Vedi EFESO dell'anno: 1960 - 1973 - 1994
EFESO (ἡ Ηϕεσος, Ephésus)
Città dell'Asia Minore, originariamente centro indigeno e sede assai venerata di un culto della dea della fecondità della terra, che i Greci assimilarono poi ad Artemide, donde l'importante culto della Artemide Efesia; colonia di Ioni fra le più antiche della costa asiatica presso le foci del Piccolo Meandro, il Caistro degli antichi, felice per la sua posizione sulle rive di un golfo profondo al centro della costa dell'Anatolia ed allo sbocco della grande "strada reale" proveniente dall'interno della penisola; patria, assieme a Mileto, di filosofi grandissimi, più tardi capoluogo della provincia romana d'Asia e sede di un'attivissima comunità cristiana, che ripeteva i suoi inizî dalla predicazione di S. Paolo e di S. Giovanni Evangelista, il quale, secondo la tradizione, vi scrisse il quarto Vangelo e vi fu sepolto. La tradizione ne attribuiva la fondazione alle Amazzoni o ai mitici Efeso e Coresso. E. fu una delle città più popolose e ricche del mondo antico: come tale ebbe nei diversi momenti della sua vita secolare un alto sviluppo edilizio e una non comune fioritura di monumenti d'arte, di cui gli scavi, dovuti particolarmente, per quel che riguarda il santuario di Artemide, ad archeologi inglesi e per il complesso urbano all'Istituto Archeologico Austriaco, hanno riportato alla luce notevolissimi avanzi.
Quella vita secolare può, sotto i riguardi urbanistici, distinguersi in due periodi: il primo che va dalla fondazione della colonia greca, che la tradizione pone nell'XI sec. a. C., fino all'età ellenistica e cioè fino a Lisimaco di Tracia che restò padrone della città nel 287 a. C.; il secondo che comprende l'età ellenistica e romana; è nel quadro della città di questo secondo periodo che si inseriscono i primi edifici cristiani. In età bizantina, invece, il perimetro della città viene, come sempre, notevolmente ridotto; ma un altro nucleo abitato si costituisce sulla collina di Ayasuluk a N-E della città greca e romana, intorno alla chiesa di S. Giovanni, dove poi continua a vivere il piccolo centro turco.
Fino a qualche tempo fa si credeva che su questa collina fosse avvenuto pure il primo stanziamento ellenico, cioè quello dei coloni Ioni: ricerche posteriori hanno invece provato che tale stanziamento, fu sulla collina a N-O dello stadio, quindi presso il bacino dell'antico porto, dove sono stati riconosciuti scarsi avanzi di un tempio greco arcaico.
Ai piedi della collina di Ayasuluk, verso S-O, si alzava invece il santuario di Artemide. Le successive ricerche, compiute nel 1863-74 e nel 1883 dal Wood, poi nel 1903-04 dallo Hogarth, e continuate ancora per alcuni minori elementi, non privi tuttavia di interesse per le precisazioni cronologiche che hanno fornito, hanno determinato abbastanza chiaramente le diverse fasi di sviluppo di esso. La storia del santuario ha origine in età molto antica: prima della costruzione del tempio monumentale della metà del sec. VI a. C., si possono definire altre tre fasi anteriori, il cui inizio va posto, a giudicare dagli ex voto, soprattutto avorî e ori, e dalla ceramica, nell'VIII sec. a. C. La prima fase vide un tempio di tradizione cretese-micenea, e ne resta una piattaforma o basamento (m 4,36 × 2,86), accessibile da ponente, dove era una seconda piattaforma più piccola e più bassa, recinta da un muro: sulla prima era l'immagine della divinità, sulla seconda l'altare. In un secondo tempo, verso la metà del sec. VII, i due basamenti furono riuniti in uno solo, chiuso verosimilmente entro una cella; ancora più tardi fu costruito un vero e proprio tempio in antis (m 16 × 31) forse anche circondato da una peristasi. Tutte queste fasi, che appartengono al periodo di formazione dell'architettura greca classica, precedono il primo grande tempio in marmo, al quale si ricollegano il nome e il mecenatismo del re Creso di Lidia, fiorito intorno alla metà del sec. VI a. C. Tale rapporto ci determina l'età della costruzione, seppure non in modo assolutamente preciso: perché mentre da un lato la tradizione raccolta da Plinio e da Vitruvio (vii, 161) fà durare questa costruzione centoventi anni e associa ad essa l'opera di diversi architetti vissuti fra la prima metà del VI sec., Theodoros di Samo (architetto del tempio di Hera in quell'isola), Chersiphron di Cnosso e il figlio di questo Metagenes, e la metà del V, Paionios di E. e Demetrios, (intesi però da taluno-Dinsmoor-come architetti del nuovo Artemision) d'altro lato gli elementi della decorazione scultorea recuperati negli scavi rivelano chiaramente una diversità di stili corrispondente a una diversità di età, dalla metà del sec. VI al principio del V. Il tempio, di ordine ionico come tutti gli altri dell'Asia Minore, era lungo 115 m e largo 55; diptero (ma con tre file di colonne sulla fronte) aveva otto colonne sul pronao, nove sull'opistodomo e ventuno sui fianchi. Alcune delle colonne avevano la particolarità di essere decorate di rilievi intorno alla parte inferiore e di essere sostenute da dadi quadrangolari pure scolpiti: ne restano frammenti, ora nel British Museum, con figure gradienti di sacerdoti, sacerdotesse, offerenti. Tali sculture, databili alla metà circa del VI sec. (il nome di Creso è inciso sulla parte inferiore di uno dei rilievi) sono state attribuite allo scultore attico Endoios (v.). Innegabili sono alcune analogie con elementi dell'altro grande santuario asiatico, il Didymeion di Mileto. Il tempio sembra subisse i danni di un primo incendio circa l'anno 400 a. C., ma fu subito restaurato; andò invece completamente distrutto nel 356 per l'incendio appiccato da Erostrato nella notte stessa della nascita di Alessandro. Gli Efesini ne iniziarono subito la ricostruzione, che peraltro dovette protrarsi abbastanza a lungo, se Alessandro, visitando la città nel 334, si offrì di continuarne a sue spese i lavori. Il nuovo edificio (m 111 × 51) di cui fu architetto Chirokrates (o - secondo altra lettura - Deinokrates, l'architetto di Alessandro), sopraelevato su un'alta piattaforma a livello notevolmente maggiore del precedente, mantenne (secondo il Dinsmoor) le identiche caratteristiche di esso (in modo particolare ripeté lo schema ottastilo sulla fronte ed enneastilo sull'opistodomo con una orientazione ad O invece che ad E, consueta quest'ultima nei templi greci). Fu parimenti conservata nel nuovo tempio, annoverato fra le sette meraviglie del mondo, la particolarità delle colonne con la parte inferiore scolpita: tali colonne in numero di sedici occupavano le due prime file della facciata, mentre venti dadi scolpiti sostenevano le colonne tra le ante e avanti ad esse (cfr. fig. 275). Tali elementi architettonici scolpiti, nel numero complessivo di trentasei, sono ricordati da Plinio (Nat. hist., xxxvi, 95). Stando alla lettura più comune del passo citato da Plinio, una delle colonne sarebbe stata lavorata da Skopas: secondo altre letture, l'opera di Skopas sarebbe da estendere a tutte le sculture o da escludere completamente: in tal caso per l'accertamento della attività del maestro nell'Artemision siamo interamente rimessi all'esame oggettivo delle sculture recuperate. Fra queste eccelle per conservazione e per pregio quella nella quale compare la figura di Hermes tra due figure femminili panneggiate: accanto ad una di queste sta un giovane ignudo alato con spada al fianco, altre figure seguono ai lati: la scena è stata variamente interpretata, ma nessuna delle interpretazioni è scevra di difficoltà: tuttavia quella più generalmente accettata è quella che vi riconosce il ritorno di Alcesti dagli Inferi. Lo stile rivela innegabili analogie con altre opere sicuramente di Skopas, ma l'attribuzione a questo non può dirsi nemmeno essa del tutto sicura. Dall'esame delle monete si è potuto stabilire che il frontone di facciata era decorato con sculture, ed è stata tentata una ricostruzione grafica (cfr. B. Trell in bibl.). Il tempio e tutto il santuario contenevano ancora molte altre opere d'arte di scultura e di pittura: all'altare, stando a Strabone, avrebbe lavorato Prassitele; quanto all'immagine della dea, il tipo ci è noto dalle numerosissime repliche di età romana e dalle monete.
Per quanto sappiamo dalla tradizione, l'opera di Creso non si rivolse solo al tempio di Artemide, ma anche alla città che egli trasferì dalla collina vicino al porto, dove si erano stabiliti i primi coloni, nel piano adiacente al santuario. Tuttavia nulla di notevole ci resta di questa città più antica. La nostra conoscenza si fa più chiara solo con la città ellenistica di Lisimaco. Questi può considerarsi il fondatore della nuova E., da lui accresciuta nella popolazione e ribattezzata, sia pure con breve fortuna, Arsinoèia dal nome della moglie.
La città fu allora riportata sulle colline, e precisamente su quelle del Pion e del Coresso, oggi rispettivamente chiamata Panacir Daǧ e Bülbül Daǧ, ma ampliata anche nella pianura che si allarga ai loro piedi fino al porto, fu circondata di mura e la pianta ne fu tracciata secondo le regole ippodamee. Della cerchia di Lisimaco, che aveva uno sviluppo di 8 km, restano notevoli tratti lungo tutto il ciglio delle due colline: era costruita in conci squadrati, alta circa 6 m, e rafforzata da torri quadrangolari: si conoscono due porte, quella detta di Magnesia, nell'insellatura fra le due colline, da cui usciva la strada verso la valle del Meandro, e quella sotto le pendici settentrionali del Pion, per la quale si andava al santuario di Artemide: gli avanzi che oggi si vedono di quest'ultima appartengono peraltro al restauro bizantino.
Degli edifici della città ellenistica nessuno rimase in età romana e cristiana immune da modifiche, restauri, sovrapposizioni, sì che l'aspetto di cui noi oggi, dalle molte e belle rovine rimesse in luce, possiamo ritracciare le linee, è quello dato ad E. dall'ultimo periodo della sua esistenza. Le strade erano lunghe e diritte, fiancheggiate da portici, pavimentate a grandi lastre di calcare bianco: la principale di esse era l'Arcadiana, così chiamata dall'imperatore Arcadio (395-408) che da ultimo la restaurò, la quale su un percorso di circa 500 m attraversava tutta la parte piana della città dalle pendici del Pion, per il teatro sino al porto: alle due estremità del tronco principale, verso il teatro e verso il porto, si alzavano due porte: della prima restano lo zoccolo ed alcuni frammenti di rilievi; la seconda (v. Keil, Ephesos, f. 33, ricostruzione G. Niemann) era a tre passaggi, il centrale architravato, i laterali arcuati, e aveva le fronti decorate da coppie di colonne ioniche in aggetto: livello di costruzione e carattere della decorazione ci provano che essa è opera del primo periodo romano. Un'altra strada porticata, detta stoà di Damiano, dal sofista del II sec. d. C. che ne aveva curato la sistemazione, congiungeva, fuori la porta di Magnesia, la città con il tempio di Artemide. L'agorà mantenne sempre la sua pianta quadrata, di m 16o di lato, con portici a due navate tutto all'intorno e un orologio nel centro. L'ultima ricostruzione è della prima metà del III sec. d. C. Altri portici, sul tipo delle stoài ellenistiche, furono costruiti in età romana in altre parti della città: uno a E dell'agorà; un altro, molto più ampio, quadrangolare (m 200 × 240) a N dell'Arcadiana, rivestito di marmi sotto Adriano dall'asiarca Claudio Verulano; un terzo avanti all'odèon, di età augustea, caratteristico per i capitelli delle sue colonne ornati di teste di tori. In più punti sorgevano fontane o ninfei, tra cui quello presso la porta di Magnesia che faceva da mostra all'acqua del Marnas portata in città da C. Sestilio Pollione, al tempo di Augusto.
Di età ellenistica era il teatro, ricavato in una conca naturale del terreno: benché largamente trasformato dai Romani, conservò dell'età precedente la forma della cavea, che supera il semicerchio. L'elemento che subì i maggiori mutamenti fu, come di solito, la scena: costituita dapprima da un proscenio basso, con tre porte e pilastri con mezze colonne doriche tra esse, e da un muro retrostante più alto, ricevette poi la consueta decorazione a tre ordini sovrapposti: i primi due del tempo di Nerone, il più alto del principio del terzo secolo. Anche lo stadio, appoggiato con uno dei lati lunghi ad una collina, risale certamente nel suo primo impianto all'età ellenistica, ma ebbe restauri sotto Neròne e in periodo bizantino, anche per ospitare, oltre alle corse dei carri, spettacoli gladiatori e cacce di fiere. Interamente romano invece era l'odèon, o piccolo teatro coperto, costruito da P. Vedio Antonino, munifico cittadino del tempo di Antonino Pio. Di templi non si hanno che scarsi avanzi: uno era sullo sperone N-O del Coresso dedicato ad Hermes, donde il nome di Hermàion alla collina; un altro forse di Serapide, ad O dell'agorà: esso era chiuso entro un recinto. Da ricordare infine un tempio di Domiziano sulle pendici del Bülbül Daǧ, periptero octastilo con cella tetrastila e altare adorno di rilievi, e un santuario rupestre della Magna Mater è ai piedi del Panacir Daǧ, caratterizzato da nicchie ricavate nel sasso, nelle quali è raffigurata la dea insieme con Attis e con una divinità maschile barbata del tipo di Zeus. Edificio di singolare ricchezza era la biblioteca, donata alla città da un altro suo mecenate, Ti. Giulio Aquila Polemeano, per onorare la memoria del padre, Ti. Giulio Celso Polemeano, senatore e magistrato del tempio di Traiano. Esso sorgeva su una piccola piazzetta interna, comunicante con l'agorà a mezzo di una porta innalzata negli anni 4-3 a. C. da tali Mazeo e Mitridate in onore di Augusto, di Livia, di Agrippa e di Giulia. Era costituito da una sala quadrangolare aperta verso E: una parete doppia isolava l'interno della sala proteggendola dall'umidità e dando luogo insieme ad un corridoio interposto, da cui si accedeva da un lato ai ballatoi superiori, dall'altro alla camera sotterranea contenente la tomba a sarcofago di Celso Polemeano: singolare unione di edificio d'uso pubblico e di heròon. La fronte, preceduta da una gradinata, aveva tre porte in basso e tre finestre al piano superiore: tra le porte erano nicchie precedute da coppie di colonne in avancorpo e contenenti statue allegoriche delle virtù del personaggio onorato; le finestre erano inquadrate da edicole sostenute pure esse da colonne: tutta una complessa e movimentata decorazione architettonica dunque, caratteristica del periodo in cui fu ideata e costruita, il primo decennio del regno di Adriano, e resa ancor più preziosa dagli ornati delle lesene, delle cornici, della trabeazione. Analoga decorazione architettonica ricorreva nell'interno, sommergendo più che scandendo gli elementi funzionali della costruzione: dinanzi alle pareti, nelle quali si aprivano le nicchie per gli armadi dei volumi, su tre ordini sovrapposti, correva un colonnato a due piani, che le nascondeva completamente: al di sopra del colonnato girava un ballatoio scoperto. Nel mezzo della parete di fondo si incurvava un'abside vuota, in corrispondenza della camera-cripta.
In età tarda la fronte dell'edilicio fu trasformata in ninfeo, e per chiuderne il bacino furono adoperate alcune grandi lastre a rilievo tolte da un monumento onorario che commemorava le vittorie parthiche di M. Aurelio e L. Vero. Le lastre, oggi al museo di Vienna, rappresentano un imperatore (forse Lucio Vero) che sale sulla quadriga del Sole accompagnato da una Vittoria; Selene che scende dal carro nel mare; gli imperatori Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Lucio Vero rappresentati nella cerimonia della adozione di Antonino Pio (gennaio del 138 d. C.); combattimenti fra Romani e Barbari: la tradizione pergamena si unisce qui con motivi derivati dall'arte aulica romana e con forme che preannunciano l'avanzarsi di tendenze orientali, probabilmente siriache.
Sul lato O dell'agorà si innalzava un grandioso propileo di accesso con portico doppio ionico a due avancorpi laterali inquadranti una scalinata larga m 11 che scendeva in una larga via monumentale fiancheggiata da portici, terminante a O con una porta, come la via Arcadiana. Sul fianco S il portico, a 35 m dal propileo dell'agorà, era interrotto con una scalinata che conduceva attraverso ad una porta a una grande piazza circondata da portici, sul cui lato S sorgeva un grandioso tempio prostilo octastilo, largo m 29, con colonne alte m 15, monolitiche, che giacciono a terra in pezzi insieme a molti altri frammenti architettonici; la cella era coperta da una vòlta a botte. Il tempio è del Il sec. d. C. e si crede dedicato a Serapide. Tutta la via tra l'agorà e la porta di Magnesia è stata oggetto di scavi recenti che hanno messo in luce vari monumenti, e si è iniziata l'esplorazione dei quartieri di abitazioni sulle pendici del Panacir Daǧ; un tempio dedicato ad Adriano con pronao a due colonne fra due pilastri è riccamente decorato e sull'intercolunnio centrale la trabeazione si incurva ad arco. Si sono fatti scavi nelle terme di Scholastikia e nelle vie che le uniscono al Pritaneo, mettendo in luce vicino un ninfeo eretto in onore di Traiano e restaurato al tempo di Teodosio con facciata decorata; inoltre un arco della prima metà del V sec. d. C.
Più d'uno sono i ginnasî-terme; l'edificio che presso i Greci era destinato particolarmente agli esercizi dell'ephebèia, accoglie ora, sotto l'influsso romano, gli ambienti per i bagni, e ne nasce un tipo che ha insieme del ginnasio e della terma. L'esempio più notevole è quello del ginnasio costruito da P. Vedio Antonino: esso ha già adottato il tipo planimetrico delle terme ad asse centrale, pur non raggiungendo la grandiosità di proporzioni che gli edifici del genere hanno in altre province dell'Impero, soprattutto in Occidente. Un altro ginnasio era presso la porta di Magnesia, un terzo a N dell'Arcadiana, dal quale proviene una bella statua di Apoxyòmenos, ora a Vienna. Attiguo a quest'ultimo era un vero e proprio edificio termale, sorto originariamente nella seconda metà del I sec. d. C., ma restaurato e trasformato da Costanzo II, donde il nome che gli dà un'epigrafe di Thermae Constantianae.
Due costruzioni caratteristiche, costituite rispettivamente da un edificio ottagonale e circolare su base quadrata, e terminati da piramide a gradini, sono nell'interno della città a S-E del teatro: del secondo si è supposto fosse un monumento commemorativo eretto a ricordo della vittoria di Cuma sul pretendente alla successione di Attalo III, Andronico, ma non sembra: probabilmente si tratta in ambedue i casi di heròa, non si sa però a chi dedicati: è comunque interessante rilevare la loro ubicazione all'interno dell'abitato. Le necropoli, sui lati delle strade che uscivano dalla città, digradavano lungo le pendici delle colline; i sepolcri erano di varia forma: entro grotte naturali, a sarcofago, a mausoleo.
Tra questi deve essere ricordato, per il valore sia delle sue forme architettoniche che della decorazione scultorea, il mausoleo del villaggio di Belevi (a N-E di Selçuk), per quanto, distando esso alcuni chilometri dalla città, non sia da considerare proprio come ad essa pertinente. Dalla ricostruzione che, dagli elementi recuperati, può esserne fatta, esso ripeteva molto da vicino il mausoleo di Alicarnasso. Uno zoccolo in grossi conci, che rivestiva un nucleo interno tagliato nella roccia, era coronato da un fregio dorico e sosteneva una cella contornata da una peristasi di otto colonne corinzie per lato; al di sopra della cornice della peristasi nel lato di fronte stava, a guisa di sìma, una serie di leoni affrontati posti ai lati di vasi; agli angoli, come acroteri, erano coppie di cavalli. Rilievi con scene di centauromachia e di giochi agonistici ornavano i lacunari della peristasi; come il monumento si alzasse al di sopra di questa e terminasse in alto è incerto. La camera sepolcrale, ricavata nella roccia, era preceduta da un vestibolo; in essa ad una decorazione architettonica a colonne e architravi ad aggetto o rientranti, si aggiungeva la rappresentazione, non sappiamo se in pittura o a rilievo, della caduta di Fetonte, come può dedursi dall'iscrizione di un frammento con la menzione delle Eliadi. Il sarcofago è del tipo a klìne, con un fregio di sirene e le figure dei defunti recumbenti. L'edificio e il sarcofago dimostrano chiaramente che non furono mai finiti. Poiché la data del monumento sembra essere fissata al IV sec. a. C. (metà del III sec. secondo la datazione del Dinsmoor), si è fatta l'ipotesi che esso abbia potuto appartenere a Mentore di Rodi, comandante dei mercenari greci di Artaserse III, e fratello di Memnone, lo sconfitto di Alessandro alla battaglia del Granico. Secondo un'altra ipotesi nell'edificio si deve riconoscere la tomba di un dinasta ellenistico, forse Antioco II di Siria, morto ad E. nel 246 a. C.
All'importanza che religiosamente e gerarchicamente la chiesa di E. ebbe nel cristianesimo post-costantiniano e bizantino corrisponde il valore artistico e monumentale dei due maggiori edifici cristiani della città: la chiesa doppia della Vergine, o chiesa del Concilio, dove fu tenuta la grande assise del 431, che fissò il dogma di Maria come Theotokos, e la chiesa di S. Giovanni Evangelista.
La prima, situata nella parte settentrionale dell'abitato, fra il porto e la collina del tempio arcaico, sorse su un edificio antoniniano, di forma rettangolare allungata (m 265 × 30), orientato E-O, diviso internamente da due file di colonne e terminato alle estremità da due sale absidate coperte a cupola: lo si è chiamato mousèion, ma a quale uso esso fosse destinato, se a mercato o a sede di scuole, è incerto. Distrutto verosimilmente dai Goti nel 263, fu parzialmente adattato al culto cristiano in epoca costantiniana o subito dopo: nella sua parte occidentale fu ricavata una chiesa a tre navate (m 74,50 × 25,70), con abside fiancheggiata da pròthesis e diakonikòn, nartece, con bellissimo mosaico pavimentale e con colonne adossate alle strutture portanti e atrio dinanzi a questo. A N dell'atrio fu costruito ex novo un battistero: circolare all'interno, dodecagono esternamente, esso era chiuso a sua volta in un edificio quadrangolare: aveva quattro ingressi, e, tra l'uno e l'altro di questi, quattro grandi nicchie; era coperto da una cupola a mattoni, sotto la quale si apnva un giro di finestre. In essa col battistero, a S, stava l'ingresso alla basilica.
Questa prima chiesa, che è appunto quella in cui fu tenuto il concilio, subì una prima trasformazione nella seconda metà del sec. VI, al tempo di un vescovo Giovanni: nella parte occidentale di essa fu costruita una seconda chiesa lunga circa 46 m, pure a tre navate, absidata, ma, anziché a tetto, coperta da una cupola impiantata su quattro grossi pilastri. In tempo ancora posteriore, VII-VIII sec., andata distrutta o danneggiata la seconda chiesa, una terza ne fu ricavata in quella parte della prima che era rimasta ad E della seconda: fu anche questa un edificio con nartece e tre navate divise da pilastri; l'abside fu l'abside della chiesa primitiva. Adiacenti alle chiese così succedutesi nel tempo erano costruzioni di carattere civile, appartenute verosimilmente alla residenza del vescovo. Lo scavo del 1956 della Missione Italiana ad E., ha messo in luce ad E della basilica costantiniana un edificio termale.
La chiesa di S. Giovanni, sulla collina di Ayasuluk (prima "Αγιος Θεόλογος; poi il nome italiano Alto Loco ha originato il nome turco Ayasuluk ancor oggi usato, nonostante che, dopo il 1922, si fosse preferita la denominazione Selçuk), intorno alla quale si accentrò più tardi il villaggio turco, con la moschea selgiuchide di Isa I, è nella sua ultima fase una costruzione a pianta centrale di tipo caratteristicamente bizantino, ma essa fu preceduta da altre costruzioni che si collegano invece con le forme architettoniche romane. Le sue origini infatti risalgono al IV, se non anche al III sec., quando, al di sopra di un gruppo di stanze sotterranee, nelle quali evidentemente la tradizione venerava il luogo di deposizione di Giovanni Evangelista, fu innalzata una memoria quadrata (di m 18 di lato), coperta verosimilmente da vòlta a crociera impiantata su quattro colonne e con quattro porte sui lati; in un secondo momento la porta del lato E fu sostituita con un'abside. Al principio del sec. V la memoria fu racchiusa entro un'ampia basilica cruciforme con la fronte ad O. Il corpo anteriore, preceduto da nartece, exonàrthex e protiro, era a tre navate; pure a tre navate erano i bracci laterali; a cinque invece il corpo posteriore, terminato da un'abside. Tale forma di edificio si collega a quella di altri della Siria, costruiti come questo intorno ad un monumento di particolare importanza per la sua venerazione. La terza fase della chiesa è rappresentata dalla fabbrica giustinianea (non è certo tuttavia se la costruzione fosse stata già iniziata prima di Giustiniano e poi da questo ampliata e segnata del suo nome), sorta al di sopra della seconda, e ispirata alla nuova architettura che ha la sua maggiore espressione nella chiesa di S. Sofia e in quella degli Apostoli di Costantinopoli, con l'ultima delle quali la nuova chiesa di E. mostrava notevole affinità nella pianta e nell'alzato. Mantenendo lo stesso orientamento, la nuova chiesa ebbe anch'essa pianta a croce latina, ma la memoria, all'incrocio dei bracci, non fu più tenuta chiusa nei suoi muri originari: essa fu completamente aperta e messa quindi in diretto rapporto con il resto dell'edificio. Questo era preceduto da un atrio quadrangolare con portici a colonne su tre lati; dal nartece, coperto forse da cupolette, come il S. Marco di Venezia, cinque porte immettevano nella chiesa, lunga m 93 e larga in corrispondenza dei bracci 62. Nella parte anteriore, su sei pilastri poggiavano due cupole a pianta ellittica, corrispondenti a due campate della navata centrale; quattro colonne, su ogni lato di ciascuna di queste campate, dividevano la navata centrale dalle laterali: alcuni dei capitelli portano tracce di doratura e di colore e il monogramma di Giustiniano e Teodora. Analoga disposizione, a tre navate, con cupole a pianta circolare, avevano i bracci della croce e il presbiterio dietro la memoria: questa e il bèma erano coperti da un'altra cupola: secondo la tradizione la chiesa aveva infatti undici cupole. Al bèma si collegavano verso E il Synthronon, verso O un recinto chiuso per il clero, con l'ambone. Ai lati del presbiterio erano due camere quadrangolari e, dietro a queste, delle scale salivano ai matronei. Una ricca decorazione di marmi e di mosaici rivestiva pavimenti, pareti e vòlte.
L'attività edilizia del periodo bizantino è segnata ancora dalle due cerchie di mura che chiudono l'una la collina di Ayasuluk (la cosiddetta Cittadella), l'altra quella parte della città rimasta in uso in questo tempo: essa comprendeva soltanto la parte centrale e settentrionale della città ellenistica e romana; le mura, costruite verosimilmente nel sec. VII, correvano a mezza costa del Panacir Daǧ, si riunivano a N con le mura di Lisimaco, e a S, scendendo dal teatro al porto, lasciavano fuori il quartiere dell'agorà e della biblioteca. Che non si trascurasse nemmeno in questo tempo il decoro edilizio, lo provano una fontana con plutei scolpiti del sec. VI, e sull'Arcadiana un gruppo di quattro colonne su basi poligonali, decorate di nicchie che ricordano quelle dell'ambone di Salonicco (v. G. de Jerphanion, Mem. Acc. Pont. Arch., iii, 1932-3, p. 107 ss.); gli spazî tra nicchia e nicchia sono ornati a rilievo basso con croci, una colomba, foglie, ecc.
Dei cimiteri cristiani il più ampiamente esplorato è quello della pendice orientale del Panacir Daǧ presso la grotta dove la tradizione localizzava la leggenda dei Sette Dormienti. Il cimitero si sviluppò sopra e intorno ad una specie di catacomba costituita da dieci stanze allineate sui fianchi di un corridoio: in queste stanze non si ha traccia di sepolture: è probabile perciò che, se pure i locali servirono a tale scopo, i cadaveri dovettero esservi deposti al di fuori di casse, imbalsamati. Quando più tardi sepolcri in muratura furono costruiti sopra il piano e contro le pareti delle stanze, una di esse, ornata di pitture, rimase come cappella. Intorno alla metà del sec. V cominciò a formarsi al di sopra della catacomba il primo nucleo del cimitero, costituito da un edificio, parte in costruzione e parte ricavato dalla rupe stessa del monte: l'edificio comprendeva un ambiente quadrangolare al centro, e due ambienti più piccoli ai lati, uno dei quali destinato al culto; un altro ambiente verso occidente faceva da atrio: dappertutto erano tombe; a cassa, a nicchia, in costruzione, o sotto il pavimento o entro le pareti. A grado a grado il cimitero si estese sulle terrazze adiacenti; l'ultima parte di esso è rappresentato dal cosiddetto Mausoleo di Abradas, dal nome di questo personaggio, un αργυροϕύλοξ, inciso su un architrave: anche questo mausoleo, parte in muratura e parte tagliato nella rupe, si distingue dalle costruzioni precedenti per la sua pianta a schema centrale, che lo fa credere ispirato alla basilica giustinianea di S. Giovanni, e quindi posteriore al sec. VI. Mosaici e pitture, le più tarde delle quali, con il Cristo benedicente fra Angeli, la Madonna e Santi scendono al sec. XIII, ornavano pavimenti, pareti e vòlte dei vari ambienti.
(P. Romanelli *)
Bibl.: Per la bibl. completa sino al 1937 si veda A. M. Mansel, Bibliografya, Ankara 1948, p. 158 ss. Tra le opere più importanti si veda: E. Guhl, Ephesiaca, Berlino 1843; E. Falkener, Ephesus and the Temple of Diana, Londra 1862; J. T. Wood, Discoveries at Ephesus, Londra 1877; Büchner, in Pauly-Wissowa, V, 1905, c. 2773 ss., s. v.; D. G. Hoghart, Excavations at Ephesus, Londra 1908; F. N. Pryce, Cat. of Sculpture Greek a. Rom. Antiquities, Brit. Mus., I, Londra 1928, p. 32 ss.; R. Vallois, in Mélanges Glotz, II, 1932, p. 839 ss.; F. Krischen, in W. Dörpfeld, Festschr. z. 80. Geburtst., Berlino 1933, p. 71 ss.; W. B. Dinsmoor, The Architecture of Ancient Greece, Londra 1950, p. 127 e 223. (Artemision): B. Trell, The Temple of Artemis at Ephesos, in Num. Notes a. Monogr., 107, 1945; J. Keil, Führer durch Ephesos, Vienna 1955; F. Krischen, Weltwunder der Baukunst in Babylonien und Jonien, Tubinga 1956, p. 62; 68; 93; A. W. Lawrence, Greek Architecture, Harmondsworth 1957, p. 132 e 196. Le relazioni degli scavi della città compiuti dall'Ist. Arch. Austriaco sono nei volumi degli Oesterr. Jahresh.: O. Benndorf-R. Heberdey, in Jahreshefte (Beiblatt), dal 1898 al 1907; J. Keil, ibid., dal 1912 al 1937; F. Miltner, ibid., nel 1955 e 1956. Più ampî studî sui singoli monumenti sono nelle Forschungen in Ephesos (Veröffentlich. v. Oesterr. Archäol. Inst.): I, Vienna 1906; O. Benndorf, Zur Ortskunde und Stadtgeschichte; G. Niemann, Die Seldschukischen Bauwerke in Ayasluk; W. Wilberg-R. Heberdey, Der Viersäulenbau auf der Akrkadianenstrasse; G. Niemann-R. Heberdey, Der Viersäulenbau auf der Arkadianenstrasse; G. Niemann-R. Heberdey, Der Rundbau auf den Panajir dagh; O. Benndorf, Erzstatue eines griechischen Athleten; O. Benndorf-W. Wilberg, studien am Artemision (der Alte Tempel); A. Schindler, Bemerkungen zur Karte; R. C. Kukula, Literarische Zeugnisse über den Artemistempel., II, Vienna 1912: R. Héberdey-W. Wilberg-G. Niemann, Das Theater in Ephesus. III, Vienna 1923; W. Wilberg, Die Agorà; W. Wilberg-G. Niemann-R. Heberdey, Torbauten am Hafen; Ph. Forchheimer, Wasserleitungen; W. Wilberg, Der Aquadukt des C. Sextilius Pollio; W. Wilberg, Das Brunnenhaus am Theater. IV (1), Vienna 1932; E. Reisch-F. Knoll-J. Keil, Die Marienkirche in Ephesus. IV (2), Vienna 1937: C. Praschniker-F. Miltner-H. Gerstinger, Das Cömeterium der Sieben Schläfer. IV (3), Vienna 1951: J. Keil-G. A. Sotiriu-H. Hörmann-F. Miltner, Die Johannekirche. V (1), Vienna 1953: W. Wilberg-M. Theuer-F. Eichler-J. Keil, Die Bibliothek, Vienna 1953, Mausoleo di Belevi: G. Weber, Tumulus et hieron de Belevi, Smirne 1880; Ch. Picard, in Revue Arch., 1933, p. 332 ss.; G. Rodenwaldt, in Jahrbuch, LXI-LXII, 1946-7, c. 38 ss.; C. Praschniker, in Anzeiger d. phil. hist. Kl. d. öst. Akad. d. Wissenschafter, 1948; J. Keil, ibid., 1949; M. Demus-Quatember, in Palladio, N. S., VII, 1957, p. 50 ss.
Per i monumenti cristiani, oltre agli autori già citati, si veda: J. Strzygowski, Kleinasien, ein Neuland der Kunstgeschichte, Lipsia 1903; V. Schulte, Altchristliche Städte und Landschaften, Kleinasien, II, Gütersloh 1926, p. 86 ss.; S. Guyer, in Atti del III Congr. Arch. Crist., Rom 193, p. 433 ss.; F. Fasolo, in Fede e Arte, III, 1955, p. 263 ss.; id., in Palladio, N. S., VI, 1956, p. 1 ss.
Per le più recenti scoperte di sculture: W. Hahland, in Jahreshefte, XLI, 1954, p. 54; W. Alzinger, in Jahreshefte, XLII, 1955, p. 27 ss.; F. Eichler, in Jahreshefte, XLIII, 1956-58, p. 7 ss. (amazzone e altre sculture del teatro).
(P. Romanelli - L. Guerrini)