Effetti penali delle definizioni agevolate
La revisione del sistema sanzionatorio attuativa della delega n. 23/2014 riconduce al pagamento del debito tributario una causa di non punibilità e, nel caso di reati più gravi, una circostanza attenuante speciale, dando una certa rilevanza a tal fine anche ai piani di pagamento concordati con l’amministrazione finanziaria o al ravvedimento operoso del contribuente. Tali prospettive sollecitano una riflessione di carattere generale sulla sistematicità o meno di tali previsioni con il principio del cd. doppio binario e sull’individuazione del bene giuridico tutelato dal diritto penale tributario e della nozione stessa del tributo in attuazione del principio di capacità contributiva.
Per esaminare il tema degli effetti penali delle definizioni agevolate in ambito tributario del “debito d’imposta”, appare necessario muovere da alcune premesse di carattere sistematico, funzionali a verificare in che limiti il cd. particolarismo della materia tributaria possa incidere sui principi di diritto penale e viceversa.
Come è noto, il concorso alle pubbliche spese in ragione della capacità contributiva, previsto dall’art. 53 Cost., e declinato nel sistema ordinamentale attraverso le scelte del legislatore, può essere direttamente o mediatamente pregiudicato dalla violazione di norme tributarie da parte dei contribuenti e dei soggetti che per legge concorrono nell’adempimento dei tributi. Dette violazioni possono riguardare prescrizioni che hanno ad oggetto obbligazioni di pagamento (rispetto alle quali si determina dunque un inadempimento rimediabile sotto il profilo patrimoniale) e obblighi (incoercibili in concreto e dunque solo sanzionabili).
L’interesse ordinamentale alla rapida e certa esazione dei tributi e all’efficiente attuazione del sistema fiscale ha portato nel tempo, a più riprese e con diverse giustificazioni, a considerare compatibili con i principi generali della materia tributaria “moduli consensuali” latamente intesi che, sia in sede amministrativa, che processuale, portino ad una diversa definizione delle contestazioni operate dagli uffici fiscali in ragione della funzione di accertamento. Analogamente, è stato considerato meritevole, sotto il particolare profilo della riduzione della sanzione amministrativa, il ravvedimento operoso del contribuente che manifesti il suo errore prima dell’esercizio della funzione di accertamento da parte degli uffici.
Premesso dunque che ai fini fiscali il legislatore ammette (ed in una certa misura agevola) tali istituti cd. deflattivi del contenzioso, occorre allora verificare quali siano i loro effetti sul piano penale alla luce delle diverse scelte operate nel tempo dal legislatore, anche al fine di indagare se e in che termini i rapporti tra i due ambiti disciplinari possano intendersi conformi o meno ai relativi principi generali e tra loro coerenti1. Tali dubbi possono trovare evidentemente delle risposte esaurienti solo in conseguenza dell’individuazione dei presupposti funzionali dei relativi settori: il corretto concorso alle pubbliche spese in ragione di una determinata fattispecie posta in essere dal contribuente (rispetto al quale occorre rimediare all’evasione d’imposta in ottemperanza all’art. 53 Cost.) e la repressione della condotta effettivamente offensiva di un bene giuridico penalmente tutelato dall’ordinamento (rispetto alla quale la sanzione ha valenza punitiva e, al contempo, riabilitativa del reo).Non è questa la sede per una riflessione approfondita circa il ruolo del principio di offensività in materia tributaria al fine di una corretta individuazione del bene interesse da tutelare attraverso la sanzione penale, nell’alternativa tra un interesse di natura patrimoniale (esatta riscossione dei tributi finalizzati al patrimonio statale) e interesse di natura funzionale (esatto adempimento delle obbligazioni e degli obblighi necessari al corretto funzionamento del sistema tributario articolato nell’imposizione dei tributi, riscossione degli stessi e distribuzione dei medesimi per le esigenze della collettività), seppure la propensione per l’una o l’altra tesi non può non tenere conto a livello ordinamentale della nozione stessa di tributo e di sistema tributario2.
È un dato storico che nel tempo si siano susseguite diverse scelte del legislatore che progressivamente hanno portato a ridurre notevolmente l’ambito della tutela penale in materia tributaria eliminando pressoché i reati di pericolo a favore di quelli di danno. Se dunque paiono oggi maggiormente accreditate le tesi che annoverano i reati tributari tra quelli contro il patrimonio dello Stato, ciò dovrebbe condurre più ragionevolmente ad una nozione di tributo quale mero istituto di riparto delle pubbliche spese, a scapito di altre che argomentino da una visione autoritaria del rapporto Fisco-contribuente e ancora da una ricostruzione del sistema tributario in ragione dell’interesse fiscale.
In questa prospettiva la valutazione del danno patrimoniale effettivamente realizzato pone il tema se la sanzione penale debba essere “necessariamente” riconsiderata in conseguenza di vicende del debito che diano luogo unilateralmente (come nel caso del ravvedimento) o meno (come nel caso di accertamento con adesione e conciliazione giudiziale) ad una sua rideterminazione; se cioè l’estinzione del debito nei confronti dell’Erario (unitamente al pagamento di eventuali altre “componenti patrimoniali” come sanzioni e interessi), nella misura stabilita in sede amministrativa, anche attraverso moduli cd. latamente consensuali, possa incidere in ambito penale ai fini non tanto della colpevolezza, quanto della determinazione della pena o della punibilità.
Tali interrogativi vanno risolti alla luce delle scelte del legislatore nel disciplinare il rapporto tra l’accertamento del debito tributario in sede amministrativa e il procedimento penale. Come è noto, il sistema è passato dal principio della pregiudiziale tributaria a quello del doppio binario, oggi sancito dall’art. 20 del d.lgs. 10.3.2000, n. 74, in forza del quale «il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione». Detta autonomia si manifesta, dunque, in concreto nei differenti iter motivazionali degli atti che risponderanno, appunto ai distinti canoni dei relativi settori, quanto, ad esempio, alla legittimità e alla sufficienza delle prove acquisite che consentiranno di definire la fattispecie e desumerne le relative conseguenze sul piano tributario e distintamente sul piano penale.
Tali conclusioni non dovrebbero, allora, mutare avuto riguardo al tema più circoscritto dei riflessi in ambito penale delle definizioni agevolate in materia tributaria: anche in questo contesto non dovrebbe infatti valere in termini dirimenti che la definizione del procedimento o del processo tributario sia intervenuto per effetto di un modulo cd. consensuale (dall’accertamento con adesione, alla conciliazione giudiziale, al ravvedimento operoso, all’invito al contraddittorio, all’adesione al processo verbale di constatazione, finanche a seguito di autotutela ed eventualmente mediazione in sede giudiziale) e che l’ammontare dovuto e definitivamente accertato sia stato effettivamente versato all’Erario. Tuttavia, storicamente il legislatore ha sempre ammesso, in diverse formulazioni, che l’estinzione del debito tributario producesse effetti in ambito penale, con l’effetto di incentivare l’adempimento, ancorché tardivo, dei tributi. In una visione meramente patrimoniale dell’interesse penalistico protetto, tale ripercussione dell’adempimento tributario potrebbe del resto apparire conseguenziale, salvo poi rendere necessaria una riflessione, a livello sistematico, sulla proporzionalità di alcune contingenti scelte del legislatore (da ultimo con il d.lgs. n. 158 del 2015) e sulla coerenza delle stesse rispetto alla nozione di tributo.
1.1 Precedenti normativi nel vigore della legge n. 516/1982
Prima di esaminare la disciplina che attualmente regola gli effetti penali delle definizioni agevolate del tributo e delle relative sanzioni amministrative, appare utile un breve riepilogo delle diverse scelte del legislatore succedutesi nell’ultimo ventennio.
Negli anni novanta il ricorso all’istituto del ravvedimento operoso, all’epoca in vigore, escludeva la punibilità3 per i reati previsti dalla l. 7.8.1982, n. 516. Tale effetto trovava giustificazione in considerazione dell’impianto normativo di questa disciplina improntata ad una tutela anticipata del bene interesse attraverso la previsione di una serie di reati di pericolo, rispetto ai quali la spontanea e tempestiva manifestazione del comportamento errato da parte del contribuente ragionevolmente determinava il venire meno della punibilità della condotta. Analogamente la definizione con adesione negli accertamenti delle imposte sui redditi e dell’IVA escludeva, anche con effetto retroattivo, la punibilità dei reati limitatamente ai fatti oggetto dell’accertamento, salve le ipotesi di omesso versamento delle ritenute da parte del sostituto d’imposta e le diverse ipotesi di frode fiscale4. Era infatti evidente, nella prospettiva del legislatore dell’epoca, la necessità di mantenere intatta la riprovazione sociale circa quelle condotte pericolose al fine dell’attuazione della funzione fiscale al di là del danno patrimoniale effettivamente cagionato. Nulla era disciplinato riguardo agli effetti penali della conciliazione giudiziale.
In generale, proprio in ragione delle diverse posizioni della dottrina circa la natura meramente patrimoniale o meno dei reati tributari, assumeva rilevo il tema dell’applicabilità, in questo ambito, delle attenuanti di cui all’art. 62 c.p. In particolare si discuteva della possibilità di applicare la seconda parte dell’attenuante comune dell’art. 62, n.6, seconda parte, c.p., che attribuisce rilevanza alla circostanza che prima del giudizio, il reo si sia adoperato spontaneamente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. La dottrina e la giurisprudenza ritenevano tale attenuante non applicabile a fattispecie, come quelle dei reati tributari e in genere i reati contro il patrimonio, in cui le circostanze dannose possono essere elise mediante l’integrale risarcimento del danno, previsto dalla prima parte della norma.
In ogni caso, diversi elementi militavano a discapito dell’efficace applicabilità anche di questa altra disposizione, poiché, da un lato, la sua formulazione in chiave soggettiva (riparazione del reo) non consentiva che altri (per esempio una persona giuridica) potessero utilmente adempiere al risarcimento e, dall’altro, il riferimento al risarcimento integrale del danno sembrava di per sé incompatibile con istituti latamente conciliativi.
In funzione dirimente, il legislatore aveva emanato l’art. 6, co. 1, d.l. 31.12.1996, n. 669, convertito con modificazioni dalla l. 28.2.1997, n. 30 ai sensi del quale «il risarcimento del danno cagionato all’erario come diretta conseguenza della mancata corresponsione dei tributi, nell’ambito del procedimento penale, si effettua sulla base di apposita dichiarazione, mediante versamento irripetibile al concessionario della riscossione, … degli importi versati si tiene conto ai fini della determinazione dell’imposta, sanzioni e interessi dovuti in base all’azione di accertamento tributario». Tuttavia, la totale indipendenza della funzione di pagamento in sede amministrativa e ai fini penali comportava la possibilità che l’amministrazione finanziaria procedesse ad accertare ulteriori violazioni tributarie e che, di contro, il versamento effettuato fosse in ogni caso irripetibile da parte del contribuente, rendendo, dunque, poco attraente l’istituto. Sorgeva inoltre il dubbio a chi competesse la quantificazione della somma utile a risarcire il “danno cagionato”, se cioè essa fosse nella totale discrezionalità dell’imputato o spettasse all’amministrazione finanziaria o ancora al giudice.
In occasione della legge delega 25.6.1999, n. 205, l’art. 9 lett. d) prevedeva «l’introduzione di meccanismi premiali idonei a favorire il risarcimento del danno». In attuazione di questo principio di delega viene introdotto l’art.13 del d.lgs. n. 74/2000 che dispone la diminuzione fino alla metà e la non applicazione delle pene accessorie, indicate nel precedente art. 125, qualora prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado6 i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito di speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previsto dalle norme tributarie. Nella comune interpretazione è ammesso che il riferimento della norma sia solo esemplificativo e non tassativo, cosicché possono considerarsi ricompresi, quanto a ratio, tutti quegli istituti deflattivi del contenzioso e del procedimento tributario finalizzati all’adempimento della pretesa tributaria in modo certo entro più rapidi lassi temporali7.
Il legislatore delegato del 2000 ha ritenuto compatibile con la ratio della riforma della sanzionabilità dell’effettiva lesività dell’interesse tutelato, l’introduzione di una circostanza attenuante che in senso oggetto (dunque a prescindere dalla provenienza dal reo della somma) determinasse, tramite l’estinzione del debito – ancorché esito di moduli cd. consensuali –, una situazione corrispondente al risarcimento del danno, senza cioè incidere sulla punibilità8.
Successivamente, diverse sono state le modifiche apportate dal d.l. 13.8.2011, n. 138 (convertito dalla l. 14.9.2011, n. 148). Innanzitutto l’effetto dell’attenuante è stato ridotto fino a un terzo mutandone la natura da attenuante speciale a comune; inoltre, il medesimo art. 13, al co. 2-bis ha previsto che per i delitti disciplinati dal d.lgs. n. 74/2000 l’applicazione della pena secondo il rito del patteggiamento può essere richiesta dalle parti solo qualora ricorra la predetta circostanza attenuante9 ed infine, ha stabilito che, in ragione di quanto disposto dall’art. 12, co. 2-bis, non si può beneficiare della sospensione condizionale e vi è l’annotazione sul casellario giudiziale.
Posto che tali riforme sono sembrate andare contro tendenza rispetto all’obbiettivo della deflazione dei giudizi sia in ambito penale che tributario, anche dando rilievo alla circostanza dell’estinzione del debito d’imposta, c’è stato chi ha salutato con favore l’introduzione dell’istituto della messa alla prova e la sua applicabilità (nei limiti e alle condizioni prescritte agli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e ter c.p.p.10) anche ai reati tributari meno gravi. In questi casi, fermo restando il pagamento del debito tributario, l’imputato può sottrarsi al processo e all’eventuale sentenza di condanna con la prestazione gratuita di un lavoro di pubblica utilità, che in caso di esito positivo comporta l’estinzione del reato11.
Sul piano penale, la verifica che il giudice doveva effettuare ai fini dell’accertamento del fatto è, dunque, se il reato si configuri, se si configuri sopra una determinata soglia, se, ancorché si configuri sopra una determinata soglia, non sia applicabile l’istituto della particolare tenuità del fatto12.
Rispetto a questo tipo di accertamento del fatto – secondo le regole proprie del diritto penale – il ravvedimento del contribuente e l’eventuale adesione a moduli latamente consensuali può incidere ex lege solo se è il legislatore ad aver prefigurato l’effetto (come nel caso della voluntary disclosure13 o di eventuali condoni), altrimenti rientra sul piano dell’accertamento del fatto quale utile elemento del quale il giudice dovrà comunque tenere conto nel suo libero convincimento in virtù del principio del cd. doppio binario sancito dall’art. 20 del d.lgs. n. 74/2000.
2.1 (segue) necessaria estinzione del debito
L’operatività della circostanza attenuante era, dunque, in ogni caso subordinata all’estinzione del debito tributario e alle relative sanzioni amministrative che, secondo quanto precisato dalla relazione di accompagnamento al citato d.lgs. non doveva essere, peraltro necessariamente “integrale” in rapporto alle pretese avanzate dal fisco, potendo l’interessato giovarsi degli istituti premiali previsti dalla legislazione tributaria al fine di favorire l’adempimento spontaneo, anche se tardivo, del contribuente (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale, rinuncia all’impugnazione, ravvedimento operoso)14. La pretesa così come eventualmente rideterminata all’esito dei predetti moduli consensuali, doveva essere integralmente soddisfatta affinché fosse applicabile il regime dell’art. 13 risultando, infatti, del tutto irrilevante agli effetti penali che l’entità del debito rideterminato fosse diversa da quella contestata dal pubblico ministero (e per la quale vi è stato rinvio a giudizio), che l’eventuale piano di dilazione di pagamento fosse stato concesso dall’amministrazione finanziaria e che la solvibilità del contribuente fosse garantita eventualmente attraverso fideiussioni da parte di terzi15 e che vi fosse stata una diversa riferibilità soggettiva della conclusione del procedimento amministrativo rispetto all’integrazione della fattispecie penalmente rilevante.
Dunque, qualora prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado si fosse proceduto all’integrale pagamento dei debiti tributari e delle sanzioni, il giudice ferma restando la possibilità di determinare autonomamente l’imposta evasa – eventualmente discostandosi dall’importo esito della procedura tributaria – doveva ritenersi vincolato dall’effetto legale che discende dall’art. 13 quanto all’applicazione dell’attenuante ordinaria al pari degli effetti che discendono nell’ambito della materia penale in forza dell’applicazione del predetto art. 62, relativamente al risarcimento del danno. A ben vedere il riferimento esplicito (art. 13, co. 2) alla necessità del pagamento delle sanzioni amministrative, ancorché non applicabili all’imputato in ragione del principio di specialità sancito all’art. 19, sembrava porsi in contrasto con la ratio afflittiva e non risarcitoria della riforma del sistema sanzionatorio amministrativo del 1997. Tuttavia, in sede di relazione illustrativa, la previsione venne giustificata nel senso che l’ammontare delle sanzioni amministrative costituiva criterio legale di commisurazione del risarcimento del danno da reato “ulteriore”16 rispetto al pagamento del tributo, senza che ciò costituisse una deroga al predetto principio di specialità.
L’attestazione dell’estinzione del debito è stata disciplinata dal decreto 13.6.2000, che tuttavia non individua la competenza all’individuazione del quantum da versare a tale fine17, sembrando condizionare l’effetto solo alla circostanza che l’ufficio fiscale accetti la relativa forma di pagamento, lasciando peraltro inalterato il tema dell’irripetibilità del pagamento effettuato nel caso in cui, successivamente, il contribuente risulti assolto in sede penale, anche in considerazione dell’autonoma e non necessariamente coincidente determinazione dell’imposta evasa in sede penale18.
In argomento ha destato particolare interesse della dottrina una giurisprudenza della cassazione fuorviata forse da un’errata massimazione di un precedente19. La massima di questa pronuncia risultava in questi termini: «in tema di reati finanziari l’attenuante prevista dall’art. 13 non è applicabile in caso di adesione all’accertamento, atteso che la stessa è subordinata all’integrale estinzione del debito tributario mediante il pagamento anche in caso di espletamento delle speciali procedure conciliative previste dalle norme tributarie». Secondo parte della dottrina risiederebbe in questo “incidente” redazionale la ragione di quella giurisprudenza che, a seguire, ha escluso l’idoneità a tali fini dell’accertamento con adesione pur in presenza di una norma di legge di facile interpretazione20. In verità, come già rappresentato, gran parte della giurisprudenza, anche in caso di definizione con accertamento con adesione della pretesa tributaria, negava l’applicabilità dell’attenuante proprio in considerazione del riscontrato non integrale (o meglio non tempestivo) pagamento dell’importo dovuto in ragione di accordi con l’amministrazione finanziaria circa la dilazione di pagamento (seppur adeguatamente garantiti).
Rispetto all’operatività della norma si ponevano invece differenti interrogativi ad esempio circa l’eventuale valenza unitaria o meno agli effetti penali di accertamenti parziali seguiti da ulteriori accertamenti, nel caso in cui essi siano stati oggetto di definizione e pagamento da parte del contribuente. Ed infatti l’art. 13 subordinava l’effetto premiale ai fini penali all’estinzione dei debiti relativi a fatti costitutivi dei delitti, richiamando dunque ad una definizione unitaria di fattispecie delittuosa a prescindere da come si sia sviluppata la fase dell’accertamento del fatto in sede amministrativa. In altri termini l’effetto normativo ai fini dell’attenuante trovava applicazione solo nel caso in cui il pagamento dell’imposta evasa e costitutiva dei delitti (secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione) fosse intervenuto entro i tempi individuati dalla legge ancorché con modalità differenti: ad esempio definizione consensuale di un parziale e successivo pagamento di altre riprese a fondamento di altri avvisi.
Ulteriormente critico risultava il profilo soggettivo, stante la formulazione che consente un’interpretazione in senso oggettivo dell’estinzione del debito, anche in sede di eventuale definizione amministrativa. Ed infatti appare del tutto evidente che, soprattutto con riferimento ai reati tributari in ambito societario, l’autore del delitto può non coincidere con il contribuente e spesso può verificarsi un divario incolmabile tra l’interesse dell’uno e il disinteresse dell’altro all’estinzione del debito tributario (nonché evidentemente alla possibilità economica di sostenere il relativo onere). D’altra parte proprio riguardo alle diverse forme di definizione in sede amministrativa comunque idonee agli effetti dell’operatività dell’attenuante è evidente che trattasi di strumenti rimessi alla discrezionalità di un soggetto che non necessariamente sarà coincidente con quello che ne potrebbe trovare utilità agli effetti penali (poiché il rappresentante legale della società legittimato all’adesione potrebbe essere oramai diverso dall’autore della condotta che si assume delittuosa).
2.2 (segue) riparazione dell’offesa in mancanza di un atto di recupero
Per completezza appare utile dal punto di vista sistematico riflettere sugli eventuali effetti del mancato esercizio dell’azione di accertamento e controllo da parte dell’amministrazione tributaria o del ritiro dell’atto in autotutela da parte dell’amministrazione stessa, che, seppur apparentemente estraneo al tema qui proposto, è argomento di verifica della ratio delle norme fin qui esaminate. Se cioè l’elemento determinante per l’applicazione degli istituti premiali in ambito penale è l’estinzione del debito tributario, tanto che esso assume una portata funzionalmente assorbente al punto da considerare utile integrale pagamento anche quello definito attraverso moduli consensuali, ci si deve interrogare se ciò comporti “proporzionalmente” che la mancanza di un atto amministrativo che fondi la pretesa dell’amministrazione tributaria renda ragionevolmente improcedibile l’azione penale. A nostro avviso tale prospettiva21 appare fuorviante della funzione stessa del principio del cd. doppio binario, che trova del resto una sua ulteriore conferma nella previsione di cui al successivo art. 14 del d.lgs. n. 74/2000. In virtù di questa disposizione se i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi risultano prescritti per prescrizione o decadenza, l’imputato di taluno di essi può chiedere di essere ammesso a pagare prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma da lui indicata, a titolo di equa riparazione dell’offesa arrecata all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata, al fine di ottenere la diminuzione della metà della pena e la non applicazione delle pene accessorie. A tale previsione seguono alcune prescrizioni circa la quantificazione minima della somma e al pagamento; e, in particolare, in questo caso, a differenza di quanto prescritto dal precedente art. 13, l’ultimo comma prevede che in caso di assoluzione o di proscioglimento la somma pagata è restituita all’imputato.
A parte le criticità circa i criteri di determinazione della “somma” e dell’“offesa” e soprattutto della natura delle componenti ad esse ascrivibili, la previsione dell’eventuale restituzione, conferma che nella diversa ipotesi in cui il pagamento avvenga a fronte dell’esercizio di una funzione amministrativa (o di un pagamento “spontaneo” del contribuente, ma con funzione di ravvedimento e non già di riparazione), ancorché successivamente definito in misura differente (eventualmente con accertamento con adesione o conciliazione giudiziale), l’ammontare resta definitivamente acquisito all’Erario a prescindere dagli esiti dell’esercizio dell’azione penale.
2.3 Il d.lgs. n. 158 del 2015: cause di non punibilità
Nell’ambito dei decreti attuativi della delega fiscale n. 23/2014 del 11.3.2014, il Governo ha emanato il d.lgs. 24.9.2015, n. 158 per la revisione del sistema sanzionatorio che rimodula le soglie ed alcuni elementi delle fattispecie delittuose, introducendo, tra l’altro, una nuova formulazione dell’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000 ed un successivo art.13 bis che disciplinano oggi le cause di non punibilità e le circostanze attenuanti in conseguenza del pagamento del debito tributario.
La ratio della riforma sembra essere, in linea generale, quella di attribuire specifica rilevanza all’estinzione tempestiva del debito tributario in ragione della connotazione dei singoli reati e della puntuale offensività di ciascuno rispetto all’interesse penalmente tutelato.
Più precisamente, la disciplina prevista introduce una gradazione degli effetti premiali in ragione delle diverse fattispecie. Per i reati di omesso versamento di ritenute certificate, omesso versamento di IVA e indebita compensazione viene confermata la non punibilità della condotta se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, esplicitando nel testo il riferimento anche al ravvedimento operoso. Per i casi invece di dichiarazione infedele e dichiarazione omessa (così come riformulate in ragione dello stesso decreto) la causa di non punibilità opera se i debiti tributari, le sanzioni amministrative e gli interessi, siano stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito di ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo sempreché il ravvedimento operoso o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza degli accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativa o di procedimenti penali (dunque entro un arco temporale più ristretto rispetto a quello dell’ordinaria operatività dal punto di vista fiscale del ravvedimento operoso ai sensi della l. 23.12.2014, n. 190).
Ciò significa che, a seguito dell’accertamento della situazione di fatto sopra rappresentata, nei limiti temporali (nella prima ipotesi) e procedimentali (nella seconda ipotesi) sopra precisati, il giudice penale (o se ancora prima il pubblico ministero) dovrà tenere conto della causa di non punibilità che, pur non incidendo sull’antigiuridicità del fatto, neutralizza l’applicabilità della sanzione penale. Tale prospettiva appare alterare sensibilmente il principio del cd. doppio binario sancito all’art. 20 del d.lgs. n. 74/2000 nella misura in cui l’effettività della pena debba considerarsi elemento coessenziale all’accertata antigiuridicità del fatto penalmente rilevante.
In merito si segnala che secondo la relazione di accompagnamento all’ultima bozza di decreto l’introduzione di una causa di non punibilità per i reati di omesso versamento e indebita compensazione «trova la sua giustificazione politico criminale nella scelta di concedere al contribuente la possibilità di eliminare la rilevanza penale della propria condotta attraverso una piena soddisfazione dell’erario prima del processo penale». In questi casi si ritiene che il contribuente abbia correttamente indicato il proprio debito risultando inadempiente solo in seguito all’omesso versamento, cosicché «il successivo adempimento, pur se non spontaneo, rende sufficiente il ricorso alla sanzione amministrativa». D’altro canto, con riferimento alle diverse ipotesi di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione, la causa di non punibilità trova – sempre nella relazione illustrativa – la sua giustificazione nel fatto che si tratta di «situazioni nelle quali la spontaneità della resipiscenza del contribuente, in uno con l’estinzione tempestiva dei debiti, giustifica senza bisogno di ulteriori sanzioni amministrative la rinuncia alla pena da parte dello Stato». È evidente che nella prospettiva della citata relazione governativa – orientata a perseguire essenzialmente il risultato dell’adempimento del debito tributario – le espressioni “piena soddisfazione dell’erario” e “estinzione tempestiva dei debiti” debbono essere contestualizzati in un frangente diverso da quello della tempistica ordinariamente prescritta per l’adempimento dei tributi rispetto ai quali dovremmo essere orientati a collocarle. Sembra allora del tutto sfumata la concezione autoritaria dello Stato e la relativa lesione dell’interesse pubblico all’osservanza dell’obbligo di concorrere alle spese pubbliche affinché tempestiva possa essere la distribuzione delle risorse per esigenze della collettività, emerge invece la corretta attuazione del riparto alle pubbliche spese quale bene-interesse da tutelare da parte dell’ordinamento, rispetto al quale la componente patrimoniale dell’estinzione “reale” del debito tributario assume valenza determinante, anche a costo di un’eventuale rideterminazione del tributo all’esito di moduli cd. consensuali. Altresì sfumata risulta la funzione afflittiva della sanzione amministrativa tributaria che assume rilievo come “misura” del debito da estinguere in funzione risarcitoria.
Che il cd. doppio binario vacilli in forza di tali disposizioni (non sempre con effetti defatiganti per le procure) è prova ancora più evidente la previsione dell’ultimo comma della nuova formulazione dell’art. 13, ai sensi del quale, qualora prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, è dato un termine di tre mesi per il pagamento del debito. Inoltre, il giudice ha facoltà di proporre, una sola volta, un termine per non oltre tre mesi, qualora lo ritenga necessario, ferma restando – in ogni caso – la sospensione della prescrizione del resto. Tale disciplina sembra allora tenere in debita considerazione tutte quelle eccezioni formulate, in forza della disciplina previgente, dai contribuenti in sede di giudizio, volte a richiedere al giudice penale l’applicazione della circostanza attenuante in mancanza del pagamento integrale, in presenza di un’attestazione del piano di rateizzazione dell’estinzione del debito concordato con l’amministrazione finanziaria. La disciplina che si vuole introdurre ha dunque una ratio precisa, finalizzata ad estendere maggiormente gli effetti premiali, per quei soggetti rispetto ai quali l’amministrazione finanziaria discrezionalmente ha valutato di poter procedere con un piano di rateizzazione, nella misura in cui tale dilazione si attesti nel margine temporale individuato dalla legge. L’effetto conformativo della vicenda procedimentale tributaria sul procedimento e sul processo penale appare, nei termini così come disciplinati, ancora più vincolante per il giudice penale, chiamato dunque a sospendere il giudizio (o il procedimento) e tenere conto della non sospensione della prescrizione ai fini della successiva eventuale contestazione del reato all’esito della scadenza dei primi tre mesi.
Nel momento in cui l’innalzamento della soglia penale può combinarsi con l’istituto della non punibilità del reato, il cd. rischio penale diviene tendenzialmente un costo stimabile ed eventualmente sostenibile dal contribuente che ha maggiori mezzi per tardivamente adempiere al concorso alle pubbliche spese (o, nei casi di “divaricazione soggettiva”, da colui il quale proceda, in luogo del reo, al pagamento di quanto dovuto).
2.4 (segue) residualità della circostanza attenuante speciale
La nuova disciplina si completa ora con l’introduzione di un nuovo articolo 13 bis che prevede “residualmente” la circostanza attenuante già oggi in vigore “fuori dai casi di non punibilità” ripristinandola in attenuante speciale “fino alla metà”22. Pertanto, in tutti i casi in cui non trovino applicazione le specifiche regole circa le cause di non punibilità, ogni volta che il pagamento del debito tributario – anche all’esito delle speciali procedure conciliative e di adesione previste dalle norme amministrative tributarie – avvenga entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado potrà trovare applicazione la disciplina della circostanza attenuante che il giudice dovrà considerare in riferimento alla sua “autonoma” determinazione dell’imposta evasa. Va tuttavia segnalato che la nuova disciplina relativa alla valenza dell’accordo di rateizzazione del debito sul procedimento e sul processo penale, per effetto di esplicito rinvio, opera anche con riferimento alla circostanza attenuante. Ai fini della gradazione della pena, pertanto, il giudice dovrà tenere conto non solo del pagamento integrale del debito tributario, ma dell’estinzione che si configuri nei termini sopra descritti. In questo caso, residuando un’autonomia del giudice penale nella valutazione del fatto penalmente rilevante (fermo restando ciò che si impone alla sua valutazione in ragione dell’apprezzamento delle risultanze tributarie) non appare chiaro se ciò che il giudice sia chiamato a valutare ai fini della concessione dell’ulteriore termine di tre mesi sia solo la solvibilità del contribuente.
Resta invece immutata la formulazione del citato art. 14, i cui effetti attenuanti tornano dunque ad essere allineati rispetto a quelli della cd. attenuante residuale.
Abbiamo volutamente evitato nel corso di queste riflessioni di soffermarci sulle diverse ricostruzioni della dottrina circa la natura dei diversi moduli consensuali di accertamento e di definizione del tributo; certo – soprattutto nella prospettiva della legge delega – sarebbe preferibile ipotizzare quanto meno una integrità del potere amministrativo nell’emanazione dell’atto di accertamento all’esito del contraddittorio così da escludere un potere conformativo in ambito penale circa la non punibilità del fatto in conseguenza di una modulazione del debito in sede amministrativa. Ma anche se fosse valida questa diversa prospettiva essa potrebbe non alterare i principi se si assumesse che il riparto dei carichi pubblici – prima o dopo – è comunque stato attuato e che dunque con esso è venuta meno l’antigiuridicità del fatto. Questo porterebbe a considerare recessiva la lesività in sé della condotta nei confronti del potere dello Stato e la lesività del diritto dello stesso in ragione del 53 Cost., ferma restando la necessità di attribuire comunque rilievo al trascorso del tempo sul piano degli interessi e alla gradazione delle sanzioni amministrative in ragione dell’approssimarsi della definitività della pretesa sul piano dell’accertamento.
In una fiscalità che è attuazione del tributo come istituto volto al corretto riparto dei carichi pubblici l’introduzione di una causa di non punibilità, rispettosa del principio di proporzionalità e connessa all’estinzione del debito, potrebbe risultare confermativa di principi, unendo la finalità premiale incentivante della rilevanza, a tal fine, anche di istituti latamente consensuali per ragioni di interesse ordinamentale alla sollecita attuazione della pretesa tributaria.
1 Mastroiacovo, V., Effetti penali delle definizioni consensuali tributarie e riflessi fiscali delle definizioni bonarie delle vertenze penali, in Riv. dir. trib., 2015, I, 143.
2 Si rinvia, per tutti, a Lanzi, A. Aldovrandi, P., Diritto penale tributario, Padova, 2014, 20 per cui il bene finale vero oggetto di tutela non può essere costituito da altro che da un interesse di natura patrimoniale, perché è il patrimonio dello Stato che le entrate tributarie concorrono a costituire; contra Dolcini, G. Marinucci, E., Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1994, 369; Antolisei, F., Manuale di diritto penale, Leggi complementari, VII versione integrata da Conti, Milano, 1990, 730; Musco, E., Diritto penale tributario, Milano, 2002, 292; in una prospettiva storica, ancor più marcatamente a sostegno di tesi che rinvengano l’interesse tutelato nella funzione amministrativa si segnala Delogu, P., L’oggetto giuridico dei reati tributari, in Riv. dir. fin., 1965, 194.
3 L’art. 14, co. 5, l. 20.12.1990, n. 408 prevedeva la non punibilità delle omesse dichiarazioni di cui all’art.9, ult. co., del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 e art. 48 d.P.R. 26.10.1972, n. 633, sempreché non fossero iniziati accessi, ispezioni e verifiche o la violazione non sia stata comunque contestata ovvero non siano stati notificati gli inviti o le richieste della fase istruttoria prodromica all’accertamento.
4 Art. 2, co. 3, d.lgs. 19.6.1997, n. 218.
5 Si tratta delle pene accessorie dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; dell’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria; dell’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria; della pubblicazione della sentenza e dell’interdizione dai pubblici uffici.
6 La disposizione va interpretata nel senso che il riferimento al dibattimento va adeguato, quanto a ratio, rispetto a quei procedimenti speciali (in particolare il rito abbreviato) in cui tale fase manca del tutto; in questo senso si veda Cass., 28.11.2013, n. 5457 (dep. 4.2.2014), in Corr. trib., 2014, 1080 con nota di Corso, P., Estinzione del debito tributario nei riti speciali.
7 Corso, P., Adesione all’accertamento: oneri probatori a carico del pm e poteri del giudice penale, in Corr. trib., 2012, 886; Ficari, V. Scanu, G., Soglie di punibilità, “accordi” deflattivi e transazione fiscale, in Rivista di diritto tributario, 2014, I, 937.
8 Si rinvia alla Relazione illustrativa dalla quale si evince che il legislatore delegato ha scartato la soluzione estrema di elevare la condotta risarcitoria a causa estintiva del reato «e ciò sul rilievo che in materia di criminalità economica, e tributaria in particolare – laddove vengono in giuoco interessi di natura prettamente patrimoniale – una simile soluzione finirebbe per frustrare la comminatoria di pena, se non anche per sortire un effetto criminogeno, in quanto consentirebbe ai contribuenti di monetizzare il rischio della responsabilità penale, barattando sulla base di un freddo calcolo, la certezza del vantaggio presente con l’eventualità di un risarcimento futuro privo di stigma criminale».
9 Si segnala Lanzi, A. Aldovrandi, P., Diritto penale tributario, cit., 90 per i quali appare incongruente il riferimento a tutti i delitti di cui all’art. 13, in quanto alcuni di essi non comportano evasione di imposta, sollecitandone così un’interpretazione più ragionevole relativamente ai soli delitti che abbiano prodotto debiti tributari.
10 In attuazione della l. 28.4.2014, n. 67; applicabile anche ai reati meno gravi con pena edittale massima non superiore a quattro anni di reclusione.
11 In argomento Corso, P., Effetti penali degli istituti deflattivi, in Rass. trib., 2015, 461.
12 Anche l’istituto della particolare tenuità del fatto, art. 131 bis c.p., è stato introdotto nel nostro ordinamento dal d.lgs. 16.3.2015, n. 28, in attuazione della legge delega n. 67/2014. In particolare si segnala che pende presso le SS.UU. della cassazione penale (con ord. del 20.5.2015) la questione circa l’applicabilità dell’istituto della particolare tenuità del fatto alla materia tributaria e in genere a quei reati che si configurano solo in ragione del superamento di una soglia predeterminata per legge.
13 Si tratta di una procedura “temporanea” (attivabile solo per le condotte poste in essere fino al 30.9.2014) introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 1 della l. 15.12.2014, n. 186, che nell’ottica dell’OCSE dovrebbe essere uno strumento permanente per contrastare le evasioni fiscali internazionali. Il rientro di capitali, sul piano penale, garantisce la non punibilità per i delitti di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 10 bis e 10 ter del d.lgs. n. 74/2000 e per le condotte previste dagli artt. 648 bis e 648 ter c.p.
14 Cfr. circ. n. 154/E del 2000 dell’Agenzia delle Entrate.
15 Ex multis Cass. pen., 19.6.2012, n. 33587; ord. 12.11.2014, n. 1364; 16.4.2013, n. 24185.
16 Per diverse possibili interpretazioni della componente di danno ulteriore rispetto al cd. lucro cessante costituito nella specie dalla mancata percezione del tributo si rinvia a Busson, E., Il pagamento del debito tributario come circostanza attenuante ad effetto speciale, in La riforma del diritto penale tributario, a cura di U. Nannucci e A. D’Avirro, Padova, 2000, 319.
17 Al riguardo appare tuttavia utile segnalare che la già citata circ. n. 154/E del 2000 afferma che in ragione della partecipazione dell’amministrazione finanziaria al procedimento penale ex art. 90 c.p.p. gli uffici provvederanno a quantificare il danno erariale in relazione a quanto previsto dall’art. 13.
18 Sulle criticità del principio del doppio binario in ordine alla determinazione dell’imposta evasa si rinvia a Di Siena, M., La definizione dell’imposta evasa nella dinamica dei delitti dichiarativi: fra affermazioni draconiane ed incoerenze sistematiche, in Riv. dir. trib., 2014, III, 199.
19 Cass. pen., 13.5.2004, 30580.
20 Cfr. Cass., 9.2.2009, n. 3203.
21 Ficari, V.Scanu, G., op. cit., 951.
22 Il giudice penale, in questi casi, dovrà altresì valutare, caso per caso, al ricorrere degli elementi previsti dalla legge la possibilità di concedere la cd. messa alla prova o di valutare la particolare tenuità del fatto.