Effetti ecologici dei cambiamenti climatici
Con il termine cambiamento climatico si intende qualsiasi modificazione di stato del clima, identificabile mediante analisi delle variazioni dei valori medi o di misure di variabilità climatica nel corso del tempo, normalmente nell’arco di decenni o secoli. Tali cambiamenti possono essere attribuiti alle attività umane e al loro impatto sulla biosfera, in maniera diretta o indiretta, ovvero alla variabilità climatica naturale e alla sua evoluzione diacronica (Climate change 2007. Synthesis report, 2008). L’Intergovernmental panel on climate change (IPCC), principale organismo internazionale deputato allo studio dei cambiamenti climatici attuali, sviluppatosi nell’ambito della collaborazione tra World meteorological organization (WMO) e United Nations environment programme (UNEP), a cui collaborano sia scienziati afferenti a numerose discipline sia rappresentanti governativi, redige regolari resoconti dell’andamento del clima a livello globale che riassumono lo ‘stato dell’arte’ delle conoscenze relative ai cambiamenti climatici attuali.
Entità e distribuzione geografica dei cambiamenti climatici attuali
Secondo il rapporto sul cambiamento climatico pubblicato dall’IPCC nel 2008, il riscaldamento globale è da considerarsi una realtà ormai ben consolidata, come evidenziato dalle osservazioni di aumento della temperatura dell’aria e degli oceani, dal diffuso scioglimento delle nevi perenni, dei ghiacciai montani e delle calotte polari artiche, nonché da un aumento del livello medio degli oceani.
Il rapporto mette in evidenza un incremento medio globale delle temperature pari a 0,74 °C nel periodo 1906-2006, con un tasso di incremento per decennio pari a 0,13 °C nel periodo 1956-2006. L’innalzamento delle temperature non è diffuso omogeneamente sul globo terrestre, ma risulta maggiormente accentuato nelle aree boreali e artiche e sulle terre emerse rispetto agli oceani. Per es., il tasso di incremento delle temperature nella regione artica negli ultimi 100 anni è stato pari al doppio del tasso medio globale. A seguito di ciò, si è osservato un decremento della superficie della calotta polare artica pari al 2,7% per decennio, valutato attraverso rilevazioni satellitari condotte a partire dal 1978. Lo scioglimento dei ghiacciai perenni e delle calotte polari, unitamente all’espansione termica degli oceani conseguente al riscaldamento delle acque, ha provocato un aumento del livello medio globale degli oceani stimato in 1,8 mm per anno nel periodo 1961-2003, con un marcato incremento (3,4 mm per anno) nel decennio 1993-2003. Infine, nel periodo 1900-2005 sono stati documentati significativi cambiamenti nei regimi di precipitazione in numerose aree del globo. In particolare, si è osservata una riduzione delle precipitazioni nella regione mediterranea, nell’Africa subsahariana (Sahel) e in alcune regioni dell’Asia meridionale, mentre le precipitazioni risultano aumentate nelle regioni orientali delle Americhe, in Europa settentrionale e in Asia centrale. Il confronto tra le tendenze osservate nel corso del 20° sec., le proiezioni di aumento delle temperature nel corso del 21° sec. e le rilevazioni paleoclimatiche suggeriscono che cambiamenti di tale rapidità non si sono mai verificati nel corso degli ultimi 10.000 anni, durante i quali il clima terrestre è risultato relativamente stabile.
Pur senza addentrarsi nelle complessità e nelle incertezze riguardanti l’identificazione delle cause, che esulano dallo scopo di questo saggio, è opportuno ricordare che le stime attuali attribuiscono con elevata probabilità alle attività umane, in particolare all’emissione in atmosfera di imponenti quantità dei cosiddetti gas serra (per es., CO2 e CH4), la responsabilità dei cambiamenti climatici globali osservati nel corso della seconda metà del 20° secolo. La concentrazione atmosferica attuale dei gas serra, in particolare di CO2, considerato tra i principali ‘motori’ del cambiamento climatico, risulta di circa il 30% superiore rispetto ai livelli massimi stimati negli ultimi 650.000-800.000 anni (Climate change 2007. Synthesis report, 2008; Lüthi, Le Floch, Bereiter et al. 2008).
Modalità delle risposte ecologiche ai cambiamenti climatici
Esistono ormai ampie evidenze scientifiche che i cambiamenti climatici hanno importanti ripercussioni sugli organismi, sulle comunità, sugli ecosistemi e sul loro funzionamento. A livello di organismi, le conseguenze ecologiche meglio documentate riguardano i cambiamenti nella fenologia – l’andamento stagionale di fenomeni biologici (per es., fioritura delle piante, periodo di migrazione degli uccelli) – e le modificazioni degli areali, in senso sia verticale (per es., spostamenti altitudinali) sia orizzontale (per es., spostamenti verso le regioni polari), nel corso del tempo. È tuttavia opportuno premettere una nota cautelativa: gli studi relativi alle conseguenze ecologiche dei cambiamenti climatici soffrono di una carenza fondamentale, in quanto si tratta, per evidenti ragioni, di studi a carattere correlativo e non sperimentale. Non è infatti possibile stabilire un nesso di causa-effetto tra le modificazioni climatiche e le risposte di ecosistemi e organismi, essendo impensabile condurre manipolazioni controllate delle condizioni climatiche su ampia scala e osservarne le conseguenze ecologiche. Va pertanto considerata l’ipotesi alternativa che le osservazioni relative alle risposte degli organismi ai cambiamenti climatici costituiscano in realtà risposte a modificazioni ecologiche di altro tipo, verificatesi contestualmente (per es., modificazioni e trasformazioni ambientali). Questa possibilità è stata di recente confutata da alcuni studi, condotti mediante tecniche di metanalisi (Parmesan 2006).
Le indagini metanalitiche, in origine sviluppate in ambito medico e biomedico per la valutazione dell’efficacia di trattamenti farmacologici, consentono infatti di condurre sintesi quantitative dei risultati di un gran numero di studi scientifici, nel caso specifico relativi a modificazioni nella fenologia o negli areali, al fine di evidenziare un eventuale ‘segnale’ comune dai risultati dei singoli studi. Tali metanalisi hanno messo in luce che le risposte ecologiche documentate costituiscono un’impronta (fingerprint) assai attendibile dei cambiamenti climatici in atto: la direzione complessiva delle modificazioni osservate è in larga parte coerente con uno scenario di riscaldamento globale, rendendo pertanto altamente improbabili spiegazioni alternative. La temperatura costituisce infatti un fattore ecologico fondamentale che governa, direttamente o indirettamente, i cicli vitali e gli spostamenti degli organismi e ne determina in maniera spesso accurata la distribuzione, sia verticale sia orizzontale, in particolar modo per quanto riguarda piante e consumatori primari, per es. gli insetti (Begon, Townsend,Harper 20064).
Cambiamenti nella fenologia e desincronizzazione dei cicli vitali
La maggior parte degli studi concernenti i cambiamenti fenologici riguarda le regioni temperate dell’emisfero settentrionale, sia per ragioni storiche sia perché in queste aree i cambiamenti climatici dovrebbero essere più rilevanti rispetto ad altre parti del globo (Parmesan 2006). Di seguito si farà pertanto riferimento in prevalenza alla regione temperata.
L’interesse verso gli eventi che scandiscono il susseguirsi delle stagioni costituisce un carattere fortemente radicato nella cultura delle popolazioni umane, in particolar modo tra quelle insediate nelle regioni settentrionali del pianeta, a causa del forte impatto sociologico che il cambiamento delle stagioni comporta in tali aree, caratterizzate da una stagionalità marcata e da inverni lunghi, bui e freddi. Ciò ha fatto sì che tra i popoli insediati alle alte latitudini delle regioni boreali vi fosse una particolare attenzione verso le prime avvisaglie dell’inizio della primavera, quali la data di comparsa delle prime foglie degli alberi, quella di fioritura di particolari specie di piante, oppure la data di comparsa di una specie di farfalla o quella di arrivo di una specie di uccello migratore. L’analisi dettagliata di queste osservazioni, delle quali è rimasta traccia in molti casi per svariati secoli (per es., esistono resoconti accurati relativi alla data di inizio fioritura del ciliegio giapponese Prunus jamasakura dal 1400 ai giorni nostri), ha consentito di valutare i cambiamenti fenologici attuali alla luce della fenologia del passato (Parmesan 2006).
Uno dei temi centrali relativi agli effetti ecologici dei mutamenti climatici riguarda l’interpretazione dei cambiamenti fenologici. Questi possono essere infatti per molti versi interpretati come un segnale positivo, in quanto gli organismi rispondono attivamente alle modificazioni del clima, così come è certamente avvenuto nel corso della loro storia evolutiva (in ultima analisi, ciò potrebbe consentirne la sopravvivenza). D’altro canto, i cambiamenti fenologici osservati possono essere considerati un segnale preoccupante, in quanto indicano in maniera chiara che i mutamenti climatici in atto stanno esercitando un forte impatto sulla biosfera (Visser 2008).
Numerosi lavori documentano in maniera chiara un anticipo dell’inizio del periodo vegetativo primaverile nelle piante, sia nella regione paleartica sia in quella neartica, conseguente all’innalzamento delle temperature medie invernali e primaverili (Parmesan 2006). In entrambe le regioni, nella seconda metà del 20° sec., è stato osservato un anticipo lineare delle date di inizio del periodo vegetativo pari a circa 1-1,5 giorni per decennio. L’analisi delle tendenze secolari della data di prima fioritura di Prunus jamasakura in Giappone ha evidenziato una forte variabilità interannuale, ma nessuna tendenza temporale, tra il Quattrocento e gli inizi del Novecento. Tuttavia, a partire dal 1952, si è osservata una netta ed evidente tendenza all’anticipo, che risulta superiore alla variabilità evidenziata nel corso dei 600 anni precedenti. In aggiunta, nel periodo 1959-1993, in Europa si è rilevato un posticipo del termine della stagione vegetativa autunnale risultante in un aumento complessivo della durata del periodo vegetativo estivo pari a 10,8 giorni, stimato in base a osservazioni, raccolte annualmente in maniera standardizzata da una rete di giardini botanici, relative alle date di inizio e termine di specifiche fasi vegetative di cloni di un insieme di specie.
Le variazioni temporali nel periodo vegetativo delle piante e il concomitante aumento delle temperature medie in una determinata area hanno importanti conseguenze sulla fenologia degli organismi che da esse dipendono direttamente (per es., gli insetti fitofagi) e sulla fenologia dei livelli trofici successivi (per es., gli uccelli). In conseguenza di ciò, sono stati documentati cambiamenti a lungo termine nella fenologia di specie di insetti, tra i quali un anticipo delle date di comparsa primaverile di specie di lepidotteri diurni, o un anticipo delle date di massima abbondanza di bruchi fitofagi, che costituiscono la principale fonte di cibo di numerose specie di uccelli durante il periodo riproduttivo (Parmesan 2006). La data di prima osservazione primaverile di 26 su 35 specie di lepidotteri diurni in Gran Bretagna ha subito un anticipo nel periodo 1976-1998 e risultati analoghi sono stati registrati in Spagna (anticipo osservato in 17 specie su 17 nel periodo 1988-2002) e in California, dove si è verificato un anticipo pari in media a 24 giorni in 31 anni, che ha riguardato il 70% di 23 specie. Le date di massima abbondanza di bruchi fitofagi (larve del lepidottero notturno Opheroptera brumata) nei querco-carpineti dell’Europa settentrionale hanno subito un anticipo stimato in circa 9 giorni nel periodo 1973-1995 (Visser 2008). In Gran Bretagna, un’analisi dettagliata di oltre 74.000 dati di nidificazione di specie di uccelli nel periodo 1971-1995 ha evidenziato una tendenza di anticipo della data media di nidificazione in 51 specie su 65, e per le 20 specie in cui tale anticipo è risultato statisticamente significativo l’anticipo medio riscontrato nel periodo in esame è stato pari a 8,8 giorni.
È interessante sottolineare la considerevole eterogeneità nelle risposte fenologiche degli organismi ai cambiamenti climatici, con alcuni taxa che mostrano risposte più evidenti rispetto ad altri, verosimilmente in ragione di una differente sensibilità ai fattori climatici. Tale eterogeneità può avere importanti conseguenze ecologiche, in particolare per le molte specie che presentano cicli vitali caratterizzati da una spiccata stagionalità, poiché la loro riproduzione può avvenire in un lasso di tempo molto limitato del ciclo annuale, generalmente coincidente con il periodo di massima disponibilità di risorse per la riproduzione. È infatti possibile che le risorse, quando costituite da altri organismi, mostrino una risposta differente ai cambiamenti climatici rispetto agli organismi che da esse dipendono per una riproduzione di successo. Questo fenomeno può condurre a una desincronizzazione (mismatch) tra cicli vitali in differenti livelli trofici altrimenti sincronizzati, con conseguenze potenzialmente rilevanti sulla biologia riproduttiva degli organismi che dipendono da altri la cui disponibilità sia variabile nel corso dell’anno.
È importante sottolineare come dinamiche di questo tipo dovrebbero essersi comunemente verificate nel corso della storia evolutiva degli organismi attuali, nell’ambito delle ingenti fluttuazioni climatiche che hanno caratterizzato la biosfera nelle ere geologiche. Pertanto, molti organismi devono aver evoluto la capacità di adattarsi all’andamento temporale degli organismi da cui dipendono. Tuttavia, l’apparente maggiore rapidità dei cambiamenti climatici attuali rispetto alle fluttuazioni del clima esperite dagli organismi nel corso della loro storia evolutiva potrebbe costituire un limite al mantenimento della sincronia dei cicli vitali tra molte specie. Molti organismi potrebbero infatti non essere in grado di tenere il passo di cambiamenti climatici più rapidi rispetto a quelli che hanno caratterizzato la loro evoluzione. Inoltre, i cambiamenti attuali non sembrano distribuiti in maniera uniforme nel corso del ciclo stagionale. Pertanto, se specie differenti differiscono nel periodo critico che determina in maniera causale la risposta fenologica, il cambiamento differenziale delle condizioni climatiche tra periodi dell’anno può costituire un significativo fattore di desincronizzazione dei cicli vitali. In alcune specie si hanno prove che questo fenomeno sia attualmente in corso. Una recente rassegna ha messo infatti in evidenza come ben 8 specie su 11, ampiamente rappresentative dal punto di vista tassonomico (dal plancton marino ad alcune specie di uccelli), abbiano avuto, nella seconda metà del 20° sec., una risposta fenologica eccessiva o insufficiente rispetto a quella delle risorse da cui esse dipendono.
Un esempio paradigmatico riguarda i cambiamenti nella fenologia delle larve del lepidottero Opheroptera brumata e di specie di uccelli boschivi, in particolare della cinciallegra Parus major, nei boschi dell’Europa settentrionale. Studi a lungo termine condotti in differenti popolazioni di questi due animali (Gran Bretragna e Paesi Bassi) hanno mostrato come la fenologia della nidificazione della cinciallegra, una specie non migratrice, abbia subito un cambiamento diverso rispetto alla fenologia del periodo di massima abbondanza delle larve di Opheroptera brumata, che costituiscono la principale fonte di cibo per gli uccelli boschivi (Visser 2008). Una simile desincronizzazione può interessare in maniera anche più rilevante specie di uccelli migratori (v. oltre).
Modificazioni di areale ed estinzioni
Le modificazioni di areale conseguenti ai cambiamenti climatici costituiscono un’importante modalità di risposta degli organismi alle trasformazioni ambientali. I cambiamenti di areale rispondono alle esigenze degli organismi di occupare, compatibilmente con vincoli di ordine geografico e fisiologico, l’areale maggiormente idoneo a portare a compimento il proprio ciclo vitale. Variazioni spaziotemporali nelle condizioni climatiche possono pertanto determinare cambiamenti in quelle ambientali e nella distribuzione e abbondanza di risorse, contribuendo a determinare in maniera diretta o indiretta spostamenti, ampliamenti o contrazioni degli areali occupati dalle diverse specie. Per es., è ben noto come le modificazioni climatiche succedutesi dopo l’ultimo periodo glaciale abbiano contribuito in maniera determinante a delineare gli areali attuali degli organismi (Begon, Townsend, Harper 20064).
Per quanto riguarda le modificazioni di areale conseguenti alla recente tendenza al riscaldamento globale, esistono ampie e documentate evidenze di spostamenti compatibili con tale scenario tra le specie dell’emisfero boreale. In quest’area del globo, un aumento delle temperature medie può consentire a molte specie, la cui distribuzione geografica sia limitata dalle basse temperature, di espandere il margine settentrionale dell’areale verso nord. Analogamente, in specie la cui distribuzione altitudinale sia limitata dalle basse temperature, uno scenario di riscaldamento può consentire un’espansione degli areali verso quote più elevate. Viceversa, ci si attende che specie tipiche di alte latitudini o specie montane, caratterizzate da un’elevata sensibilità alle alte temperature, mostrino una contrazione del margine meridionale dell’areale, oppure un innalzamento del margine inferiore della distribuzione altitudinale, fenomeni che in entrambi i casi possono comportare una contrazione complessiva dell’areale, una contrazione numerica e un maggiore grado di frammentazione delle popolazioni, con un conseguente aumento del rischio di estinzione locale o globale (Parmesan 2006).
Gli studi sulle modificazioni di areale in relazione ai cambiamenti climatici riguardano prevalentemente specie di uccelli, lepidotteri diurni e piante. Uno studio condotto in Gran Bretagna ha confrontato la distribuzione geografica degli uccelli nidificanti tra due periodi, 1968-1972 e 1988-1991. Si è osservato che 59 specie di uccelli nidificanti a distribuzione prevalentemente meridionale avevano espanso verso nord il margine settentrionale dell’areale di 18,9 km in media. Risultati analoghi sono stati ottenuti in studi condotti su lepidotteri diurni in Europa, nei quali si è evidenziato come per ben 22 specie su 35 il margine settentrionale degli areali si sia spostato verso nord di 35-240 km nel corso del 20° sec., mentre solo due specie hanno mostrato una tendenza all’espansione verso sud. Per specie di clima caldo, pertanto, questi andamenti costituiscono un ampliamento netto di areale. Va infatti sottolineato che in gran parte degli studi relativi alle variazioni latitudinali di areale sono state documentate espansioni verso nord dei margini settentrionali degli areali, ma non contrazioni dei margini meridionali. Questo fenomeno può essere dovuto al fatto che i margini meridionali sono più sensibili a fattori non climatici, quali l’intensità della competizione interspecifica, oppure al fatto che le regioni meridionali delle aree temperate possono aver esperito un cambiamento climatico più contenuto rispetto alle regioni settentrionali (Parmesan 2006).
Tra le specie circumpolari, si sono osservate marcate riduzioni sia delle popolazioni più meridionali dell’orso polare Ursus maritimus, conseguenti a un deterioramento dello stato di salute provocato dall’aumento delle temperature in queste aree, sia delle popolazioni più settentrionali del pinguino di Adelia Pygoscelis adeliae e del pinguino imperatore Aptenodytes forsteri in Antartide (Parmesan 2006). Il pinguino imperatore, in particolare, ha subito un drastico calo della popolazione (50%) nidificante a Terra Adelia nel periodo compreso tra il 1952 e il 2000. Questo calo è avvenuto contestualmente a un periodo prolungato di elevate temperature, che ha determinato una netta riduzione sia della copertura glaciale sia della disponibilità di crostacei (in particolare di krill, Euphausia superba) e di molluschi predatori del krill, che costituiscono la principale fonte alimentare del pinguino imperatore. La riduzione della popolazione è stata attribuita a una minore sopravvivenza degli adulti a causa della scarsità di risorse alimentari. È interessante notare come nello stesso periodo il successo di schiusa delle uova sia aumentato a causa della riduzione della densità di adulti riproduttori, ma questo miglioramento del successo riproduttivo non è stato sufficiente a bilanciare gli effetti negativi dell’aumento della mortalità degli adulti sulla dimensione della popolazione.
Studi relativi alle variazioni altitudinali di areale di specie di piante vascolari, condotti nelle zone alpine, hanno mostrato un evidente innalzamento della distribuzione di molte specie verso quote più elevate nel corso del 20° secolo. In particolare, in stazioni di alta quota (2900-3500 m s.l.m.) si è osservato un incremento nella ricchezza di specie pari a circa il 12% tra il 1994 e il 2004. Tuttavia, tutte le specie dell’orizzonte nivale o subnivale hanno mostrato un decremento significativo della percentuale di copertura, mentre è aumentata quella delle specie alpine pioniere, a indicare una contrazione del margine inferiore dell’areale a carico delle specie nivali e subnivali e un’espansione concomitante del limite superiore dell’areale delle specie pioniere (Pauli, Gottfried, Reiter et al. 2007).
Uno studio condotto in un’area montuosa della Spagna centrale ha evidenziato come nei limiti altitudinali inferiori della distribuzione di 16 specie di lepidotteri diurni propri delle aree montane si sia verificato un innalzamento pari a 200 m in circa 30 anni (1970-2004), in corrispondenza di un incremento delle temperature medie annue pari a circa 1,3 °C nello stesso periodo. È interessante notare come l’innalzamento medio osservato nei margini meridionali degli areali corrisponda all’innalzamento previsto (circa 225 m) delle isoterme, stimato sulla base di un decremento delle temperature pari a circa 6 °C per 1000 m di innalzamento di quota, a indicare un’ accurata corrispondenza tra la distribuzione altitudinale di queste specie e le relative variazioni di temperatura. I cambiamenti climatici in atto hanno pertanto condotto a una contrazione media degli areali delle specie in questione pari a circa il 30% in 30 anni, a seguito dell’innalzamento del limite altitudinale inferiore, con un conseguente aumento significativo del rischio di estinzione (Wilson, D. Gutiérrez, J. Gutiérrez et al. 2005).
Come già accennato, i cambiamenti climatici e le conseguenti contrazioni di areale possono condurre a fenomeni di estinzione locale o globale e a un’ erosione della diversità biologica complessiva, in particolare nelle aree circumpolari o montane. Un caso eclatante è rappresentato dalla rapida scomparsa di oltre il 65% delle 110 specie di anfibi del genere Atelopus nelle foreste tropicali montane dell’America Centrale e Meridionale, documentata nel corso degli ultimi venti-trenta anni del 20° secolo. La rapida scomparsa di queste specie è stata attribuita all’aumento delle epidemie di chitridiomicosi (che viene provocata dal fungo patogeno Batrachochytrium dendrobatidis) nelle regioni di alta quota, aumento provocato dalle modificazioni climatiche verificatesi in queste aree a seguito del recente riscaldamento globale. Si è osservato infatti un innalzamento delle temperature notturne e della copertura nuvolosa, entrambe condizioni favorevoli allo sviluppo del fungo, nella fascia altitudinale compresa tra 1000 e 2400 m s.l.m., fascia maggiormente interessata dalle estinzioni (Pounds, Bustamante, Coloma et al. 2006).
Comportamento migratorio e cambiamenti climatici
Gli organismi migratori, in virtù dei cospicui spostamenti e della varietà di condizioni climatiche e ambientali cui vanno incontro nel corso del ciclo vitale, sono caratterizzati da una particolare suscettibilità ai cambiamenti climatici. Tra tali organismi, gli uccelli costituiscono il gruppo in cui le relazioni tra comportamento migratorio e clima sono state maggiormente indagate. In particolare, molti studi hanno analizzato la fenologia della migrazione in relazione a variabili meteoclimatiche, evidenziando come le condizioni meteorologiche lungo il percorso migratorio siano in grado di influenzare la data di arrivo a destinazione dei migratori (Lehikoinen, Sparks, Zalakevicius 2004).
I primi dati raccolti in maniera sistematica sulla fenologia della migrazione degli uccelli risalgono alla metà del 18° sec., quando si riteneva che la comparsa di particolari specie di migratori potesse fornire indicazioni sul periodo più propizio per l’inizio di determinate attività agricole primaverili, in particolare in Gran Bretagna e Fennoscandia. Pertanto in merito alle date di primo arrivo annuale di specie di uccelli esistono serie storiche della durata di alcuni secoli, che hanno consentito dettagliate analisi retrospettive. L’analisi di queste prolungate serie storiche ha permesso di evidenziare una relativa omogeneità nelle date di arrivo fino alla metà del 20° sec., mentre nel periodo successivo appare evidente una netta e lineare tendenza all’anticipo. A conferma di tali recenti tendenze, l’analisi di un gran numero di serie storiche (oltre 650) di date di prima osservazione primaverile di oltre 180 specie di migratori relative al periodo 1960-2006 ha fornito una stima di anticipo medio pari a 0,37 giorni per anno tra il 1960 e il 2006, equivalente a circa 4 giorni per decennio (Rubolini, Møller, Rainio, Lehikoinen 2007). L’anticipo delle date di arrivo primaverili in Europa appare generalizzato, nonostante esista una marcata variabilità geografica, verosimilmente correlata alla variabilità geografica e locale dell’entità dei cambiamenti climatici. Inoltre, un anticipo simile delle date di arrivo è stato osservato anche per le specie di migratori nella regione neartica (Lehikoinen, Sparks, Zalakevicius 2004).
La tendenza verso un arrivo anticipato dei migratori è direttamente correlabile a quella di incremento delle temperature medie primaverili e di anticipo dell’inizio della stagione vegetativa che si è osservato contestualmente in Europa, nonostante non sia del tutto chiaro se i migratori rispondano a un aumento delle temperature lungo il percorso, nelle aree di partenza per la migrazione, oppure in quelle prossime all’arrivo. I migratori a breve raggio, svernanti in Europa meridionale o nel bacino del Mediterraneo, tendono a mostrare un anticipo più pronunciato delle date di arrivo rispetto ai migratori a lungo raggio, che trascorrono l’inverno a grande distanza dai quartieri di nidificazione. Questo è probabilmente conseguenza del fatto che i migratori a breve raggio, passando l’inverno in aree geograficamente prossime ai quartieri di nidificazione, sono in grado di rispondere a un innalzamento delle temperature in maniera più efficace rispetto ai migratori a lunga distanza. Un tale innalzamento nelle aree di svernamento è infatti verosimilmente correlato a un incremento delle temperature nelle aree di nidificazione, corrispondente a condizioni favorevoli per l’arrivo. Viceversa, i migratori a lunga distanza potrebbero avere maggiori difficoltà nel prevedere condizioni meteoclimatiche favorevoli nelle aree di arrivo, dato che le aree di svernamento sono localizzate a distanze considerevoli, dell’ordine di diverse migliaia di chilometri, dalle aree di nidificazione (Both, Visser 2001). La tendenza a un arrivo primaverile precoce e la risposta fenologica degli uccelli migratori a un aumento delle temperature (in media 2 giorni di anticipo per un innalzamento pari a 1 °C) sono correlabili all’anticipo che si osserva nella fenologia primaverile relativo alla maturazione della vegetazione e al picco di disponibilità di risorse (per es., insetti) nelle aree boreali. Va sottolineato che la risposta fenologica di piante e insetti alle fluttuazioni di temperatura è nettamente più marcata (in media 6 giorni di anticipo per un innalzamento della temperatura pari a 1 °C), e questo potrebbe condurre alla già citata desincronizzazione dei cicli vitali (Robinson, Learmonth, Hutson et al. 2005).
Un caso ben studiato è rappresentato dalla balia nera Ficedula hypoleuca, un piccolo passeriforme insettivoro e migratore a lunga distanza, che nidifica nelle foreste dell’Eurasia e sverna nell’Africa subsahariana. In Europa, le tendenze temporali delle date medie di nidificazione di questa specie sono correlate alle tendenze temporali delle temperature locali (Both, Artemyev, Blaauw et al. 2004). Ciò è dovuto al fatto che la data media di nidificazione mostra una forte correlazione con l’andamento delle temperature locali e la riproduzione tende ad avvenire mediamente prima in primavere con temperature più miti. Tuttavia, in alcune popolazioni si è osservato che, a fronte di un significativo anticipo temporale del picco di risorse trofiche primaverili, la data di nidificazione ha subito un anticipo di entità inferiore, legato a un mancato arrivo anticipato dai quartieri di svernamento. Pertanto, la migrazione a lunga distanza può limitare in maniera significativa la capacità degli organismi di tenere il passo di cambiamenti climatici che avvengono con modalità differenti in aree geografiche distanti, quali aree di nidificazione e di svernamento. Inoltre, si è osservato che il grado di desincronizzazione tra il picco di risorse trofiche e la data media di nidificazione varia tra differenti popolazioni locali, in quanto alcune di esse mostrano una tendenza all’anticipo della nidificazione paragonabile alla tendenza all’anticipo del periodo di massima disponibilità delle risorse, mentre in altre popolazioni non si osserva un’analoga tendenza nonostante un anticipo del picco di risorse. Questa variabilità nelle risposte, che conduce a una variazione del successo riproduttivo tra popolazioni (popolazioni la cui fenologia riproduttiva risulti maggiormente sincronizzata rispetto all’andamento stagionale delle risorse tendono a mostrare un successo riproduttivo superiore), esercita marcate conseguenze sulla dinamica di popolazione. Le popolazioni caratterizzate da una minore sincronia con l’andamento stagionale delle risorse mostrano un netto declino demografico (fino al 90% della popolazione iniziale in due decenni), mentre popolazioni maggiormente sincronizzate risultano stabili o in lieve aumento (Both, Bouwhuis, Lessells, Visser 2006).
I rapidi cambiamenti climatici in atto possono quindi costituire un significativo fattore di minaccia per molte specie di organismi migratori che trascorrono parti del ciclo annuale in aree geografiche distanti. In aggiunta, le modificazioni climatiche possono nel contempo favorire specie residenti nidificanti nelle stesse comunità, in quanto meno limitate nell’anticipare la data di riproduzione rispetto ai migratori, provocando un’alterazione dei regimi di competizione interspecifica per le risorse ed esacerbando le conseguenze negative a carico delle specie migratrici.
Plasticità fenotipica o microevoluzione?
Qualsiasi alterazione delle condizioni ambientali, incluso il clima, può imporre forti pressioni selettive su caratteri rilevanti per la riproduzione e la sopravvivenza degli organismi. Le modalità di risposta da parte degli organismi alle pressioni selettive imposte dai cambiamenti climatici possono essere di tre tipi.
In primo luogo, come già accennato, gli organismi possono subire modificazioni di areale e disperdersi in habitat e climi idonei localizzati in aree geograficamente distanti. In secondo luogo, gli organismi possono persistere in situ modificando le proprie caratteristiche fenotipiche in relazione ai cambiamenti ambientali, ma senza variazioni rilevanti di tipo genetico e di frequenze dei diversi genotipi nella popolazione. Questa modalità di risposta implica un certo grado di plasticità del fenotipo e comporta modificazioni fenotipiche di carattere prevalentemente ontogenetico o comportamentale, a carico sia degli stessi individui sottoposti a differenti condizioni ambientali sia della progenie, durante i processi di sviluppo. La plasticità fenotipica viene descritta attraverso le norme di reazione, che definiscono i pattern di espressione fenotipica di uno stesso genotipo sottoposto a differenti condizioni ambientali. In terzo luogo, la selezione naturale può favorire la riproduzione e la sopravvivenza di individui portatori di specifici genotipi e modificare nel tempo le frequenze geniche all’interno della popolazione, conducendo a fenomeni di microevoluzione. Il cambiamento delle frequenze geniche può avvenire mediante selezione genotipica, oppure tramite flusso genico, a seguito, per es., di fenomeni di dispersione e immigrazione di particolari genotipi. Nel caso di pressioni selettive intense e direzionali, il cambiamento delle frequenze geniche può verificarsi anche nell’arco di poche generazioni, come suggerito da studi di selezione artificiale condotti in specie di uccelli migratori in cui si è stimato che è possibile ottenere popolazioni interamente stanziali da popolazioni interamente migratrici (e viceversa) nell’arco di 3-6 generazioni (Berthold 20012).
L’importanza relativa di queste tre modalità di risposta ai cambiamenti climatici nelle diverse specie dipende sia da caratteristiche specie-specifiche, quali la capacità di dispersione e le strategie riproduttive, sia dalla rapidità dei cambiamenti e dalla disponibilità di ambienti alternativi, ed è possibile che gli organismi adottino modalità di risposta combinate. Attualmente è in corso un acceso dibattito riguardo alla distinzione tra plasticità fenotipica e microevoluzione come risposte in situ prevalenti degli organismi ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale. Tale distinzione è fondamentale nella misura in cui una risposta mediata da plasticità fenotipica risulti potenzialmente meno efficace, benché più rapida, rispetto a una risposta mediata da fenomeni microevolutivi. Ciò è possibile in quanto la variabilità fenotipica compatibile con fenomeni di plasticità fenotipica è decisamente ridotta rispetto alla variabilità fenotipica potenzialmente conseguente a fenomeni microevolutivi. Questa limitazione può risultare di importanza fondamentale nel caso in cui i cambiamenti climatici si manifestino con intensità tale che una risposta mediata da plasticità fenotipica sia insufficiente a garantire la persistenza a lungo termine di una popolazione. Modificazioni del fenotipo mediate da fenomeni microevolutivi, se ampiamente diffuse, potrebbero consentire di conseguenza un rapido ed efficace adattamento ai cambiamenti climatici in atto. Tuttavia, le due modalità di risposta in situ potrebbero non essere mutuamente esclusive, in quanto le norme di reazione possono variare tra individui, hanno una componente ereditabile e possono pertanto essere sottoposte a selezione naturale. È quindi possibile una microevoluzione delle norme di reazione stesse in risposta a rapidi cambiamenti climatici.
Attualmente, le evidenze relative a modificazioni fenotipiche di carattere microevolutivo in risposta ai cambiamenti climatici sono estremamente limitate. In gran parte dei casi, è impossibile attribuire le risposte fenotipiche documentate a plasticità fenotipica o microevoluzione. Ciò è dovuto prevalentemente alla scarsità di informazioni a lungo termine riguardo all’ intensità di selezione o alla composizione genetica delle popolazioni, soprattutto a causa di difficoltà di ordine pratico connesse alla raccolta di tali informazioni in popolazioni naturali. È tuttavia possibile elencare alcuni casi in cui sia stata quantomeno inferita una risposta adattativa di carattere microevolutivo ai cambiamenti climatici. Nelle popolazioni settentrionali del dittero culicide nordamericano Wyeomyia smithii si è osservata, nell’arco di 24 anni (1972-1996), una modificazione della risposta fotoperiodica stagionale relativamente al fotoperiodo critico che stimola l’inizio del tempo di quiescenza invernale (Bradshaw, Holzapfel 2001). Queste popolazioni, saggiate in laboratorio in condizioni di fotoperiodo controllato, mostrano una risposta fotoperiodica simile a quella osservata nelle popolazioni meridionali e differente rispetto a quella osservabile 24 anni prima. La risposta fotoperiodica corrente provoca un posticipo dell’inizio della diapausa invernale rispetto al passato stimabile in circa 9 giorni in 24 anni. Ciò suggerisce che nelle popolazioni settentrionali si siano verificate modificazioni delle frequenze geniche (la risposta fotoperiodica è infatti un carattere geneticamente controllato) che avrebbero funzione adattativa in quanto consentirebbero agli individui di tali popolazioni di sfruttare la contemporanea estensione del periodo vegetativo estivo conseguente al riscaldamento globale. Altri esempi riguardano i cambiamenti nel comportamento migratorio della capinera Sylvia atricapilla, anche se il legame con le condizioni climatiche in questo caso è poco chiaro, e l’anticipo delle date di parto nello scoiattolo nordamericano Tamiasciurus hudsonicus, in cui è stato possibile determinare l’importanza relativa di plasticità fenotipica e processi microevolutivi nella risposta all’aumento delle temperature all’interno delle aree riproduttive (Gienapp, Teplitsky, Alho et al. 2008).
Riguardo alla frequenza effettiva di risposte microevolutive ai cambiamenti climatici in popolazioni naturali, una recente rassegna indica che gran parte delle evidenze attuali di adattamenti ai mutamenti climatici sono compatibili con fenomeni di plasticità fenotipica piuttosto che di carattere microevolutivo, come suggerito dall’analisi delle stime di entità del cambiamento fenotipico per generazione, le quali sarebbero estremamente elevate e incompatibili con i tassi evolutivi attualmente noti (Gienapp, Teplitsky, Alho et al. 2008; Visser 2008). È quindi verosimile che nelle condizioni attuali la plasticità fenotipica svolga un ruolo fondamentale nei meccanismi di adattamento in situ degli organismi al riscaldamento globale.
Studi futuri, possibilmente volti a identificare direttamente i geni o le regioni geniche interessate da cambiamenti microevolutivi (quantomeno per caratteri sottoposti a un controllo genetico relativamente semplice), consentiranno di migliorare le conoscenze riguardanti le modalità di risposta degli organismi a rapidi mutamenti climatici e di prevederne le probabilità di persistenza. Va comunque sottolineato che anche cambiamenti di carattere microevolutivo possono non essere sufficienti a prevenire fenomeni di estinzione di popolazioni ed erosione della biodiversità in uno scenario di rapido cambiamento climatico, in quanto è stato dimostrato che non tutte le specie hanno un potenziale evolutivo tale da rispondere in maniera adattativa a un’intensa selezione direzionale causata dal mutamento delle condizioni climatiche e da cospicue trasformazioni ambientali (Gienapp, Teplitsky, Alho et al. 2008).
Scenari futuri
Le previsioni relative alle probabilità future di adattamento degli organismi ai cambiamenti climatici in atto sono attualmente limitate da un considerevole grado di incertezza, rispetto sia all’intensità dei cambiamenti climatici futuri sia alla valutazione dei loro effetti. Nonostante ciò, tali analisi possono fornire indicazioni circa le possibili conseguenze ecologiche dei cambiamenti climatici nel breve e medio termine nell’ambito di differenti scenari. La necessità di prevedere i possibili effetti dei mutamenti climatici sulla biosfera e sugli organismi deriva dalla considerazione che tali mutamenti costituiscono uno dei principali fattori di minaccia della diversità biologica a livello globale, con potenziali importanti ricadute sul funzionamento degli ecosistemi e sulla probabilità di persistenza della specie umana (MEA 2005).
Le indagini relative alla previsione degli effetti dei mutamenti climatici sulla biodiversità vengono condotte prevalentemente mediante analisi delle modificazioni di areale. Il processo comporta la realizzazione di modelli predittivi della distribuzione attuale degli organismi in funzione di variabili climatiche e successivamente la previsione della distribuzione futura in base a diverse caratteristiche regionali di mutamento climatico, assumendo che le attuali associazioni tra distribuzione degli organismi e clima rimangano invariate nel tempo. È importante sottolineare come queste previsioni dipendano in maniera sostanziale da ulteriori significativi assunti riguardo alle caratteristiche ecologiche degli organismi e alle loro modalità di dispersione.
Numerosi esercizi di simulazione hanno stimato il rischio di estinzione nell’ambito degli attuali scenari di cambiamento climatico. Queste simulazioni indicano che il 15-37% delle specie di piante e animali di varie aree del globo sarà condannato all’estinzione entro il 2050 (Thomas, Cameron, Green et al. 2004). Le simulazioni sono state condotte valutando la riduzione potenziale di areale climaticamente adatto a un insieme di specie sulla base delle tendenze climatiche ipotizzate fino al 2050 e stimando la riduzione percentuale di specie, conseguente alla riduzione di areale, sulla base della relazione specie-area (maggiore la superficie di un’area, maggiore il numero di specie in essa contenute; la formula della relazione specie-area è S=cAz, dove S indica la ricchezza di specie, A la superficie, c e z sono costanti empiriche; i valori di z, stimati per un gran numero di organismi, sono tipicamente compresi tra 0,15 e 0,35). Altre simulazioni suggeriscono inoltre come il rischio di estinzione possa variare in modo non lineare con il variare delle condizioni climatiche e che possano esistere condizioni soglia oltrepassate le quali la probabilità di estinzione di una certa popolazione aumenta drammaticamente (Travis 2003).
Va inoltre considerato il fatto che i cambiamenti climatici potrebbero agire sinergicamente con le trasformazioni e distruzioni di habitat di natura antropogenica, le quali interessano una frazione consistente della Terra (il 25% della superficie terrestre risulta attualmente coltivato; MEA 2005). La distruzione degli habitat e i processi a essa connessi, come la frammentazione degli ambienti naturali residui, possono ridurre drasticamente dimensioni e vitalità delle popolazioni e influenzare negativamente le capacità di dispersione degli individui, contribuendo ad aumentare in maniera significativa il rischio di estinzione conseguente ai cambiamenti climatici. Alcune simulazioni suggeriscono che specie stenoecie – ossia caratterizzate da una limitata tolleranza alle variazioni delle condizioni ambientali –, in particolare se con limitata capacità di dispersione, siano soggette a un maggior rischio di estinzione e che l’interazione tra mutamenti climatici e distruzione dell’habitat possa avere conseguenze drammatiche sulla biodiversità, in quanto una marcata distruzione di habitat può far sì che molte specie vadano incontro a estinzione anche in condizioni di cambiamenti climatici relativamente contenuti (Travis 2003).
Uno dei pochi studi empirici in questo ambito, condotto su 46 specie di lepidotteri diurni in Gran Bretagna, sembra confermare tali previsioni. Ci si potrebbe infatti attendere che il riscaldamento globale favorisca sia l’espansione sia la consistenza delle popolazioni di numerose specie di lepidotteri nelle aree dell’Europa settentrionale, Gran Bretagna inclusa. Contrariamente a questa attesa, si è osservato che il 75% delle specie indagate ha mostrato un declino delle popolazioni tra il 1970 e il 2000, suggerendo che le trasformazioni di habitat verificatesi nel contempo abbiano influenzato negativamente le popolazioni più di quanto il cambiamento climatico possa averle favorite. Questo studio ha anche messo in evidenza che specie euriecie – ossia in grado di tollerare ampie variazioni nelle condizioni ambientali – e caratterizzate da elevata capacità di dispersione hanno mostrato una tendenza a espandere il proprio areale, mentre circa il 90% delle specie residenti, stenoecie e con limitata capacità di dispersione, ha mostrato cospicue contrazioni (Warren, Hill, Thomas et al. 2001). Pertanto, i mutamenti climatici in atto, agendo in maniera congiunta con le trasformazioni degli habitat, possono avere conseguenze rilevanti sulla struttura e composizione delle comunità ecologiche, le quali in futuro potrebbero risultare dominate da specie generaliste e caratterizzate da un’elevata capacità di dispersione. Inoltre, è prevedibile che l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sulla biodiversità non sia uniforme alle diverse latitudini e che, contrariamente a quanto si possa immaginare sulla base dell’entità del riscaldamento globale, possa essere maggiore nelle aree tropicali rispetto a quelle temperate.
Un recente studio suggerisce infatti che gli organismi terrestri tropicali potrebbero risultare maggiormente suscettibili al riscaldamento climatico rispetto a specie delle aree temperate, nonostante ci si aspetti che un riscaldamento delle regioni tropicali sia relativamente contenuto (Deutsch, Tewksbury, Huey et al. 2008). Infatti, le specie tropicali sono caratterizzate in media da un’elevata sensibilità alle modificazioni di temperatura, in quanto adattate a vivere a temperature prossime a quelle ottimali. Per converso, le specie delle aree temperate sono caratterizzate da una maggiore tolleranza alle variazioni di temperatura e frequentano regioni le cui temperature risultano inferiori a quelle ottimali dal punto di vista fisiologico. Queste specie, come già suggerito per i lepidotteri dell’Europa settentrionale, potrebbero teoricamente essere favorite da fenomeni di riscaldamento globale. È pertanto possibile che aspetti di questo tipo abbiano un impatto negativo relativamente maggiore sulla biodiversità in regioni tropicali rispetto a regioni temperate. Tale situazione si rivela particolarmente preoccupante per l’elevata diversità biologica delle regioni tropicali, molto maggiore rispetto a quella delle aree temperate. Coerentemente con questa ipotesi, alcune proiezioni relative alla distribuzione di oltre 1300 specie di piante vascolari europee indicano che, in base agli scenari previsti di cambiamento climatico, entro il 2080 circa la metà delle specie studiate potrebbe essere considerata a rischio di estinzione, in prevalenza tra le specie montane (60% delle specie estinte o a rischio), mentre si prevede che nelle regioni boreali potrebbero scomparire solo poche specie, in virtù di una tolleranza maggiore alle variazioni di temperatura delle specie presenti nelle suddette aree. Le simulazioni suggeriscono inoltre che nelle aree boreali la ricchezza complessiva di specie di piante tenderà ad aumentare in virtù di fenomeni di immigrazione di nuove specie da regioni meridionali (W. Thuiller, S. Lavorel, M.B. Araújo et al., Climate change threats to plant diversity in Europe, «Proceedings of the National academy of sciences of the United States of America», 2005, 102, pp. 8245-50).
In conclusione, appare evidente da quanto finora esposto che i mutamenti climatici in atto avranno importanti ripercussioni sulla consistenza e sulla distribuzione spaziale della diversità biologica. Un aspetto da non sottovalutare è la possibilità che gli organismi e gli ecosistemi rispondano in maniera non lineare e imprevedibile agli effetti congiunti dei mutamenti climatici e degli altri fattori di pressione di origine antropica. Questa possibilità dovrebbe condurre a pianificare e adottare con la massima urgenza adeguate misure di mitigazione per far fronte alle potenziali drammatiche conseguenze dei cambiamenti climatici globali sugli organismi, sul funzionamento degli ecosistemi e sulle società umane nel futuro prossimo (MEA 2005).
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