel febbraio del 1797, all'entrata dei Francesi a Cesena, il padre, allora consigliere della Municipalità, fu tra i più pronti ad adeguarsi al nuovo ordine, in parte per opportunismo di classe, in parte per un reale desiderio di cambiamento.
In ciò lo seguiva pienamente il F. che, richiamato da Urbino mentre vi si sviluppava un'insorgenza antifrancese e subito inserito nella guardia civica col grado di tenente (capitano dall'ottobre del 1797), si entusiasmava per la Cispadana, ne auspicava l'unione con la Cisalpina e, membro della Municipalità cesenate dal 20 sett. 1797, non lesinava gli attacchi al clero e si batteva per la laicizzazione delle istituzioni e per un deciso distacco da Roma. Ma questa sua fede repubblicana, per quanto forse più sincera e meno occasionale di quella paterna, non era tale da indurlo ad eccessi giacobini e babuvistici, ché anzi la diffusione, da lui sollecitata in sede comunale, delle Istruzioni di un cittadino ai suoi fratelli meno istrutti, appena pubblicate a Padova da M. Cesarotti, stava a indicare nel F. l'intenzione di ispirare a moderazione il rapporto tra cittadino e potere e di cercare non lo scontro, ma la composizione tra le varie istanze sociali.
Portatosi a Milano al seguito del padre, che nel febbraio del 1798 era stato eletto tra i rappresentanti di Cesena nel Consiglio degli juniori della Cisalpina, il F. prese a gravitare intorno al Circolo costituzionale e ad interessarsi di teatro, vedendovi, sulla scia delle teorie di M. Gioia, un efficace mezzo di propaganda dei principi repubblicani e di educazione delle masse. Se l'esperienza politica di M. A. Fabbri fu di breve durata perché già il 18 ott. 1798 i Francesi lo sollevarono dalle sue funzioni, forse per una sua ostilità all'estendersi della loro presenza nella penisola, ben più significativo fu il soggiorno milanese per la maturazione intellettuale del figlio a contatto con un ambiente ricco di fermenti, capace di proporgli le suggestioni della massoneria (cui aderì con lo slancio di chi credeva nel libero pensiero e nella fratellanza universale) e di tenerlo al corrente della più recente produzione letteraria. Fu così che il F. conobbe il Foscolo, il Monti e più tardi il Manzoni e strinse un solido legame con personaggi come G. B. De Cristoforis e P. Litta. Soprattutto, assistendo alle rappresentazioni alfieriane, ne trasse un modello di teatro che, dopo qualche timido tentativo subito rientrato, prese sistematicamente a seguire nella composizione di tragedie in endecasillabi sciolti cui si dedicò dal 1798 al 1845.
In quasi cinquant'anni di discontinua attività il F. scrisse tredici tredici, alcune delle quali, composte nei primi anni dell'Ottocento, furono pubblicate nel triconio 1820-22 (Ifigenia in Aulide, Forlì 1820; Safonisba, ibid. 1821; Marianne, Rimini 1822); altre, per sfuggire alla censura, ebbero un'edizione di forma in cinque volumi a Montepulciano nel 1844-45 (tra queste l'Ifigenia in Tauride, i Trenta tiranni d'Atene, e quella che è considerata la sua opera piú ispirata, I Cesenati del 1377); altre infine furono conosciute solo nel 1962 quando a Napoli apparve una raccolta di Tragedie inedite curata Aa M. Frezza (La bella penitente, del 1822-24; La morte di Arrigo IV, del 1827; La novizia di S. Chiara, del 1845). I temi attorno ai quali ruotò la produzione del F., che già i contemporanei a partire dal Foscolo ritennero meritoria sul piano civile ma scarsamente poetica per certa oscurità e durezza del verso, sono da un lato (quelli alfieriani della lotta contro la tirannide, dall'altro la polemica contro il Papato, i suoi interessi terreni, il suo legame con lo straniero eome causa della perdita dell'indipendenza nazionale, elemento, questo, che tra l'altro fece sì che questi drammi fossero rappresentati solo in epoche rivoluzionarie, e cioè nel periodo francese e nel 1831. Imperniate quasi tutte su delicate figure femminili e sull'approfondimento delle loro psicologie, le tragedie del F. si attestavano sul versante classico-eroico della tradizione, ma non di rado la scelta del soggetto, l'ambientazione nel tardo Medioevo e il contenuto polemico rivelavano una sensibilità nuova, tanto da far dire al Frezza, soprattutto a proposito della Francesca da Rimini, che "il teatro romantico nasce col Fabbri"; il quale, tuttavia, non sembrò avere grande consapevolezza del suo ruolo d'innovatore e per tutta la vita rimase legato alla scuola neoclassica e ai suoi maggiori esponenti, attento soprattutto a rivendicare i meriti della tradizione poetica nazionale e la sua bellezza formale.
Durante il periodo francese il F. visse tra Milano e Cesena, tenendosi lontano dalla vita pubblica e celebrando le vittorie napoleoniche in carmi dai quali traspariva l'imitazione del Monti. Più delle sorti di Napoleone, verso il quale dovette nutrire qualche risentimento quando nel 1808 fece relegare mons. N. Riganti a Pavia (e il F. lo seguì e restò con lui per sei mesi), gli stavano però a cuore i riflessi che le fortune dell'Impero potevano avere sull'Italia. Il 17 apr. 1812 fu nominato comandante della guardia nazionale di Cesena col grado di colonnello, e in tal veste affrontò i gravi momenti del ritorno degli Austriaci cercando di mantenere l'ordine in una terra ribollente di passioni politiche, in una situazione di grande instabilità e senza mezzi adeguati: se la cavò bene e lasciò la carica il 9 apr. 1814, quando già da due mesi le Legazioni erano passate sotto Gioacchino Murat re di Napoli. Ben presto questi cedette il territorio agli Austriaci, ma il 30 marzo 1815 vi tornò e offrì al F. la viceprefettura di Cesena: convinto si trattasse di una svolta decisiva per la regione e forse per tutto il paese, il F. accettò e il 9 aprile diffuse un roboante appello per raccogliere il consenso della popolazione. La rapida riscossa austriaca lo costrinse poi a rifugiarsi ad Ancona il tempo necessario perché le acque si calmassero e lo zio intercedesse a suo favore presso i vincitori.
Il ristabilimento della dominazione papale sulle Romagne parve al F. una vera sciagura: il processo di desecolarizzazione cui fu sottoposta la regione, la sensazione dello sfruttamento ad opera di una città parassitaria come Roma e poi lo scatenamento della repressione, tutto ciò finiva quasi per ingenerare in lui la nostalgia degli Austriaci e lo spingeva verso la cospirazione come verso la sola via praticabile dagli oppositori del dispotismo papale. Pur senza mai entrare for malmente nella carboneria il F., per il prestigio conferitogli dagli studi e dalle cariche ricoperte in passato, era idealmente al centro di ogni trama settaria ma, finché visse lo zio, che nel 1816 era stato fatto cardinale da Pio VII e consacrato arcivescovo Ancona, non ebbe noie e anzi per circa un anno, tra il 1818 e il 1819, fu chiamato ad amministrare i beni di quella diocesi. Quando però nel 1822 il Riganti scomparve il F. restò alla mercé della fazione più reazionaria della Curia romana: già P. Maroncelli in uno dei suoi costituti nel 1821 lo aveva presentato ai giudici austriaci come la vera testa pensante della cospirazione romagnola del 1820; denunciato in seguito da altri settari, il 25 dic. 1824 il F. fu arrestato a Roma, sembra per ordine espresso di Leone XII, e trasferito subito a Ravenna dove, unicamente sulla base delle rivelazioni di alcuni impunitari, fu accusato del reato di congiura nonché di calunnia per la tentata subornazione di un testimone. Il 31 ag. 1825 con la celebre sentenza del card. A. Rivarola fu condannato, senza aver subito né processo né confronti, "alla detenzione perpetua in un forte dello Stato", pena poi: commutata in dieci anni di carcere; e fu singolare che la giustizia interpretasse la apparente estraneità del F. alle società segrete come un espediente "per dirigerle e dominarle tutte in sostanza".
La condanna raggiunse il F. nel forte di Ancona, dove era stato rinchiuso, dal 5 ag. 1825. Restò in carcere più di sei anni, ad Ancona fino al giugno 1826, poi a Ravenna, quindi quattro anni nel forte di Imola, per, ultimo, dall'agosto del 1830, a Civita Castellana, e fu questo il periodo più duro, inflittogli per il timore di possibili ripercussioni della rivoluzione del 1830, in Francia. Riebbe la libertà il 26 febbr. 1831, per un atto di grazia sovrana deciso sotto l'urgere della marcia su Roma dei ribelli guidati da G. Sercognani. Nel 1839 iI F. prese a rievocare questa sua triste esperienza da cui era uscito provatissimo e fece delle sue memorie (pubblicate solo nel 1915, a Roma col titolo Sei anni e due mesi della nia vita) la denunzia più, vibrata del potere temporale e dei suoi aspetti più illiberali, dando del regime, che con una immagine scultorea avrebbe definito "questo peccato con tre corone in testa" (p. 271), Una raffigurazione del tutto negativa, come di qualcosa con cui nessuna forma di convivenza era possibile. E di fronte all'arbitrio dei giudici, all'illogicità delle misure punitive, alla spudoratezza delle procedure illegali, ad una corte la, cui "maggior forza risiede nell'uso perenne della menzogna", (p. 118), si ergeva la sua coscienza "intera e dritta, perpetuamenie, vigile austeramente sdegnosa" (Ghisalberti, E., F. nel centenario..., p. 336), ma anche stranamente capace di dettargli parole di comprensione per il Rivarola in quanto autore di più di un gesto di riguardo nei suoi, confronti.
Sostanzialmente moderato pur nella durezza del suo anticlericalismo, il F., che anche in carcere aveva mantenuto molti contatti e ricevuto frequentì visite di amici ed estimatori, dopo la liberazione fu circondato dal rispetto dei concittadini che ne fecero il simbolo della resistenza di Cesena al malgoverno romano. Si guastarono invece i rapporti col fratello Galeazzo Torquato, da lui accusato di avere approfittato delle sue disavventure per impadronirsi del patrimonio familiare: ridotto perciò quasi in miseria, con la Romagna occupata militarmente e un papa come Gregorio XVI affatto diverso dai predecessori, nell'ottobre del 1832 il F. decise di rifugiarsi a San Marino da dove fu mandato via nel giugno del 1834 per espressa richiesta della segreteria di Stato. Tornò a Cesena e riprese gli studi abbozzando una incompiuta Storia del 1831 (edita dal Trovanelli in appendice alle memorie) e pubblicando un opuscolo di Brevi notizie intorno alla città di Cesena (Imola 1843). Non avendo mutato opinione sul Papato nulla faceva pensare che, come poi avvenne, all'avvento di Pio IX il F. fosse tra i primi ad esaltarsi, e lui stesso) si sorprese a trovarsi mutato "in papalino e in romano" (De Maria, p. 197). In seguito si persuase che le buone intenzioni riformatrici del papa si scontravano con l'ostilità di una Curia e di una burocrazia immobiliare e quindi sempre più avviluppate nel groviglio degli interessi austriaci in Italia, tanto da pors come il vero ostacolo ad ogni pretesa di indipendenza nazionale. Se il 13 apr. 1848 accettò l'ufficio di prolegato a Pesaro e Urbino e, dal 17 luglio, la designazione a far parte dell'Alto Consiglio, lo fece anche perché pensava che Pio IX non andasse lasciato solo: mentre diffidava del Piemonte e degli ultraliberali (a Pesaro destituì per tale motivo l'avv. G. Gabussi dall'ufficio di direttore di polizia per le Legazioni), era certo che solo da Pio IX e dal suo gradualismo potesse venìre la soluzione del problema italiano, con il superamento di tutti i municipalismi e il sostegno alla guerra. Su tale posizione restò anche dopo l'allocuzione del 29 aprile e come prolegato fece, il possibile per mantenere l'ordine interno e richiamare la popolazione al dovere di contribuire allo sforzo militare. Ma a dispetto di un certo vigore giovanile, c'era negli appelli del F. più retorica che sostanza; e non a caso quando Pio IX dovette sostituire il ministero Mamiani e preparare il terreno alla definitiva liquidazione del programma nazionale, a lui affidò un governo (formalmente il F. vi figurava come ministro degli Interni) che fu di transizione non solo per la sua durata (poco più di un mese, dal 6 agosto al 16 sett. 1848), ma per il ruolo che, grazie alla copertura d'un uomo come il F. ben visto per il suo passato dagli ambienti liberali, esso assunse, prima di tutto subendo passivamente l'eliminazione o l'accantonamento dei ministri più dinamici quali P. Campello e G. Galletti, quindi raffreddando gradualmente lo spirito combattivo della popolazione e preparando la smobilitazione, premessa fondamentale per un ribaltamento della linea fino allora seguita dal papa. I pochi accenti di dignità il F. li trovò nella protesta contro l'invasione austriaca delle Legazioni e nel bando con cui celebrava l'insurrezione bolognese dell'8 agosto: tutto il resto, da una flebile richiesta d'intervento alla Francia all'adozione di provvedimenti finanziari di corto respiro, all'invio di una commissione nelle Legazioni e di L. C. Farini a Bologna come commissario, ebbe carattere di routine (e il Farini avrebbe in seguito lamentato lo stato di abbandono in cui il ministero lo aveva lasciato). Addirittura una notificazione del F. in data 22 ag. 1848 contenente l'ennesimo larvato appello a deporre le armi fu censurata dal Consiglio dei deputati.
Consapevole della propria impotenza, il F. accolse la fine dell'incarico come una liberazione: stanco e deluso, tornò a Pesaro ad esercitare ancora per qualche settimana le funzioni di prolegato, e poco prima della fuga del papa da Roma si dimise. Si ritirò allora a Cesena e fu chiamato a far parte del locale Consiglio; in epoca repubblicana, per mero sentimento d'orgoglio nazionale, il F. espresse qualche simpatia ai difensori di Roma da cui peraltro lo separava una profonda divergenza ideologica. Più tardi, al rientro di Pio IX a Roma nell'aprile del 1850, il F. fu tra i pochi cesenati che avvertirono il bisogno di assistere ad un non molto affollato Te Deum di ringraziamento nel duomo cittadino; quindi rinunziò alla carica di consigliere e si mise definitivamente da parte.
Morì a Cesena il 7 ott. 1853.
Fonti e Bibl.: Molte le biografie del F.: fra le più complete si segnalano quella che N. Trovanelli premise alla pubblicazione dei Sei anni e due mesi della mia vita, Roma 1915 (in appendice si leggono i costituti del F.), quella costruita sul carteggio del F. (tredici cassette nella Biblioteca Malatestiana di Cesena) da U. De Maria, Della vita, degli scritti e degli amici del conte E. F. ..., Bologna 1921, e, da ultimo, G. Maroni, E. F. La patria e le lettere, Ravenna 1982. Numerosi i lavori che, a parte le rievocazioni di A. M. Ghisalberti, E. F. nel centenario della morte, in Studi romagnoli, V (1954), pp. 329-347, hanno mirato ad illuminare certi momenti cruciali della vita del F.: tra essi P. Colombo, E. F. pro legato a Pesaro e ministro di Pio IX nel 1848, in Il 1848 nella storia it. ed europea. Scritti vari, a cura di E. Rota, Milano 1948, pp. 913-953; A. Mambelli, Note al carteggio di E. F. con F. Mordani, in Studi romagnoli, V (1954), pp. 389-411; G. Maroni, La giovinezza di E. F., ibid., XV (1964), pp. 277-304; Id., L'amicizia F.-Borghesi nella scuola classica romagnola, ibid., XXIV (1983), pp. 541-554. Qualche ulteriore elemento in M. Perlini, I processi politici del card. Rivarola, Mantova 1910, pp. 98-103, 200 s.; A. M. Ghisalberti, G. Galletti ministro di Pio IX…, in Rass. storica d. Risorg., XVI (1929), pp. 345 ss.; A. de Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma (1848-49), a cura di A. M. Ghisalberti, Roma 1969, ad Indicem. Sul governo Fabbri un giudizio molto severo, oltre che in P. Colombo, cit., in C. Spellanzon, Storia del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, V, Milano 1950, pp. 122, 130-181, e in G. Candeloro, St. dell'Italia mod., III, La rivoluzione naz., Milano 1975, pp. 316-319. Negativa anche la valutazione di G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 274 s., nel quadro, tuttavia, d'una discutibile difesa della politica papale. Sul F. letterato e drammaturgo si vedano G. Partisani, Liriche di E. F. ordinate e illustrate, Bologna 1905; G. Rizzi, Ilteatro tragico di E. F., Cremona 1921; E. Fabbri, Francesca da Rimini, a cura di M. Frezza, Napoli 1962; Id., Tragedie inedite, a cura di M. Frezza, Napoli 1962; Diz. enc. della letterat. it., II, Bari 1966, sub voce. Tra le fonti inedite, di un certo interesse le lettere del F. ai mons. L. Arnat e V. Pentini conservate nel Museo centr. del Risorgimento di Roma, rispettivamente busta XI/6 (sei lettere ufficiali dell'agosto-settembre 1848) e busta XXI/25 (otto lettere private degli anni 1848-52).