DE FILIPPO, Eduardo
Fratello di Titina e Peppino, nacque a Napoli il 24 (secondo altre fonti il 26*) maggio 1900, dalla relazione dell'attore ed autore Edoardo (Eduardo) Scarpetta con la nipote Luisa De Filippo.
Si formò nella tradizione di un teatro napoletano che presentava, negli anni del suo apprendistato, una vivace commistione di vecchio e di nuovo, di rifacimenti e attualizzazioni: la sopravvivenza dell'esperienza della maschera di Pulcinella e del teatro sancarliniano grazie agli "eredi" di Petito (dai De Martino fino a De Muto); le vecchie farse, ancora in auge, e le commedie di stampo ottocentesco che, a seconda della situazione e dell'uso, si dilatavano o si stringevano a fisarmonica grazie alla recitazione degli attori retta da un repertorio sedimentato che forniva gli "a soggetto"; la forte presenza del teatro d'arte di scuola digiacomiana proseguita da Murolo e da Bovio, autore quest'ultimo di numerose canzoni a sfondo sociale che sono state il migliore spunto per la nascente sceneggiata; i rimaneggiamenti dei romanzi d'appendice di Mastriani rielaborati da Edoardo Minichini e interpretati dal popolarissimo attore del S. Ferdinando, Federico Stella; le trascrizioni in ambiente napoletano delle pochades francesi fin de siècle che attraverso Paola Riccora e, soprattutto, lo stesso Scarpetta, miravano a soddisfare il gusto della nuova classe media che andava affermandosi con il Novecento.
Proprio Scarpetta dette corpo al personaggio di Felice Sciosciammocca, maschera dei piccolo borghese povero ma ambizioso, con il quale ha scalzato e spodestato Pulcinella, per realizzare un teatro adeguato a un pubblico che "voleva ridere" ma vedere attori e non maschere sul palcoscenico, attori ben vestiti che recitassero e non improvisassero... La comicità deve nascere dall'ambiente, dalla situazione scenica, dal personaggio ... Ma io credo di aver avuto le mie buone ragioni di averla cercata soprattutto nella borghesia dove essa zampilla più limpida e copiosa. La plebe napoletana è troppo misera, troppo squallida, troppo cenciosa per poter comparire ai lumi della ribalta e muovere il riso" (E. Scarpetta, Cinquant'anni di palcoscenico, Napoli 1922, pp. 260 s.).
Il modello scarpettiano è stato la matrice per tutta una generazione di attori napoletani, e il D., figlio di Sciosciammocca, ha proseguito il cammino riformatore così segnato, soprattutto nella scrittura, avvalorandosi di una attenzione sociologica alla piccola borghesia che sarà centrale nell'evoluzione del suo lavoro teatrale, e creando però una strada inedita e unica come attore, riscrivendo, personalizzando e rinnovando questa tradizione.
A quattro anni debuttò con Scarpetta nella parodia dell'operetta Geisha, dove appariva truccato da giapponesino. Nel 1909, nella stessa compagnia, prese parte a 'Nu ministro mmiez' 'e guaie, riduzione di una commedia di Bersezio. Nella stagione 1909-10 Eduardo Scarpetta decise di ritirarsi dalle scene: suo figlio Vincenzo formò così, a Roma, una nuova compagnia con la quale il D. lavorerà spessissimo fino agli anni Venti. Nel 1911, per ordine paterno, fu costretto a ritirarsi in collegio per seguire gli studi: farà teatro saltuariamente, soprattutto in estate. Nel 1912 partecipò con la sorella Titina alla rivista Babilonia di Rambaldo (Rocco Galdieri), dove faceva il guardio e la sorella la figurazione de "La roulette". Nell'estate del 1914, proseguendo poi nelle due successive estati, fu all'Orfeo, al Trianon e al S. Ferdinando al fianco del vecchio attore Enrico Artieri, impegnato in un repertorio popolare che includeva drammoni, teatro d'arte, commedie, con l'aggiunta, al venerdì, della farsa. Il D. ricopriva i primi ruoli di rilievo, ma per lui era la gavetta: dalle dieci alle dodici prove e, dal pomeriggio fino a sera, tre spettacoli completi ogni giorno.
Entrò stabilmente nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, dalla quale mancherà solo quando, nel 1918, la sua classe fu chiamata alle armi; presterà servizio nei bersaglieri, nel 1920, e organizzerà spettacoli in caserma. Nel 1921 rientrò in compagnia Scarpetta; d'estate, girava da solo facendo "serate" a Napoli, Sorrento, Salerno e Castellammare. Le prime prove di drammaturgo furono accolte da Scarpetta che, nello stesso 1921, mise in scena Farmacia di turno e, l'anno successivo, Ho fatto il guaio, riparerò... (che diventerà poi Uomo e galantuomo). Sempre del 1922 fu la prima regia al teatro Partenope: Surriento gentile di Enzo Lucio Murolo. Vincenzo Di Napoli e Peppino Villani lo scritturarono per il debutto palermitano della rivista di Guido Di Napoli (Giulio Trevisani), 4 e 4, 8. Visto il successo, il lavoro proseguì diventando 8 e 8, 16 e 16 e 16, 32, versioni a cui collaborò anche il D. fornendo vari sketches. Fino al 1927 alternò il lavoro con la compagnia Scarpetta alle serate in cui presentava un proprio numero da varietà. Nell'estate dello stesso 1927 l'amicizia tra il D. e Michele Galdieri, prolifico autore di riviste che diventerà poi l'autore preferito da Totò, si concretizzò in Rivista che non piacerà, presentata dalla "ditta" Galdieri De Filippo diretta da Eduardo. In quell'anno fu chiamato dall'impresario Sebastiano Bufi, su segnalazione di Renato Simoni, che lo scritturò per una compagnia formata da Luigi Carini, Arturo Falconi, C. Pilotto e F. Scelzo. Per motivi economici la compagnia però si sciolse, e il D. tornò con Scarpetta.
"Altro eccezionale spettacolo allestito da Eduardo con Peppino, nel luglio 1929 al Fiorentini, è la novità Prova generale, tre modi di far ridere (la risata semplice, la risata maliziosa, la risata grottesca) sperimentati da R. Maffei, G. Renzi, H. Betti (leggasi i nomi dei De Filippo), con un prologo e un epilogo di Michele Galdieri" (A. Spurle, I De Filippo. La grande Titina, Napoli 1973, p. 54). Sempre nell'estate del 1929 lo troviamo al teatro Nuovo con la compagnia Molinari di Eugenio Aulicino assieme ai fratelli Peppino e Titina. "Eduardo e Mario Mangini (con gli pseudonimi di Tricot e Kokasse) hanno l'incarico di scrivere un copione che avrà per titolo Pulcinella principe in sogno, prendono a prestito il libro, pubblicato in quei giorni, di Ugo Ricci ... Kokasse si impegna a scrivere la prima parte e Eduardo la seconda. In questa, l'attore-autore include il famoso atto unico Sik-Sik, l'artefice magico, che sarà un grosso successo" (ibid., pp. 62 s.). Nell'inverno il D. lasciò la compagnia Scarpetta e recitò col fratello Peppino quasi stabilmente al teatro Nuovo fino al 1931. Seguirono altre riviste; nel giugno del 1930 erano comparsi i primi esperimenti che saranno la base per la formazione dei "Teatro umoristico I De Filippo". Il repertorio incluse Sik-Sik del D. e Don Rafele 'o trumbone di Peppino.
Per la stagione 1931-32 la produzione del D. incluse numerose riviste: Le follie della città di Kokasse, Ll'opera 'e pupe di Tricot e Kokasse, che vedeva i due fratelli nelle vesti di Orlando e Rinaldo, Tutto dipende da quello, "rivista di satira politica abilmente condotta da Michele Galdieri" (ibid., p. 65), fino a C'era una volta Napoli di Mauro, Tricot e Kokasse. Fu anche l'anno di E arrivato 'o trentuno! di Tricot, successivamente ricostruito dal D., nel 1971, per il Piccolo Teatro di Milano col titolo Ogni anno punto e da capo.
Il "Teatro umoristico I De Filippo" si costituì con un contratto che prevedeva nove giorni di repliche al cinemateatro Kursaal: il D. aveva convinto i suoi fratelli a lasciare il teatro Nuovo e a debuttare, in periodo natalizio, con la prima versione di Natale in casa Cupiello. Il successo fu tale che il contratto fu prolungato per nove mesi. Nel 1932 la compagnia debuttò al Sannazzaro con Chi ècchiú felice 'e me! del D. stesso.
"Ho fatto l'attore perché la mia famiglia era una famiglia di attori. La recitazione che vedevo sui palcoscenici di allora non mi piaceva, la trovavo esagerata, finta. Con la presunzione dei bambini ho pensato che avrei fatto molto meglio io, e che Il stavano sbagliando tutto. Per tutta la vita ho sempre voluto fare meglio degli altri, essere più vero, osservare più attentamente la realtà, raccontare meglio di tutti la vita" (in Sipario, 1980, n. 405, p. 12). La pratica teatrale contribuì a formare il giovane D.; la vecchia scuola lo impratichì dei testi e della loro meccanica; la frequentazione del palcoscenico accanto a vecchi attori di maniera gli dette la consapevolezza delle tecniche recitative, dei mezzi e dei mezzucci attorici, la grammatica di una recitazione "enfatica, su di tono, molto portata; gli attori recitavano quasi sempre rivolgendosi al pubblico; il trucco era pesante, ingenuo, molto teatrale" (Eduardo De Filippo presenta Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, Torino 1974, p. 3). Mentre il teatro italiano degli anni tra il Dieci e il Venti era teso alla rappresentazione dei significati e al mostrare l'allusione ultima a cui mira il testo, forgiando una generazione di attori pensosi che attraverso il birignao riempivano il vuoto della scena quasi a compensare la mancata funzione sociologica del loro agire, il teatro napoletano produceva attori impegnati in più generi ma "naturali", perché collegati direttamente alla realtà e alla vita quotidiana da cui elaborare, condensato, un repertorio di azioni, gesti, vocalità che li rendesse immediatamente riconoscibili indipendentemente dal restringimento della varietà di proposta culturale attorno ai generi più commestibili.
Il D. usò questi attori, e scrisse testi che, nel primo periodo, erano tra il farsesco e la commedia, dove era ancora possibile trovare la dicitura "a soggetto". Molti di questi testi sono riferiti alla vita e all'ambiente teatrale. Uomo e galantuomo del 1922 tratta di una scalcinata compagnia di attori il cui capocomico, per un classico malinteso, è costretto a sostenere la finta pazzia del protagonista escogitata per salvare l'onore di una famiglia: il meccanismo teatrale rivela comunque la sapienza drammaturgica dell'autore a confronto con un tema ancora acerbo nella sua poetica. Filosoficamente (1928) e Chi è cchiú felice 'e me! (1929) sono due bozzetti, di provincia ambientato in campagna questo, di un cortile napoletano, molto vicino alla scrittura di Ernesto Murolo, quello. Nel primo già compaiono i segnali di un tema che sarà sviluppato in seguito: quello di una classe, un vago terziario piccolo borghese, che deve mostrare pubblicamente uno status di dignità relativo al ruolo sociale ad essa assegnato. "Vi giuro che certe volte - dice Gaetano protagonista di Filosoficamente - invidio 'o scupatore, 'o mondezzaio... perché non hanno esigenze. Chello che se guadagnano s"o mangiano e nun hann"a pens'a niente cchiù. Dormono in una topaia qualunque ed ecco risolto il problema! '0 guaio chi 'o passa? L'impiegato! Deve vestire decente, non voglia maie 'o cielo se presenta cu' 'e scarpe rotte... Si tene figlie, l'ha dda fa' cumpari', naturalmente quel poco, che guadagna serve per mantenere come meglio può le apparenze... e 'a panza soffre".
Seguendo la datazione delle opere così come l'ha stabilita il D. stesso e contrappuntando la sua evoluzione di attore, il 1929 è l'anno di Sik-Sik l'artefice magico, la rappresentazione di un povero guitto alle prese con i suoi numeri. Il D. esprime nella premessa quanto si senta confuso tra la folla e quanto sia tentato di avvicinarsi al botteghino per chiedere una poltrona: "Fino a che la luce della ribalta non m'acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio della sala non spalanca il suo baratro infinito, io non prendo, né so né posso prendere il mio posto della finzione". Un sublime ritratto teatrale ed umano, che molto deve al varietà per la crudeltà e la poesia dei personaggi. Sempre del 1929 è la farsa ambientata in una losca casa da gioco: Quei figuri di trent'anni fa.
Il primo testo del "Teatro umoristico I De Filippo" è la versione in due atti di Natale in casa Cupiello. I Cupiello rappresentano una classica famiglia napoletana piccolo borghese le cui dinamiche seguono un preciso schema sociologico: il padre, ritratto di uomo puro e ingenuo, incarna la tradizione, è un ostinato e maniaco fautore del presepio che ormai non interessa più nessuno, è estraneo agli avvenimenti domestici da cui è tenuto all'oscuro, e procede inconsapevole ed escluso; perno reale della famiglia, scudo e copertura per tutti, è la madre; il figlio Nennillo è uno sbandato in cerca di occupazione, contrariamente alla sorella Ninuccia che ha fatto un "buon matrimonio" franato subito dopo. La famiglia si riunisce per la cena della vigilia di Natale che si trasforma in tragedia per la presenza casuale dell'amante di Ninuccia. Il lavoro non ha uno sviluppo concluso; l'importanza di questa prima stesura è nella mancanza di retorica, dì moralismo e di agnizioni. L'aggiunta del terzo atto, pubblicato nel 1941 segna per il D. il passaggio ad una completezza narrativa che includerà però quel didascalismo e quel moralismo che accompagnerà il suo futuro lavoro. Natale in casa Cupiello, già in questa prima versione, è anche il segnale di un passaggio da una comicità farsesca, legata alla battuta e all'equivoco, ad una comicità amara, che gioca contro la situazione in cui è inserita. P, un umorismo tragico, come l'ha definito lo stesso D.; un umorismo che svela e che evidenzia la tragedia attraverso la situazione, che a sua volta crea la comicità. È da questa concezione che nasce il "Teatro umoristico I De Filippo", segnale di un ulteriore passo per la definizione della sua drammaturgia: da un lato una scrittura sempre più articolata e riferita alla vita che lo circonda, dall'altro una sempre maggiore identificazione tra lui e i suoi personaggi in un continuo affinamento delle tecniche recitative. Ma la prova di Natale in casa Cupiello apre un nuovo periodo che non si traduce immediatamente in cifra teatrale: gli anni Trenta e i primi anni Quaranta sono il momento dell'apprendistato drammaturgico e della sintesi attorica. Nel 1932 scrisse tre testi: Ditegli sempre di sì, storia di un malato di mente ossessionato dal problema dell'uso corretto delle parole, che crea con la sua mania numerosi equivoci; Gennariniello, un uomo di mezza età, stralunato inventore da strapazzo; Il dono di Natale, tratto da una novella di O. Henry, The Gift of the Magi, incentrata sulla vita di una giovane e misera coppia di sposi.
Per i due anni successivi il D. non scrisse, ma si allenò alla palestra di Pirandello. Fece la regia di Liolà (1935), con Peppino protagonista, e interpretò Il berretto a sonagli (1936). La sua interpretazione - che venne riconosciuta dalla critica come il successo definitivo della sua carriera di attore - sembra tener involontariamente conto dell'estendersi del terziario, dei tentativi di egemonia della piccola borghesia e del consenso culturale riscosso da questa classe in espansione. Già profondamente impressionato - come il D. stesso afferma - dai Sei personaggi in cerca d'autore, e incitato dallo stesso Pirandello, trovò nella sua opera un utile riferimento, un manuale di studio, uno strumento da conoscere, smontare e riutilizzare altrove. Ma la sua influenza non si affermò subito; bisognerà arrivare al dopoguerra per coglierne i frutti. là molto giusto quanto scrive Corrado Alvaro dei rapporti tra il D. e Pirandello, se spostato indietro di circa un decennio: "Credendo di trovarsi ancora di qua da un personaggio ambientato nella vita moderna e nella vita di tutti, [Eduardo] tentò di rompere quello che riteneva un suo limite, si accostò al pirandellismo, la forma meno adatta a lui, e in cui già lo stesso Pirandello finì col muoversi a disagio. Fu una di quelle avventure che gli artisti corrono facilmente credendo di superarsi, ma che giovano al consolidamento della loro personalità; Eduardo era già nella realtà contemporanea con Questi fantasmi, la più napoletana delle sue commedie" (in Sipario, marzo 1956, p. 2). Solo che i Fantasmi è dell'anno 1946, rappresenta il frutto dei "giorni dispari" e segue di dieci anni l'incontro con Pirandello. Il D. attore e drammaturgo aveva bisogno, in questo periodo (siamo alla metà degli anni Trenta), di un riferimento preciso, contrapposto alla tradizione, che gli permettesse non tanto di tradurre questa in più alta e lata lingua, quanto di applicare i meccanismi della tradizione recitativa alla contemporaneità di una scrittura consolidata. Da qui il predominio dell'attore sull'autore: dove il primo costringe il secondo a creargli le barriere che l'attore deve continuamente superare. Il fatto che tutti i personaggi del D., salvo rari casi, da questo periodo in avanti, abbiano la sua stessa età, pur facilitando l'attore, permettendogli una maggior coincidenza tra il mondo rappresentato e il modo interiore, lo obbligano a cercare moduli espressivi che rendano evidenti, superando sé stesso, i drammi umani, etici e morali che deve rappresentare. Segno di questa ricerca attorica è quanto negli anni Cinquanta affermò Bragaglia, definendolo un non attore, ma mimo o maschera "che recita sé stesso, sempre, né muta mai"; polemica che diede adito a una inutile schermaglia a cui il D. rispose con un foglio volante (cfr. L'Arlecchino, 25 apr. 1954, p. 192). Il magistero pirandelliano è servito infatti anche all'attore: gli ha indicato la strada per utilizzare a pieno, e per sé, la logica del personaggio, contro la situazione, contro i personaggi, contro l'autore.
Il D., d'ora in poi, alternerà spunti farseschi a commedie più mature superando il bozzettismo che aveva caratterizzato alcune sue opere. Quinto piano ti saluto (1934) è la visita alla vecchia casa in demolizione di uno dei suoi primi abitanti per un addio al passato, accompagnato da un senso di fine, di trasformazione e di irrecuperabilità del tempo andato con i suoi sogni e le sue fantasie. Più impegnativa è Uno coi capelli bianchi (1935), dove l'apparenza seriosa e la sbandierata rispettabilità che dovrebbero rappresentare i capelli bianchi del protagonista (nel senso della responsabilità e della saggezza) sono contraddette dal suo comportamento reale di invidioso accentratore, di egoista e di irresponsabile che nega quanto la sua condizione sociale dovrebbe affermare e l'apparenza dichiarare. Il protagonista, smascherato nei suoi traffici di bugie e cattiverie, non piacque a una parte del pubblico della prima rappresentazione e fu, nello stesso tempo, acclamato da un gruppo di giovani che dal loggione continuarono ad applaudire anche a sipario chiuso: il D. si premurò di scrivere un secondo finale, da rappresentare assieme al precedente, in cui quel "sireno in capelli bianchi riesce ancora una volta a persuadere il genero della propria innocenza; e ricomincia subito le maldicenze. L'uno e l'altro finale furono applauditi. Ma le commedie possono dunque avere una conclusione di ricambio?" (R. Simoni, Corriere della sera, 17 genn. 1939). Il 1936 è l'anno della prova pirandelliana diretta: la scrittura teatrale, insieme al maestro, della novella L'abito nuovo. "Lui dialogava, a voce, in lingua, ed io traducevo, a voce, in napoletano. Quando eravamo d'accordo, quando cioè lo avevo trovato il preciso equivalente vernacolo delle "battute" che egli diceva in lingua, si scrivevano quelle "battute" e si passava alla scena seguente" (E. De Filippo, in Il Dramma, 1936, n. 235, p. 31) Alberto Savinio ha sottolineato un altro degli aspetti del pirandellismo attorico proprio recensendo L'abito nuovo (26 giugno 1937, poi pubbl. in Rivista ital. di drammaturgia, 1977, n. 5, p. 123) e cioè evidenziando quello "scambio ininterrotto di dramma interno e di dramma esterno" come si leggeva dall'interpretazione eduardiana. L'attore andrà sempre più riassumendo in sé questa dualità: l'espressione staccata, distante, riflessiva di controllo dei sentimenti e delle emozioni - tipica del "brechtismo" degli attori napoletani - e la presenza continua e attenta sul personaggio e la situazione.
Dopo due farse, Pericolosamente (1938) e La parte di Amleto (1940), quest'ultima su orrori e miserie della vita di palcoscenico, presentò quella macchina teatrale perfetta che è Non ti pago (1940). Attomo al gioco del lotto c'è un amore contrastato, la superstizione, il sogno e la realtà che si mescolano in una struttura realistica retta da esilaranti trovate teatrali. Del 1942 è Io, l'erede: qui un figlio viene a reclamare l'eredità patema rivendicando per lui il ruolo che fu del padre presso la famiglia che lo ospitava. Lo sgomento di una tale richiesta lascia tutti attoniti e, superato un primo momento di imbarazzo, si passa alla rassegnazione e tutti accettano, anche se mal volentieri, il giovane in famiglia, che farà da consigliere e tuttofare domestico. Il nuovo arrivato è a conoscenza e non mancherà di svelare i legami nascosti, le ipocrisie e le falsità che sotto l'apparente generosità e altruismo si celano nei rapporti umani.
Così chiude la Cantata dei giorni pari: questo è il titolo che il D. diede al primo volume che raccoglie i suoi lavori fino al 1942 (Torino 1951). In merito a questa raccolta egli affermò di aver voluto "mostrare il mondo dell'intreccio, dell'intrigo e dell'interesse: l'adultero, il giocatore, il superstizioso, l'indolente, l'imbroglione. Tutte componenti di un riconoscibile e definibile modo di vivere napoletano appartenente al XIX secolo. In quelle commedie ho tenuto in vita la Napoli che era già morta in parte e in parte era coperta e nascosta dalla paternalistica premura del regime fascista e che se dovesse rinascere oggi sarebbe vista in maniera differente, sotto un aspetto differente". Dai giomi pari si passa ai giorni difficili del dopoguerra, giomi di disperazione, di smarrimento ma anche di rinnovamento. Sono i giorni dispari. Eduardo con Titina al suo fianco vara una nuova e definitiva compagnia: ormai è capocomico, attore e regista riconosciuto anche se indipendente ed estraneo alle scuole e alle tendenze, teso come pochi altri, Costa o Visconti, ad esprimersi più che "inventare un modo altro di espressione" (C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze 1984, p. 150). Nasce il Teatro umoristico di Eduardo. Il lavoro che apre la Cantata dei giorni dispari è certamente il più indicativo, anche se non il più riuscito, Napoli milionaria. Qui il dramma interno e il dramma esterno, il mondo individuale e la storia coincidono: la guerra ha i suoi effetti sull'individuo come sulla società, l'Italia è ancora ammalata, come ammalata è la figlia di Gennaro Jovine, il reduce segnato dagli orrori della guerra che toma tra persone che cercano di dimenticare; ma le ferite personali e collettive sono troppe, l'America non è la salvezza, anzi porta altri guai, bisogna aspettare, "ha dda passà' 'a nuttata". Siamo nel periodo più maturo del D., il passato è messo a frutto e il presente si fa pesantemente sentire. Il 1946 è l'anno dell'approfondimento di questi temi: il dramma individuale è specchio di un dramma estemo e sociale che viene drammaturgicamente tradotto tanto in condizioni esistenziali quanto in piccoli segnali e continue metafore. È l'anno di Questi fantasmi e di Filumena Marturano. La prima è costruita sulla misura del Berretto a sonagli (cfr. C. Meldolesi, Fondamenti..., cit., e Gesti parole e cose dialettali, in Quaderni di teatro, maggio 1981).
Qui il discorso è diretto, riferito ad un possibile "noi" di quegli anni: "Nel nostro teatro e nella nostra convivenza, crollate, o sulla via di esserlo, le menzogne che ci avvolgevano, resta la realtà concreta e modesta della vita che conducono i suoi personaggi nei passaggi obbligati della società: le pareti tra cui sono chiusi, spesso fatte di ignoranza e di inganno, le difficoltà delle loro professioni che danno poco pane ma consentono molte pazzie al cuore" (V. Pandolfi, Lo spettacolo..., pp. 227 s.). Pasquale Lojacono sublima la realtà: scambia l'amante della moglie per un fantasma che gli fornisce benessere, soldi e agiatezza. Il D. riesce a superare il mestiere accumulato, il retaggio della tradizione e le sue stesse esperienze di scrittura fino ad allora collaudate. La tecnica della farsa, lo scambio delle persone - ci si riferisce all'ipotetico fantasma ma si parla, in realtà, dell'amante della moglie - l'utilizzo di un vasto repertorio attorico per creare le varie situazioni (la sceneggiata di Armida, i dialoghi con il portiere, il racconto della visione dei fantasmi di Carmela), il mondo dei valori piccolo borghesi dove alla famiglia si contrappone un unico personaggio esterno, a rappresentare "gli altri" (il dirimpettaio, professor Santanna, "anima utile che non si vede"), l'ansia di trovare al di là di questa realtà una soluzione, tutto si mescola in un gioco perfetto nell'incastro e nell'equilibrio. Una soluzione diversa trova Filumena Marturano facendosi credere in punto di morte per costringere Domenico Soriano a sposarla, tentando di consacrare la propria condizione di moglie "vera" dopo che per anni gli è stata al fianco, facendogli da moglie e da donna di casa, nel momento in cui sta per essere abbandonata. All'insaputa di Domenico, e prima di stare al suo fianco, Filumena ha avuto tre figli: uno gli appartiene. Per mantenerli lo ha derubato; la sua furba innocenza è stata guidata dalla sua moralità per la quale "i figli sono figli". Neanche dopo la volontaria adesione di Domenico al matrimonio Filumena gli rivelerà quale dei tre è suo figlio. Ma il senso della commedia per il D. va ben oltre la storia che racconta: Filumena è l'Italia che deve, o dovrebbe, difendere i figli che rappresentano le tre classi sociali emergenti.
In un clima di rinunce e di ripiegamento morale, il 1947 è anche l'anno delle incertezze e della crisi della ricostruzione. Questo fa da sfondo a Le bugie con le gambe lunghe, a Le voci di dentro e a La grande magia (scritta nel 1948). Ritorna il tema delle illusioni, delle verità sospese che un niente può far capovolgere, del rapporto illusione-realtà e, centrale, quello della finzione che per reggersi ha bisogno di un accordo collettivo, del tacito consenso di coloro che, da essa, ne ricavano beneficio. Quest'ultimo è il sottofondo de Le bugie, un gioco di finzioni costruite per nascondere le scottanti verità che creano una parabola di falsità sostenuta in malafede dai protagonisti.
Fanno da contrappunto i personaggi, i protagonisti, interpretati dal D. che sono degli esclusi, non più degli "ingenui" come Luca Cupiello, sicuramente degli estranei alla finzione collettiva. Il D., attore e autore, si fa portatore delle verità nascoste, delle realtà insabbiate dalla finzione. È ancora finzione quella creata dall'illusionista Otto Marvuglia a cui crede Calogero Di Spelta: la moglie di quest'ultimo, scappata con l'amante, è immaginata rinchiusa in una piccola scatola che l'illusionista per "grande magia" gli ha consegnato alla fine dello spettacolo. Quando la moglie ritorna, Calogero la rifiuta, non riconosce in lei la donna a cui ha pensato per tanto tempo. Le riflessioni del protagonista de La grande magia sono però troppo confuse e redatte in maniera fredda e concettuale. Di interesse superiore Le voci di dentro, un gioco tra illusione, fantasia e realtà: credere vero un sogno fa scatenare una catena di infamie nella famiglia Cimmaruta in cui tutti reciprocamente si accusano del delitto sognato. Alberto Saporito, che ha ritenuto realtà il sogno, ha scatenato un gioco delle parti intenso che può anche rivoltarsi contro di lui. Attraverso - un personaggio secondario spicca un tema caro al D., su cui spesso ritornerà: Zi' Nicola non è muto, "non parla perché non vuol parlare. Ci ha rinunziato. Eh, sono tanti anni. Dice che parlare è inutile. Che siccome l'umanità è sorda, lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri con le parole... perché, poi, tra le altre cose, è pure analfabeta... sfoga i sentimenti dell'animo con le "granate", le "botte" e le "girandole"". La parola non serve a comunicare, non dice la verità, è truccata come lo sono gli uomini, pronti a fingere e a nascondere: il silenzio è l'unica rivolta possibile in questo mondo di ipocrisie.
Come Zi' Nicola sceglieranno il silenzio i protagonisti di Mia famiglia e de Gli esami non finiscono mai. Il teatro racconta di queste ipocrisie, deve avere il coraggio di dire quello che si è, "dimostrarsi per quello che si è. In teatro si può dire tutto, poi alla fine si tirano i conti. L'attore ha il compito di farli tornare". E l'attore è lo strumento che deve far udire il suono preciso, limpido e chiaro, ha a sua disposizione tanti modi per parlare e comunicare perché "tutto parla in un attore: le mani, le spalle e perfino i capelli". Ma l'autore ha altri compiti, anche se quello che scrive è riconosciuto da tutti, tutti dovrebbero riflettere, ripensare ai "fatti" rappresentati. In una poesia del 1949: "'A ggente ca me vede mmiez' 'a via me guarda nfaccia e ride. Ride e passa. Le vene a mmente 'na cummedia mia, / se ricorda ch'è comica, e se spassa. / Redite pè cient'annel Sulamente / v' 'o voglio dì, pé scrupolo 'e cuscienza: io scrivo 'e fatte comiche d' 'a ggente ... E a ridere, truvate cunvenienza? / ... Nun credo". Finora la sapiente lingua del D., generata dal dialetto, è andata oltre: filtrato e semplificato dall'esperienza della scena, dalla comunicazione diretta e immediata, semplice e ricca nello stesso tempo, il dialetto è diventato una lingua che include anche l'italiano, in un gioco dialettico di funzioni dove l'uso, dell'uno o dell'altro, corrisponde sempre a relazioni di significati. Il dialetto e l'italiano corrispondono a dei ruoli inseriti in un rapporto relazionale valido, soprattutto, fino alle opere di questo periodo: in futuro la lingua sarà sempre più "italiana" e il dialetto diventerà una minoranza. Questo non vale per la recitazione: sedimentata nella lingua attorica, costruita attraverso la modulazione dei segni e dei sensi al di là delle parole, del contenuto, resta la "voce". Ma questo filo rosso è portato a scontrarsi e a confondersi con l'esperienza della scena scritta, non sempre all'altezza, mediata dall'attualità e dalla contemporaneità tenute sempre d'occhio. Il presente più scottante è stato quello della guerra, della catastrofe che ha creato nelle coscienze e direttamente negli individui la sensazione di qualcosa che si è rotto, di un'unità persa, come se il mondo fosse andato in frantumi. Ma il pericolo non è del tutto scongiurato: la paura di una possibile guerra è al centro de La paura numero uno (1950), questo rende i protagonisti paurosi e timorosi, tanto da condurli ad atti inconsapevoli e addirittura inconsulti. La complessità del tema non trova una trattazione adeguata, né plausibili risposte nella fiacchezza dell'opera. Di minore importanza anche i due successivi lavori, I morti non fanno paura e Amicizia (entrambi del 1952).
Per due anni di seguito il D. non formò compagnia (stagione 1951-52 e 1952-53): si dedicò soprattutto al cinema, sebbene dovesse ricostruire il vecchio teatro S. Ferdinando di cui aveva comprato l'edificio distrutto dalla guerra. Ritornò alle scene nella stagione 1953-54. Per festeggiare il centenario della nascita di Eduardo Scarpetta mise in scena Miseria e nobiltà. Questo è il primo segnale di ritorno alla tradizione e, nello stesso tempo, un tentativo ben riuscito di lettura critica dei testi dell'Ottocento teatrale. Per l'inaugurazione del S. Ferdinando, il D. prese ancora dalla tradizione, risalì a Petito: mise in scena Palummella zompa e vola (avvalendosi della collaborazione dell'ultimo Pulcinella, Salvatore De Muto). A questa fecero seguito Monsignor Perrelli di Starace e Montevergine di D. Romano. Il D. con la sua ultima produzione sondò l'attualità, trattò di elementi e di temi presi dal contesto culturale ed esistenziale contemporaneo: ora lanciava l'amo della tradizione, cercava delle coordinate che lo collegassero strettamente alla storia del teatro napoletano e, quindi, a suo padre: un padre mai dichiarato pubblicamente se non negli anni recenti. Una strategia questa che lo rese riconoscibile dal suo popolo, che lo fece diretto filo conduttore del passato, rappresentante vivente di una tradizione spenta, che solo attraverso lui può vivere. Le strade creative però si restringevano: dalla tradizione, attraverso la farsa, elaborava la commedia amara che, grazie a Pirandello, aveva acquistato un ampio respiro umanitario e sociologico; aveva attraversato la guerra con i relativi sintomi di dispersione e disperazione constatando la totale perdita di socialità e la conseguente fine di quel "piccolo mondo antico" di sentimenti e comportamenti che lo accompagnava, rinfrancato però dalla umanitaria speranza per un futuro migliore. Ora non restava che la famiglia, quale ultimo universo a cui attaccarsi. Mia famiglia, emblema e metafora sociologica ancorata al costume piccolo borghese, contiene la speranza e il crollo di un'isola felice: ma è perduta anche lì; nella famiglia come nel sociale regna l'incomprensione. Anche se la saggezza è dalla parte dei padri che fanno di tutto per illuminare, la situazione è irreparabile.
Sono questi gli anni del realismo del D. che trova una ulteriore conferma in Bene mio e core mio (questa come la precedente del 1955) dove egli ancora meditava sul tema del bieco interesse nascosto da un velo di finto affetto. Ma qui l'opera si presenta piena di spunti, di possibili combinazioni e prospettive, non è "chiusa" come le altre, quasi a segnare un taglio netto con gli anni del paese devastato: ci sono delle prospettive per una società che può essere sanata dalle proprie ferite, che può superare le proprie debolezze morali facendo di se stessa oggetto di un profondo esame di coscienza.
Nel 1956 la rivista Sipario dedicava a Eduardo un intero numero. Le quattro ragioni della dedica erano tanto indicative quanto riconoscibilissime nell'evoluzione teatrale (attorica e drammaturgica) del D.: rispecchiano il percorso, la volontaria costruzione del suo "personaggio pubblico", consacrano quell'immagine che il D. stesso ha voluto dare di sé. "La prima: Eduardo è un commediografo che conta moltissimo. La seconda: è un commediografo che appartiene al gran filone italiano, quello di Machiavelli di Ruzante, di Goldoni. La terza: è un commediografo che lavora sulla nostra realtà, sul fatti nostri. L'ultima: è un attore nel quale ritroviamo quella Commedia dell'Arte che dello splendido filone italiano è un'altra potente espressione". Da qui il primo, profondamente motivato, riconoscimento per il D.; tutta la sua fatica trova un evidente riscontro, tutti i temi eduardiani e tutti gli sforzi. come in un puzzle, vanno in porto.
Torna ancora a Scarpetta, con due adattamenti (Il medico dei pazzi e Tre cazune fortunate, presentato con il titolo La fortuna in cerca di tasche) per poi chiudere gli anni Cinquanta con un testo che risente della tradizionalità della scrittura e della composizione in tre atti, Sabato, domenica e lunedì. Il tema è ancora la famiglia, articolata in rapporti generazionali tra nonni, figli e nipoti, qui strutturato come un insieme di frammenti che si riuniscono a mosaico, tanti pezzetti di realtà, di quotidianità, che però si frantumano man mano che li si mette insieme.
Il D. leggeva in questa commedia un fermento contestatario e un'anticipazione del divorzio attraverso un'elegia dell'amore nei suoi aspetti quotidiani: solo l'amore può tenere insieme due esseri, né il matrimonio, né i figli. Come dal titolo la narrazione si sviluppa attraverso i giorni in cui la famiglia si ritrova, in casa e lontano dal lavoro, per celebrare la comunione del pranzo domenicale con il solito ragù. Ma questa unione è impossibile, il rito non si celebra, anzi c'è un furioso litigio che si ricompone solo il lunedì mattina, prima di lasciare le pareti domestiche e ritornare alle occupazioni dell'"esterno". Un lavoro questo dalla forza cechoviana, pregno di riferimenti e significati a più livelli. Appare anche un Pulcinella, simbolo del passato e della tradizione, la cui funzione teatrale è solo quella del passatempo nostalgico e amatoriale: ne veste i panni un anziano componente della famiglia che prepara la recita per il dopolavoro. Il lavoro tenta di riportare i sintomi del cambiamento degli anni Sessanta, del boom economico e del definitivo allontanamento dalla cultura, dai modi di essere di una società che è stata cambiata dalla guerra e dalla ricostruzione e che con la televisione ha un aspetto completamente mutato.
La storia dì Sabato, domenica e lunedì è una storia vissuta all'interno delle pareti domestiche, anzi rappresenta un ulteriore tentativo, impossibile, di vedere nel risanamento della famiglia il centro di un possibile miglioramento dell'uomo. Ma Eduardo muove subito verso l'esterno, dove verificare gli stessi presupposti su una famiglia allargata, estesa: Il sindaco del rione Sanità. Ormai le illusioni sono crollate, Napoli da "milionaria" è specchio del mondo per tematiche universalizzanti e il punto di vista dell'autore non è più solo napoletano, ma elabora metafore a partire da lì, dalla sua città come esempio di massima contraddizione. "La società mette a frutto l'ignoranza" perché "sui delitti e sui reati che commettono gli ignoranti si muove e vive l'intera macchina mangereccia della società costituita": così afferma Antonio Barracano, sindaco e capocamorra del rione Sanità, che si leva a difensore di quei delinquenti, che sono solo vittime di una società che li tiene nello stato di ignoranza, per proteggerli esercitando la sua missione di giustizia. E la sua giustizia prende spunto dalla vita quotidiana, conosce la realtà, non segue codici né articoli di legge, ma invoca la coscienza e la consapevolezza. Ma la sua giustizia non vincerà, l'aspetto drammatico dell'opera prende il sopravvento: la grande famiglia non si riesce a controllare, il padre buono non viene rispettato da tutti, a molti dà fastidio e preferiscono la legge, da cui possono evadere. Il simbolismo della situazione, tra mondo esterno di riferimento e tecnica rappresentativa, si riconosce anche ne Il figlio di Pulcinella (scritto nel 1957 ma rappresentato nel 1961).
In entrambi il riferimento al clima politico della Napoli di quegli anni è evidente, è il periodo dell'impero laurino e della ricostruzione abusiva di Napoli, dei voti comperati dalla Destra monarchica. Qui la maschera è simbolo del popolo, funzione del servilismo atavico, strumento della sopravvivenza e momento di resistenza alla tirannia dei padroni. Infatti il padrone vuole utilizzare Pulcinella per la propria campagna elettorale. Ma i tempi si evolvono, Pulcinella ha un figlio segreto, tornato dall'America, che non si piega agli obblighi del padrone, anzi rifiuta la maschera e vuole affermare il proprio volto e, con esso, le verità del suo agire contro le vessazioni. Il senso della parabola è lineare e facilmente intuibile, soprattutto se riferito a Napoli: il popolo non è più quello di una volta, oggi si rivolta al potere che lo costringe alla miseria.
Dopo un tentativo di commedia "musical" con Tommaso d'Amalfi, sulla figura di Masaniello, il D. espresse in commedia il suo pensiero teatrale con L'arte della commedia (1964).
In quell'anno, sul Dramma (giugno 1964, pp. 93-94), scriveva: "Tutti mancano di cordialità, dagli autori che non conoscono la società a cui si rivolgono, alle autorità che hanno interesse a mantenere una forma di intimidazione e di controllo, alla presunzione dei registi e degli uomini di teatro. Il pubblico è trattato male, tutto qui. ... E poi si è fatta una indigestione di politica, a teatro. Il pubblico non sopporta la politica a teatro, né la vuole, non l'ha mai voluta. Si interessa dei fatti suoi, vuole ritrovarli a teatro, riconoscersi nei personaggi... È un gusto che il teatro non gli offre più. Sbagliando, perché il vero capitale del teatro è sempre il pubblico". Queste riflessioni sono alla base anche della sua evoluzione futura, alla conquista di un pubblico e di una propria immagine che rispecchi non più Napoli ma l'Italia. Ma il D. il concorso del pubblico già l'aveva, veniva riconosciuto come esempio vivente della storia di un teatro passato che parla di oggi: agli inizi degli anni Settanta questo interesse aumentava con maggior forza e vigore e alle sue rappresentazioni si accorreva in massa.
Ancora degli anni Sessanta è Il cilindro (1965). Due coppie di conviventi, per sbarcare il lunario, ricorrono a un artificio: la più giovane delle donne attira degli uomini in casa e, dopo che questi hanno pagato, li conduce verso il letto dove giace il marito finto morto in modo da far scappare i clienti. Quando il trucco non funziona interviene l'uomo dal cilindro che avvalendosi della sua autorità convince i clienti ad andar via. Ultimo lavoro del decennio è Il contratto (1967) in cui ritorna la figura dell'italiano medio quale nuovo uomo della strada, alla ricerca affannosa del benessere attraverso un artificio umanitario. Il nuovo decennio scocca con Il monumento, complesso e artificioso lavoro che prende in esame i sentimenti basilari dell'umanità, i finti e i veri "monumenti" che si costruiscono al valore morale in un mondo che crede più a quelli retorici che a quelli veri.
Il D. aveva sempre alternato le novità alle riprese dei vecchi spettacoli di repertorio: ogni novità era situata tra i testi riconosciuti e consacrati del suo teatro e non mancano, da contrappunto soprattutto negli anni Settanta, le riscritture scarpettiane (dopo essere stato anche animatore di una compagnia stabile scarpettiana per diverse stagioni). Dopo Il monumento tornava, appunto, a Scarpetta con 'Na santarella e per una stagione girerà presentando il repertorio. Negli anni Sessanta numerose commedie sono state registrate e presentate dalla televisione e, negli anni Settanta, in cantiere c'era il progetto di ridurre e presentare anche quattro commedie di Scarpetta. Portò allora a compimento un progetto lasciato nel cassetto dal 1953, Gli esami non finiscono mai (1973) il cui protagonista, Guglielmo Speranza - già il nome è indicativo - non vuole essere un tipo, un carattere individuabile, bensì "il prototipo di noi tutti, un eroe la cui esistenza è caratterizzata dagli aspetti positivi e negativi della nostra stessa esistenza ... . Un simbolo si riconosce per ciò che pensa e dice, non per il vestito che indossa". Ancora la famiglia, questa volta rappresentata in modo totalmente negativo, ancora le ipocrisie degli "altri" che ci fanno subire gli esami veri e finti, ancora la falsità di un mondo che vive di rancori e di odio, ancora il silenzio, come unica ribellione e rifiuto verso tanta miseria umana. Gli esami possono essere letti come la sintesi delle sue tematiche, la chiusura di un percorso che dagli anni Sessanta conduce qui: senza più quella speranza, eccetto nel nome del protagonista, che in passato era stata tanto coltivata. Dal riferimento al quotidiano, alla generalizzazione del "prototipo" c'è il passaggio del D. alla descrizione di un uomo qualunque, a una riflessione che rasenta un qualunquismo troppo condiviso, senza riuscire ad essere, come era nelle intenzioni, un altro attacco alla falsità e alle ipocrisie di coloro che ci circondano. Questa resterà la sua ultima commedia compiuta: da quegli anni l'attore-autore diviene sempre più un personaggio "politico". Si schierò pubblicamente a sinistra per le elezioni napoletane che dettero la giunta rossa di Valenzi, presentò al festival nazionale dell'Unità del 1976, sempre a Napoli, Natale in casa Cupiello, registrò per la televisione un nuovo ciclo di lavori, ma la sua attività di attore, come quella di autore, fu sempre più rara, salvo poche apparizioni in pubblico. Proseguì la sua attività di regista per il figlio Luca - che sarà il continuatore anche della compagnia patema - con un repertorio di testi di tradizione scarpettiana e una scelta tra i suoi testi del periodo degli anni Venti-Trenta. Nel 1979 fondò a Firenze la scuola di drammaturgia per giovani autori che, interrotta per motivi tecnici, proseguì a Roma presso l'università (di questo corso è stato pubblicato Lezioni di teatro, Torino 1986). Nel 1981 fu nominato senatore a vita e si occupò della devianza minorile incentrando i suoi sforzi presso il carcere minorile dei Filangieri di Napoli. Ultima fatica, nel 1984, la traduzione in napoletano de La tempesta di Shakespeare: un indicativo ritorno alla lingua, al napoletano seicentesco, alle- sue radici storiche. L'allontanamento da Napoli, la riforma delle tradizioni, l'uso strumentale della storia del teatro napoletano e dei suoi protagonisti per la costruzione di una propria immagine pubblica - una sorta di "monumento" per i posteri - trova in quest'ultimo gesto un segnale di riconoscimento alla sua cultura, anche qui giocato a favore o contro Napoli, la riaffermazione di un legame che esaltato, usato e negato, rispunta inaspettato.
Il D. morì a Roma il 31 ott. 1984.
Tutte le opere del D. (il volume della Cantata dei giorni pari, i tre della Cantata dei giorni dispari, le poesie, gli adattamenti di Scarpetta, le lezioni di teatro e la traduzione de La Tempesta) sono pubblicate, in varie edizioni, dalla casa editrice Einaudi di Torino.
Bibl.: Rimandiamo alle voci "De Filippo", "Attore comico e attore borghese", "Generi popolari" dell'Enciclopedia del teatro del Novecento, a cura di A. Attisani, Milano 1980. I saggi biografici sul D. sono quasi tutti molto informativi e poco "critici": rimandiamo a G. Magliulo, E. D., Bologna 1959 (e all'annessa bibliografia); L. Coen Pizer, L'esperienza "comica" di E. D., Assisi-Roma 1972; F. Di Franco, Il teatro di E., Bari 1975; Id., E., Roma 1983; Id., E. da scugnizzo a senatore, Bari 1983; Id., Le commedie di Eduardo, Bari 1984; 1. Quarantotti De Filippo, Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano 1983. Per letture critiche delle opere rimandiamo, oltre alle recensioni, a V. Pandolfi, Teatro italiano contemporaneo, Milano 1959 e Lo spettacolo del secolo, Pisa 1953; G. Trevisani, Storia e vita di teatro, Milano 1967.
* modifica introdotta a seguito di ricerche successive alla data di pubblicazione del contributo