Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Elegie urbane: così potremmo definire i dipinti di Edward Hopper, figurativo puro e insieme cantore discreto di superfici, giochi di luce e colore, figure straniate nella vita diurna e notturna della città e della provincia americana: una sensibilità che forse ha trovato solo nel cinema o nel jazz degli anni Quaranta un’espressione altrettanto intensa e indelebile.
Hopper e l’Europa
Ben prima che i dipinti degli impressionisti diventino tra le icone più inseguite del pellegrinaggio cosiddetto culturale e planetario, l’ottuagenario pittore americano Edward Hopper dichiara in un’intervista del 1963 – quattro anni prima della sua morte –, come egli percepisca la propria pittura ancora profondamente impressionista. Il critico John Rewald ha da poco pubblicato la sua fondamentale History of Impressionism (New York 1961), ma parlare di una risalita delle sorti di quel tipo di pittura, in piena esplosione di cultura pop, non è ancora il caso. È dunque snobismo quello di Hopper, che mai si è interessato alle avanguardie da Picasso fino agli action painting , aggiundicandosi, insieme a pochi altri, il posto di figurativo puro nel secolo XX? Cosa lega lui, il pittore ormai consacrato – in patria e all’estero – padre di un immaginario in cui il paese e il sogno americano si riconoscono, alla stagione del colore, della luce, del plein air francese?
L’affermazione di Hopper, con quel tanto di provocatorio che può contenere contro i critici che lo additano come padre del realismo documentaristico americano, contro chi già collega la sua arte e quella di Andy Warhol, va presa sul serio e contestualizzata nella formazione di un artista che, in maniera simile allo scrittore Henry James o Ernest Hemingway, da una profonda immersione nella cultura europea aveva tratto i mezzi, l’ispirazione e la distanza emotiva per uno sguardo lucido, vero, e poetico al tempo stesso, sul proprio mondo.
Edward Hopper nasce a Nyack, un piccolo porto sull’oceano vicino a New York nel 1882. I genitori, proprietari di un negozio di stoffe, assecondano la sua vocazione artistica concedendogli di iscriversi alla Correspondence School of Illustrating a New York, nella speranza che l’apprendistato al disegno si traduca in un impiego concreto come pubblicista. Il giovane Hopper, presto deluso da quel tipo di insegnamento, si rivolge in seguito alla New York School of Art, dove studia per sei anni e incontra quelli che saranno i suoi maestri e amici per la vita: Robert Henry, leader dell’Ash Can mouvement, Joan Sloan, William Merrit Chase, Kenneth Hayes Miller, Patrick Henry Bruce che lo accompagnerà alla scoperta degli impressionisti, soprattutto Sisley, Renoir e Pissarro, nel lungo soggiorno di Hopper a Parigi tra il 1906 e il 1907. Nelle lezioni tenute da Robert Henry, Hopper scopre la pittura francese di fine Ottocento, appassionandosi alla straordinaria vitalità di Degas, Manet e Monet e alla loro esplorazione della luce, un tema che sarà centrale in tutta la produzione pittorica di Hopper. Il variopinto e conviviale mondo impressionista, nella pittura di Robert Henry, acquisisce un carattere di prosaicità quotidiana, nell’attenzione quasi esclusiva per i temi di vita urbana, gli interni rivelatori di una certa condizione sociale, l’intensa caratterizzazione psicologica dei personaggi. E su questo registro si situano anche le prime prove pittoriche di Hopper: la fanciulla seminuda seduta sul pavimento di una stanza di Summer Interior (Whitney Museum of American Art, New York) dipinta nel 1909, sembra una delle ballerine in deshabillé di Degas, anche per il modo di dipingere ricco di velature e colpi di pennello che si sovrappongono a campi di colore, una tecnica che in seguito Hopper abbandonerà. Ma c’è in questo dipinto anche un’attenzione per la luce e per le forme geometriche che essa ritaglia e proietta sulle superfici che il pittore svilupperà nel corso di tutta la carriera. Il rettangolo luminoso sul pavimento, riflesso di una finestra che non si vede, è un’anticipazione dei tagli di sole che coprono i muri interni e le facciate di molti dipinti, basti pensare al triangolo luminoso che divide il Barber Shop del 1931 (Neuberger Museum, State University of New York) o ai trapezi di chiarore che si proiettano nella strada buia dalla vetrina del Drug Store nell’omonimo dipinto del 1927 (Boston, Museum of Fine Arts). Alla scuola di Henry, Hopper scopre anche che i suoi amici e colleghi si guadagnano da vivere illustrando riviste, giornali e pubblicità e, per quanto non ami questo tipo di attività, anche lui ne trarrà di che vivere per almeno un ventennio.
Le copertine di “Scribner’s”, le pubblicità per compagnie di trasporto e di servizi, le riviste di catene alberghiere diventano il luogo in cui, nelle cromie ridotte dell’illustrazione commerciale, la memoria di Hopper satura di pittura francese decanta forme e figure, adattandondole all’intento narrativo e di comunicazione immediata insito nella grafica pubblicitaria, operando altresì una semplificazione, che per quanto sofferta dall’artista, non è priva di un continuum con la successiva produzione pittorica, dove del ridente mondo dei caffè all’aperto, degli opulenti interni alla Degas con figure sedute intorno a una scrivania, o dei boulevards parigini percorsi da passanti sarebbe rimasta solo l’impalcatura. Che quel mondo pittorico avesse bisogno di un filtro, di una decantazione per poter rifluire in una nuova maniera è piuttosto evidente se si pensa a uno dei dipinti meno fortunati e forse più sofferti di Hopper, Soir Bleu, dipinto nel 1914, dove, nell’insieme di citazioni non perfettamente amalgamate e finalizzate, è palpabile la difficoltà artistica e interiore espressa a chiare lettere dal pittore dopo il suo ultimo viaggio in Europa nel 1910: It took me almost ten years to get over Europe (“Mi ci vollero circa dieci anni per riprendermi dall’Europa”).
Edward Hopper, tra illustrazione e pittura
La disprezzata attività di grafico serve in tal senso. I was always interested in architecture, but the editors wanted people waving their arms (“Il mio interesse è sempre stato per l’architettura, ma i redattori volevano immagini di gente che sbracciasse”), così Edward Hopper nel 1935 cercava di prendere le distanze dal suo passato di illustratore secondo il racconto di Archer Winstein pubblicato il 26 novembre di quell’anno sul popolare “New York Post”. Solo a partire dalla metà degli anni Venti, Hopper riesce a vendere con successo i suoi acquerelli e poi i dipinti, svincolandosi progressivamente dalla necessità economica che aveva caratterizzato la sua attività come illustratore: il suo ultimo disegno pubblicitario è del 1927 per la rivista “Scribner’s”. La nuova condizione di pittore, in grado di mantenersi con la propria arte, lo rende certamente fiero di poter esercitare una libertà espressiva prima negata o comunque vincolata da pragmatiche ragioni commerciali e lo avvicina idealmente a quei pittori ancorati al secolo precedente che aveva studiato e amato. Tuttavia la frase raccolta dal giornalista nel 1935 dice molto di più che non il semplice distacco da una prima fase della propria carriera: a percorrere la vastissima produzione grafica del pittore, lasciata alla sua morte in eredità al Whitney Museum di New York, l’interesse per gli edifici, le strutture urbane o rurali, la geometria entro la quale l’occhio racchiude il mondo, l’omaggio alla pittura impressionista, sembrano di gran lunga più importanti che non l’adeguamento alle mode grafiche e commerciali del tempo. Perfino nella copertina di una rivista devota alla reclamizzazione degli svaghi e degli intrattenimenti alberghieri turistici come “Hotel Managements”, Hopper riesce a reinterpretare, pur nella ridotta gamma cromatica della copertina (quella del 25 settembre 1925), la grazia del Ballet de Bougival, il dipinto del 1883 di Auguste Renoir che ritrae una coppia danzante sullo sfondo di un caffè all’aperto. L’interesse per l’apparire delle strutture architettoniche, colte quasi sempre da un punto di vista rialzato o ribassato, mai frontalmente, si traduce negli acquerelli e nei dipinti degli anni Venti, Mansard Roof 1923 (New York Brooklyn Musem), New York Pavements 1924 (Virginia, Chrysler Museum of Art) Skyline near Washington Square 1925 (Munson William Proctor Institute Musem of Art, Utica, New York), Manhattan Bridge Loop, 1928 (Addison Gallery of American Art, Phillips Academy, Andover, Massachussets) nei quali l’occhio indaga moderne geometrie, tra vestigia del mondo preindustriale, come le dimore vittoriane, e segni della modernità ritratti con eguale distanza ed equanimità, con un’immersione nel colore, nelle ombre proiettate, nei vuoti e nei pieni che restituiscono eguale dignità alla stazione del carburante e alla casa coloniale.
Qui Hopper trova la propria lingua nell’adesione alla superficie delle cose, degli edifici che sono sinonimo della vita che vi si svolge, anche solo intravista, come in Night Windows del 1928 (fonte di ispirazione, come molti altri dipinti di Hopper, per l’occhio indagatore ed estetizzante di Alfred Hitchcock), o come nell’edificio ottocentesco di Skyline near Washington Square. Il palazzo si erge con la sola facciata decorata, il fianco è liscio e anonimo, in mezzo a un improvviso deserto urbano, dietro è qualche ciminiera, qualche sagoma di edificio, e in questo vuoto attorno a un pieno vi è un accumulo di tempo, quello storico, quello che segna la distanza tra la vecchia facciata e ciò che la circonda, ciò che ancora non è stato costruito ma si presagisce. È questo vuoto a incantare l’osservatore e tenerlo in un indefinito stato di sospensione. Una sorta di equivalente moderno del tema della meditazione sul tempo suggerita dalle rovine, tanto presente nell’arte occidentale.
Non diversamente accade con i dipinti in cui compaiono figure umane. Hopper aveva imparato dal realismo francese a rappresentare l’attimo in cui si svolge l’azione, cogliendolo da un punto di vista apparentemente casuale, con le figure di spalle, di tre quarti o appena accennate, come un qualunque osservatore potrebbe avere modo di percepire la scena: una segretaria apre un cassetto in Office at night, 1940 (Minneapolis, Walker Art Center); una coppia, vista di spalle, pranza in un affollato ristorante in New York Restaurant, 1922 (Michigan, Hackley Picture Fund, Muskegon Museum of Art); di una donna intenta a cambiarsi vediamo solo le gambe e le spalle in Night Windows, 1928 (New York, Museum of Modern Art). Ma il momento colto da Hopper non è mai in sé concluso, la narrazione rimane sempre sospesa tra un’azione e l’altra, e questa atmosfera sospensiva, di attesa che qualcosa si compia, è il luogo poetico per eccellenza della sua pittura, tanto da diventarne il tema stesso nelle numerose tele che raffigurano figure, per lo più donne, sedute davanti a finestre, Eleven A.M., 1926 (Washington, Smithsonian Institute); Hotel by a railroad, 1952 (Washington, Smithsonian Institute), Western Motel, 1957 (Yale, University Art Gallery) solo per citare alcuni dei più noti. Sospensione temporale e isolamento delle figure, quasi mai fra loro dialoganti, diventano le caratteristiche ricorrenti della pittura di Hopper nella sua piena maturità. Molta retorica si è spesa su questi aspetti della sua arte facendone il perno di una lettura che tende a vedere nel pittore americano il cantore dell’alienazione moderna e industriale, il maestro di un realismo che documenta l’incomunicabilità in cui vive l’uomo tecnologico. Ma ciò non spiega perché la pittura di Hopper incateni l’osservatore in uno spazio che, se fosse solo frutto di alienazione e oggettività, nessuno vorrebbe abitare. Vale la pena allora rifarsi alle parole del più fine interprete della sua arte, il poeta americano Mark Strand: “I dipinti di Hopper non sono documenti sociali, non sono neppure allegorie dell’infelicità [...]. La mia tesi è che i dipinti di Hopper trascendono l’apparenza della realtà e pongono l’osservatore in uno spazio virtuale dove predominano l’influenza e la presenza del sentimento”.