Educazione
di Arnould Clausse
Educazione
sommario: 1. Che cos'è l'educazione? a) L'educazione, funzione sociale. b) Gli insegnamenti della storia. c) La dinamica delle relazioni ‛società-educazione'; lo ‛strutturalismo' o il ‛culturalismo' . 2. Le scienze dell'educazione. a) Definizione. b) I problemi assiologici ovvero gli obiettivi: la cultura. c) Educazione e biologia. d) Educazione e psicologia. e) Educazione e sociologia. f) La scuola. 3. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Che cos'è l'educazione?
Bouglè ha scritto: ‟La società è perpetuamente impegnata a riguadagnare il terreno perduto, a reclutare nuovi tedofori. La duplice legge della nascita e della morte la costringe a ricrearsi senza soste. Ogni volta che qualcuno muore, il filo delle tradizioni, condizione della continuità collettiva, si spezza. Ogni volta che qualcuno nasce, è necessario riannodare quel filo. La vita arreca un nuovo essere; bisogna farne un essere sociale, innestare l'umanità sulla natura". ‟L'educazione è - come precisa E. Durkheim - l'azione che le generazioni adulte esercitano su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale. Il suo obiettivo è quello di suscitare e sviluppare nel bambino un certo numero di stati fisici, intellettuali e morali, che da lui esigono tanto la società politica nel suo insieme, quanto l'ambiente specifico cui il bambino è destinato" (v. Durkheim, 1926, p. 49).
a) L'educazione, funzione sociale
Questa definizione implica che i fatti educativi sono, tanto negli obiettivi quanto nei mezzi, fatti sociali. In ogni società esiste una ‛funzione educativa', così come esiste una funzione giuridica o una funzione pubblica. Analogamente a queste ultime, la funzione educativa mira ad assicurare il funzionamento normale della vita sociale e risponde alle esigenze dei diversi gruppi, nella misura in cui l'economia generale del sistema lo giustifichi.
Ad un primo approccio, possiamo fornire a supporto e illustrazione di questa tesi un certo numero di constatazioni: innanzi tutto, la funzione pedagogica esige - nella sua genesi, nello spirito che l'anima e negli strumenti di cui si serve - l'intervento degli organismi più rappresentativi della società. Di conseguenza, la scuola può, secondo i casi, fondarsi talvolta sulla famiglia (come nel mondo antico, dove γένος e gens costituivano il fondamento stesso delle strutture politico-sociali), e talvolta ignorarne del tutto l'esistenza (come in tutto il corso del Medioevo cristiano) ed essere amministrata dal potere sacerdotale, dai poteri civili, nazionali o locali, dagli stessi gruppi economici o sociali. Si può dire che una catena ininterrotta va dall'iniziazione presso i popoli primitivi all'educazione ‛clericale' e infine a quella ‛laica': l'esercizio della funzione educativa resta sempre in mano all'istanza più rappresentativa della società generalmente considerata o di determinate collettività (confessioni, professioni...) (v. Clausse, 1951). Oggi, facendosi carico dei diritti dell'individuo, la funzione educativa mantiene un'ispirazione sociale poiché, così, risponde alle esigenze nuove di un ‛ambiente' che può sopravvivere soltanto a questa condizione.
Del resto, gli individui coinvolti nella funzione pedagogica non lavorano isolatamente, ma all'interno di schemi rigidi che impongono loro, in modo implicito o esplicito, fini e metodi. L'educatore, considerato isolatamente, non crea per proprio conto né programmi né tecniche, perfino nel caso che abbia piena libertà di farlo. I fatti educativi hanno dunque un carattere coercitivo: esiste un modello educativo di riferimento ‟da cui non ci possiamo allontanare, senza scontrarci con vivaci resistenze" (v. Durkheim, 1926). Si può quindi affermare che i fatti educativi non possiedono nessuna autonomia: il loro sviluppo non avviene secondo le leggi di una dinamica interna, ma è solo l'espressione e la traduzione del movimento generale della società.
La definizione proposta non è il risultato di un ragionamento dialettico o filosofico; essa è tratta da una visione oggettiva della realtà. Fin dal suo ingresso nel mondo, ci dice ancora Durkheim, il bambino viene fatto oggetto, da parte degli adulti, di una quantità di azioni che innanzi tutto hanno come scopo la sua conservazione e mirano a facilitare e accelerare la sua crescita fisica e morale e ad adattano alle esigenze dell'ambiente sociale generale e di quello specifico (professione, confessione, classe sociale...) nei quali dovrà vivere (v. Durkheim, 1926).
b) Gli insegnamenti della storia
A ogni passo la storia ci mostra che ‟l'uomo che l'educazione deve realizzare in noi non è l'uomo astratto o ideale, una perfezione umana vista attraverso una filosofia eterna, ma è l'uomo così come lo vuole la società, e il modo in cui essa lo vuole dipende dalle esigenze della sua economia interna" (v. Durkheim, 1926, p. 48).
Innanzitutto, è un fatto di indiscutibile evidenza storica che il genere umano non ha conosciuto un solo tipo di educazione, più o meno perfettamente realizzato. Alle diverse epoche, corrispondono tipi di educazione diversi e talvolta addirittura contraddittori, connessi a concezioni diverse dell'uomo. Ad esempio, a Roma, al tempo della Repubblica, si vogliono formare dei ‛cittadini romani' e, al tempo dell'Impero, dei funzionari. Il Medioevo forma ‛manovali', chierici e cavalieri, mentre il Rinascimento manifesta tendenze ‛liberali e laiche', del resto riservate esclusivamente alle persone di ceto elevato. Per formare un cittadino, Roma insisterà soprattutto sulla morale civica, sul culto degli avi e del passato; per formare dei funzionari, l'Impero riprenderà, adattandola alle sue necessità, la paideia dell'epoca ellenistica, cioè un tipo di educazione universale e neutra, priva di qualsiasi contenuto positivo, ma ricca di un minuzioso formalismo (le ‛scuole di retorica'). Per formare un chierico, il Medioevo porrà al vertice delle sue preoccupazioni il disprezzo dei beni terreni, il rigore della fede, la subordinazione della ragione, la necessità di una cultura filosofico-teologica il cui ambito di sviluppo sia segnato dai confini ristretti del dogma (v. R. Clausse, 1930).
Risulta del resto evidente che questi diversi tipi di educazione, considerati nella loro successione cronologica, non formano una linea continua o progressiva. Non si tratta affatto di un lento cammino verso un ideale; quale che sia il criterio prescelto, da un'epoca all'altra si cade costantemente nell'incoerenza e nelle contraddizioni. In epoche cronologicamente assai distanti, si ritrovano modelli identici o simili; l'ideale educativo ateniese del V secolo è più vicino al nostro di quello dell'epoca carolingia o di quello di S. Tommaso d'Aquino; il sec. XVII segna un evidente regresso rispetto ai secc. XV e XVI; lo stesso vale per l'Impero francese rispetto alla Convenzione.
Ma vi è qualche cosa di ancora più significativo. In ogni singolo periodo storico non si è mai avuto un tipo solo e unico di educazione. In ogni società, vi sono sempre diversi modelli educativi che corrispondono ai diversi gruppi o classi sociali. Se scopo dell'educazione fosse quello di realizzare un tipo ideale di umanità, non si capirebbe perché l'insegnamento primario nasca con molti secoli di ritardo rispetto a quello ‛dotto', perché l'insegnamento per le ragazze sia stato sempre diverso da quello per i ragazzi e sia stato organizzato in modo serio solo a partire dal XIX secolo. Gli stessi teorici hanno riconosciuto e avallato queste ‛contraddizioni'. Già Isocrate, sulle orme di Solone, affermava che ‟è impossibile prescrivere a tutti gli stessi esercizi, stante l'ineguaglianza delle ricchezze. È necessario che ciascuno riceva una educazione proporzionata ai propri mezzi. Chi ha una condizione economica modesta deve essere avviato verso l'agricoltura e il commercio; i figli dei ricchi devono occuparsi di equitazione, di ginnastica e di filosofia" (v. Clausse, 1951). Nel Medioevo, tutta la cultura è nelle mani dei chierici; il signore laico non si occupa affatto di filosofia e il popolo resta sprofondato nell'ignoranza più totale. In epoca moderna, la filosofia illuministica, che lotta contro tutte le oppressioni e mira al completo sviluppo della persona umana, diventa, non appena si tratta del popolo, singolarmente restrittiva. Caratteristico, in modo particolare, è l'atteggiamento della borghesia liberale nel XIX secolo. Verso il 1883, la legge Guizot, in Francia, riconosce la necessità di realizzare una educazione elementare effettivamente ‟buona e socialmente utile". E qualche anno più tardi, Thiers, con una precisione che si spiega con la grande paura del 1848, riprenderà idee analoghe, dichiarando che ‟se la fede deve essere l'unica filosofia delle masse", la borghesia, invece, vuole ‟in qualche modo il diritto al libero dibattito filosofico", dal momento che sono sufficienti i suoi stessi interessi a tenerla lontana dalle teorie sovversive. Il fenomeno è generale in tutta l'Europa, perché le condizioni sociali sono, più o meno, identiche. In breve, alla fine del secolo scorso, in tutti i paesi si è d'accordo su una filosofia generale dell'educazione. L'insegnamento elementare è riservato alle classi meno abbienti, e l'insegnamento superiore alle classi privilegiate. Il primo è essenzialmente e deliberatamente utilitaristico; assai reticente e angusto dal punto di vista dei contenuti (i suoi fini non vanno oltre lo studio delle ‛tecniche', cioè leggere, scrivere e far di conto, le tre ‛r' degli Anglosassoni), esso insiste sulle virtù di una formazione morale, dogmatica e socialmente ortodossa. Quanto all'insegnamento secondario, destinato ai futuri dirigenti della nazione che prenderanno il posto che spetta loro nello Stato, nella Chiesa o nel mondo degli affari, esso si sforza di restare fedele all'umanesimo classico restaurato da Napoleone (v. Clausse, 1951).
La conseguenza che si trae da tutto ciò riassume in sé tutte le nostre osservazioni. La ragione e la forza motrice degli ideali e degli strumenti educativi non deve essere ricercata nelle dottrine filosofiche. Queste infatti, che siano dogmatiche o liberali, religiose o laiche, influiscono sulla funzione pedagogica soltanto nella misura e nei limiti in cui lo permettono le condizioni sociali o, meglio, il ‛campo culturale'.
L'esempio più significativo, nel nostro mondo occidentale, è quello della dottrina cristiana. Essa porta nel mondo l'idea di una uguaglianza di fondo fra tutti gli esseri umani. Ma non appena la Chiesa assume il pieno controllo della società, il suo ideale filosofico si adatta, sul piano pedagogico, alle condizioni sociali ed economiche. Essa conserva, certo, la sua concezione ascetica in un mondo costretto dalla miseria economica alla rinuncia, al disprezzo dei beni e delle ambizioni terrene. Ciascuno deve vivere secondo la propria condizione; l'ideale consiste nell'adempiere il meglio possibile il compito cui si è destinati, secondo il posto che si occupa. L'educazione dei chierici sarà imperniata su una Verità rivelata, assoluta e immutabile, che si colloca al di fuori e al di sopra della realtà fisica e umana. L'importante è raggiungere questa Verità attraverso la vita interiore, seguendo strade puramente spirituali. L'educazione non è dunque una preparazione alla yita terrena; essa si disinteressa di una realtà che può solo intralciare la ricerca spirituale. Questo rifiuto della realtà comporta il disprezzo del corpo, della natura in generale, e dunque della scienza, la condanna di tutto ciò che è gioia di vivere in tutte le manifestazioni legate a energie naturali quali il sentimento, l'affettività, il piacere. Ci si rifiuterà di prendere in considerazione perfino le condizioni in cui vivono gli uomini. La filosofia trionfa dunque in quei suoi aspetti che coincidono con una situazione che essa non ha creato ma che avalla. La concezione egualitaria viene, al contrario, completamente abbandonata: le gerarchie in campo educativo, come del resto ogni tipo di gerarchia, non sono mai state tanto nette e tanto rigide come durante il Medioevo. Quest'ultimo sanziona, senza rimpianti e sensi di colpa, le distinzioni platoniche che dividono gli uomini nelle tre categorie: d'oro, d'argento e di ferro. La Chiesa si preoccuperà dell'insegnamento per i laici solo quando esso assumerà una forma organizzata al di fuori della Chiesa per far fronte alle nuove esigenze di una società che sempre più si laicizza.
Abbiamo già accennato all'atteggiamento della dottrina liberale del XVIII e XIX secolo. A una filosofia generale, che pretende di liberare l'uomo da ogni oppressione, da ogni gerarchia artificiale, si contrappone una filosofia dell'educazione che ammette e giustifica le più nette distinzioni sociali.
Si può, del resto, allargare il discorso ed esaminare le condizioni bio-psicologiche dello sviluppo degli individui. Quale che sia l'importanza che la psicologia moderna annette al fenomeno della crescita (growth), è evidente che si può trattare soltanto di potenzialità che vengono realizzate e orientate dall'ambiente in cui si forma l'essere umano. Se si esclude il piano strettamente biologico, non esiste alcuno sviluppo identico e inevitabile impresso nella natura umana e in qualche modo trascendente le condizioni nelle quali e tramite le quali tale sviluppo si realizza, capace di utilizzarle nel senso di una ‛umanità' aprioristicamente definita da una qualche filosofia. In realtà, la persona umana, così come si presenta nell'età adulta, è un risultato, una conseguenza e non una causa o un principio. La società propone all'essere umano dei compiti, delle esigenze, degli orientamenti, dei livelli e dei modelli di comportamento, dei modi di pensare e di sentire che faranno di lui questo o quel tipo di uomo, corrispondente alle esigenze dell'ambiente nel quale egli inserirà la propria esistenza e la propria azione. Senza la società, l'uomo resterebbe al livello del bruto. Parlare di ‛valori umani', di ‛realizzazione dell'umano', di ‛dignità umana', di ‛specificità umana', significa adoperare formule prive di senso, se non se ne collega la portata, il contenuto e il significato a un contesto culturale determinato. In altri termini, si può definire l'educazione come la somma e la strutturazione dei tipi di comportamento creati in noi dall'insieme delle condizioni e dei bisogni della civiltà in cui il caso ha inserito la nostra ‛natura' (v. Clausse, 1968).
c) La dinamica delle relazioni ‛società-educazione'; lo ‛strutturalismo' o il ‛culturalismo'
Ma forse le cose non sono tanto semplici come appaiono a prima vista. Voglio dire che i rapporti che uniscono società ed educazione non sono, come riteneva Durkheim, univoci e lineari. Essi obbediscono a una dinamica estremamente flessibile che, a questo punto, è necessario precisare.
All'idealismo della filosofia classica si è contrapposto, nel secolo scorso, il materialismo storico del marxismo ufficiale. Ma queste due concezioni hanno in comune l'affermazione che il gioco delle influenze si attua totalmente secondo il procedere univoco di una causalità irreversibile. Nella prima, dall'ideale al reale, nella seconda, dal reale (struttura) all'ideale (sovrastruttura).
Oggi si è portati ad affrontare le cose secondo un'ottica assai più ampia e duttile, e ad assumere l'ipotesi ‛culturalistica' e ‛strutturalistica' secondo le concezioni di un Kurt Lewin o di un B. Malinowski. Secondo tale ipotesi, la società così com'è organizzata in un dato momento storico o in un determinato ambiente geografico, costituisce un tutto dinamico, una struttura attiva, un vero e proprio complesso organico. Al suo interno, tutti gli elementi agiscono quali fattori. Che rientrino nel campo dei fatti e delle realtà, oppure in quello del pensiero e delle aspirazioni, essi formano, presi insieme, un tutto coerente, articolato e indissociabile di strumenti destinati a risolvere i molteplici problemi dell'esistenza a un livello determinato dall'efficacia e dall'ampiezza di tali strumenti. Come scrive Lucien Fèbvre: ‟In ogni momento del loro sviluppo, le credenze dell'umanità sono quelle che possono essere". Secondo Malinowski: ‟La cultura - cioè la civiltà - [...] costituisce un vasto apparato, grazie al quale l'uomo viene messo nella posizione migliore per affrontare i problemi concreti e specifici che incontra nell'adattamento all'ambiente, alla ricerca della soddisfazione dei suoi bisogni" (v. Malinowski, 1945, p. 42). L'organismo umano e il suo ambiente, il contesto fisico e quello intellettuale debbono essere considerati come costitutivi di un ‛campo', nel senso che il termine ha nella fisica moderna, cioè come un tutto dinamico, in cui i diversi elementi agiscono gli uni sugli altri, in virtù della loro natura, realizzando e rimettendo costantemente in causa, con le loro azioni reciproche, equilibri più o meno stabili. Materiale e spirituale si collocano in una stessa prospettiva, si inseriscono in una stessa catena di cause e di conseguenze, di antecedenti e di conseguenti che agiscono in tutti i sensi e che si diffondono attraverso il campo, a somiglianza delle forze magnetiche o elettriche in un solenoide. La storia del pensiero e, in particolare, la storia dell'educazione è intimamente legata alla storia della società, considerata nella complessità degli elementi di ogni ordine e livello che ne fanno una struttura funzionale e specifica. Conseguenza e causa insieme, essa è uno dei fattori che definiscono un determinato ambiente culturale (v. Clausse, 1971).
2. Le scienze dell'educazione
a) Definizione
Nella società tradizionale, la ‛pedagogia' (‛guida dei fanciulli') si rivolgeva unicamente ai fanciulli. Divenuto adulto, l'individuo cessava di interessarla in quanto, non ponendo più nessun problema di ‛preparazione', si situava al di fuori della sua giurisdizione. Oggi invece, l'educazione deve prolungarsi lungo l'intero arco della vita, e, d'altro canto, deve considerare l'uomo nella totalità e nella complessità della sua realtà, scoprire e utilizzare tutti gli influssi che agiscono su di lui per trarne il massimo, in direzione di un ‛umanesimo' che deve porsi al livello delle esigenze del nostro tempo. Educare significa realizzare qualche cosa; significa tendere verso un obiettivo e un obiettivo è realizzabile soltanto in funzione delle condizioni e delle possibilità che ci offre la materia su cui lavoriamo. È dunque necessario conoscere l'uomo, sapere quali sono gli elementi costitutivi della sua realtà, tener conto di tutte le determinanti che agiscono su di lui per dargli forma e contenuto. L'uomo è in primo luogo un essere biologico; ma anche un essere psicologico e un essere sociale. Per conoscerlo e agire su di lui è quindi necessario utilizzare una serie di scienze, definite nel loro complesso ‛scienze dell'educazione'. Esse comprendono l'insieme delle discipline (contenuti e metodi) il cui scopo è realizzare, mantenere e ristabilire quella che, in prima approssimazione, si potrebbe definire l'integrazione dell'individuo nel contesto della civiltà in cui vive.
b) I problemi assiologici ovvero gli obiettivi: la cultura
L'educazione è un'azione. Ogni azione implica una direzione, degli obiettivi verso cui essa tende. Condizione essenziale per ogni attività costruttiva, è il progetto dell'opera. I problemi assiologici occupano dunque il primo posto.
Per comprendere la situazione attuale bisogna, quindi, sulla scorta degli economisti, rifarsi alla nozione di produttività. Gli straordinari progressi di quest'ultima hanno fatto esplodere le strutture economiche e sociali sulle quali il mondo di ieri poggiava la sua ideologia e il suo comportamento; questi progressi hanno sconvolto le nostre condizioni di vita e di pensiero, i nostri atteggiamenti e i nostri bisogni intellettuali, affettivi e morali, e ci hanno indirizzati sulla strada di una autentica democrazia, in cui le teorie liberali del XVIII secolo e il socialismo idealistico del XIX secolo si sforzano di conciliare i loro rispettivi punti di vista in una sintesi originale. L'individuo tende, poiché ormai ne ha la possibilità, a liberarsi poco a poco da schiavitù e alienazioni ancestrali; acquisisce e trova i mezzi per realizzarsi come ‛persona', cioè nella pienezza, sempre meglio affermata, di una specificità umana.
Questo movimento coinvolge tutti gli aspetti della vita: economia, sociologia, filosofia, morale, organizzazione istituzionale e politica, aspetti che comportano conseguenze di rilievo che debbono tradursi in una rivoluzione pedagogica che metta in discussione lo spirito, il significato, gli scopi e gli strumenti dell'educazione.
Se consideriamo la crescita irrefrenabile del numero degli alunni cui va aggiunto lo sviluppo dell'educazione permanente, si può affermare che, già da oggi, l'educazione deve ‟occupare un posto chiave nella realtà contemporanea" (v. De Coster e Hotyat, 1970). In un mondo sempre più complesso, animato da una vera e propria frenesia di trasformazione, il lavoro educativo risulta fondamentale, tanto sul piano quantitativo che qualitativo.
Sul piano ‛quantitativo', il considerevole aumento dei bilanci, cui assistiamo da qualche decennio, è un fenomeno irreversibile. Certamente esistono dei limiti, ma bisogna almeno, per quanto riguarda l'educazione, prevedere da un lato un'organizzazione da cui poter trarre il massimo rendimento, e accettare, dall'altro, un mutamento profondo del quadro dei valori sociali e i sacrifici necessari.
Sul piano ‛qualitativo', non si può più considerare l'educazione come un processo ereditario, come un iniziazione a valori riconosciuti, come la semplice trasmissione di conoscenze e di una ‛sapienza' che appena diffuse sono già superate. È urgente sviluppare l'iniziativa, lo spirito critico, la creatività, la libertà di giudizio, in breve, la possibilità e il desiderio di andare al di là di ciò che è, di trarne partito per spingersi più avanti.
Dobbiamo dunque tentare di ridefinire la ‛cultura', nel contesto del secondo millennio che volge al termine. Per parte nostra avanzeremmo la seguente definizione: educare un bambino, trasformarlo nell'adulto di cui ha bisogno la società di domani significa insegnargli o aiutarlo a conquistare il suo ambiente. Questa definizione ha un duplice pregio: considera l'atto del pensiero come un atto globale che impegna l'intera personalità e come un'attività dinamica che si svolge senza interruzioni; d'altro canto, essa associa strettamente questo atto alla realtà stessa che lo provoca, lo giustifica e gli conferisce autenticità (v. Clausse, 1961).
L'ambiente è l'insieme delle realtà che costituiscono la nostra società. Possiamo, sulla scorta di L. Cros, distinguere: l'ambiente naturale, cioè la natura fisica e biologica che ci circonda e ci condiziona; l'ambiente umano, cioè i rapporti che intratteniamo con gli altri e con le realtà sociali e istituzionali, la natura umana nella sua realtà psicologica e nelle manifestazioni intellettuali e affettive che la caratterizzano; l'ambiente tecnico, considerato nel suo significato e nelle sue implicazioni sulla nostra vita e sul nostro modo di essere e di pensare; l'ambiente della comunicazione, il linguaggio, la lingua materna, almeno una lingua straniera, la matematica, il linguaggio proprio della scienza e della tecnica, le arti e quei mezzi di comunicazione sempre più invadenti che sono la radio, la televisione, il cinema ecc. (v. Clausse, 1967 e 1972).
Questo ambiente bisogna ‛conquistarlo'; non si tratta più, cioè, semplicemente di comprenderlo, conoscerlo e assimilarlo; bisogna dominarlo, cioè diventarne e restarne padroni, essere capaci di porsi esternamente ad esso per giudicarlo, per dirigerlo. In un mondo di cui non possiamo prevedere l'assetto futuro, l'ambiente attuale dev'essere considerato come un trampolino su cui poggiare per andare avanti verso l'avvenire. Bisogna studiarlo, non per accettarlo e conformarvisi, ma per essere in grado di realizzarne le promesse e allontanarne le minacce che comporta per il futuro, di utilizzarlo e di modificarlo in un senso conforme all'opzione etica che avremo adottato nei confronti dell'uomo. Del resto, la moderna psicologia ci insegna che integrarsi nella realtà significa agire su di essa, conferirle una struttura originale, trasformarla in strumento di azione e di comprensione al livello delle ambizioni della persona (v. Clausse, 1972).
c) Educazione e biologia
Parlare di biologia nell'ottica di una psicologia dell'educazione significa spostarsi costantemente in quella zona intermedia estremamente fluida, ambigua e inafferrabile in cui avvengono di continuo i passaggi dal biologico più puro al mentale più indiscutibile. Nature e nurture, biologia e psicologia, senza che si possa stabilire il campo proprio a ciascuna di esse.
Ma in un'analisi teorica, non sarà inutile affrontare separatamente queste due componenti della persona umana.
Nei limiti di questo studio, si tratta qui essenzialmente del fenomeno della ‛crescita' (growth). Il termine evoca un processo di sviluppo continuo e progressivo che è caratteristico della vita. Si può dire che gli aspetti essenziali della personalità umana sono inclusi, fin dall'origine, nel suo patrimonio ereditario. Ma la crescita è un processo attivo, quindi ‛creativo'; essa è allo stesso tempo quantitativa e qualitativa. Implica, ad ogni suo livello e realizzazione, una qualche organizzazione e riorganizzazione costante dell'essere vivente, come avviene, per esempio, nell'atto del camminare per il rapporto tra i primi movimenti e la maturazione anatomo-fisiologica. È evidente che un primo movimento compiuto modifica qualitativamente l'individuo e lo mette in una posizione diversa per eseguire i movimenti successivi. Non si tratta di addizione o semplice giustapposizione, ma di nuova sintesi; ogni tappa specifica e determina quella successiva nell'ottica del fine da conseguire.
Spesso, come nell'esempio citato, il fine è posto e stabilito dalla maturazione fisica dell'organismo. Nell'acquisizione della posizione eretta (bisogna a questo proposito sottolineare che nella filogenesi essa costituisce una conquista e non una semplice maturazione), la crescita svolge un ruolo infinitamente più rilevante dell'esercizio. In questo caso siamo di fronte, sul piano ontogenetico, a una sequenza ben definita che sembra non poter essere seriamente modificata o accelerata. Ma la maturazione è organica e ‛meccanica' solo entro limiti relativamente ristretti. In realtà, si tratta di un processo orientato verso un obiettivo e da esso plasmato; tale obiettivo si chiarisce sempre meglio, di modo che l'esercizio può svolgere un ruolo crescente, man mano che si voglia superare lo stadio strettamente ereditario (equilibrio, deambulazione più o meno artificiali). Le cose assumono un'ambivalenza più marcata, via via che si afferma la consapevolezza del fine, e che questo assume forme sempre più elevate.
È dunque fittizio pretendere di distinguere tra crescita fisica e sviluppo mentale. La coordinazione del movimento degli occhi, resa possibile da modificazioni anatomo-fisiologiche, comporta rilevanti cambiamenti psicologici che favoriscono e organizzano lo sviluppo mentale. L'ampiezza, la qualità della presa di coscienza del mondo esterno, alterano profondamente la sequenza puramente organica. In altri termini, il nostro occhio non è un apparecchio fotografico che si perfezioni sul piano tecnico, ma è un apparecchio che viene costantemente modificato, nel suo funzionamento e nelle conseguenze che esso implica per l'individuo, dalle immagini che riprende. Analogamente, l'attività sessuale, resa possibile dalla maturazione fisiologica, induce rilevanti cambiamenti in tutta la psicologia dell'individuo e lo costringe a costanti riorganizzazioni della propria personalità, della sua stessa visione degli altri e delle cose, visione che, a sua volta, influenza la sua attività sessuale.
A queste considerazioni molto sommarie e molto generali, conviene forse aggiungere che la crescita è un fenomeno insieme di differenziazione e di integrazione. Arriviamo, a questo punto, al cuore stesso del problema della crescita cosi come si pone in termini di educazione. Si tratta, in effetti, delle modalità dello sviluppo, dell'itinerario che segue, dei mezzi che adopera. Il meccanismo è duplice e, apparentemente, contraddittorio, giacché la differenziazione è analisi e l'integrazione sintesi. Ora, i due processi sono concomitanti e indissolubilmente legati l'uno all'altro per realizzare la piena pertinenza dell'azione. Attraverso la differenziazione, l'organismo perfeziona i suoi strumenti di reazione nei confronti dell'ambiente, mette a punto mezzi sempre più sofisticati per dissociare la massa informe degli stimoli, per coglierne i molteplici aspetti. Tramite l'integrazione, ristabilisce la sintesi, ma una sintesi originale ed efficace per le necessità del momento, per i desideri e per gli obiettivi dell'individuo. La differenziazione implica che la crescita proceda dal generale al particolare. Le prime reazioni di un neonato sono globali, cioè grezze e indifferenziate (sincretismo). A poco a poco, gli stimoli vengono distinti l'uno dall'altro. Intanto, grazie all'integrazione, a mano a mano che si operano le differenziazioni, gli stimoli così distinti vengono raggruppati costantemente in insiemi funzionali che assicurano la pertinenza dell'azione (sintesi). Ma è attraverso le sintesi successive rese necessarie dall'attività, che progressivamente si sviluppano le differenziazioni. La tendenza all'integrazione è un aspetto fondamentale di ogni crescita fisica e mentale: essa permette di realizzare l'adeguamento dell'azione alle intenzioni dell'individuo.
d) Educazione e psicologia
Vivere significa crescere, ma anche, e forse soprattutto, ‛imparare'. La grande differenza tra l'animale e l'uomo è che, mentre nel primo la crescita è contenuta nei suoi propri limiti, nell'uomo l'ampiezza degli apprendimenti che vengono ad aggiungersi alla sua natura è praticamente illimitata. Nei suoi rapporti con l'educazione, la psicologia è in sostanza riconducibile allo studio dell'apprendimento o learning.
Natura del learning. - L'individuo reagisce come un tutto alle influenze esterne, e i diversi tipi di learning sono strettamente connessi gli uni agli altri: una reazione intellettiva si accompagna a una reazione affettiva, l'acquisizione di una capacità psicomotoria è legata a comportamenti di tipo nuovo sul piano dell'adattamento sociale, una tecnica d'azione non resta senza influenza sugli interessi e gli ideali.
Alcuni esempi illustreranno l'ampiezza di questo concetto: è apprendimento imparare ad andare in bicicletta, a nuotare, a giocare a bridge o a tennis; è apprendimento imparare una poesia di Victor Hugo o la serie dei re di Francia; è apprendimento imparare a ‛capire' il senso di parole come ‛mitosi', ‛Dio', ‛democrazia', ‛guerra', ecc.; si apprende ad avere paura, ad avere fiducia, ad essere coraggiosi o timidi; si apprende a seguire un ideale politico, sociale o religioso; si apprende l'egoismo o l'altruismo, l'odio o l'amore: si apprende ad avere un interesse, una motivazione per questa o quell'azione, per questa o quella persona, ecc.
Tutti questi esempi, per quanto differenti, hanno dei tratti in comune: il risultato, cioè l'apprendimento, è ottenuto attraverso una certa forma di attività nella quale l'organismo si indirizza ad un fine, cosciente o meno, tenta di uscire da una situazione, di risolvere un problema. Inoltre, questo risultato modifica l'organismo, la situazione psicologica dell'individuo; quest'ultimo sarà ‛altro' da ciò che era prima. Si può dunque definire il learning come una modificazione del comportamento realizzata attraverso la ‛soluzione' di un problema posto all'individuo dalle relazioni con il suo ambiente.
Il problema è insieme vasto e complesso. Tutto ciò che noi viviamo, nelle infinite situazioni della nostra esistenza, è generatore di learning. Soltanto l'abitudine, cioè la ripetizione di gesti identici in situazioni identiche, limita il ruolo del learning. Man mano che si accentua il dinamismo in cui viviamo, un atto qualsiasi è sempre in larga misura unico, la risposta a uno squilibrio nuovo e originale realizzato dal gioco degli elementi del campo culturale. L'educazione moderna si propone perciò di ridurre il ruolo dell'abitudine agli indispensabili atti di ordinaria amministrazione, e di sviluppare gli ‛apprendimenti', cioè la possibilità di un continuo superamento di ciò che è acquisito.
I limiti del learning. - Possono venire raggruppati nel modo seguente. ‛Limiti fisiologici': ogni attività mette in movimento meccanismi anatomici e fisiologici i cui limiti non possono essere superati: tempo di reazione, forza muscolare, risorse energetiche, maturazione, ecc. Non si insegna a un bambino di tre anni a giocare a tennis, non si può imparare a saltare oltre una certa altezza. ‛Limiti motivazionali': dal punto di vista pedagogico sono i più importanti. Lo scarso rendimento scolastico è dovuto spesso ai limiti di motivazione più che a limiti di attitudine e di capacità. Si tratta di ‛limiti pratici': la maggior parte delle volte noi ci accontentiamo di un limite che ci basta per risolvere i nostri problemi al livello che abbiamo scelto. Nella vita scolastica e nella vita professionale, questo limite ‛calcolato' è banale e frequente. Ne risulta quindi che uno dei compiti essenziali dell'educazione, è quello di elevare il livello motivazionale.
La motivazione. - Tutte le teorie del learning (che non è il caso di esaminare in questa sede) mettono in evidenza quello che è forse l'aspetto più importante da affrontare. Tutti i processi, di qualsiasi natura essi siano, sono inoperanti, e sarebbero caotìci senza una ‛motivazione', cioè senza una ragione che spinga ad agire, o uno scopo da raggiungere che mobiliti e orienti il comportamento.
Problema fondamentale, ma delicato e difficile. Per esempio: il desiderio di dominio, può essere soddisfatto in mille modi, connessi alle condizioni personali, sociali, affettive, di ciascuno: uno desidererà diventare ufficiale o poliziotto, un altro manovrerà un bulldozer o guiderà una macchina di grossa cilindrata; un terzo simulerà una crisi cardiaca. Un identico comportamento, in persone diverse o in momenti diversi della vita di una stessa persona, si spiegherà con motivazioni diverse e addirittura opposte. Amare gli animali può rappresentare il surrogato di una carenza affettiva o della mancanza di figli, può essere un mezzo per rispondere a un cattivo adattamento sociale, a un desiderio di dominio, o può esprimere un interesse reale, una vocazione.
L'individuo cerca di realizzare il proprio equilibrio. Ma questo concetto di omeostasi, semplice e chiaro a livello elementare, diventa sempre più complesso, man mano che si sale nella gerarchia dei bisogni. Per esempio, l'uomo non smette necessariamente di mangiare, quando non ha più fame; ci sarà chi mangerà fino a star male, e chi farà lo sciopero della fame. Nell'uomo vi sono dunque dei bisogni acquisiti o secondari, mediati e molto sottili, che dominano i bisogni primari, e che realizzano delle sintesi dinamiche estremamente sfumate. Il concetto di equilibrio resta valido ma, assumendo valori psicologici, morali o sociali complessi, esso può tradursi nel desiderio di lanciarsi entusiasti all'assalto di una postazione di mitragliatrici, o di rintanarsi in trincea per conservare un padre ai propri figli. Una squadra di calcio che ha segnato tre goal, e dispone di un discreto margine di sicurezza può continuare con entusiasmo la partita per schiacciare l'avversario (drive-stimulating), oppure limitare al minimo i propri sforzi (drive-reducing).
Questi esempi, che si potrebbero moltiplicare, mostrano che è piuttosto difficile formulare una spiegazione valida per tutti i casi. Va da sé che il contesto culturale e sociale, l'ambiente più immediato o più lontano, le circostanze particolari, i learnings acquisiti precedentemente, le disposizioni momentanee intervengono nel sottile gioco delle motivazioni.
Dal punto di vista educativo, è forse il problema principale. Fare agire il bambino, significa conoscere le sue motivazioni originali, piegarle e svilupparle nel senso delle esigenze della cultura. Fin dal suo ingresso nella scuola, le motivazioni del fanciullo sono già state fortemente influenzate dall'ambiente familiare e sociale; si è creata in lui una complessa gerarchia di preferenze, di orientamenti, di desideri, di paure, di ansietà, di atteggiamenti e di interessi. Partendo da questi presupposti bisogna condurlo ad acquisire un bagaglio motivazionale che gli permetta di realizzare gli obiettivi dell'educazione. Si può dunque affermare che quest'ultima non ha come scopo unico e prioritario l'acquisizione di conoscenze, ma forse soprattutto quello dell'acquisizione di moventi, aspirazioni, ideali conformi alle esigenze della nostra società.
Nella prospettiva di questa dinamica delle motivazioni, l'educazione moderna ha due preoccupazioni fondamentali. La prima è che, invece di partire dal sapere dell'adulto e di trasmetterlo al bambino, è meglio partire dal bambino. Tenendo conto delle sue specifiche reazioni, del modo in cui risponde alle diverse situazioni, lo si condurrà poco a poco al più compiuto e più valido livello di formazione possibile. La seconda, che è il corollario della prima, è quella di fare in modo che le motivazioni del bambino siano armonizzate con le esigenze dell'educazione. In altri termini, bisogna mobilitare e utilizzare queste motivazioni nel senso definito da una filosofia dell'educazione. A questa preoccupazione fondamentale risponde l'idea, lanciata da R. Havighurst, dei compiti di sviluppo (developmental tasks) (v. Havighurst e Neugarten, 1957). Si tratta di trovare, per ogni età e per ogni momento, delle attività che, pur rispondendo alle possibilità e agli interessi del bambino, si collochino nella linea generale dei bisogni della società. Questo concetto respinge dunque tanto la pedagogia formalista, che si pone deliberatamente al di fuori dell'ambiente, quanto la pedagogia anarchicheggiante e sterile del rispetto incondizionato del bambino. Esso utilizza ed esplica la nozione di motivazione, ma la supera in quanto tiene presente l'indispensabile evolversi di queste motivazioni, che debbono, alla fin fine, coincidere con le esigenze culturali dell'ambiente.
I differenti livelli e ambiti del learning. - In questa sede possiamo solo accennare a questi diversi ambiti, segnalando, occasionalmente, alcune importanti implicazioni pedagogiche.
1. Lo sviluppo delle capacità psicomotorie. La possibilità di rispondere alle molteplici richieste dell'ambiente dipende, in larga misura, dall'acquisizione di un gran numero di capacità psicomotorie. Queste ultime forniscono all'individuo una maggiore efficienza; creano fiducia e stima di sé; contribuiscono in larga misura allo status sociale dell'individuo e sono fonte di profonde soddisfazioni.
Anche qui la motivazione è decisiva. Nella vita, noi generalmente acquistiamo le capacità motorie per le quali siamo motivati. La scuola dovrebbe non perdere di vista il fatto che le acquisizioni di questo genere sono troppo spesso avvertite dall'alunno come costrizioni di cui non prova, o non prova ancora, il bisogno.
2. Lo sviluppo della percezione. La percezione è alla base di tutti i learnings. La conoscenza che veniamo acquistando del mondo esterno e di quello interiore, si fonda interamente sulla percezione. Ora, la percezione si sviluppa con l'attività, il che significa che noi percepiamo, qualitativamente e quantitativamente, ciò che ci è necessario percepire per vivere. Non siamo lastre fotografiche, ma piuttosto cineasti che cercano e creano immagini. La percezione ha inizio e si definisce dall'individuo e non dall'ambiente. Noi vediamo ciò che vogliamo vedere e, ciò che vediamo, lo organizziamo in schemi che corrispondono ai nostri orientamenti e ai nostri bisogni di agire. Il che significa che gli esercizi sistematici di osservazione, praticati a scuola, sono inutili nella misura in cui non sono accompagnati da motivazioni, che è invece compito della scuola far maturare e sviluppare.
3. Lo sviluppo della memoria. La memoria costituisce un serbatoio indispensabile dal quale attingiamo gli elementi della nostra azione. Ma, per assicurare la qualità e la quantità di questa riserva, sono necessarie determinate condizioni: è importante rendere significativo il materiale da ricordare, aiutare l'alunno a comprendere ciò che questo materiale significa, per poterlo inserire in insiemi concettuali e funzionali che ne assicurino valore e solidità, collegarlo alla sua precedente esperienza, cioè moltiplicare le connessioni associative, interpretarne le possibilità di utilizzazione per l'avvenire. Evitare quindi l'imbottimento sistematico del cervello e, soprattutto, non far memorizzare cose che non servono a nulla, con il pretesto di ‛esercitare la memoria', ma far applicare quello che è stato memorizzato, in modo da dargli un significato dinamico.
4. Sviluppo della comprensione. Mentre la percezione ‛mela' è connessa a un oggetto materiale e determinato, il concetto ‛mela' si è innalzato al di sopra della realtà ed ha assunto un'esistenza specifica, indipendente da ogni relazione diretta con la realtà: è quindi suscettibile di una utilizzazione incondizionata. I nostri concetti sono la comprensione che acquisiamo di taluni aspetti generalizzati di numerose esperienze.
Realizzare la comprensione è uno dei compiti più importanti della scuola. Comporta l'arricchimento dell'esperienza con la differenziazione e l'analisi, come anche con la sintesi dei dettagli in unità strutturate. Il linguaggio è un ausiliario indispensabile per l'arricchimento della comprensione. La parola è, secondo l'espressione di P. Janet, una specie di paniere che raccoglie e raggruppa tutti gli elementi costitutivi di un concetto. Il valore di una parola, la sua ricchezza e la sua pertinenza dipendono dalle esperienze personali di ciascuno. Il vuoto verbalismo è una delle piaghe della nostra vita intellettuale. Bisogna mettere il bambino a contatto diretto con le cose che studia, senza dimenticare che, anche qui, l'attività è fondamentale. Bisogna impegnare il bambino in diverse forme di attività reali, per permettergli di sviluppare, nelle migliori condizioni di autenticità, la comprensione del suo ambiente fisico e umano.
5. La soluzione di problemi (problem-solving). Il lavoro mentale che elabora e mette a frutto le acquisizioni precedenti in vista della soluzione di un nuovo problema può essere considerato come la sintesi, il coronamento e il vertice delle funzioni psicologiche. Sotto l'influsso diretto, selettivo e stimolante di un problema, vale a dire di una situazione di disagio, l'individuo mette in moto le sue conoscenze, le sue capacità, le sue percezioni e i suoi concetti, con l'obiettivo di risolvere la difficoltà. Così facendo, va al di là di ciò che è, realizza una nuova acquisizione, modifica il suo modo di essere. In breve, è attraverso la soluzione di problemi che l'uomo può affrontare situazioni inedite, per le quali le soluzioni preesistenti si rivelano insufficienti e inadeguate.
Ed è questo il compito essenziale dell'educazione, giacchè all'adattamento di cui la società tradizionale si reputava paga, si deve sostituire l'‛adattabilità' che l'attuale evoluzione del mondo esige.
È molto importante sottolineare come non sia il problema in quanto tale che ‛motiva' e dirige il processo, ma il disagio, la sensazione di difficoltà o di curiosità che prova l'individuo, il suo desiderio di uscirne. Ora, ‛sentire' certi problemi non è proprio di tutti gli individui, ma è il risultato dell'educazione. Si può educare la mente al conformismo, alla sottomissione, alla mancanza di curiosità, e fare così in modo che essa eviti di ‛pensare', che si accontenti di utilizzare e di applicare i risultati di un pensiero precedente, cioè di adottare, senza spirito critico, le situazioni, i fatti, le opinioni e i giudizi altrui. La prima condizione della scienza e del progresso è la curiosità, l'inquietudine, il dubbio che mette in discussione ciò che è ammesso o constatato.
Questo obiettivo, per essere raggiunto, deve tener conto di tre fattori indispensabili: a) la maturazione; è necessario che le situazioni ed i fatti che vengono presentati ai bambini, siano appropriati al loro livello di sviluppo, se non si vuole creare un comportamento cieco, la capitolazione o la frustrazione; b) l'esperienza personale; le esperienze precedenti hanno fornito un bagaglio di tecniche e di informazioni indispensabili; c) l'acquisizione intelligente dei fatti d'informazione. La scuola deve essere una specie di laboratorio in cui vengono realizzate esperienze pertinenti all'individuo stesso. Quello che Kerchensteiner esprimeva opponendo l'Erfahrungswissen al Buchwissen. Il pensiero è quindi un'attività, ed è risolvendo dei problemi che noi impariamo a risolverne altri. Ciò condanna la semplice memorizzazione e i problemi immaginari che, tanto spesso, imperversano ancora nelle nostre scuole.
6. Lo sviluppo della vita affettiva. La parola ‛emozione' probabilmente è tanto vaga e ambigua quanto la parola ‛istinto' ed esprime una gran varietà di cose. Per un verso, emozione può significare ‛odio' o ‛paura' e orientare il comportamento verso la lotta o la fuga. Per un altro, può significare ‛amore' o ‛entusiasmo'. Può costituire uno stato transitorio o un interesse momentaneo che spinge l'individuo verso un oggetto o una persona. Può essere un sentimento relativamente calmo e stabile, come la simpatia per una persona, o un sentimento intenso e violento, come la paura paralizzante durante un bombardamento.
La personalità - in misura molto più vasta di quanto non immagini una psicologia rimasta razionale - dipende, nella sua struttura e nelle sue reazioni, dalle predisposizioni e dalle situazioni affettive. Il carattere e il comportamento sono legati a forme altamente dinamiche di attività, quali la frustrazione, l'insicurezza, la gioia o il dolore, la fiducia o la sfiducia. La sanità mentale di un individuo, il suo adattamento sociale, la sua stessa intelligenza, sono direttamente connessi alla sua vita emotiva.
In larghissima misura, l'emozione cade sotto la giurisdizione dell'educazione; l'attività emotiva è il risultato del learning; essa ha la sua storia che l'esperienza può indirizzare e modificare.
7. Lo sviluppo sociale. Lo sviluppo della socialità è strettamente legato allo sviluppo mentale e allo sviluppo affettivo. Per esempio, l'acquisizione delle ‛risposte agli altri' è determinata dallo sviluppo della capacità di distinguere tra le persone e tra gli oggetti, tra i gesti, i suoni e i movimenti che hanno un significato oggettivo, e quelli che hanno un significato sociale. Essa appartiene quindi insieme alla sfera fisiologica, a quella mentale e a quella sociale della crescita e dell'apprendimento. Questa interazione si evidenzia soprattutto nel linguaggio che include simboli intellettuali, e opera come potente mezzo di relazione e di comunicazione fra gli individui. Allo stesso modo, è impossibile separare comportamento sociale ed affettivo; la gelosia, l'odio, l'affetto, l'omeostasi emozionale, sono tanto sociali quanto individuali.
Uno dei problemi fondamentali dell'educazione contemporanea è quello della relazione tra socializzazione e individualizzazione. In concreto questi due obiettivi, lungi dall'essere contraddittori, sono complementari. Proprio tramite i contatti sociali e la partecipazione alla vita collettiva, il bambino sviluppa la sua capacità di affermarsi, di realizzarsi nella sua unicità. Senza la necessità di porsi ‛di fronte', e talvolta ‛contro', l'individuo resta amorfo e senza personalità. Crescendo, diventa via via maggiormente capace di inserirsi in ‛forme' sempre più diversificate e sempre più complesse di condotta sociale, di cooperare ed associarsi ad altri in attività comuni per obiettivo se non per modalità, di percepire i desideri degli altri, di identificarsi con gli interessi di una comunità sempre più vasta e di sentirsene compartecipe. Ma allo stesso tempo, a livelli diversi e in forme molteplici e varie, egli manifesta una certa resistenza, è sensibile ai propri interessi, acquisisce l'idea della propria realtà nel quadro di una realtà molto più vasta, dedica la propria energia e il proprio pensiero alla salvaguardia dei suoi diritti individuali, che elabora e costruisce poco a poco, e di cui prende sempre meglio coscienza secondo le vicissitudini delle sue esperienze sociali. L'educazione può e deve qui svolgere un ruolo rilevante insistendo sull'autenticità dei due obiettivi perseguiti e sulla loro necessaria interdipendenza. La società varrà quello che varranno gli individui che la compongono. Questi due tipi di condotta, definiti rispettivamente other-centered e self-centered, comportano, da un lato, livelli differenziati di pensiero e di azione collettiva in una prospettiva consapevolmente accettata dagli individui, dall'altro, livelli differenziati di affermazione di sé e di individualizzazione.
8. Lo sviluppo degli atteggiamenti e degli ideali. Tra le tendenze, gli impulsi, gli inviti all'azione e le molteplici disposizioni che rientrano nel learning, bisogna dare un ampio spazio agli atteggiamenti e agli ideali.
L'atteggiamento è una disposizione orientativa che può agire in situazioni molto diverse e che provoca forme di condotta diverse. Esso esprime un orientamento generale del comportamento (come l'atteggiamento scientifico o cooperativo), o una specie di mobilitazione della personalità in un senso determinato nei confronti di certe categorie di oggetti o di persone (atteggiamento razzista, femminista).
L'educazione deve creare nel bambino, tramite l'imitazione, attraverso esperienze informative o emotive, intellettuali o sociali, degli atteggiamenti positivi, eliminando gli altri. Noi viviamo in un mondo le cui condizioni mutano rapidamente. Bisogna quindi preparare i giovani alle modificazioni e agli adattamenti indispensabili nella linea di un atteggiamento democratico. Bisognerebbe sviluppare i seguenti atteggiamenti: spirito di cooperazione, obiettività, lealtà, tolleranza, rispetto degli altri, senso di responsabilità, spirito critico.
Per quanto riguarda l'ideale, esso include l'idea di un fine da raggiungere. Il carattere più o meno esteso del valore di un ideale dipende dalla misura in cui l'individuo ha generalizzato il proprio concetto di fine, e ne comprende la portata. Si può avere l'ideale dell'onestà in determinati campi, e non in altri. La creazione degli ideali implica dunque contemporaneamente lo sviluppo di un concetto o di una ‛comprensione' e lo stabilirsi di una motivazione in armonia con tale concetto (concetto di ‛patria' e desiderio di realizzarlo). Conoscere la virtù non significa necessariamente praticarla e volerla. Si potrebbe addirittura pensare che l'ideale sia semplicemente un atteggiamento che si è elevato, attraverso la generalizzazione e la motivazione, oltre l'automatismo, per diventare una coscienza degli obiettivi e un'organizzazione dei mezzi per realizzarli.
e) Educazione e sociologia
Considerazioni generali. - Abbiamo detto che l'educazione è una funzione sociale. Fin dalla nascita, il bambino è coinvolto in una trama estremamente complessa di influssi che hanno lo scopo di condurlo al livello culturale richiesto. Buona parte dell'azione cui è sottoposto il bambino è inconsapevole e non intenzionale; è il risultato semplice e immediato del contatto diretto con l'ambiente, con la vita nella molteplicità delle sue forme e delle sue attività, con il linguaggio, gli usi e i costumi, i modi di vivere e di pensare, le strutture familiari, sociali, istituzionali, economiche, ecc.
Una distinzione spesso accettata è quella che oppone le forme ‛naturali' d'educazione a quelle ‛artificiali'. La famiglia rientrerebbe nel primo tipo, la scuola nel secondo. Tuttavia, le cose sono lungi dall'essere così semplici. È del tutto evidente che se il ruolo della famiglia è, essenzialmente, un ruolo inconsapevole e spontaneo, resta il fatto che, in parecchi casi, la famiglia si prefigge deliberatamente degli obiettivi educativi. D'altra parte - e lo studio del learning ce lo ha mostrato chiaramente - se la scuola sembra essere il modello perfetto dell'istanza educativa, la cui intera struttura è stata concepita in funzione di un obiettivo fissato chiaramente, essa tuttavia pone in essere svariati apprendimenti che sfuggono al suo controllo, che non si iscrivono nelle sue prospettive e che possono costituirne la negazione.
A conti fatti, ciò che importa è conoscere i rapporti di armonia o di conflitto, di collaborazione o di opposizione tra queste forme diverse. Bisogna sottolineare che queste ‛forme' educative tendono a cristallizzarsi, e che in generale sopravvivono, con le loro pretese, alle realtà che hanno giustificato il loro ruolo e il modo con cui lo hanno assolto. Esse sono spesso un elemento di stabilità e di conservatorismo rispetto al movimento generale che anima la società. La cosa è ovvia per le forme artificiali. È del tutto evidente che le nostre scuole odierne non rispondono più, né nell'assetto delle classi (banchi messi uno dietro l'altro, cattedra del maestro), né nei loro metodi (troppo spesso ancora coercitivi e cattedratici), né nei loro programmi angusti e limitati, alle esigenze educative della nostra epoca. Ma le cose non stanno poi molto diversamente se osserviamo le ‛forme naturali'. La famiglia continua a organizzare la sua azione educativa su principî che hanno perduto buona parte del loro significato. Il padre e la madre non rappresentano più l'intera ‛saggezza' e ‛conoscenza'. Al giorno d'oggi, le cose vanno molto in fretta e lo scarto tra le generazioni si accentua di giorno in giorno al punto da rendere legittima l'affermazione che se vi è una educazione dei figli da parte dei genitori, vi è anche, in molti campi, una educazione dei genitori da parte dei figli. È necessaria, come si comprende, una notevole capacità di adattamento, una profonda revisione delle prospettive e dell'atmosfera familiare, una disponibilità che, il più delle volte, la stessa ragione è incapace di realizzare. ‟Purché - diceva O. Bachelard - i nostri figli siano diversi da quel che siamo noi!". Quale padre di famiglia è capace di assumersi le conseguenze pratiche di una simile ambizione?
Le diverse ‛forme' educative (Erziehungsformen). - 1. Problematica delle relazioni madre-figlio. La relazione madre-figlio è la forma più naturale, più basilare dell'azione educativa. Se viene a mancare e non c'è nulla che ne prenda il posto, il bambino viene privato di una ricchezza insostituibile. L'educazione non è, in prima istanza, un'arte o una scienza, bensì una realizzazione diretta della vita: si inserisce nella quotidianità, mettendone a frutto tutta la ricchezza e la duttilità.
Tuttavia esiste una problematica dell'educazione materna. I rischi possono essere raggruppati in due categorie. In primo luogo, la ‛soggettività materna'. Per la madre, il figlio non è qualcosa di estraneo, ma è l'estensione e il prolungamento del proprio ‛io'. Ora, l'educazione è l'adattamento all'insieme delle condizioni dell'ambiente umano. Bisogna quindi che le madri siano consapevoli del pericolo che costituisce questa difficoltà a porsi in un atteggiamento distaccato. Vi è poi, come conseguenza, l'‛istinto materno di possesso'. La madre ha la tendenza ad accaparrarsi il bambino, a riservarlo per sé, mentre dovrebbe permettere che egli realizzi a poco a poco la propria indipendenza e personalità, diversa e talvolta opposta alla sua.
2. La famiglia. Qualunque sia l'importanza che rivestono, le relazioni madre-figlio fanno parte di un insieme organizzato, in quella trinità uomo-donna-bambino che costituisce un'unità biologica e spirituale indispensabile.
L'attuale problematica della famiglia comporta due a- spetti, del resto complementari, e cioè, da una parte lo sviluppo e il crescente complicarsi della civiltà e delle sue esigenze, che riducono notevolmente le possibilità educative della famiglia; dall'altra, e per ragioni molteplici, la famiglia subisce una disgregazione e una degradazione rilevantissime. La sua struttura, le relazioni che uniscono i suoi diversi membri, la sua atmosfera, il suo modo di comportarsi e di pensare subiscono mutamenti a volte notevoli che pongono in termini molto diversi la sua missione e le sue risorse educative. Si può dire, grosso modo, che gli ambiti di vita del padre, della madre e dei figli non sono più dei cerchi concentrici, ma diventano sempre più dei cerchi eccentrici che coincidono e si intersecano sempre meno.
Resta tuttavia il fatto che il ruolo della famiglia è ancora unico. A causa dell'immaturità del bambino e dell'alto grado di carica affettiva che comportano le relazioni da lui create, gli insegnamenti appresi dal bambino in seno alla famiglia sono profondi e durevoli. La famiglia dev'essere considerata come un elemento di stabilità; è essa che dà il senso della tradizione, quel senso di appartenenza su cui si innesteranno, poggeranno e fioriranno le concezioni proprie dell'individuo.
3. Il gruppo dei ‛coetanei' e la comunità di gioco. La madre e i familiari non possono essere gli unici compagni del bambino. In effetti, comunque si comportino, allontanano le reali difficoltà che insorgono tra il bambino e l'ambiente; restano su un piano diverso, e il bambino acquisisce la sua esperienza soltanto in condizioni sfavorevoli, causate dalla coscienza di essere piccolo, dalla coscienza della sua inferiorità, come anche da una sicurezza di tipo ‛asettico'. Un bambino, che è in contatto soltanto con adulti, rischia o di restare allo stadio dell'infantilismo, della dipendenza, o di invecchiare anzitempo, o ancora di diventare, per compensazione, autoritario.
È opportuno che il bambino abbia l'occasione di svilupparsi e di affermarsi in attività nelle quali sia associato a dei coetanei. Grazie ad essi, svilupperà le proprie forze secondo il proprio ritmo, in tutta la gamma delle sue possibilità.
Nel gruppo dei suoi coetanei, il bambino dispone di una grande libertà; egli può esprimere i suoi atteggiamenti, i suoi giudizi; può compiere scelte più personali e organizzare in modo naturale le sue relazioni con gli altri. Il gruppo insegna dunque al bambino, tramite la sua stessa vita, comportamenti diversi da quelli della famiglia; esso permette al bambino di emanciparsi dagli adulti, di realizzarsi in condizioni di maggiore autenticità. Allo stesso tempo, costituisce un'importante fonte di informazione. Vi si discute di tutto e di niente, e anche se tali informazioni sono sbagliate o superficiali, hanno il grande merito di allargare il campo degli interessi e di costituire una base assai ricca su cui la scuola potrà innestare la sua azione.
Al gruppo dei coetanei e alla comunità di gioco vanno aggiunte le organizzazioni giovanili. A questo proposito, va sottolineato come esse siano essenzialmente una manifestazione della civiltà urbana, e come rispondano al prolungarsi dell'adolescenza ‛sociale' nel mondo moderno. Create nella maggior parte dei casi dagli adulti, o dalle istituzioni che si interessano all'avvenire dei giovani (chiese, sette religiose, partiti politici, governi, ecc.), uno dei paradossi del loro sviluppo è che, istituite con l'obiettivo di assicurare la continuità ideologica delle istituzioni organizzatrici, esse manifestano spesso un'indipendenza di spirito che compromette le speranze e le prospettive di coloro che le dirigono. Fatta eccezione per i paesi totalitari, dove entra in gioco l'elemento costrittivo, queste organizzazioni raggruppano soltanto una minoranza della gioventù e il loro successo è piuttosto limitato, momentaneo e assai precario.
4. Le istituzioni e gli organismi comunitari.
A) Le Chiese. Le Chiese protestanti distinguono tra la formazione religiosa e morale impartita dalle comunità religiose, e la formazione intellettuale data dalla scuola. Sebbene da un paese all'altro e a seconda delle diverse configurazioni ideologiche e politiche vi siano grandi differenze nell'atteggiamento verso la scuola, si può dire che, nella maggior parte dei nostri paesi occidentali, dove i protestanti sono una minoranza, questi ultimi hanno difeso il principio della scuola pubblica e aconfessionale aperta a tutti i bambini. Nei paesi in cui sono una maggioranza, essi aderiscono alla scuola ufficiale; che, per quanto pubblica nel suo statuto amministrativo, resta tuttavia confessionale nelle sue aspirazioni e nei suoi fondamenti filosofici e morali. Quanto alla Chiesa cattolica, essa si fonda, nella sua azione, sui principî dottrinali affermati dalle diverse encicliche. L'educazione viene definita come un impregnare di ispirazione cristiana tutta la formazione del bambino, in modo particolare la sua istruzione scolastica. Prendendo l'essere umano fin dalla nascita, la Chiesa crea tutta una rete di istituzioni (consultori materni, asili nido, associazioni giovanili, sindacati professionali) e di scuole a tutti i livelli, dalla scuola materna fino all'università, compresi i diversi tipi di scuole professionali.
Tuttavia bisogna notare che fino a Leone XIII si è fatta una distinzione tra educazione cristiana e istruzione. Il testo che rivendica alla Chiesa il diritto di fondare scuole non è accompagnato dalla citazione di alcun precedente storico. La Chiesa ha rivendicato questo diritto per la prima volta ufficialmente (v. Foulquié, 1947) nel 1917, promulgando il Codex juris canonici. Man mano che l'evoluzione del mondo e delle idee che lo muovono dà alla formazione laica uno spazio sempre maggiore e una importanza sempre più determinante nel comportamento degli individui, la Chiesa, potenza morale e sociale, è costretta ad adottare una politica conforme alla responsabilità che essa vuole assumere nella guida del mondo.
B) Le istituzioni economiche. Socializzare il bambino significa, in larga misura, insegnargli ad inserirsi nella vita economica.
La formazione professionale e la professione stessa esercitano su tutti gli uomini un'azione educativa molto potente, e al contempo costituiscono una parte rilevantissima della loro esistenza. Noi studiamo o lavoriamo in vista di esse; sia che si tratti del mestiere di avvocato o di quello di medico o di meccanico o di agricoltore, ciò che quotidianamente facciamo per guadagnarci la vita e giustificare il nostro posto nella società, gli studi che scegliamo, le preoccupazioni e gli orientamenti del nostro mestiere, le persone con le quali lavoriamo ed entriamo così in contatto, le possibilità di promozione che abbiamo, tutto ciò determina e plasma profondamente le nostre abitudini fisiche, intellettuali e morali.
L'influsso della professione agisce fin da quando ci prepariamo ad essa e da quando il nostro avvenire professionale entra nell'orizzonte delle nostre prospettive per il futuro e diviene l'obiettivo dei nostri sforzi. A tale proposito, vanno fatte due osservazioni: in primo luogo, è proprio di una psicologia deteriore determinare prematuramente l'avvenire professionale dei giovani. Tutto lo sviluppo può essere compromesso da questa scelta che isterilisce le possibilità di sviluppo e compromette il valore dell'intera esistenza. In secondo luogo, le aspirazioni professionali dei giovani, che si manifestano e scompaiono nelle diverse età, secondo vere e proprie leggi (tramviere, ufficiale, pilota, esploratore), devono essere prese in seria considerazione da parte dell'educatore. Non perché s'intende, esse esprimano eventuali interessi autentici, che andrebbero dunque soddisfatti, ma perché manifestano aspirazioni e ambizioni rivelatrici di determinati ‛momenti' dello sviluppo psicologico.
C) I mass media. Le tecniche di diffusione collettiva, mezzi di comunicazione e di ricreazione, occupano, nel XX secolo, un posto assai considerevole nella vita di tutti, giovani o vecchi. Esse agiscono in larga misura sul nostro modo di pensare e di agire, occupano e spesso orientano il nostro tempo libero, ci forniscono insieme informazioni e opinioni, cioè sia i fatti sia una determinata presentazione e interpretazione di essi. In breve, ci condizionano in misura difficile da valutare, ma che, probabilmente, è molto più grande di quanto non siamo disposti ad ammettere. Si deve riconoscere che tutti i mass media costituiscono i mezzi che la società o determinati gruppi che la rappresentano o la dirigono utilizzano per comunicare ed esprimere i propri punti di vista in una specie di circuito chiuso, i cui diversi ‛momenti' si rafforzano a vicenda. In generale, essi seguono l'opinione corrente piuttosto che forgiarla, ma esplicitandola e precisandola la rafforzano, ne fissano e ne accentuano le caratteristiche, realizzando a poco a poco una specie di generale conformismo, una unanimità nei confronti di certi valori e di certi atteggiamenti.
L'influenza socializzante del cinema è considerevole, anche se ancora non perfettamente nota. È certo, ad esempio, che gli attori e le attrici celebri rappresentano, per la maggior parte degli adolescenti, degli idoli e dei modelli da imitare. Inoltre, fino agli anni più recenti (e fatta eccezione per qualche film non commerciale, di limitata risonanza presso il pubblico), il cinema resta l'espressione di un conformismo sociale, morale e politico; spesso esso si pone al servizio di valori, di pregitidizi, di ideali, che sono la sostanza dell'ideologia della nostra società.
Dopo tutto, l'influenza del cinema sui giovani non è perfettamente nota e gli studi ad esso dedicati conducono a risultati piuttosto confusi e spesso contraddittori. Sembrerebbe che l'impressione esercitata dipenda in larga misura dallo stesso spettatore, dalla sua educazione, dalla sua condizione di vita. D'altro lato, il cinema può essere un potente mezzo di compensazione delle frustrazioni e un efficace sfogo per gli istinti di aggressività e di violenza.
Gli stessi problemi si pongono per la radio e la televisione. Considerando l'aspetto positivo, va sottolineato l'apporto considerevole alla cultura in tutti i suoi aspetti: musica, teatro, corrispondenza, inchieste, documentari, lezioni e conferenze. Dal lato negativo: la mediocrità di troppi programmi; lo spazio considerevole che sottraggono al lavoro, alla riflessione, e addirittura al sonno. Ma si tratta, come è evidente, di inconvenienti non inerenti alle caratteristiche tecniche in quanto tali, e alle quali si potrebbe facilmente porre rimedio.
I libri che leggono i bambini hanno un valore socializzante, oltre che ricreativo. In questi testi, generalmente, gli eroi vengono premiati e i cattivi puniti. Tuttavia, contrariamente a una opinione largamente diffusa, sembra che il carattere dei bambini sia in realtà ben poco influenzato dalle letture; in una società in cui il bambino ha numerose relazioni personali, ad alto coefficiente affettivo, con una grandissima varietà di individui dentro e fuori il quadro familiare, egli impara molto di più e in modo molto più profondo dalle persone con le quali vive che dai personaggi dei suoi libri.
Bisogna dare un posto importante ai comics, ai ‛fumetti', opere illustrate con un commento verbale ridotto al minimo. Il loro successo presso i giovani è straordinario, soprattutto nelle classi lavoratrici. Un'inchiesta di H. Zorbaugh, nel 1945, ha rivelato che durante la guerra del 1940-1945, più del 45% dei soldati dell'esercito americano leggevano regolarmente dei fumetti.
Si possono distinguere diversi tipi di fumetti, da quelli del genere Superman a quelli tipo Paperino, fino agli adattamenti degli autori classici e alle imprese degli eroi storici. I più contestati e più contestabili sono quelli che si potrebbero chiamare i fumetti del crimine e dell'orrore e i fumetti erotici che talvolta arrivano addirittura alla pornografia. Questi ultimi hanno forse un successo maggiore di quanto non si possa immaginare, perché il loro consumo resta spesso clandestino. Su di essi si sono accese aspre discussioni. Per alcuni, e fra essi degli psichiatri, si tratta di opere che incitano al crimine e alla corruzione. Per altri, esse, fornendo degli sfoghi sostitutivi agli istinti aggressivi e sessuali, possono rappresentare per i bambini una salutare liberazione da inibizioni. Il problema resta aperto. Rileviamo tuttavia che le inchieste condotte per chiarire i nessi tra la lettura dei fumetti e la delinquenza non hanno portato a nessuna conclusione valida.
Dopo aver passato in rassegna questi studi, P. Witty conclude: ‟Esaminati i risultati di queste ricerche, pochi sono quelli che oserebbero affermare che la scarsa diligenza a scuola [...] come pure la delinquenza trovino incentivo nella eccessiva lettura di fumetti o in ‛eccessi' di televisione. Lo studio dei casi (case studies) conferma questa impressione ed evidenzia soprattutto la straordinaria complessità delle cause del fallimento o della condotta aberrante" (v. Witty, 1962, p. 152).
Bisognerebbe parlare anche della stampa quotidiana o periodica, di cui è difficile contestare il ruolo notevolissimo nell'informazione e nell'educazione, cioè il ruolo svolto nel modellare gli individui, giovani e vecchi.
f) La scuola
Considerazioni generali. - La scuola è indubbiamente una delle più importanti componenti educative nella socializzazione del bambino e nella trasmissione della cultura. La sua nascita e il suo sviluppo sono associati allo sviluppo stesso delle società.
La storia della scuola è una delle più significative che vi siano. Qui ci limiteremo a contrapporre, schematicamente, le caratteristiche della scuola tradizionale alle esigenze di una scuola che prepari alle necessità del mondo moderno.
In complesso la scuola tradizionale trasmette dei ‛valori'. Per essa è doveroso portare il bambino a un livello di ‛assennatezza' e di conoscenza, che gli permetta di inserirsi nel posto che gli spetta, in un determinato contesto sociale. Di conseguenza, il metodo sarà essenzialmente cattedratico, dogmatico, deduttivo.
Essa sarà così una scuola della costrizione: costrizione nei programmi elaborati una volta per tutte; costrizione nei metodi che saranno essenzialmente passivi; costrizione nelle forme esteriori: edifici austeri chiusi al mondo esterno, orari e regolamenti rigidi, disciplina severa; costrizione fisica: braccia conserte, allineamento impeccabile nelle file.
Si tratta, in fin dei conti, di una pedagogia dello sforzo concepito come tensione della volontà verso ciò che, per il bambino, non ha alcun interesse.
La società tradizionale, che si può dire giunga fino alla metà del secolo scorso, si caratterizza per due tratti essenziali che si ritrovano costantemente, anche se con molteplici forme e sfumature, nei diversi ambienti storici. Da un lato, la fissità e la staticità, che dominano sia il mondo economico e sociale (85-90% del settore primario), sia il mondo intellettuale e morale (filosofia dell'assoluto). Dall'altro, la dicotomia: le strutture economiche impongono una differenziazione tra le classi che dirigono e le classi che eseguono, tra l'élite che pensa e le masse che lavorano.
Fino alla fine dell'Ancien régime, e anche parecchio dopo, il sistema educativo esprime questa situazione. Da un lato, un insegnamento popolare o elementare, dall'altro un insegnamento erudito. Tra queste due istituzioni non vi è nessuna relazione, nessuna comunicazione possibile, e del resto nemmeno auspicata: i destinatari e gli obiettivi sono diversi. E ancora oggi persiste tenace il pregiudizio di una opposizione e di una netta gerarchia tra queste due forme di insegnamento che, in origine, rispondevano a differenti finalità sociali. Questo pregiudizio si esprime soprattutto nella concezione che ci si fa ancora, troppo spesso, della cultura. Si fa un'accurata distinzione fra cultura e ciò che si considera una preparazione alla cultura; si contrappongono, cioè, secondo un modo di vedere che risale a Platone gli ‛strumenti' della ragione (che la scuola primaria avrebbe il compito di far acquisire) alla ‛ragione' stessa (che spetterebbe alla scuola secondaria educare).
Del resto è nella logica del sistema opporre l'educazione ‛liberale' (quella fatta per gli uomini ‛liberi') alla formazione professionale. Il tipo di educazione adatta a quelli che Aristotele chiamava gli ‛uomini liberi' è l'opposto di quello che prepara all'efficienza produttiva. Per questo stesso motivo si continuerà nel contrapporre le discipline cosiddette ‛culturali' a quelle ‛non culturali'. Le prime sono le antiche discipline del trivium, con l'aggiunta della matematica; le seconde quelle che, direttamente o indirettamente, rispondono all'azione sulle cose (v. Clausse, 1951).
Nel corso degli ultimi decenni la struttura dicotomica subirà profondi assestamenti che si tradurranno in estensioni e differenziazioni. Nella misura in cui si differenziano le attività umane, anche i tipi di insegnamento si diversificano, giacché la funzione pedagogica riflette le forme principali dell'attività sociale.
Ora, per un verso questa grande differenziazione, per l'altro il pesante retaggio di una pedagogia statica, per la quale insegnare significa ‛trasmettere un messaggio', hanno fatto del nostro sistema scolastico un'enorme macchina di selezione che penalizza chi non è stato favorito dalla sorte. L'uguaglianza di fronte all'istruzione, proclamata come una conquista democratica, è e resterà un'illusione, se non si tiene conto delle enormi differenze che derivano dagli influssi socio-economici, sia all'inizio, sia durante tutta la vita scolastica. Utilizzando ancora troppo spesso metodi essenzialmente cattedratici e autoritari, con esami fondati sulle conoscenze ufficiali acquisite e comprese, sanzionando e accentuando, ignorandole, le diseguaglianze di mezzi e di possibilità, l'educazione tradizionale si presenta come un elemento di stabilità sociale. Nella dinamica del mondo moderno, essa costituisce un freno al cambiamento (v. Clausse, 1972).
I problemi della scuola moderna o la rivoluzione pedagogica. - Un'autentica democratizzazione dell'insegnamento implica, come condizione necessaria se non sufficiente, che il sistema scolastico sia organizzato in modo tale da offrire a tutti gli individui i mezzi necessari per il massimo sviluppo delle loro possibilità. La democrazia è varietà e, lungi dall'escludere le differenze, trova in esse la sua efficacia e, attraverso di esse, realizza la propria etica. Non si tratta né di condurre ciascuno a una imprecisata ipotetica vetta della cultura, né di ridurre i suoi obiettivi per realizzare un livellamento egualitario. Ma l'inevitabile selezione che si produrrà dovrà rispondere a un certo numero di condizioni. Innanzi tutto deve essere progressiva ed è questo un punto su cui ritorneremo. Deve poi attuarsi non sulla base dell'estrazione sociale, ma su quella delle attitudini reali. Infine, le inevitabili gerarchie culturali non si tradurranno mai in una dicotomia definitiva; esse si organizzeranno in una continuità duttile, che permetterà a ognuno di collocarsi in un insieme di interdipendenze non statico bensì caratterizzato da un movimento costante.
Ma tutto ciò pone un certo numero di problemi. Innanzi tutto quello della ‛formazione generale e della specializzazione'. Ogni individuo deve potersi integrare in un mondo sempre più complesso che gli pone numerose domande cui egli deve poter rispondere. L'uomo contemporaneo, qualunque sia il suo livello professionale, deve acquisire i mezzi di questa integrazione attiva e delle responsabilità che gli competono.
Del resto, la dicotomia professionale, che opponeva le mansioni direttive a quelle esecutive, sta diventando sempre meno rigida, nel senso dell'intellettualizzazione delle attività a tutti i livelli e in tutti i campi. La differenziazione fra i quadri medi e i quadri superiori non è più sostanziale né definitiva; tende ad attenuarsi e ad essere rimessa costantemente in discussione. In tutte le professioni, e per ragioni evidenti, il livello di formazione richiesto cresce continuamente.
D'altronde, abbiamo un bisogno crescente di specialisti. Ora, la formazione, anche al livello professionale più specializzato, non è più una semplice iniziazione a un mestiere noto; essa è, per forza di cose, una costante messa a punto. Le esigenze stesse di una specializzazione, al con- tempo molto accentuata e molto mobile, impongono una base di cultura generale la più vasta possibile. Questa sarà quella riserva di materiale intellettuale da cui si potrà attingere a seconda delle necessità di una promozione e di una riconversione permanenti. Se poi si pensa al carattere interdisciplinare che assumono le scienze o le tecniche, se ne trarrà la conclusione che la specializzazione, lungi dall'essere l'apice di una linea verticale, deve essere il vertice di una piramide la cui base sarà tanto più larga, quanto più alta sarà la cima.
In linea con le trasformazioni che da qualche decennio a questa parte subiscono le strutture scolastiche, bisogna prevedere un'organizzazione che sopprima tutte le dicotomie, che faccia sparire tutte le difficoltà che, sulla base di scelte premature, limitano e orientano il destino degli uomini in modo arbitrario. In altri termini, invece di essere selettiva e di respingere nella mediocrità chi non risponde immediatamente alle sue sia pur discutibili esigenze, l'educazione deve diventare un ‛orientamento progressivo'.
Perciò il ruolo compensatorio della scuola deve esercitarsi fin dalla più tenera età. Bisogna quindi generalizzare la scuola materna e moltiplicare gli asili nido la cui importanza si afferma ogni giorno di più.
Sul piano psicologico, le differenze essenziali hanno in primo luogo un carattere globale, e soltanto a poco a poco i fattori generali di intelligenza riducono il loro peso a vantaggio delle predisposizioni particolari. Il processo di differenziazione delle attitudini è, secondo M. Reuchlin, simultaneo al processo di formazione del pensiero, ma, in questo tipo di sviluppo si possono constatare notevoli differenze individuali di precocità. Compito della scuola è quello di riconoscere e di trarre profitto da tutte le varietà di temperamento, da tutti gli orientamenti mentali, allo scopo di favorire uno sviluppo il più ricco possibile.
Così si impone la ‛scuola unica' o scuola di base, che accoglierà la ricca varietà delle attitudini e delle qualità individuali. Essa offrirà a tutti una varietà di attività e di metodi, che permetta a ciascuno di raggiungere, in via preliminare rispetto a ogni determinazione, il livello di sviluppo umano e di efficacia sociale più alto possibile. Creando in questo modo un ambiente pedagogico in cui ognuno possa trovare i mezzi per svilupparsi, secondo il modo che più gli si addice, si eviterà proprio quel livellamento verso il basso che giustamente si teme. Secondo la bella formula di L. Cros: ‟La vecchia scuola selettiva deve diventare per ogni bambino ciò che il prisma è per la luce, uno strumento che riveli e metta in risalto tutte le componenti della personalità" (v. Cros, 1970, p. 24).
Le difficoltà di una scuola di questo tipo sono organizzative. Non sono dunque decisive. Poiché l'obiettivo è quello di scoprire e utilizzare, nel senso culturale definito, le attitudini e le possibilità che ciascuno via via rivela, tutte le discipline, anche le più concrete, debbono venire utilizzate come strumenti al servizio dell'alunno. L'esperienza insegna come un'attitudine molto particolare e anche molto limitata (come quella per il disegno e per i lavori manuali) possa, se bene utilizzata, condurre a uno sviluppo culturale vastissimo, a condizione che tutte le discipline siano considerate come mezzi e non secondo la finalità oggettiva delle materie che comprendono. Tutte le strade portano a Roma, ma solo a condizione di non perdere di vista che Roma è la meta del viaggio.
Si possono prevedere diversi tipi di organizzazione, a condizione che rispettino un certo numero di esigenze fondamentali: tutelare per ognuno la possibilità di sviluppare al massimo le proprie attitudini, non rinchiudere il bambino in un quadro (classe o gruppo) da cui non gli sia possibile uscire, e di cui debba seguire il ritmo; assicurare nuovi raggruppamenti seguendo l'evoluzione dell'alunno. Il sistema inglese e americano prevede, ad esempio, che l'insegnamento delle nozioni e delle tecniche si pratichi in gruppi ristretti, secondo il metodo individualizzato, e che i gruppi abbiano una struttura diversa per quanto riguarda le attività creative ed espressive. Il sistema belga comporta per il primo stadio una formazione di base, delle attività sperimentali, delle opzioni, delle attività complementari, delle attività libere e delle possibilità di recupero, realizzando così un alto grado di elasticità (v. Clausse, 1972).
L'essenziale risiede tuttavia più nello spirito e nel metodo che nelle strutture. Il metodo tradizionale col suo didattismo cattedratico e passivo, con il suo insegnamento indifferenziato, che impone a tutti gli stessi compiti e gli stessi obiettivi è, per definizione, selettivo, costrittivo, autoritario e limitativo. Se esso schiaccia chi, per le circostanze, dispone di minori possibilità intellettuali, oltre un certo limite non favorisce nemmeno i migliori, poiché li chiude e li costringe, per qualità e quantità di reazioni, entro i limiti insormontabili tracciati dal programma. Viceversa i metodi moderni, individualizzando l'insegnamento, mettendo a frutto l'attività dell'alunno, facendo di ogni lezione un problema che deve essere risolto dal gruppo con un lavoro collettivo, permette a ciascuno, ai migliori come ai meno dotati, di contribuire secondo le sue capacità.
Ricapitolando, la scuola di base, che deve essere una scuola unica, elimina le segregazioni di un passato scolastico che rifiutiamo. Essa offre a tutti le stesse possibilità, nei limiti che sono congeniali a ciascuno. È l'espressione di quell'autentico umanesimo che, al di là dei pregiudizi culturali, delle dicotomie sociali sorpassate, accetta tutti i valori insiti nel bambino, in tutti i bambini. Essa si sforza di trarre da ciascuno quanto vi è di meglio, nell'interesse dell'individuo e della collettività tutta.
E dopo la scuola di base?
La scuola unica avrà reso possibile osservare gli alunni, far loro superare i primi stadi dello sviluppo, determinare con un minimo rischio di errore gli orientamenti, i temperamenti intellettuali, le attitudini e i mezzi di ciascuno. Ma di lì in avanti bisogna prevedere delle sezioni che esprimano i principali orientamenti del pensiero e dell'azione. Tutte queste sezioni saranno considerate come equivalenti dal punto di vista della cultura generale, e i loro programmi comporteranno dei corsi ‛generali' identici, ma con un numero di ore diverso e diversi approcci metodologici. Prima dei 18 anni, un adolescente non può essere considerato come un oggetto di rendimento economico; è una persona di cui bisogna fare un uomo felice e ben equilibrato, oltre che un cittadino utile.
Per quegli allievi che avranno manifestato un'intelligenza prevalentemente pratica, rivolta all'azione e alle cose concrete, o un livello di mezzi intellettuali più modesto, bisogna creare delle sezioni professionali che avranno uno sbocco più immediato in un mestiere. Ma, dal momento che la nostra preoccupazione prevalente rimane l'uomo, bisogna salvaguardare per quanto è possibile il lato culturale e servirsi della preparazione al mestiere per trarne il massimo nel senso della promozione umana. Va evitato fin dall'inizio un tecnicismo troppo angusto e limitato, giacché, in ogni caso, le condizioni tecniche delle diverse professioni evolvono con estrema rapidità e bisogna prevedere una formazione professionale abbastanza vasta ed elastica da rendere possibili le necessarie riconversioni. Noi prepareremo gli operai, i tecnici e i lavoratori manuali di cui abbiamo bisogno, ma oltre a ciò vogliamo farne degli uomini liberi nei quali avremo sviluppato al massimo la personalità, lo spirito critico, la volontà e la possibilità di rispondere all'evoluzione del mondo, il sentimento di solidarietà, il senso delle responsabilità, e i mezzi per una elevata felicità personale.
Se l'educazione prescolastica è la base indispensabile del sistema che abbiamo esposto, l'‛educazione permanente' ne è il compimento necessario.
Per essere efficace, l'educazione deve continuare lungo tutto il corso della vita, altrimenti saremo superati da una realtà in continua trasformazione. Se il riciclaggio è tanto necessario nel quadro delle attività professionali, esso interessa anche il nostro modo di pensare, la nostra filosofia e la nostra etica. A nuovi problemi e a nuove condizioni debbono rispondere nuovi strumenti di soluzione.
La vita non è più divisa in un periodo di formazione e in un lungo periodo di applicazione. Essa è, per l'intero suo arco, una mobilitazione che si rinnova continuamente per affrontare situazioni originali, per assimilare nuove conoscenze e nuove prospettive.
Vivere, oggi, significa imparare. Chi smette di imparare diventa in breve tempo un fossile. La scuola ha i suoi limiti, sia di tempo che di possibilità. È diventato un fatto corrente che, dopo il periodo scolastico, affiorino nuovi bisogni, si manifestino nuovi interessi, si rivelino nuove possibilità. Come scrive J.J. Servan-Schreiber: ‟Il paese che segnerà con la sua impronta il terzo millennio è quello che giudicherà superata, al pari dell'età della pietra, l'epoca in cui si pretendeva di imparare tutto prima del matrimonio o del servizio militare" (v. Servan-Schreiber, 1967, p. 77).
D'altronde, l'uomo dispone e disporrà di un tempo libero sempre maggiore. Il tempo libero dovrà essere utilizzato per la promozione intellettuale, ma va da sé che la cosa è possibile soltanto nella misura in cui la scuola stessa avrà preparato gli uomini a restare aperti al progresso e avrà sviluppato in essi una ricettività che manterrà desta la loro curiosità e il loro desiderio di sapere.
Bisogna aggiungere che, anche al di là di ogni promozione sociale e di ogni volontà di ‛restare à la page', l'aumento del tempo libero permetterà un considerevole arricchimento dal punto di vista dei piaceri più elevati, quelli del pensiero e dell'emozione estetica. L'educazione permanente si rivolgerà ad adulti che si può sperare siano stati ‛formati' dalla scuola, e la cui personalità si sia realizzata nel senso di una maggiore disponibilità, di una maggiore apertura mentale.
Sarebbe inopportuno proporre una qualsiasi forma organizzativa per l'educazione permanente. Da un lato, si tratta di una decisione politica, dall'altro, di possibilità materiali e tecniche che sono a nostra disposizione e di cui sarebbe utile elaborare una metodologia valida.
Al pluralismo scolastico va sostituita ‛la scuola pluralistica' (v. Clausse, 1970).
Il pluralismo delle istituzioni è l'espressione del conflitto che la Rivoluzione francese ha scatenato fra due grandi concezioni della vita, la concezione statica e conservatrice e la concezione dinamica e progressista. Legato a una determinata concezione della libertà, il pluralismo scolastico comporta sul piano sociale, morale e pedagogico, inconvenienti di vario tipo; innanzi tutto, inconvenienti morali. Il suo principio informatore è ‟negatore di unione e di libertà" (A. Bayet). Esso porta alla creazione di scuole particolari secondo le diverse correnti di opinione. Prepara e favorisce la divisione della nazione e questa divisione viene realizzata fin dall'infanzia, addirittura prima dell'età della riflessione. Senza contare che i gruppi più numerosi, più ricchi e meglio organizzati, saranno sempre i più avvantaggiati e difficilmente sfuggiranno alla tentazione di sopraffare gli altri.
Vi sono poi degli inconvenienti intellettuali. Lo spirito, plasmato e cresciuto sotto una campana di vetro, si fossilizza nel dogmatismo. Lo spirito critico, tanto necessario nella nostra epoca, può nascere soltanto dalla comparazione, dal confronto dei fatti, dei punti di vista e dei sentimenti. Un'educazione realizzata in serra, in un ambiente morale e ideologico preservato dalle influenze esterne accuratamente filtrate e interpretate, è la negazione stessa della democrazia.
Gli inconvenienti pedagogici derivano dalla competitività insita nel sistema stesso. Questa competitività fra le scuole si svolge sempre, come dimostra largamente l'esperienza, sul terreno della caccia all'alunno, della facilità con cui si rilasciano i diplomi. Essa è negatrice di progresso pedagogico perché toglie alle indispensabili esperienze pedagogiche ogni possibilità di procedere liberamente.
Due o tre diverse strutture di insegnamento implicano un'inutile moltiplicazione di spese e di sforzi, comportando perciò inconvenienti di tipo finanziario, dal momento che la prolificazione delle scuole risponde all'esigenza di mantenere una determinata influenza e non alle necessità di una politica educativa generosa e razionale.
Se questo pluralismo scolastico è stato l'espressione adeguata di un determinato campo culturale, di un momento dell'evoluzione storica delle società occidentali, oggi si impone la necessità di realizzare una scuola pluralistica. La democrazia moderna implica innanzi tutto la libertà di pensiero per l'individuo, e l'affermazione autentica della sua personalità. Deve prevedere, quindi, un'organizzazione educativa che permetta di favorire il leale confronto delle idee nel rispetto della dignità e dell'autonomia di ciascuno.
Al di là della costrizione esercitata dai gruppi sociali, al di là delle filosofie e delle ideologie chiuse, oggi ormai superate, sono i diritti dell'individuo che devono avere la precedenza. In una democrazia autentica, nessuno - né la Chiesa né lo Stato, né la famiglia né qualsiasi altra organizzazione - ha il diritto di chiedere che la scuola assuma, a detrimento della libertà, la difesa dei propri interessi particolari, della propria visione degli esseri e delle cose. La stessa libertà del padre di famiglia può esplicarsi soltanto nei limiti rigorosi del rispetto del fanciullo e del suo diritto più irrinunciabile: l'accesso a tutti i valori morali e spirituali che costituiscono il nostro retaggio e che preparano il nostro avvenire.
In questa prospettiva, va respinta ogni concezione statalistica e monolitica dell'insegnamento. Il sistema scolastico deve diventare un servizio pubblico di ampio respiro, fortemente decentralizzato, nel quale tutte le istanze interessate, regionali e locali (pubblici poteri, organizzazioni sociali, le stesse scuole, genitori, alunni, ecc.) godranno, in collaborazione, della più ampia iniziativa possibile, nel rispetto delle scelte di fondo.
La scuola pluralistica rientra nella prospettiva della filosofia ispiratrice di questo articolo. Essa è una delle condizioni indispensabili per quell'orientamento progressista che permetterà a ciascuno di diventare e di essere se stesso nel massimo di realizzazione e di autenticità, quindi con la massima efficacia.
Non si tratta di garantire la libertà di insegnamento (cosa che nessuno mette in discussione), bensì di assicurare l'insegnamento della libertà, che, si ammetterà, è tutt'altra cosa.
L'opposizione fondamentale tra la metodologia tradizionale e la nuova metodologia può essere espressa in questo modo: la prima agisce dall'esterno verso l'interno, la seconda dall'interno verso l'esterno. Questa è la rivoluzione che E. Claparède definiva giustamente ‛copernicana', giacché si tratta di un totale capovolgimento della prospettiva pedagogica. Essa non ignora le esigenze della cultura e di ciò che bisogna pure continuare a chiamare ‛i programmi'. Sa che l'educazione non è vano dilettantismo, ma che deve svilupparsi in direzione di obiettivi preliminarmente definiti, la cui responsabilità spetta e spetterà sempre all'insegnante. Ma, per raggiungere questi obiettivi, parte dal bambino stesso, dalle sue esperienze, dalle sue preoccupazioni, dalla sua psicologia, dalle sue ambizioni, e anche dalle sue debolezze e carenze. Essa sostiene che un apprendimento è valido soltanto nella misura in cui si costruisce sulla realtà stessa dell'individuo in questione e quando è motivato da un autentico desiderio interiore, da uno slancio del pensiero, quale che sia la qualità originale di quest'ultimo. All'inizio, quindi, essa prende il bambino così com'è, all'interno di ciò che per lui è il suo ambiente e nel modo in cui egli lo vede, lo sente e lo comprende. E a poco a poco, attraverso una progressiva estensione e rettifica, lo porta verso il traguardo di una cultura personalizzata e qualificata volontariamente assunta, anziché imporgli l'accettazione passiva del sapere e dei valori.
Eccoci di nuovo al problema della motivazione che qui si traduce in quello della ‛pedagogia dell'interesse', che ha fatto versare fiumi di inchiostro e ha dato vita a tante fantasiose interpretazioni (v. Claparède, 1909 e 1931).
La psicologia e la pedagogia tradizionali immaginavano che il comportamento fosse provocato dallo stimolo. Questa concezione sta alla base della ‛lezione', presentata come uno stimolo da cui ci si aspetta che scaturisca l'attività intellettuale desiderata. Ma dopo aver ricordato, d'accordo con tutta la moderna psicologia, come non sia lo stimolo, bensì il bisogno a costituire la forza motrice del comporta- mento; dopo aver sottolineato come i bisogni si collochino a tutti i livelli e in tutte le sfere e i campi della vita bio-psicologica (bisogni fisiologici, affettivi, sociali, intellettuali, ecc.), è assai importante notare che l'individuo persegue sempre un ‛oggetto', un fine ‛oggettivo' e non la scomparsa del bisogno. Psicologicamente è quindi l'interesse più che il bisogno a determinare il comportamento. E si può così definire l'interesse come la ‛persona o la cosa suscettibile di soddisfare un bisogno per una determinata persona in un determinato momento'.
Le conseguenze che ne derivano sono importanti: innanzi tutto, una cosa non è mai interessante di per sé, giacché l'interesse è una relazione tra questa cosa e l'individuo. È un errore della scuola tradizionale immaginare che l'interesse che poteva suscitare in un adulto questo o quel fatto, questa o quell'idea, potesse avere lo stesso valore agli occhi del bambino. Ad esempio, la strutturazione logica attraverso cui veniva elaborata la materia da insegnare aveva l'unica ambizione di far cogliere una concatenazione e una coerenza che, pur essendo seducenti per la mente di un adulto, rimanevano completamente estranee al bambino. Un certo tipo di facile metodologia ha creduto in buona fede che una lezione chiara e coerente fosse necessariamente una buona lezione. Ma la riflessione mostra, e l'esperienza conferma ampiamente, come le nozioni stesse di chiarezza e di coerenza possano essere profondamente diverse a seconda della situazione e del livello psicologico di ciascuno. L'ordine, come si è mostrato a proposito della differenziazione e dell'integrazione (v. Clausse, 1972), è il risultato di una lunga e lenta elaborazione e può essere apprezzato solo da chi ormai padroneggi la materia. L'ordine dev'essere il punto di arrivo, il risultato di un insegnamento; non può mai esserne il punto di partenza.
Non esiste interesse senza bisogno. E il ruolo dell'insegnante è, in questo senso, di fondamentale importanza. Ma bisogna operare una distinzione tra i bisogni fondamentali e quelli secondari o acquisiti. Fra i numerosi elenchi proposti per i primi, ricorderemo quello di I. Prescott (v., 1938) che li prospetta in questo modo: bisogni psicologici (quelli che nascono dalla struttura dell'organismo e dalla conservazione del suo equilibrio), bisogni sociali e di status (quelli che nascono dal desiderio da parte dell'individuo di collocarsi fra i propri simili, di realizzare il sentimento della propria ‛appartenenza') e bisogni di integrazione (che nascono dal contatto dell'individuo con l'ambiente che lo circonda).
Tra i bisogni del terzo gruppo, vorremmo dare particolare rilievo a quello che è il più ricco di avvenire e che la scuola deve utilizzare al massimo: il bisogno di conoscere, quella curiosità così naturale nel bambino e senza la quale egli resterebbe mentalmente un impotente. Essa è alla base di tutti gli interessi che costituiranno a poco a poco la ricchezza dell'individuo. Ha ciò di particolare che, soddisfacendola, la si alimenta giacché ogni soddisfazione permette il sorgere di una nuova curiosità. Il torto della nostra scuola tradizionale è di soffocare pian piano questa curiosità, con una pedagogia dogmatica e autoritaria che costringe il bambino a rinchiudersi in se stesso. Con il pretesto di seguire un programma chiaramente delineato, di evitare il disordine intellettuale, si sterilizza sistematicamente ogni spontaneità e si creano a poco a poco degli esseri artificiali che si preoccupano soprattutto di essere in grado di recitare a memoria le lezioni e rispondere agli esami.
Gli interessi variano da una persona all'altra, a seconda dell'età, dell'ambiente, delle esperienze vissute. Ciò sta a significare che gli interessi sono dei fattori di attività eminentemente duttili e modificabili, e che il ruolo della scuola consiste precisamente nel partire dagli interessi del bambino per metterli a frutto, per estenderli, per moltiplicarli in modo da farli coincidere a poco a poco con le esigenze della cultura. Un uomo colto è prima di tutto un uomo che ha interessi molteplici. Il che ci riconduce ai problemi assiologici: è del tutto evidente che interessarsi alla filosofia moderna, alle implicazioni dell'automazione, alla musica di Schönberg, al teatro di Brecht o ai problemi della disoccupazione, culturalmente ha maggior valore che interessarsi ai risultati del Giro di Francia, alla vita più o meno privata dei divi del cinema o della canzone, alle prestazioni di una squadra di calcio.
Partendo da interessi spontanei per creare interessi sempre nuovi, si realizzano le condizioni sine qua non di una scuola attiva, nel vero senso del termine. L'attività non è agitazione, attività fisica o esteriore, è invece attività funzionale. Ciò significa che un individuo è attivo quando fa ciò che risponde per lui a un reale interesse, quando vuole trovare una soluzione a una difficoltà che scopre spontaneamente o che si è riusciti a creargli. Non basta che il bambino prenda l'iniziativa di esteriorizzarsi, di porre delle domande, di chiedere spiegazioni (se pur lo si autorizza a ciò!), poiché tutto ciò può esprimere solo il desiderio di adeguarsi alle esigenze della coercizione, e restare del tutto estraneo all'interesse autentico che l'argomento può suscitare. Al contrario, un alunno immobile e immerso nel mutismo, può essere molto attivo, così come una classe può essere realmente attiva durante la lezione dell'insegnante, se questa fornisce risposte a una domanda, a un problema.
Eccoci ancora una volta ricondotti al problema degli obiettivi. Giacché, in fin dei conti, sviluppare gli interessi del bambino, consiste nel mettere al centro delle sue preoccupazioni i molteplici aspetti dell'ambiente cui bisogna interessarlo. Dire di una persona che essa si sviluppa e matura psicologicamente, che ‛cresce', significa constatare in lei interessi sempre più numerosi e vasti, che la spingono a conoscere, comprendere e interpretare l'ambiente per il cui tramite essa si realizza. È chiaro che la teoria dell'interesse porta molto lontano, e approda, in fin dei conti, alla concezione stessa della cultura.
Bisogna aggiungere che questa teoria affronta, in termini nuovi, sia i rapporti insegnante-allievo, sia il problema della disciplina e dello sforzo. A una disciplina esteriore e quindi precaria, sostituisce una disciplina interiore. Essa non nega né sopprime lo sforzo; al contrario, lo giustifica, ma sostiene che quest'ultimo è fecondo soltanto se provocato e alimentato dalla volontà del soggetto teso a perseguire un obiettivo che lo interessa. La pedagogia dell'interesse è una pedagogia dello sforzo accettato, il solo realmente efficace.
Non si tratta di imporre, e neppure di consigliare una ‛didattica' definita, fuori della quale non vi sarebbe salvezza. Ogni classe, e in ogni momento, realizza una situazione originale, un insieme di relazioni determinate dalle circostanze, che l'insegnante deve ‛cogliere' o ‛sentire', per ricavarne il massimo possibile, nel senso della maturazione degli alunni. Il ruolo dell'insegnante consiste dunque nel trovare i mezzi che meglio si adattano al suo temperamento (che ha la sua importanza), alla sua classe e alle circostanze. È naturale che per questo occorra una grande ricchezza di sensibilità, di abilità, di buona volontà e di immaginazione. Il che, non c'è bisogno di dirlo, pone in modo impellente il problema della selezione, della formazione e della remunerazione degli insegnanti a tutti i livelli.
Nel quadro di una concezione della cultura che non bisogna mai perdere di vista, si possono, su un piano pratico, tener fermi due criteri per giudicare l'efficacia di un insegnamento: innanzi tutto, i risultati debbono essere duraturi. È evidente che un tipo di insegnamento i cui risultati svaniscono non appena la scuola non li richiede più (terminati gli esami e ottenuto il diploma) è, in ogni caso, un cattivo insegnamento. Da questo punto di vista, la scuola attuale ha un rendimento che si può qualificare come mediocre.
In secondo luogo, i risultati debbono poter essere utilizzati e sfruttati al di fuori della scuola, nella vita quotidiana. Come diceva già Seneca: ‟Non scholae, sed vitae discimus". Va da sé, che un sapere scolastico, i cui risultati restano confinati nel chiuso delle mura della scuola, che non modifica il comportamento dell'alunno nella vita e non viene utilizzato per risolvere dei problemi reali, è un sapere da ‛mandarino', che non trova alcuna, giustificazione. Se, troppo spesso, nella mente dell'alunno non resta nulla, ciò significa che c'è una soluzione di continuità tra l'esperienza reale del fanciullo e l'esperienza scolastica del sapere inculcato. Si tratta di due mondi e due realtà differenti. Invece di arricchirsi scambievolmente, essi si sviluppano parallelamente e si ignorano completamente.
A queste ‛realtà' scolastiche si possono opporre altre situazioni ed altri esempi. Quello di un bambino che impara spontaneamente la lingua materna, quello di un insegnamento della storia che fa capire il significato degli avvenimenti, il loro concatenarsi e che fornisce elementi importanti per la comprensione del presente, quello di un insegnamento delle scienze che mostri come ne siano state elaborate le leggi e come diveniamo capaci di padroneggiare la natura analizzandola in maniera oggettiva. In tutti questi casi, i risultati perdurano anche al di là degli esami. Non ne ricorderemo tutti i dettagli; restano tuttavia le linee generali, cioè degli strumenti al servizio del nostro pensiero, in grado di assicurare all'individuo un'integrazione più ricca e più feconda. Anche se tali acquisizioni, all'inizio e avendo a che fare con bambini piccoli, sono mediocri e approssimative per qualità ed esattezza, esse avranno però occasione di essere rafforzate, modificate, ampliate e precisate man mano che cresce la maturità e si accumulano le esperienze. Ma esse non vanno mai perdute e rappresentano altrettanti gradini nella formazione di un'autentica capacità critica. I dettagli dimenticati possono, del resto, venire facilmente ricostruiti secondo le necessità di un'azione ulteriore e tale ricostruzione si pone, allora, in una prospettiva non erudita, ma funzionale, che conferisce a ogni cosa la sua importanza reale, la sua autentica collocazione, il suo significato.
Né l'intelligenza, né la sensibilità si formano nel vuoto: come il fuoco, debbono alimentarsi della materia che le nutre. In definitiva, intelligenza e sensibilità non sono altro che modi di reagire alla realtà. Di conseguenza, la contrapposizione che si è voluta creare fra formazione e informazione è un falso problema. Non si capiscono l'evoluzione storica, la società, i fenomeni della natura, i procedimenti del pensiero matematico, non si acquisiscono sensibilità artistica o letteraria, senza far poggiare queste acquisizioni e queste attitudini su un determinato numero di fatti. Formazione e informazione sono due aspetti indissolubilmente connessi di un medesimo processo. Ciascuna è funzione dell'altra. Il grano che cresce e matura attinge dalla terra le sostanze che lo nutrono; allo stesso modo, l'alunno deve attingere dalle ‛realtà' dell'ambiente la sostanza grazie alla quale formerà la propria personalità, imparerà a reagire, pensare e sentire (v. Mursell, 1954).
È necessario realizzare le condizioni più favorevoli al- l'attività dell'alunno. L'insegnante diventa dunque più un ‛organizzatore' che un ‛istruttore'. Il solo apprendimento valido è quello che si radica nella sfera psicologica di un individuo poiché l'individuo lo ha effettuato per realizzare se stesso; dunque è quello che migliora la comprensione, amplia i punti di vista e le prospettive, crea degli atteggiamenti piu critici, in breve, contribuisce a una migliore integrazione nell'ambiente sotto tutti gli aspetti.
Questo modo di vedere comporta rispetto ai metodi tradizionali profonde trasformazioni, che si possono schematizzare nel modo che segue (v. Mursell, 1954).
A. Profondi cambiamenti negli stereotipi dell'apprendimento (learning) e dell'insegnamento (teaching). La scuola tradizionale organizza questi stereotipi in termini di programmi compiutamente elaborati e strutturati, divisi in una successione logica e rigorosa di piccole unità o lezioni. La scuola nuova, viceversa, sostituisce a questi programmi formati da una giustapposizione di discipline un numero più ridotto di ambiti o di grandi aree interdisciplinari in cui ogni cosa assume il proprio posto, e attraverso le quali si sviluppa il senso e la coscienza delle relazioni e il coordinamento dei mezzi.
B. La vecchia scuola fa una netta distinzione fra attività scolastiche ed extra-scolastiche. La nuova scuola tende ad associare i due tipi di attività, a utilizzare le seconde per nutrire e vivificare le prime, a eliminare le barriere erette fra la scuola e la vita. E se la vecchia scuola ignora la comunità in cui è collocata e non ne utilizza mai gli elementi come fonte di esperienze educative, la nuova scuola incoraggia l'utilizzazione della comunità, i cui confini vengono a poco a poco estesi al mondo intero.
C. Mutamenti nella motivazione dell'apprendimento. Nella scuola tradizionale, l'attività viene decisa d'autorità dal docente. Bisogna condurre il bambino a fare ciò che egli non ha né scelto né desiderato. La nuova scuola aspira a dare un ruolo importante agli alunni nella scelta e nell'organizzazione delle attività di apprendimento; vuole creare una motivazione autentica associando il più possibile il bambino alle scelte di ciò che egli deve fare, affinché i lavori scolastici abbiano obiettivi di cui il bambino può prendere coscienza perché vi si sente coinvolto.
D. La vecchia scuola sfrutta largamente la competizione come forza motivazionale e crea situazioni in cui l'individuo deve necessariamente confrontarsi e spesso contrapporsi ai suoi stessi compagni. La nuova scuola crea situazioni in cui l'individuo è impegnato in una collettività per svolgere assieme un lavoro comune, in uno spirito di collaborazione e di emulazione. Al contrario dell'isolamento in cui la tradizione pone l'alunno, i nuovi metodi realizzano le condizioni dell'individualizzazione in un quadro collettivo. Nel lavoro di gruppo, che essa sostituisce al lavoro ‛isolato', ciascuno può portare il proprio contributo personale, secondo i propri mezzi e i propri interessi, alla realizzazione di un lavoro collettivo al quale è interessato l'insieme del gruppo.
E. Cambiamento dell'ordine in cui sono affrontati temi e soggetti. Nella scuola tradizionale, le sequenze obbediscono a un ordine rigoroso, nel quale ciascuna sequenza serve da fondamento alla successiva, secondo uno svolgimento basato sulla logica delle materie, al di fuori di ogni preoccupazione di ordine psicologico. Nella nuova scuola, lo sviluppo del piano generale stabilito dall'insegnante per raggiungere i suoi obiettivi deve rimanere estremamente duttile per seguire e rispettare le esigenze psicologiche dell'apprendimento. Questo piano deve essere considerato come un punto di arrivo e non come un percorso stabilito una volta per tutte.
Quanto si è appena detto può essere riassunto in una formula sintetica: qualsiasi insegnamento, che voglia a un tempo rispondere alle esigenze della moderna psicologia e raggiungere gli obiettivi di efficacia precedentemente illustrati, deve ‛organizzare' l'apprendimento in modo tale che esso sia ‛significativo' per l'alunno, deve cioè dargli un senso, un valore, una giustificazione agli occhi del bambino. È necessario che quest'ultimo vi trovi i mezzi per risolvere i problemi che lo riguardano in quanto fanno parte dei suoi interessi che di continuo si allargano e che, al termine della sua attività, egli abbia la sensazione di aver progredito, di aver acquisito strumenti supplementari di azione e di comprensione nelle sue relazioni con l'ambiente.
La nozione di significato è dunque legata a quella di familiarità e a quella di interesse. Essa implica due fattori fondamentali: interesse significativo e intelligibilità. Bisogna che l'alunno senta che c'è qualche cosa che merita di essere compreso e padroneggiato, un'intelligenza della realtà da realizzare, un arricchimento da acquisire e non un compito scolastico da eseguire per costrizione. Il processo fondamentale è la ricerca, l'esplorazione, la scoperta, e non l'assimilazione passiva e la ripetizione meccanica. Si migliora, ad esempio, il proprio stile nella lingua materna, non studiando le regole e aumentando gli esercizi di applicazione, ma nella misura in cui si ha voglia di dire qualche cosa e di dirlo nel miglior modo possibile, per risolvere un particolare problema posto dal desiderio di comunicare, di esprimersi in questa o in quella situazione di vita. Si apprendono nozioni storiche e geografiche, quando nella vita se ne sente il bisogno, per far fronte a un problema che si vorrebbe risolvere, a una difficoltà da cui si deve uscire per realizzare e soddisfare un'esigenza.
Le tecniche audiovisive. Il problema posto dalle tecniche audiovisive oltrepassa largamente l'ambito di una tecnologia pedagogica. Ad essere rimesso in discussione è infatti il concetto stesso che abbiamo di cultura, della sua qualità, dei suoi mezzi, delle sue relazioni con la scuola. Accanto alla scuola, come abbiamo sottolineato, c'è la vita, con le sue ricche possibilità nelle quali ognuno trova il modo di sviluppare e di acquisire conoscenze e forme di reazione indispensabili. È evidente che la pressione esercitata sulla scuola dalla realtà esterna aumenta con lo sviluppo della civiltà.
Insorgere contro la radio, il registratore, la televisione, rifiutare di prenderli in considerazione nella scuola è un atteggiamento che nasce da un ridicolo intellettualismo. Lo si voglia o no, i nostri figli sono spettatori e ascoltatori assidui, vengono a sedersi sui banchi della scuola con la testa piena di esperienze confuse, forse superficiali, ma certamente molto ricche di possibilità. Negarlo significa rifiutare di trarre profitto da una materia ricca di valore formativo.
Quanto all'utilizzazione metodologica dei mezzi audiovisivi, si impongono alcune riflessioni. Le nostre scuole sono invase dai registratori, dagli apparecchi radiofonici e televisivi. Ma ci si può domandare se gli sforzi e il denaro impiegati trovino giustificazione nell'uso che se ne fa. Indubbiamente, questi apparecchi possono introdurre in classe un gran numero di esperienze e di mezzi. Ma, lungi dal facilitare il compito dell'insegnante, lo complicano, lo rendono più difficile, più complesso. Il fatto è che questa invasione non è stata accompagnata dal parallelo sviluppo di una teoria pedagogica concomitante. Nella migliore delle ipotesi, e nella misura in cui gli insegnanti sono in grado di usare questi apparecchi, abbiamo una tecnologia delle macchine, ma non abbiamo una tecnologia educativa corrispondente.
In effetti, le tecniche audiovisive sono state introdotte nella scuola, in una prospettiva che unisce al contempo la nozione passiva di trasmissione del messaggio, l'illusione di un concreto non ben definito e le seduzioni di una logica deduttiva. Ad una ‛logomachia' della parola, troppo spesso si è sostituita una ‛logomachia' del suono e dell'immagine, dimenticando il primato irriducibile dell'azione spontanea e della ricerca personale. Ci si è buttati a capofitto sugli audiovisivi, poiché nella loro tecnica straordinariamente seducente e nella possibilità che offrivano alla ‛manipolazione' del messaggio si è vista una panacea che dispensava da ogni sforzo di riflessione. Proiettare delle diapositive per introdurre una lezione di geografia, e fare di queste proiezioni la base della lezione, è meglio che non far vedere nulla, ma, anche nella migliore delle ipotesi, quando l'insegnante lavora ponendo domande, abbiamo una singolare somiglianza a un metodo socratico, che sostituisce una documentazione visiva alle parole. Voglio dire che in un caso come nell'altro, lo schema degli scambi resta di tipo tradizionale, si preferisce far dire al bambino ciò che si vuole che dica, in modo che la lezione si organizzi e si svolga secondo la prospettiva fissata in anticipo dall'insegnante.
Introdurre nella scuola il documento audiovisivo significa invece accettare che i ragazzi ascoltino, vedano, sentano, immaginino da sé e reagiscano di fronte a una realtà che ha una sua ricchezza e dei limiti; non significa, come nel metodo socratico, imporre loro un messaggio, ammettendo soltanto risposte e reazioni parziali, orientate e controllate. Si tratta in sostanza di mettere l'educatore - e ciò è decisivo - in una situazione pedagogica e psicologica tale che il suo ruolo consista nell'aiutare il ragazzo a dare significati nuovi, originali e validi, alle nuove realtà che gli sono presentate nelle molteplici e svariate forme consentite dal mezzo tecnico. Significa trovare il modo di stimolare la reazione personale, di accrescerne e moltiplicarne le occasioni. Rimanere fedeli a una metodologia tradizionale, ed inserirvi i mezzi audiovisivi, equivale ad andare incontro a illusioni e fallimenti. Non basta avere un'automobile, e poter quindi muoversi più in fretta e su distanze maggiori, per trarre da questi viaggi un maggior arricchimento umano e culturale.
L'insegnamento programmato. L'attuale infatuazione nei confronti dell'insegnamento programmato dipende da numerose e svariate ragioni in cui si mescolano elementi negativi e positivi.
È incontestabile che l'estensione e la considerevole moltiplicazione dei compiti dell'insegnamento pongano problemi di uomini e di mezzi finanziari che richiedono nuove soluzioni. Ora, la tecnologia invade a poco a poco tutte le attività umane con una sorta di frenesia che trova gli elementi della propria giustificazione nella coerenza interna dei meccanismi messi in opera. Infine, taluni teorici dell'apprendimento, scoraggiati dagli arcani della vita psichica, hanno adottato la concezione dell'‛organismo-scatola vuota', che analizza il comportamento esclusivamente nei suoi aspetti esteriori e visibili.
In una prima fase, che si basa sui lavori di S. L. Pressey (già nel 1925) e di B. F. Skinner, gli obiettivi da realizzare con l'apprendimento sono chiaramente definiti in termini di prestazione finale cui il soggetto deve pervenire. Le informazioni date si presentano sotto forma di una successione accuratamente ordinata di istruzioni elementari. Ad ogni fase, il soggetto è messo in condizione di rispondere alla domanda, prima di affrontare la fase successiva. In questo modo viene impegnato in un percorso lineare, in una successione di momenti che lo conducono sapientemente verso la prestazione finale, all'interno di argini che non ha né il tempo né i mezzi per superare (v. Skinner, 1968).
Se si tratta semplicemente di acquisire un sapere, se si tratta di riprodurre le fasi di un ragionamento (come nella matematica), la macchina non esclude né la comprensione né il ragionamento. Si pongono, tuttavia, numerosi problemi. Si può rilevare un certo scetticismo a proposito dell'interesse psicologico e pedagogico che si attribuisce alla conoscenza immediata dei risultati ottenuti. In tutto ciò, si manifesta una concezione discutibile della motivazione, poiché gli interessi del banibino riguardano non la materia in quanto tale, ma il rinforzo che è il prodotto di un esito positivo.
I programmi sono necessariamente elaborati secondo la coerenza interna della materia; la sequenza poggia su principi discutibili poiché ignora completamente lo sviluppo psicogenetico del bambino, ne soffoca ogni autentica creatività e lo riduce ad un robot dell'informazione e della comprensione.
Si dimentica che il processo di acquisizione deve inserirsi in un quadro funzionale assai più vasto e che esso mette in azione comportamenti costruttivi come la scoperta, il pensiero creativo, la cooperazione, i fattori di differenziazione e di integrazione.
Si parla di individualizzazione, ma in questo caso ciò lascia piuttosto perplessi. L'alunno lavora certamente seguendo un ritmo suo. Ma è una ben strana concezione dell'individualizzazione quella di imporre a tutti gli alunni le stesse informazioni, di richiedere loro le medesime risposte secondo una successione e un ordine per tutti identici. La pratica ha dimostrato che per essere pienamente efficace e appropriato un programma lineare deve essere adattato in modo peculiare a un livello determinato di attitudini e capacità. Come può dunque essere ammissibile la pericolosa confusione che si fa tra individualizzazione e isolamento? L'alunno lavora sì da solo, ma l'individualizzazione non si realizza ponendolo in un rapporto immediato ed esclusivo con la macchina e con se stesso. L'individualizzazione presuppone ed esige il contatto con gli altri; noi diventiamo noi stessi solo differenziandoci poco a poco e affermando la nostra specificità rispetto agli altri individui.
A proposito dei limiti di applicazione di questi programmi lineari, non sarà inutile ricordare che le impressionanti percentuali di risultati positivi vengono ottenute soprattutto con persone adulte, nel training industriale o militare. In questi casi si tratta infatti di affrontare problemi semplici, o comunque nettamente circoscritti e orientati in una direzione di prestazioni professionali.
Se nella scuola esiste un certo numero di compiti ‛meccanici' che il maestro potrebbe anche cercare di alleggerire, il problema è di sapere quello che si intende per ‛rendimento'. Una cosa è rivolgersi a bambini che devono essere educati, aiutati a svilupparsi e ad affermarsi, un'altra è rivolgersi a persone adulte, delle quali si devono migliorare le conoscenze e le tecniche.
Possiamo del resto constatare che la maggior parte dei programmi lineari riguarda discipline matematiche, scientifiche o tecniche. Non tutte le materie si prestano in egual misura a una programmazione minuziosamente sequenziale. La rigida applicazione dei principi skinneriani o porta a programmi fittizi privi di qualsiasi significato, o a una sovraprogrammazione, che ricalca gli errori del formalismo più tradizionale.
La seconda fase della storia dell'insegnamento programmato (v. Clausse, 1951) è associata al nome di Norman Crowder. In questo caso si tratta di un programma ‛ramificato', che presenta la materia secondo il procedimento della scelta multipla. Se l'alunno sbaglia, gli si danno delle spiegazioni complementari e l'errore viene utilizzato per imporre un'altra strada. In questo modo, giusta, approssimativa o sbagliata che sia la risposta, essa risulta rivelatrice di qualche cosa di cui ci si sforza di tener conto (v. Crowder, 1964).
Si tratta di un innegabile progresso, ma a un esame più attento ci si rende conto che ciò realizza, né più né meno, solo una sistematizzazione del metodo socratico. Le strade aperte all'alunno sono molteplici, anche se limitate, ma la preoccupazione resta sempre, quale che sia la risposta, quella di ricondurre costantemente il soggetto sulla linea e nella direzione tracciata dal programmatore. Socrate procedeva proprio in questo modo, ma aveva, sull'insegnamento programmato, l'enorme vantaggio di poter raccogliere un numero elevatissimo di risposte e di affrontarle in un modo pertinente alla verità che gli interessava far scaturire.
In una terza fase, si è posto l'accento sugli ‛obiettivi dell'apprendimento' (v. R. Clausse, 1930). Taluni ricercatori, seguendo R. F. Mager (v., 1962), invece di insistere sulla presentazione delle materie organizzata in modo sistematico, si sono rivolti a concezioni che considerano il processo del learning soprattutto in termini di ricerca guidata.
Dire che un alunno deve ‛conoscere', alla fine del suo apprendimento, il calcolo delle probabilità è una pretesa molto vaga. I veri obiettivi debbono potersi tradurre in comportamenti precisi così come si presentano nel processo di soluzione di questo o quel problema. Conoscere, nel campo della fisica, la teoria della combustione, significa essere in grado di risolvere i molteplici problemi reali, la cui soluzione è compresa nell'insieme di questa conoscenza. In altri termini, gli obiettivi devono essere definiti in termini operativi. Un obiettivo è prescrittivo e non solo descrittivo del contenuto del corso da seguire.
La conseguenza più importante di questo tipo di concezione è che, invece di lasciare al programmatore la determinazione dell'ordine di presentazione, si può lasciare il soggetto stesso libero di decidere quest'ordine. Mager pensa che, fornendo agli alunni obiettivi precisi espressi sotto forma di problemi e lasciando che siano essi stessi a cercare le informazioni e a chiedere consigli, quando e come ne sentano il bisogno per progredire nel loro lavoro, l'apprendimento diventi attivo e quindi più significativo rispetto al comportamento condotto e controllato rigorosamente dall'istruttore.
A questo punto ci troviamo impegnati in un cammino che sembra fecondo e che, muovendo da ricerche appena avviate, ci conduce ai metodi euristici preconizzati dalla pedagogia e dalla psicologia moderna. La preoccupazione maggiore è di trasferire la responsabilità dei passi da compiere dal programmatore al soggetto,
Parallelamente agli sforzi fatti per sviluppare tipi di tecniche che permettano al soggetto di trovare la sequenza che gli si addice, si affermano la volontà e la preoccupazione di mettere a punto mezzi atti a determinare, in ogni singolo caso, il livello e la qualità del background che si richiede necessariamente al soggetto (entry-behavior). Ogni teoria valida dell'apprendimento deve prendere in considerazione due variabili indipendenti. Per un verso, le capacità (nel senso più lato) necessarie a realizzare il risultato, per un altro, le istruzioni date che consistono in direttive suscettibili di impegnare il soggetto nella ricerca delle informazioni piuttosto che in informazioni fattuali, fornite prima del lavoro di ricerca.
Ritroviamo qui la ‛ricostruzione dell'esperienza' quale la intendeva Dewey: l'alunno deve poter realizzare, sulla base delle proprie capacità ‛subordinate', un'attività originale, che incorpori capacità nuove alle capacità di partenza, per costituire un livello più elevato di adattamento.
Siamo arrivati al punto in cui tutto ciò che è stato fatto nel campo dell'insegnamento programmato viene seriamente messo in discussione. Tanto più che ormai sono pronte a subentrare macchine molto più complesse e più ricche di possibilità. W. Kenneth Richmond non teme di scrivere che passare dalle macchine per insegnare ‛vecchio tipo' agli impianti di insegnamento fondati sui computers è come passare dalla bicicletta all'aereo a reazione. Ma non bisognerebbe anche sapere dove ci porta questo aereo?
La grande superiorità dell'insegnamento effettuato con l'ausilio del calcolatore elettronico consiste nella straordinaria ricchezza di informazioni di cui dispone e nella elasticità con cui queste informazioni possono essere sfruttate nel processo dell'acquisizione.
Che giudizio darne?
L'automazione integrale (ancora lungi dall'essere realizzata) non eliminerà ciò che Richmond chiama ‟l'arduo lavoro dell'uomo dietro la macchina" e la sua ‟ardua riflessione" (‟hard work [...] and hard thinking"). La preparazione e la messa a punto dei programmi richiederanno sempre più tempo, analisi più sofisticate ed elaborate. Ma, d'altro canto, un programma messo a punto, può venire utilizzato da un numero di ‛clienti' pressoché illimitato; non è assurdo pensare che i terminali penetreranno ben presto nelle nostre case.
D'altra parte, resta indispensabile sorvegliare il lavoro dell'alunno e vedere come si possano migliorare le strategie adottate. Così l'insegnante, ben lungi dallo scomparire, acquista una funzione nuova, più elevata ed umana: il suo ruolo sarà quello di ‟definire gli obiettivi e adattare le strategie", di valutare i ‛profili individuali' forniti dai calcolatori in funzione dei risultati ottenuti da ogni alunno (v. Barbey, 1971, p. 73).
Si può sperare che il calcolatore sostituirà il maestro nel campo circoscritto dell'acquisizione delle conoscenze. La macchina è in grado di farsi carico di questo ‛sapere positivo', ma spetterà sempre all'insegnante riflettere su questo sapere, utilizzarne le implicazioni, definirne gli obiettivi e adeguare i mezzi ai fini che si intende raggiungere. Se ne può concludere che i sistemi di istruzione con ausilio di computer si potranno applicare soprattutto a materie che nel loro contenuto possano essere sottoposte ad elaborazione secondo strutture logiche. Dove, invece, entra in campo la soggettività, l'equazione personale, la sensibilità, la loro utilizzazione pone notevoli problemi.
Come A. M. Turing prevedeva già nel 1950, fin da oggi si potrebbero costruire macchine capaci di rispondere al comportamento dell'alunno, così come farebbe un maestro aperto a tutte le ipotesi, macchine cioè suscettibili di adattare il modo di presentare la materia alle capacità e all'iter di pensiero dell'alunno. La difficoltà non si pone dunque in sede tecnica, ma in quella, più delicata, di un'autentica teoria dell'apprendimento (v. Turing, 1950).
A questo punto la macchina può essere di grande aiuto nell'elaborazione di questa teoria. Si tratterà di calcolare l'infinita varietà delle risposte date: l'importanza statistica di certe risposte, oltre a poter essere singolarmente indicativa dei vari processi in atto, obbligherà gli autori a rivedere le proprie lezioni. Così la macchina potrà ‛insegnare ad insegnare' (v. Barbey, 1971), e renderà possibile l'unione tanto auspicata tra insegnamento e ricerca pedagogica.
In questa prospettiva, un rilievo particolare va dato ai lavori degli psico-pedagogisti russi e, in special modo, a quelli di L. N. Landa (v., 1965). Attraverso il dialogo uomo-macchina, deve essere possibile mettere in evidenza il processo seguito dal pensiero dall'inizio dell'apprendimento (entry-behavior) fino a un punto di arrivo. La teoria degli algoritmi cerca di dare una risposta a tali problemi. Si tratta di elaborare dei programmi, cioè ‟le strategie di un sistema che, quando cerca di istruire, fornisce anche insegnamenti, un sistema che insegna" (Landa). L'algoritmo ha dunque l'ambizione di riprodurre, nella presentazione della materia, l'itinerario normale della mente quando apprende, tenuto conto della situazione di partenza del soggetto. Esso ci indirizza quindi sulla via di una pedagogia sperimentale che ci indicherà ‛come' bisogna insegnare. La presentazione di una lezione diventa oggetto di ricerca scientifica. Ad esempio, non è affatto evidente, come abbiamo già detto, che la presentazione più logica sia anche la migliore sul piano della efficacia pedagogica.
Tuttavia bisogna insistere sul fatto che la messa a punto di algoritmi validi non può che essere lunga e risultato di un lavoro ininterrotto e posto di continuo in discussione. Essa richiede un lavoro di équipe, in cui collaborino pedagogisti, filosofi dell'educazione, psicologi, studiosi di statistica e di informatica. I risultati saranno forse tanto migliori, in quanto si tratterà di problemi che implicano una successione di regole, la cui applicazione progressiva porterà sicuramente alla soluzione.
Prima di poter essere introdotto nelle nostre scuole, il calcolatore deve essere sottoposto a una lunga fase di ricerche, di esperimenti e di riflessioni. A conti fatti, se esso può sostituire l'insegnante nei limiti di sua competenza, il calcolatore più perfezionato resta sempre il cervello umano. La macchina avrà tanto più valore, quanto più si avvicinerà all'uomo; ad un uomo ideale, peraltro, cioè ad un insegnante che abbia ricevuto una formazione solidissima e vastissima, e che sia in grado di mettere le risorse della propria mente e della propria informazione al servizio delle possibilità che offre un bambino che apprende con tutta la ricchezza e la complessità della sua personalità.
Georges Elgozy ci mette in guardia: ‟Il pericolo non è che i calcolatori si mettano a pensare come uomini, checché pretendano i nostri aficionados di fantascienza. Il pericolo è che gli uomini si mettano a pensare come calcolatori. Quanti ci riescono già e quasi senza sforzo!" (v. Elgozy, 1971).
3. Conclusione
Vorremmo concludere con queste parole di J. Vial che, ci sembra, definiscono con precisione il problema educativo del XX secolo nei suoi termini metodologici: ‟Nessuno può contestare la necessità dell'uso, la crescente utilità, la irrefutabile influenza di ciò che chiamiamo - riducendo noi stessi la portata della pedagogia cibernetica - tecnopedagogia. Ma nessuno può negare i rischi di una ortodossia formale, di una scolastica ritualizzata, rischi forse più gravi, più costrittivi di quelli di un didattismo verbale. Le ricerche condotte, fra gli altri, da L. Itelson, in URSS - paese in cui la cibernetica è nazionalizzata - ci costringono, anche in questo campo, ad un reimpiego del fattore soggettivo. I miglioramenti metodologici o tecnici portati al sistema pedagogico tradizionale, possono farlo sopravvivere, renderlo più efficace sul piano dell'istruzione, permettergli di adempiere meglio alle funzioni non meno tradizionali di sorveglianza. Resta comunque il fatto che la stessa tecnopedagogia ha messo in rilievo l'inadeguatezza di fondo di ogni attività che non rispetti il bambino o l'adolescente nella sua natura e nelle relazioni che egli allaccia spontaneamente o volontariamente con altri o con il proprio ambiente. In breve, la pedagogia tradizionale, dapprima rafforzata dai progressi della informatica scientifica, è stata in seguito profondamente scossa dall'irrompere tardivo delle scienze dell'educazione. Passare dalla tecno-pedagogia alla bio-psico-socio-pedagogia significa passare dalla priorità dell'oggetto al primato del soggetto. In ciò consiste, senza dubbio, la vera rivoluzione pedagogica, al di là di ogni aggiornamento strumentale" (v. Vial, 1971, p. 441). È proprio questa prospettiva - è necessario dirlo? - rispondente alle esigenze di un vero umanesimo del XX secolo, che ha ispirato le pagine di questo scritto.
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