Educazione e scuola
di Norberto Bottani
Educazione e scuola
sommario: 1. A che serve la scuola? I risultati del PISA agli inizi del XXI secolo. 2. La crisi dei sistemi scolastici. a) Un modello in crisi. b) Nodi irrisolti. c) Le premonizioni di Illich. 3. La crisi della qualità dell'istruzione. a) Una nazione in pericolo. b) La ricerca delle e sulle scuole efficaci per il miglioramento della scuola. c) L'autonomia delle scuole. 4. Prospettive per il futuro della scuola. □ Bibliografia.
1. A che serve la scuola? I risultati del PISA agli inizi del XXI secolo
Nella primavera del 1999 l'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; OCDE, Organisation de Coopération et de Développement Économiques) ha organizzato un'indagine sui livelli di comprensione della lettura e sui livelli di cultura matematica e scientifica dei ragazzi quindicenni che frequentavano la scuola a quell'età. A quest'operazione, denominata PISA (Programme for International Student Assessment) hanno partecipato circa 265.000 studenti di 32 paesi. Senza dubbio, si è trattato di una delle più importanti ricerche scientifiche condotte sul piano internazionale nel campo scolastico, non solo per il numero di studenti e di paesi coinvolti, ma anche per la complessità dell'apparato messo in piedi per realizzarla, che ha mobilitato centinaia di specialisti in scienze dell'apprendimento, in valutazioni psicometriche e in statistica. Gli studenti hanno sostenuto prove scritte nelle loro scuole e hanno risposto a questionari su se stessi, i loro interessi e il loro modo di apprendere. Dal canto loro, i presidi erano stati invitati a riempire un questionario sulla composizione, la natura e il funzionamento delle scuole da loro dirette.
Con l'indagine del PISA si è compiuto un salto di qualità nel campo degli studi comparati sul rendimento delle scuole e sugli apprendimenti. Per la prima volta è stata prodotta una fotografia a buona definizione delle abilità di lettura di testi di natura non specialistica (reading literacy), delle competenze nell'uso di concetti matematici (literacy matematica) e di natura scientifica (literacy scientifica) della popolazione dei quindicenni. Queste capacità sono considerate prerequisiti essenziali per sviluppare in ogni allievo le capacità riflessive ritenute necessarie per accedere al tipo di vita adulta richiesto nelle società democratiche complesse, rette dall'economia di mercato (v. OCDE, 2001). Con questa indagine si è anche tentato di identificare i fattori di contesto associati alle migliori e alle peggiori prestazioni. Grazie al PISA abbiamo ormai un'idea di quel che i giovani sanno alla fine della scuola dell'obbligo, o meglio, di quel che sanno fare con quanto hanno imparato a scuola e fuori di scuola nel corso dell'obbligo scolastico. I risultati non sono incoraggianti: alla fine della scuola dell'obbligo solo il 10° dei quindicenni è riuscito a completare i compiti più difficili del PISA. Il risultato più allarmante è però un altro: il 40° degli studenti riesce unicamente a risolvere compiti semplicissimi. Per questa grossa fetta della popolazione scolastica, otto o nove anni di scuola non sono bastati per imparare a leggere in maniera scorrevole e a reperire in una pagina scritta un'informazione esplicita. Questi studenti identificano a stento il tema principale di un testo e non riescono a stabilire una connessione evidente tra conoscenze che si utilizzano nella vita di tutti i giorni. Inoltre, il 6° circa di tutti gli studenti si è dimostrato incapace di portare a termine anche questi compiti elementari: tali studenti sanno a malapena leggere e incontrano gravi difficoltà a usare la lettura per estendere le proprie conoscenze, per studiare nuove tematiche, o per capire indicazioni di uso corrente. Solo in quattro paesi (Canada, Finlandia, Giappone e Corea) la proporzione dei quindicenni pessimi lettori è del 10° o meno e in tre paesi (Lussemburgo, Messico e Portogallo) è invece addirittura superiore al 25° degli studenti. Si tenga poi presente che l'indagine è stata condotta nei paesi con le economie più avanzate e con una tradizione consolidata di scuole pubbliche e private. Nessun paese africano vi figura, e pochissimi paesi dell'America Latina e del continente asiatico vi hanno partecipato.
Alla luce di questi risultati si può quindi affermare che il progetto di alfabetizzazione universale della popolazione - perseguito con grandi mezzi da oltre cinquant'anni e con l'appoggio di molteplici istituzioni internazionali pubbliche e private - è in parte fallito. Quale è dunque la funzione delle scuole, se dopo averle frequentate per nove o dieci anni solo una minoranza di giovani sa 'veramente' leggere? Come viene sfruttato tutto questo tempo, se non si riesce nemmeno a far sì che tutti capiscano quel che leggono, ne sappiano fare, per esempio, un semplice riassunto e soprattutto siano in grado di utilizzare le informazioni contenute nel testo letto? Si potrebbero avanzare seri dubbi anche sulla capacità delle scuole di stimolare la voglia di imparare e di studiare, un altro degli obiettivi proclamati dalle riforme scolastiche della fine del XX secolo, che tra l'altro ambiscono perfino a estendere il processo di apprendimento per l'intera esistenza (lifelong learning). I risultati del PISA costringono a riflettere sulla funzionalità della scuola, sul senso che essa ha nelle nostre società, nonché a rivedere i piani di espansione dell'istruzione. Inoltre, ripetute indagini, svolte in diversi paesi, confermano che la disuguaglianza nell'istruzione non è diminuita nel corso di tutta la seconda metà del XX secolo nonostante le ampie possibilità di accesso all'istruzione e alla formazione, l'introduzione della scuola media unica o delle scuole comprensive, le molte innovazioni pedagogiche messe in atto proprio per conseguire questo scopo e le svariate campagne lanciate per ridurre il ritardo scolastico. In generale, il livello di istruzione delle nuove generazioni è migliorato per tutti, ma lo scarto nelle possibilità di accesso a forme di istruzione di livello superiore tra detentori di diplomi di natura tecnico-professionale e detentori di diplomi di cultura generale è rimasto intatto. Da questo punto di vista si può affermare che non c'è stata democratizzazione del sapere, anche se le prospettive dei giovani dei ceti meno abbienti sono migliorate rispetto a quelle dei loro genitori (v. Terrail, 2002). Questa sconsolante constatazione è mitigata da un paio di osservazioni di segno contrario: per esempio, in tutti i paesi ci sono differenze significative nella media delle prestazioni degli studenti. In taluni, la dispersione attorno alla media è molto pronunciata: più grande è il divario, maggiori sono le disuguaglianze tra gli studenti che hanno frequentato le stesse scuole e che hanno la stessa età. Si può dunque ritenere che un sistema scolastico in cui le disparità di competenze nella padronanza degli strumenti conoscitivi tra studenti sono meno accentuate sia un sistema relativamente giusto. Questo è appunto quanto si può dire, sempre facendo riferimento all'indagine del PISA, per Finlandia, Giappone e Corea, dove le prestazioni degli studenti sono tra le più omogenee. Lo stesso avviene in Spagna e in Italia, ma ciò non significa che il sistema scolastico di questi due paesi sia allineato con quelli dei tre precedenti. È vero che in tutti questi casi il divario tra i risultati dei migliori e quelli dei peggiori è relativamente ridotto, ma le politiche scolastiche che danno questi esiti sono del tutto diverse: in Spagna e in Italia la media dei risultati è bassa, mentre invece in Finlandia, Giappone e Corea è alta. Ciò vuol dire che in questi ultimi paesi il sistema scolastico ottiene con tutti gli studenti risultati relativamente eccellenti, mentre negli altri due la prestazione media degli studenti, compresi i più bravi, è mediocre. I casi peggiori sono quelli della Germania e della Svizzera, dove una media scadente si combina con una disparità di risultati tra le più accentuate. Si può dunque concludere che non tutte le politiche scolastiche sono uguali, perché soltanto alcune permettono di compensare le differenze tra gli studenti offrendo a quelli più deboli opportunità migliori. Tali politiche sono dunque più giuste delle altre.
2. La crisi dei sistemi scolastici
a) Un modello in crisi
Se ritorniamo ora ai risultati del PISA, vale la pena soffermarsi su un altro dato significativo, la cui gravità mette in dubbio il lavoro svolto nelle scuole. La scuola contemporanea, con il suo sistema di gradi di istruzione, non è stata configurata in questo modo per caso, ma è stata costituita così per produrre e trasmettere conoscenze, in particolare quelle che non si potrebbero imparare da soli o quelle che esigono lunghe esercitazioni e verifiche, la presenza di esperti e l'accessibilità a strumenti costosi che non tutti possono permettersi. Il presupposto teorico alla base di questa concezione è diverso da quello del movimento progressivo secondo il quale un'istituzione come la scuola deve "solo coltivare il comportamento e le emozioni di una persona nei suoi modi espressivi originali e peculiari" piuttosto che "trasmettere da una generazione all'altra le conoscenze culturali e il comportamento sociale" (v. Huberman, 1982, p. 404). Si potrebbe supporre che con un programma ispirato a questi principî la maggioranza degli studenti dovrebbe arrivare alla fine della scuola dell'obbligo con un forte desiderio di apprendere e continuare a perfezionarsi. Purtroppo, però, le scuole odierne non riescono a conseguire che in modo limitato e parziale questo obiettivo. Dai dati del PISA si evince che una proporzione significativa di giovani di 15 anni ha un'attitudine negativa verso la scuola e l'apprendimento: più di un quarto di tutti gli studenti quindicenni non ha più nessuna voglia di andare a scuola, tanto da non desiderare altro che smettere di frequentarla. La proporzione è del 42° in Belgio, del 38° in Italia, del 35° negli Stati Uniti. Questo non vuol dire che tutti questi studenti abbiano perso il gusto di studiare o il piacere di apprendere qualcosa: tra loro ci sono giovani che sono anche disposti ad apprendere, magari con perseveranza e sofferenza, ma non più nel contesto scolastico. In un'inchiesta svolta a Ginevra nell'autunno del 2001, tra i giovani di sedici anni e più appena usciti dalla scuola dell'obbligo, con grossi problemi di orientamento e di inserimento scolastici, solo il 7-8% ha dichiarato di preferire di entrare direttamente nel mondo del lavoro, senza nessun altro tipo di formazione, piuttosto che continuare ad andare a scuola. La transizione diretta dalla scuola al lavoro, che era ancora comunemente praticata una cinquantina di anni fa, non è più all'ordine del giorno. Questi giovani, che hanno alle spalle esperienze scolastiche difficili o disastrate, vogliono un percorso formativo qualificante, ma non lo trovano nell'istituzione che è abilitata a proporlo (v. SRED, 2003). Infine, la percentuale dei giovani che a quindici anni dice di leggere per piacere è bassissima. Nell'indagine del PISA, i paesi nei quali meno di un quinto dei giovani ammette che non prova alcun piacere a leggere sono solo cinque (Brasile, Lettonia, Messico, Portogallo e Russia); in Giappone, dove peraltro la media dei risultati nel test di lettura è elevata, la maggioranza dei giovani (il 55°) dichiara di non provare alcun piacere a leggere. L'indagine ginevrina appena citata rivela che un certo numero di studenti non legge mai un libro (in certi indirizzi pre-professionali uno studente su due). L'istituzione scolastica, sorta per insegnare a tutti a leggere e a scrivere, non riesce a conseguire questo obiettivo, oppure lo realizza male o solo parzialmente.
b) Nodi irrisolti
In un'altra indagine svolta a Ginevra tra il 1991 e 1997 (v. De Marcellus, 2002) sono stati intervistati 84 studenti della scuola media sul loro vissuto scolastico. Quasi tutti, compresi quelli che rifiutano o criticano i progetti dei loro insegnanti, hanno cercato di definire le condizioni della loro adesione a quanto la scuola propone loro. Gli studenti attribuiscono un ruolo decisivo agli insegnanti: tre quarti dei loro giudizi sulla scuola li riguardano. Essi non si rassegnano a relazioni di stampo prettamente utilitaristico o funzionale con i docenti; per fare quello che gli insegnanti richiedono e occuparsi di quel che insegnano hanno bisogno di stabilire un rapporto personale con loro. Nel complesso i giudizi degli studenti sui docenti, sulle relazioni che questi riescono a stabilire con le classi, sull'immagine che essi trasmettono del mestiere che svolgono e delle discipline che insegnano sono impietosi. Gli studenti vogliono essere presi sul serio dai docenti. Non aspettano che una cosa da loro: un segno che dimostri che essi sono realmente e personalmente implicati da quanto succede in classe a ogni allievo. Questo è il secondo nodo irrisolto nella scuola di massa: la formazione dei docenti, una massa di centinaia di migliaia di persone che occorrerebbe preparare non solo al mestiere, ma anche alla gestione delle relazioni pedagogiche. Questa formazione è difficile da attuare non solo dal punto di vista pratico, a causa del gran numero di persone coinvolte, ma anche dal punto di vista teorico, perché dovrebbe essere promossa e valorizzata in sistemi scolastici che sono stati concepiti per altre finalità.
Le ricerche scientifiche sugli apprendimenti scolastici, sui curricoli e sulle culture dell'insegnamento della fine del XX secolo hanno inoltre dimostrato che molti studenti delle scuole medie e di quelle secondarie superiori apprenderebbero meglio se avessero la possibilità di seguire corsi esigenti e strutturati in maniera rigorosa, particolarmente in matematica e nelle scienze. Ciò è quanto risulta da una serie di analisi condotte tra il 1988 e il 1994 sui dati statunitensi del National Education Longitudinal Study da Barbara L. Schneider e collaboratori, dell'Università di Chicago, e presentati nella primavera del 2002 dalla Brookings Institution a Washington. I risultati degli studi presentati sono talmente convergenti da indurre Maureen T. Halliman, dell'Università Notre Dame nell'Indiana, a dichiarare: "noi non stimoliamo sufficientemente i nostri studenti. Se i nostri adolescenti possono fare meglio quando sono inseriti in gruppi che seguono corsi di livello avanzato, allora significa che non prepariamo un curricolo sufficientemente esigente per le loro capacità" (cit. in Olson, 2002). Questa conclusione avvalora le tesi delle pedagogie dell'apprendimento fondate sulle teorie cognitive e costruttiviste derivate dalla psicologia dello sviluppo e della psicologia cognitiva o genetica, che ha avuto come interprete principale Jean Piaget, la cui opera va considerata uno dei capisaldi della pedagogia del Novecento. In sintesi, senza nessuna pretesa di riassumere un corpus di conoscenze ricchissimo e molto elaborato, si può dire che Piaget ha evidenziato come le strutture conoscitive e l'organizzazione del pensiero logico-deduttivo si sviluppino per stadi determinati, riconoscibili ovunque, secondo sequenze prestabilite e lungo un continuum ordinato. Questa scoperta, ormai incontestabile, era già stata intuita nel Seicento da Jan Amos Comenius e annunciata in un testo che ha posto le fondamenta della pedagogia contemporanea, La grande didattica. L'arte di insegnare tutto a tutti, pubblicato tra il 1627 e il 1632. La trasmissione dei saperi e l'acquisizione delle conoscenze non può essere lasciata al caso, ma implica il rispetto di tappe precise, ossia di quei passaggi da uno stadio all'altro delle operazioni mentali che consentono di acquisire la capacità di applicare quanto appreso in un contesto e in un determinato campo di riferimento a un altro contesto e a nuovi campi di riferimenti (in altri termini, la generalizzazione delle operazioni). Questo trasferimento esige l'acquisizione, la trasmissione e l'uso di conoscenze specifiche. Il costruttivismo epistemologico e psicologico offre l'assetto teorico sul quale fondare l'apprendimento scolastico (ma non solo) e quindi l'organizzazione dell'insegnamento e delle scuole. La ricerca psicogenetica sulla formazione delle categorie mentali ha dimostrato in modo inoppugnabile che le loro radici risiedono nell'attività umana e nell'organizzazione biologica che la sostiene. Entrambe le dimensioni sono necessarie per formalizzare e consolidare lo sviluppo di nozioni, forme di pensiero e categorie etiche che stanno alla base dei comportamenti di un adulto maturo e di una personalità equilibrata. Se ancor oggi non si sono del tutto assimilate le implicazioni del costruttivismo piagetiano per l'istruzione (v. Ducret, 2001), si può però senz'altro affermare che l'organizzazione dei curricoli, le strategie di insegnamento adottate nelle classi dai docenti e la modalità di funzionamento delle scuole sono state sovvertite dalle teorie socio-costruttiviste. Nella scuola contemporanea i docenti non sono più o non possono più essere le figure che impersonano l'autorità e il prestigio, fonti uniche, pressoché esclusive, del sapere, che si arrogano il diritto (o la responsabilità) di controllare tutti i comportamenti degli alunni e di disciplinarne le attività sia all'interno che al di fuori della scuola. Questo modello di scuola imperniato attorno alla figura di un depositario del sapere è definitivamente tramontato. Il mondo della scuola ha subito nel corso del XX secolo una vera e propria rivoluzione copernicana, che ha spodestato il docente dal centro della rete di conoscenze e di informazioni che gli studenti utilizzano per giungere a un livello accettabile di padronanza delle conoscenze e del discorso, dei codici che le strutturano, nonché degli strumenti necessari per acquisirne la padronanza.
Nel contempo, come si constata in moltissime indagini sugli studenti, questi ultimi attribuiscono ai docenti un ruolo decisivo per quel che riguarda lo stare a scuola, il piacere di studiare, la voglia e la capacità di imparare. Gli studenti vogliono essere presi sul serio e stabilire un rapporto fiduciario con gli adulti che nell'istituzione scolastica dovrebbero, professionalmente, occuparsi di loro. Si potrebbe dire, a questo riguardo, che tutti i sistemi scolastici si trovano di fronte al difficile compito di conciliare due universi distinti: quello degli studenti, che posseggono e usano una gamma di linguaggi diversissimi, e quello dei docenti, ai quali è affidato il compito di imporre il linguaggio codificato, stereotipato, che ancora serve come metro per sancire l'ordine del discorso legittimo, ossia la pratica discorsiva autorizzata dai vari sistemi di potere. Il ricambio generazionale nel corpo insegnante non regolerà automaticamente questa sfasatura, ma ci vorranno venti o trent'anni prima di riuscirci: in primis, perché probabilmente il divario tra i comportamenti linguistici dei docenti e quelli degli studenti potrebbe restare pressoché inalterato, in quanto tutte le pratiche discorsive evolvono; e in secondo luogo perché i docenti, formati e reclutati dall'istituzione scolastica, non potranno fare altro che utilizzare i codici di comunicazione legittimati dall'istituzione e le strategie di comunicazione socialmente riconosciute dalle istituzioni di potere che gestiscono e mantengono la scuola.
Questo è un altro dei nodi che i sistemi scolastici del XXI secolo dovranno sciogliere: si tratta del problema della didattica, per essere più precisi della formulazione e della natura degli interventi didattici che interferiscono con le modalità di apprendimento soggettive. Come dimostrano le ricerche sull'insegnamento della fisica, le concezioni degli studenti costituiscono sovente un ostacolo conoscitivo e non un possibile punto d'appoggio, in quanto sono spesso in piena contraddizione con le tesi dei modelli scientifici (v. Weil-Barais, 2001). Il passaggio dall'esperienza quotidiana alla conoscenza scientifica (o a una rappresentazione della realtà fondata su modelli scientifici) non è ovvio, spontaneo, naturale, ma implica un cambiamento concettuale, che in termini piagetiani si potrebbe definire un'operazione di accomodamento del pensiero. Questo aspetto è stato chiarito in maniera illuminante da Lev Vygotskij. Lo psicologo russo - la cui opera va annoverata con quella di Piaget tra le più rilevanti del Novecento per quel che riguarda la comprensione delle modalità dell'apprendimento umano - parte dal presupposto che lo sviluppo delle funzioni mentali superiori (come per esempio il pensiero critico, la capacità di risolvere problemi, di elaborare concetti scientifici) è indipendente da quelle inferiori (come per esempio le nozioni del senso comune che i bambini formano spontaneamente o inconsciamente) ed è interamente d'origine sociale. Secondo Vygotskij, le conoscenze scientifiche, data la loro natura collettiva, non riproducono affatto il cammino attraverso il quale si formano le conoscenze individuali del quotidiano. Per Silvano Tagliagambe, è questo il nocciolo del problema dell'apprendimento: "Vygotskij esclude che lo sviluppo spontaneo dei concetti spontanei, e quindi individuali, possa condurre ai concetti scientifici, aventi invece valore collettivo. Ma egli non è neppure disposto ad ammettere che il processo di passaggio dagli uni agli altri sia il risultato d'una istruzione fornita dall'esterno [...]. Il punto su cui apporta un contributo nuovo nell'analisi di tale questione è proprio la sua zona di sviluppo prossimale, che rende conto del modo in cui l'autorità dell'adulto più competente aiuti il giovane a raggiungere il terreno intellettuale superiore, a partire dal quale egli può riflettere in maniera più impersonale sulla natura delle cose" (v. Tagliagambe, 2001, p. 21). Queste conclusioni forniscono un fondamento teorico alle osservazioni raccolte da Schneider e collaboratori sui dati americani e spezzano una lancia in favore di modalità di apprendimento strutturate e rigorose, articolate secondo procedure formali non casuali.
Tali conclusioni ci riconducono al problema della formazione dei docenti e delle competenze professionali richieste per gestire un approccio di questo tipo, in cui si tratta di assimilare non più la struttura didattica del canone disciplinare di stampo medievale, ma quella dei principî di conoscenza complessa e multidimensionale che governano le forme di sapere emerse nel corso del Novecento e che si rifanno a schemi teorici multipli (v. Morin, 1990).
Il quarto nodo da sciogliere è altrettanto arduo dei precedenti, ma è di stampo diverso, poiché riguarda la capacità di gestire e guidare l'evoluzione dei sistemi scolastici, che sono diventati, nel corso del XX secolo, istituzioni complesse e pressoché autosufficienti. Le nostre conoscenze su questi sistemi sono ormai molto più accurate di quelle che si avevano poche decine d'anni fa. Tali sistemi non sono di per sé ingovernabili con il passaggio all'istruzione di massa. Certamente, se non si adottano moduli di gestione e di conduzione appropriati, questa crescita ed evoluzione può diventare caotica. Purtroppo, questo rischio è reale, perché l'immobilismo concettuale della maggioranza dei responsabili scolastici è controproducente: per guidare i mastodontici pachidermi burocratici che sono diventati i sistemi scolastici, anche quelli di dimensioni relativamente ridotte - come per esempio quelli dei Länder tedeschi o degli Stati statunitensi - occorrono strumenti di nuovo genere, tecniche di gestione e di finanziamento innovative che non siano più calcate sugli imperativi delle politiche espansioniste o sui modelli di pianificazione territoriale. Per far fronte alle sfide poste dalla mondializzazione e dalla globalizzazione, non solo economica ma anche sociale e culturale, l'architettura dei sistemi scolastici non può più essere quella concepita nell'Ottocento. Dato quindi per scontato che la scuola deve essere cambiata, almeno per ritardarne la più che probabile scomparsa, è non solo opportuno ma indispensabile modificare i modelli che fin qui ne hanno governato la crescita. Il problema a questo punto non è né di ordine pedagogico né di ordine didattico, ma politico. Una parte preponderante della scuola appartiene al settore pubblico ed è quindi direttamente investita dalle trasformazioni in atto da un ventennio in quel settore. Il nodo da risolvere consiste dunque nell'adeguamento dei comportamenti dei responsabili della scuola (amministratori, docenti con le loro organizzazioni categoriali, genitori e studenti, autorità locali, regionali e nazionali) alle trasformazioni delle politiche pubbliche che oscillano tra due poli, quello della globalizzazione - e quindi dell'apertura dei servizi sociali, compreso quello scolastico, alla concorrenza, con la creazione di 'quasi-mercati scolastici' - e quello della trasformazione del ruolo dello Stato nell'economia, con una conseguente riduzione della sua presenza in quanto prestatore di servizi (v. Ball, 1998). La posta in gioco è la definizione di ciò che è pubblico nell'istruzione pubblica. L'accesso universale all'istruzione e la sua gratuità, almeno per quel che riguarda l'istruzione di base, garantita dal finanziamento statale, non sono più elementi sufficienti per legittimare l'intervento dello Stato in campo scolastico. Altri ingredienti sono diventati altrettanto essenziali per una prestazione qualitativamente sufficiente delle scuole, come la libertà di scelta tra scuole di stili e indirizzi pedagogico-didattici diversi, l'autonomia degli istituti scolastici, la flessibilità dei curricoli, la valorizzazione delle risorse e delle specificità locali. Interessi privati si mescolano con interessi pubblici. La gestione di questo bipolarismo in sistemi come quelli scolastici - che sono strutture dinamiche e non statiche, organismi caotici e non ordinati, istituzioni autoreferenziali e autopoietiche che evolvono in maniera casuale e non predeterminata - pone ardui problemi concettuali e metodologici. I modelli di rappresentazione di sistemi complessi messi a punto nella fisica, in matematica, in biologia consentono in parte di pensarne e configurarne l'organizzazione e il funzionamento. È ormai appurato che le tendenze di fondo dello sviluppo di questi sistemi emergono dalle interazioni locali e non da disegni calati dall'alto: l'ordine sorge senza un piano preventivato, l'organizzazione si struttura senza leaders, la loro crescita non è lineare.
c) Le premonizioni di Illich
Quali sono le prospettive di sviluppo delle scuole, o meglio, della scolarizzazione nel corso dei prossimi decenni? Come evolverà la scuola entro la fine del secolo? Si possono fare previsioni in merito? Alla luce degli elementi evocati poc'anzi le prospettive non sembrano rosee. Si possono infatti avanzare seri subbi sulla possibilità di realizzare un sistema di scuole in grado di offrire a tutti un'istruzione di qualità compatibile con le possibilità e gli interessi di ognuno, di fornire a tutti un bagaglio minimo di competenze ritenute indispensabili per partecipare in modo attivo alla vita comunitaria, per diventare cittadini attivi delle società democratiche e per riuscire a inserirsi senza traumi nel mondo del lavoro delle economie di mercato. Ci sono scuole che riescono a raccogliere queste sfide, ma sono casi eccezionali. È infatti irrealistico ipotizzare un insieme di centinaia di migliaia di scuole tutte sperimentali e d'avanguardia, nelle quali l'apprendimento coinvolga sempre la partecipazione degli studenti e sia strutturato secondo modalità e ritmi diversificati in funzione delle esigenze dei singoli, dove si valorizzino le competenze, i gusti e le attitudini di ognuno e nelle quali gli alunni acquistino una conoscenza di se stessi tale da permettere a ciascuno di valutare correttamente le proprie capacità e di conquistare una sicurezza e una fiducia in se stessi proporzionate al livello delle proprie competenze e conoscenze. La realtà scolastica, così come si presenta agli inizi del XXI secolo, è molto diversa da quella ipotizzata dai teorici della scuola che hanno coltivato nei secoli precedenti il progetto di un'educazione emancipatrice di stampo umanistico, costruita in funzione di una società di spiriti liberi, che condividono uno stesso canone di riferimenti culturali, gli stessi gusti estetici e letterari, gli stessi codici di organizzazione delle pratiche discorsive. Il progetto scolastico della modernità sorto con l'illuminismo, ossia la volontà di creare una società di uomini liberi e uguali tra loro grazie all'educazione estesa a tutti, è probabilmente andato in frantumi.
All'incirca trent'anni orsono, in un saggio premonitore che suscitò molto scalpore al momento della sua pubblicazione, Ivan Illich (v., 1970) aveva denunciato gli effetti perniciosi e le illusioni della scolarizzazione generalizzata e aveva invocato la necessità di descolarizzare la società. Illich fu tra i primi a denunciare il duplice fallimento della scuola che oggi è sotto gli occhi di tutti: l'impossibilità di riuscire a fare acquisire a ognuno il bagaglio minimo vitale di conoscenze e competenze necessarie per inserirsi senza traumi nella vita sociale ed economica e quello di democratizzare la società, renderla più equa, dando ai ceti sociali sfavoriti la possibilità di uscire, grazie all'istruzione, dal vicolo cieco della povertà. Su entrambi i fronti, il bilancio era per Illich negativo: la scuola si era rivelata un'istituzione poco efficace nella trasmissione delle conoscenze, così come l'estensione della scolarizzazione non era riuscita a rendere più equa e democratica la società. Non si può dimostrare che con un'istruzione prolungata delle giovani generazioni un paese diventi più competitivo sul mercato mondiale e nemmeno si può provare che con livelli d'istruzione più elevati l'inserimento nel mercato del lavoro sia meno arduo o che si è meglio attrezzati per fronteggiare le incertezze di una società globalizzata, regolata da leggi dettate dalla mondializzazione dei beni e dei servizi (v. Robinson, 1997). L'estensione della scolarizzazione, invece di attenuare le disparità, le ha accentuate creando indirizzi di studio e programmi di insegnamento prolungati, accessibili solo a una minoranza di privilegiati - "i capitalisti del sapere", come li definisce Illich - che si accaparrano l'accesso ai posti di potere nella politica, nell'economia, nella vita sociale e nel mondo scientifico (v. Bourdieu e Passeron, 1964 e 1970; v. Baudelot ed Establet, 1972; v. Terrail, 2002). Infine, Illich fa notare che la scuola è diventata un feudo dei docenti e dei professori, che si considerano i soli detentori del sapere e in quanto tali i soli abilitati a insegnarlo e a legittimarne l'acquisizione, mediante gli esami e i diplomi. Questo è il risultato dello sforzo immane di scolarizzazione intrapreso nelle società contemporanee (v. Meyer e altri, 1992; v. Vincent, 2000). Per Illich, la sola via per evitare il fallimento dell'istituzione scolastica consiste nella soppressione del servizio statale d'istruzione e nella liberalizzazione di tutte le risorse che la società consacra alla scuola. Questa soluzione, che prospetta la cessazione pura e semplice di ogni finanziamento pubblico alla scuola, permetterebbe, secondo Illich, di annullare gli effetti perversi della scolarizzazione prodotti dai sistemi scolastici statali odierni. Il denaro pubblico, invece di essere utilizzato per finanziare costosi apparati scolastici, dovrebbe essere distribuito direttamente alle famiglie e agli studenti sotto forma di crediti o di assegni educativi, spendibili lungo il corso dell'esistenza, che ogni cittadino riceve alla nascita per pagare i corsi di istruzione o di formazione che frequenterà.
3. La crisi della qualità dell'istruzione
Il concetto di qualità dell'istruzione, o quello più ampio di qualità della scuola, è ambiguo e vago. I significati cambiano a seconda degli interessi in gioco. Vari fattori, non tutti direttamente collegabili a problemi scolastici, hanno concorso a determinare il successo del concetto di qualità nell'ambito scolastico nel corso dell'ultimo ventennio del XX secolo, e forse la natura polisemica del concetto ha contribuito a facilitarne la diffusione. Come si afferma in un documento dell'OCDE sulla qualità dell'istruzione, "in realtà la qualità ha un senso differente a seconda degli osservatori e dei gruppi di interesse: ognuno si fa un'idea diversa dell'ordine delle priorità quando si intraprende una riforma" (v. OCDE, 1989, p. 15). I sintagmi "qualità dell'insegnamento" e "qualità della scuola" hanno dunque dimensioni molteplici, talora contraddittorie e non sempre ben definite. Ciò nonostante, il Leitmotiv delle politiche scolastiche della fine del XX secolo in tutti i paesi è stato quello della qualità dell'istruzione e delle scuole.
a) Una nazione in pericolo
A trent'anni di distanza, le denunce e le proposte di Illich si ritrovano al centro delle riforme scolastiche imperniate sulla qualità. Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo le posizioni dei fautori delle scuole progressive (v. Huberman, 1982) si sono gradualmente indebolite alla prova dei fatti. Nuovi temi sono venuti alla ribalta nel frattempo: la fine della tutela dello Stato, la competizione tra scuole, la libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie, la creazione di un quasi-mercato scolastico, la ridistribuzione delle competenze e delle responsabilità tra la base, il vertice e le istanze intermedie dell'impianto scolastico, l'impatto dei nuovi linguaggi, in particolare quello dell'informatica, che hanno potenzialità conoscitive straordinarie (v. Antinucci, 2001; v. Parisi, 2000).
Nell'aprile del 1983 fu pubblicata negli Stati Uniti una relazione sullo stato della scuola in America, intitolata A nation at risk: the imperative for educational reform, redatta dalla National commission on excellence in education, creata nel 1981, sotto la presidenza di Ronald Reagan, dal segretario di Stato per l'istruzione Terrel H. Bell. Le conclusioni della Commissione erano impietose: lo stato della scuola pubblica americana era disastroso. I termini utilizzati dalla Commissione non lasciavano dubbi in merito: "il nostro paese - si leggeva nella relazione - è in pericolo [...]; le fondamenta del nostro sistema scolastico sono erose da una crescente mediocrità che minaccia il nostro futuro come paese e come nazione [...]; se una potenza nemica straniera avesse tentato d'imporre all'America il livello mediocre di prestazioni scolastiche che conseguiamo ora, probabilmente saremmo stati indotti a considerare un simile gesto come un atto bellico [...]; la nostra società e le sue istituzioni scolastiche hanno perso di vista gli scopi fondamentali della scuola, nonché le aspettative elevate e gli sforzi metodici richiesti per conseguirli [...]". Questa relazione suscitò una violenta polemica che si estese a macchia d'olio, dapprima negli Stati Uniti e poi a livello internazionale: il mondo della scuola, infatti, non accettò di essere messo sul banco degli accusati e contestò la correttezza della diagnosi. Negli anni immediatamente successivi apparvero, negli Stati Uniti, tre relazioni sul problema del reclutamento e della formazione dei docenti: nel 1984, la Rand Corporation pronosticò un drammatico calo di docenti qualificati se non si fosse intrapreso nulla per ristrutturare la professione (v. Darling-Hammond, 1984); la Fondazione Carnegie, nel 1986, pubblicò a sua volta un voluminoso documento dove, con toni pomposi e solenni, si attirava l'attenzione sullo stato drammatico della scuola e dei docenti (v. Carnegie Forum ..., 1986); infine, una commissione composta di docenti dei Colleges of Education, nota come Gruppo Holmes, dal nome del suo presidente, propose una riorganizzazione completa dell'impianto della formazione e della carriera dei docenti (v. Holmes Group, 1986). Il dibattito slittò quindi dal problema della qualità della scuola a quello molto più specifico della formazione dei docenti, senza che peraltro si dimostrasse la validità dell'ipotesi secondo cui per migliorare la scuola basta migliorare la qualità dei docenti (v. Bottani, 1994). Questa reazione può essere interpretata come una tipica reazione difensiva della 'casta' degli addetti ai lavori, che cerca di discolparsi deviando l'attenzione da un problema (la qualità delle scuole) verso un altro (il perfezionamento della professione e le condizioni di lavoro dei docenti), partendo dal presupposto che la qualità dei sistemi scolastici risulta dalla mera addizione delle qualità di ogni singola scuola, la quale è tanto migliore quanto più è autonoma e gestita da professionisti di alto livello.
b) La ricerca delle e sulle scuole efficaci per il miglioramento della scuola
Le politiche di scolarizzazione di massa degli anni sessanta hanno profondamente cambiato i sistemi scolastici e messo in crisi il modello di istruzione umanistica che era alla base di tutta la tradizione scolastica. Questa espansione senza precedenti dell'istruzione, tale da soddisfare a prima vista le aspirazioni e i sogni di tutti i pedagogisti, si è però rivelata un vero e proprio boomerang, perché, nonostante gli ingenti investimenti nell'istruzione, le prestazioni dei sistemi scolastici sono rimaste insoddisfacenti e comunque non all'altezza delle sfide socio-culturali ed economiche poste dall'evoluzione della società postmoderna (v. OCDE, 1971). È in questo clima di attese deluse che apparvero le denunce di Illich e le indagini di James S. Coleman e collaboratori sul circolo vizioso delle disuguaglianze educative, sull'impotenza delle scuole a neutralizzare lo svantaggio iniziale, nonché sulla sterilità degli investimenti nell'istruzione. In una ricerca che ha fatto epoca, Christopher Jencks (v., 1972) tentò di valutare l'influenza della scolarizzazione e quella delle famiglie sui risultati scolastici. Per Jencks, lo scarso peso relativo dell'istruzione scolastica sulle disuguaglianze sociali era imputabile in primo luogo all'influenza preponderante della famiglia e del contesto sociale, contro i quali la scuola può ben poco; in secondo luogo, alla debole capacità della scuola di controllare i fattori scolastici che influenzano gli studenti; e infine, alla rapida 'evanescenza' dei risultati scolastici: secondo Jencks "né una diversa ridistribuzione delle risorse, né una nuova ripartizione degli alunni, né una riforma dei programmi modificheranno le interazioni fra insegnanti e alunni nella realtà della vita scolastica quotidiana" (ibid.) e ciò a causa delle deboli correlazioni esistenti tra cambiamenti degli ordinamenti dei cicli, riforme strutturali e miglioramento della qualità dell'istruzione. La soluzione proposta da Jencks non si discostava molto dagli obiettivi dei fautori dell'istruzione progressiva: bisognava disinteressarsi dei risultati, che sono indipendenti da tutte le variabili scolastiche, e occuparsi invece delle condizioni di lavoro e di vita nelle scuole per renderle almeno confortevoli e piacevoli, visto che gli alunni passano un quinto della loro esistenza a scuola. Si tratterebbe di una realizzazione tangibile, che ha un senso di per sé ed è pertanto la sola che merita di essere perseguita.
Questa concezione del ruolo della scuola provocò forti reazioni critiche. Una delle più significative fu l'indagine condotta in Inghilterra da Michael Rutter e collaboratori, che mise in evidenza l'importanza dell'effetto scuola dal punto di vista dei risultati (v. Rutter e altri, 1979) e diede il via a una serie di studi volti a misurare il valore aggiunto che una scuola apporta rispetto alle caratteristiche degli studenti che la frequentano (v. Thomas, 1998; v. Saunders, 2001) e l'effetto delle variabili scolastiche sugli apprendimenti. Anche la relazione internazionale che presenta i primi risultati del PISA dedica un intero capitolo alle influenze interne ed esterne alla scuola sul rendimento degli studenti e sugli apprendimenti (v. OCDE, 2001).
Gli altri filoni di indagine aperti dai lavori di Jencks riguardano il miglioramento delle scuole (school improvement) e le 'scuole efficaci' (school effectiveness). Il problema affrontato da questi indirizzi di ricerca, ispirato in parte alle teorie progressive sull'istruzione, è quello del cambiamento scolastico. Queste correnti contestano la pertinenza e la validità dei lavori che denunciano la sterilità dell'insegnamento, perché sono fondati su osservazioni e dati raccolti nell'ambito di riforme e situazioni scolastiche tradizionali, nelle quali il cambiamento è concepito in un'ottica top-down, è imposto cioè dalla gerarchia scolastica. Orbene, queste riforme non possono che essere fallimentari, come appunto dimostrato dagli studi di Coleman e Jencks, perché non si può pretendere di influenzare i risultati degli alunni a base di decreti, circolari, leggi quadro, regolamenti o raccomandazioni concepiti ai vertici del sistema. Indipendentemente dalla qualità di questi prodotti, il loro impatto risulta in genere poco significativo al livello delle scuole e dell'insegnamento. Il cambiamento non può essere imposto dall'alto e in ogni caso riesce solo se è procedurale, ossia se si punta più sulle modalità di realizzazione (implementation) che non sulle norme o gli standard da rispettare. Questa analisi induce a ritenere che il fallimento scolastico sia imputabile a strategie di riforma e di cambiamento errate, che hanno sottostimato il peso delle variabili che contano per riuscire a cambiare la scuola. L'efficacia della scuola può essere migliorata solo se l'unità di cambiamento è la singola scuola. In questo caso, un ruolo determinante è svolto dalle modalità di cambiamento, alle quali va prestata la più grande attenzione. Non si può riuscire là dove le riforme di stampo tradizionale, imposte e guidate dalla gerarchia scolastica, hanno fallito, senza un vero e proprio ribaltamento delle strategie di cambiamento (v. Reynolds e altri, 1996; v. MacBeath, 1999). I primi studi importanti sulle scuole efficaci furono pubblicati agli inizi degli anni ottanta. Per i fautori della corrente delle scuole efficaci e del miglioramento delle scuole, le differenze fra i risultati degli studenti nei test scolastici e nelle prove strutturate in classe si spiegano con fattori connessi all'istituto frequentato dagli studenti e al profilo individuale e collettivo degli insegnanti dell'istituto, e non solo con fattori connessi ai singoli individui, quali l'intelligenza, l'origine sociale, ecc. (v. Reynolds e altri, 1996).
Queste ricerche hanno messo ancora più in evidenza l'influenza considerevole sui risultati scolastici delle interazioni tra docenti di una scuola, tra docenti e studenti, tra gli studenti stessi, tra direzione, docenti, studenti e famiglie, oppure le correlazioni esistenti tra stile di direzione di una scuola e profitto scolastico a seconda delle caratteristiche degli studenti. In altri termini, questo tipo di lavori ha contribuito ad attirare l'attenzione sulle modalità di funzionamento di una scuola, ossia su variabili e parametri ritenuti prima aleatori e incerti, e in ogni modo non facilmente osservabili o misurabili. Non è però detto che questo progresso nella conoscenza delle scuole sia sufficiente per modificare radicalmente la cultura riformistica e conseguire in futuro risultati migliori sul piano degli apprendimenti.
c) L'autonomia delle scuole
Le indagini sulle scuole efficaci e sul miglioramento delle scuole sono diventate una delle costanti delle riforme scolastiche imperniate sull'autonomia degli istituti di istruzione. Esse hanno non solo contribuito a preparare il terreno per questo tipo di riforme, ma ne hanno anche legittimato la pertinenza dal punto di vista scientifico raccogliendo prove sull'efficacia e gli effetti dell'autonomia concessa alle scuole. Gli ultimi vent'anni del XX secolo sono stati marcati dai tentativi di cercare un assetto diverso della distribuzione delle competenze all'interno dei sistemi scolastici. I paesi nei quali questa tendenza, che modifica i canoni di governo delle scuole applicati per decenni, ha più profondamente trasformato il paesaggio scolastico sono stati fin qui l'Inghilterra, la Nuova Zelanda e la Svezia. Queste riforme sono state ispirate in gran parte dalle teorie del new public management applicate alla scuola con l'obiettivo di sostituire un modello di gestione di stampo burocratico e gerarchizzato, ritenuto deresponsabilizzante e poco efficace, con uno manageriale, che chiede agli attori scolastici, ossia ad autorità locali, presidi, docenti e studenti di assumere nuove e diverse responsabilità nella vita scolastica di tutti i giorni, di operare in modo trasparente e di rendere conto dei risultati conseguiti con le risorse messe a loro disposizione (v. Bottani, 2002). Alla base di queste riforme vi è una serie di ipotesi sui fattori che possono contribuire al miglioramento della qualità delle scuole: ad esempio, il ridimensionamento dell'apparato burocratico; la ridistribuzione delle responsabilità d'ordine finanziario, gestionale, didattico, organizzativo in seno al sistema scolastico; l'adozione di incentivi che premiano le buone scuole o di provvedimenti coercitivi che obbligano quelle deboli a migliorarsi; l'instaurazione di forme di controllo della qualità delle prestazioni da parte degli utenti; la concorrenza tra scuole; la libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie, e via di seguito.
La Svezia è stato il primo paese a intraprendere questa strada. In venticinque anni, tra il 1975 e il 2000, il sistema scolastico svedese, uno dei più centralizzati d'Europa, ha cambiato volto: molte competenze sono state ridistribuite ai comuni e alle scuole; l'operazione è stata radicale al punto di smantellare quasi completamente il ministero che governava dal centro tutto il sistema scolastico. L'autonomia alla svedese è di genere moderato, perché il modo di decisione che vi si pratica è soprattutto la consultazione; con questo modello, docenti, scuole e comuni hanno ottenuto competenze che mai avrebbero potuto sognare prima della grande svolta avviata dalla maggioranza conservatrice, che nel 1976 ha sostituito quella socialdemocratica al potere da 43 anni.
La riforma scolastica inglese realizzata dal governo conservatore di Margaret Thatcher nel 1988, l'Education reform act, è quella che ha suscitato maggiore scalpore nel mondo scolastico, in primo luogo per la forte impronta neoliberista che l'ispirava, e poi per lo stampo anti-progressivo che la contraddistingueva. Anche in questo caso, l'intervento riformistico è consistito in una ridistribuzione delle competenze tra i vari livelli decisionali: il potere centrale, tradizionalmente debole, ha acquistato maggiore forza, con l'imposizione di un programma di insegnamento nazionale; alle autorità scolastiche locali (LEA, Local Education Authorities), tradizionali depositarie del potere scolastico, sono state sottratte parecchie prerogative con l'obbligo di privatizzare molti servizi, come per esempio quello della pulizia delle scuole, dei trasporti degli alunni e della mensa scolastica; infine, sono state adottate nuove formule di finanziamento che hanno dirottato una parte dei fondi per l'istruzione dalle LEA direttamente verso le scuole. Quando il Partito laburista è ritornato al governo, nel 1997, il nuovo dosaggio di competenze messo a punto dai conservatori non è stato sostanzialmente modificato. Anzi, i laburisti, invece di frenare lo sviluppo del partenariato tra settore pubblico e privato, lo hanno ulteriormente promosso, con l'adozione di una norma che impone alle autorità scolastiche locali di ricorrere ai servizi di ditte private specializzate nella gestione se le loro scuole non conseguono gli standard minimi fissati dal Ministero. La comparsa di aziende alle quali si cede in appalto la gestione delle scuole pubbliche è un fenomeno agli albori, che si ritrova, su scala più ampia, nell'esperienza delle charter schools negli Stati Uniti.
La riforma scolastica più spettacolare in assoluto della fine del XX secolo è stata quella attuata in Nuova Zelanda dove, nel 1989, il governo laburista allora al potere decise di modificare drasticamente l'intero l'impianto scolastico. Con la riforma Tomorrow's schools il sistema scolastico neozelandese, uno dei più centralizzati al mondo, governato da un corpo di burocrati e di ispettori molto qualificati, venne decentralizzato di colpo. Pressoché tutte le competenze decisionali, a eccezione di quelle riguardanti la scala degli stipendi dei docenti e il finanziamento delle scuole, furono trasferite alle singole scuole, senza peraltro imporre un sistema di valutazione con prove strutturate per misurare l'efficacia di questa decisione e per controllarne le conseguenze sul piano pedagogico e sociale (v. Fiske e Ladd, 2000). L'intera responsabilità della gestione delle scuole statali, compresa dunque anche la nomina dei direttori e dei docenti, fu trasferita ai consigli d'amministrazione delle scuole (board of trustees), eletti localmente. Questa brusca transizione da un regime di completa dipendenza dall'amministrazione statale e dagli ispettori scolastici a un regime d'autonomia governata da volontari che mai prima d'allora avevano gestito una scuola ha avuto un certo successo, anche se a seguito di questa riforma un quarto delle scuole è diventato ingovernabile e problematico perché sovraffollato di studenti difficili o rifiutati da altre scuole. Se nel settore scolastico vigesse appieno il principio della competizione, queste scuole deboli, allo sbando, incapaci di rispettare gli standard, dovrebbero poco per volta scomparire per mancanza di studenti. Ma nessuno potrebbe accettare un esito del genere, perché sopprimere queste scuole, che hanno il merito di esistere nelle zone più periferiche o di accogliere gli studenti in difficoltà, significherebbe mettere in strada centinaia di ragazzi e ragazze. Le leggi del mercato sono una cosa, la realtà sociale è un'altra. Anche se poco efficaci sul piano degli apprendimenti, queste scuole vanno tenute aperte nell'interesse del paese, perché chiudendole si colpirebbero gli studenti e le famiglie più bisognose, e non certamente i ceti agiati. Non si può dunque fare a meno di una regolamentazione e di eccezioni.
Nel complesso, tuttavia, la maggioranza delle scuole neozelandesi è riuscita a cavarsela, ma, come dicevamo, la riforma ha generato una serie di effetti perversi che ne hanno reso meno positivo il bilancio.
1. I consigli d'amministrazione, tranne qualche eccezione, non sono sempre stati all'altezza del compito. La gestione di una scuola esige competenze in svariati ambiti (contabilità, gestione delle risorse umane, pianificazione, relazioni pubbliche, per esempio) la cui mancanza non può essere compensata che parzialmente con il carisma, la passione, la devozione, l'amore per i bambini, l'interesse per la cultura, il buon senso. Le scuole sono, in un certo senso, comparabili a mini-aziende che vanno gestite in maniera oculata: devono offrire prodotti allettanti, valutare la domanda dei clienti, la qualità della merce prodotta (queste metafore non sono del tutto adeguate in riferimento alla scuola, ma rendono bene l'idea dei compiti che un consiglio d'amministrazione deve svolgere), cercare le liquidità per pagare gli stipendi del personale, negoziare le polizze d'assicurazione per le pensioni e l'assistenza sanitaria, occuparsi della sicurezza dei locali e degli stabili e così via. Si tratta di compiti tutt'altro che banali, che esigono, ogni volta, compromessi fra priorità d'ordine diverso.
2. L'autonomia aumenta il rischio della segregazione scolastica: in Nuova Zelanda, per esempio, la stratificazione delle scuole in funzione dell'appartenenza etnica, dello status socio-economico e del rendimento scolastico degli studenti è aumentata invece di diminuire. La disparità tra scuole si è aggravata, ed è emerso un sistema scolastico a due velocità, con scuole di prestigio che si accaparrano gli studenti migliori e scuole di secondo ordine nelle quali vanno a finire gli altri.
3. La competizione tra scuole non funziona: le scuole, infatti, si accordano tra loro per ripartirsi gli iscritti in modo che ogni istituto abbia il numero necessario di studenti per ottenere i fondi necessari a farlo funzionare.
4. L'autonomia delle scuole non stimola il lavoro di gruppo, non induce i docenti a collaborare per trasformare la scuola in cui lavorano in una comunità educativa. Al contrario, la solidarietà tra docenti viene meno perché le buone scuole attirano quelli migliori, mentre nelle scuole periferiche o a rischio restano quelli mediocri, meno competenti, meno motivati, oppure gli scettici nei confronti di qualsiasi impresa educativa collettiva. Ognuno persegue i propri interessi, e ciò vale anche per i presidi, che vedono i loro colleghi come concorrenti e non come alleati con i quali discutere le strategie di sviluppo delle scuole oppure condividere iniziative o idee.
5. L'innovazione pedagogica stagna, perché i consigli d'amministrazione, i presidi e i docenti sono più preoccupati del calo o dell'aumento delle iscrizioni che non di sperimentazioni o novità didattiche. Poiché le risorse finanziarie di una scuola sono calcolate in base al numero degli iscritti, per un istituto diventa essenziale attirare e conservare il maggior numero possibile di studenti più che sperimentare. L'autonomia induce quindi alla prudenza, a preferire le tradizioni pedagogiche consolidate piuttosto che le innovazioni rischiose, difficili da condurre e con esiti non garantiti.
6. Il regime di autonomia stimola gli egoismi delle comunità benestanti e indebolisce il senso dell'interesse generale e del bene comune: i consigli d'amministrazione delle scuole difendono logicamente gli interessi della propria scuola e non si curano né degli effetti delle loro scelte sulle scuole circostanti, né delle conseguenze generali a livello di sistema.
Questi difetti sono emersi dopo dieci anni di un regime d'autonomia radicale. Peraltro, l'esperienza del quasi-mercato dell'istruzione non garantisce di per sé un miglioramento della qualità delle scuole; per ora si può con certezza affermare che tali esperienze non conseguono più di quanto riesca a ottenere il modello burocratico e centralizzato della scuola statale tradizionale. In entrambi i casi non si è riusciti, almeno finora, a realizzare una giusta ed equa distribuzione dell'istruzione tra tutti gli strati della popolazione.
Il movimento delle charter schools negli Stati Uniti, apparso agli inizi degli anni novanta, è innanzitutto una contestazione del modello imperante di scuola statale, accusato di essere alle origini dell'inefficienza delle scuole. I promotori delle charter schools ritengono che l'uniformità scolastica imposta dal monopolio statale sull'istruzione e la rigidità dell'apparato burocratico che gestisce e controlla le scuole, imponendo dall'alto regolamenti e norme a centinaia di migliaia di docenti che non hanno più nessun interesse per quanto si chiede loro di compiere, siano le cause principali della mediocrità delle scuole americane. Le charter schools sono scuole pubbliche, totalmente finanziate dallo Stato, ma interamente liberate dalla tutela della burocrazia scolastica. Esse godono di una franchigia particolare che le esenta dall'applicare i regolamenti e i programmi imposti alle scuole statali convenzionali. Le scuole sono date in appalto ad associazioni di privati cittadini, a enti vari o a gruppi di persone che si impegnano, in cambio dell'autonomia loro concessa, a conseguire determinati risultati concordati in un contratto d'autonomia, per l'appunto la 'carta della scuola'. Queste scuole sono pubbliche perché sono finanziate dallo Stato, che versa alle associazioni che le gestiscono l'equivalente del costo di funzionamento calcolato in base al costo pro capite di uno studente. Esse devono rendere conto dei risultati conseguiti per pretendere il rinnovo del contratto d'appalto e, nel caso in cui non rispettino le clausole contrattuali, dovrebbero essere chiuse. Il regime delle charter schools è retto da leggi apposite che fissano le prerogative, le modalità di funzionamento, gli obiettivi da conseguire, le clausole da rispettare. Nell'anno scolastico 1998-1999, 36 Stati americani avevano autorizzato l'appalto di scuole statali al settore privato. Il primo Stato a sperimentare questa soluzione è stato il Minnesota, nel 1991. Da allora in poi, sono state prodotte centinaia di valutazioni e di relazioni su quest'innovazione che propone un nuovo modello di scuola pubblica. I risultati sono molto contraddittori: il sistema delle scuole in franchigia, che è agli albori, non sembra produrre gli effetti previsti, come comprova la valutazione del Consortium for Policy Research in Education (CPRE) che riunisce specialisti di politiche dell'educazione delle università della Pennsylvania, di Harvard, di Stanford, del Michigan e del Wisconsin-Madison (v. Bulkley e Fisler, 2002). Gli avversari del modello sottolineano puntigliosamente tutti i difetti delle scuole sotto franchigia, che sono analoghi a quelli osservati nel sistema delle scuole autonome applicato in Nuova Zelanda, Inghilterra, Belgio od Olanda.
In nessun paese, nemmeno in Nuova Zelanda, Svezia e Inghilterra - dove per il momento ci sono scuole che usufruiscono di un regime di autonomia particolarmente ampio - l'autonomia scolastica è totale e piena, perché ciò facendo si realizzerebbe una privatizzazione larvata del sistema scolastico statale a spese dei contribuenti. Anche quando il grado di autonomia è elevato, le scuole restano sotto controllo e continuano a essere vigilate dal potere centrale, amministrativo o scolastico che sia. Ma fin quando sarà conveniente tenere in piedi un sistema ibrido del genere? Se le scuole, che sono radicate nell'humus locale, diventano luoghi controllati dai notabili locali o dai consumatori, rischiano di trasformarsi in istituzioni al servizio dei movimenti sociali o peggio ancora degli interessi immediati di comunità che difendono i propri privilegi, oppure che contestano il patto sociale alla base dello Stato democratico prodotto dalla modernità. Non è un caso che negli Stati Uniti il movimento delle charter schools, che mira ad affrancare le scuole statali dal controllo dell'amministrazione pubblica, sia particolarmente popolare tra le comunità e i gruppi etnici ai margini della società, come per esempio gli Afro-americani oppure la popolazione d'origine ispanica. Queste comunità rivendicano la possibilità di creare proprie scuole pubbliche, finanziate dallo Stato, in compenso del debito accumulato dallo Stato nei loro confronti distribuendo in modo non equo le risorse di tutti; all'estremo opposto, una minoranza appartenente ai ceti agiati non è disposta a cedere parte della propria ricchezza per la causa pubblica ed esige che il proprio prodotto fiscale sia investito in loco, a beneficio del gruppo che l'ha generato. A questo punto è evidente che il problema scolastico è un problema sociale: la scuola statale convenzionale è in crisi non solo per ragioni di inefficienza, per motivi di tipo didattico, per fattori connessi al cambiamento dei saperi o dei valori etici propugnati da una società, ma perché il concetto di Stato che ha generato il sistema scolastico pubblico è vacillante. Il problema della scuola, dunque, è strettamente connesso alla ridefinizione del patto sociale che fonda le nostre società. Da questo punto di vista il movimento delle charter schools, ma anche quello dell'autonomia scolastica, segna la fine della modernità con le sue aspirazioni di uguaglianza ed è una manifestazione evidente dei fermenti caratteristici delle società postmoderne, della frantumazione del corpo sociale, della presenza di gruppi minoritari che rivendicano di essere riconosciuti come attori di pieno diritto nella vita delle collettività.
4. Prospettive per il futuro della scuola
Molti segnali annunciano la presenza di crepe profonde nella bella facciata della scuola. Nonostante i rifacimenti la scuola è diventata un edificio poco agibile.
Si è solo agli albori della rivoluzione numerica nel trattamento dell'informazione e quindi non si può ancora misurare correttamente cosa potrà succedere quando le nuove tecnologie dell'informazione saranno d'uso corrente come lo sono diventati il telefono, la televisione, i rotocalchi o gli elettrodomestici, che appena un secolo fa non esistevano. Possiamo solo supporre che non si potrà più parlare di alfabetizzazione come un tempo, che l'epoca della carta stampata e dei manuali potrebbe tramontare e che l'accesso a una quantità sterminata di informazioni senza andare a scuola e senza possedere nemmeno un libro potrebbe diventare una pratica comune (v. Parisi, 2000). La scuola come è fatta oggi è quasi certamente destinata a scomparire nel corso del XXI secolo e quindi, logicamente, anche il mestiere di insegnante, almeno come è stato fin qui concepito. Le scuole cesseranno gradualmente di essere il polo quotidiano di riunione e di lavoro di centinaia di migliaia di studenti che convergono in un luogo appositamente disegnato per loro allo scopo di imparare l'uso degli strumenti necessari per accedere e capire le informazioni depositate nei libri o nelle banche dati, per appropriarsi dei codici che disciplinano gli universi di discorso e per sviluppare le competenze necessarie per valorizzare socialmente le proprie qualità e il proprio sapere.
Nelle società postmoderne, il progetto di istruzione di massa è stato nutrito dall'illusione che il destino e il progresso siano nelle nostre mani e che possano essere modellati secondo le nostre aspettative. Le società si sono però rivelate meno malleabili di quanto non si fosse teorizzato e lo sviluppo meno prevedibile di quanto immaginato. In un contesto come questo ci si può seriamente chiedere a cosa servano le scuole: non servono più per costruire un avvenire migliore diventato impensabile; non servono per promuovere un progresso di cui si è persa qualsiasi traccia; non servono per governare la società perché questo scopo può ormai essere conseguito con altri strumenti meno costosi e più efficaci. Da ultimo, la scuola non può nemmeno creare condizioni favorevoli a ridurre la frammentazione della coesistenza sociale, come ha per esempio dimostrato l'analisi di Robert Putman (v., 2000) sul collasso del capitale sociale e della vita comunitaria negli Stati Uniti. Come afferma il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, uno dei più acuti e disincantati osservatori della società contemporanea, "l'era dell'umanesimo moderno come modello scolastico ed educativo si è spenta, così come si è spenta l'illusione che riteneva fosse possibile organizzare strutture di massa, sia politiche che economiche, sul modello amichevole di una società letteraria" (v. Sloterdijk, 1999).
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