Effetti speciali
La definizione classica data da Eustace Lycett (vincitore di due premi Oscar per la categoria) classifica gli e. s. (special effects o SFX) come tecnica, o trucco scenico, utilizzati per creare un'illusione di realtà laddove non sia possibile, economico o sicuro servirsi di oggetti reali. Entrata come categoria nel novero degli Oscar a partire dal 1939, l'espressione effetti speciali era stata coniata per designare i modellini meccanici utilizzati nel film di Raoul Walsh What price glory? (1926; Gloria) e, prima dell'avvento dell'era digitale, era rimasta relegata prevalentemente agli aspetti di carattere meccanico e plastico, basati sull'utilizzo estremo degli elementi e delle condizioni di scena (dalle riproduzioni della realtà in scale differenti all'esplosione di un edificio). Nel cinema hollywoodiano precedente agli anni Settanta, gli addetti agli e. s. provenivano dal mondo della scenografia e da quello dei trovarobe, e non da quello della fotografia (l'apprendista doveva superare la prova d'esame statale d'artificiere). L'altra grande categoria di effetti, di carattere ottico, come la simulazione del volo umano, non veniva tanto contemplata negli e. s., stando agli accrediti dei titoli dei film, quanto a una specializzazione della troupe della fotografia o dei tecnici di postproduzione che si occupavano della sottocategoria 'effetti fotografici speciali'. Le definizioni e le categorie appena presentate hanno risentito dell'evoluzione dell'immagine cinematografica, non solo rispetto alla tecnologia adottata, ma anche alla posizione degli e. s. all'interno del ciclo di produzione. Nella seconda metà degli anni Ottanta, con l'avvento dell'immagine digitale (v. digitale, cinema), sia gli effetti fisici (meccanici, elettro-meccanici e plastici) sia quelli ottici, nelle produzioni a budget elevato, sono stati di volta in volta ridotti a pura simulazione della realtà, e integrati in un'unica tipologia, dove l'immagine e il sonoro finali sono il risultato di un'elaborazione al computer ottenuta in fase di postproduzione (i cosiddetti effetti speciali digitali). A testimonianza del cambiamento, gli Oscar per gli e. s. degli ultimi due decenni del 20° secolo sono stati assegnati alla ILM (Industrial Light and Magic), fondata da George Lucas poco prima della realizzazione di Star wars (1977; Guerre stellari), e specializzata in tecniche di computer graphics. La nuova era vede gli e. s. ormai protagonisti dei generi che li hanno tenuti a battesimo, come la fantascienza, l'horror, il fantasy e il filone catastrofico, nonché tasselli fondamentali nell'action movie e nei film di ricostruzione storica. Il loro utilizzo è dettato sia da esigenze economiche (battaglie con migliaia di comparse, come quelle di Gladiator, 2000, Il gladiatore, di Ridley Scott, sono più convenienti se realizzate al computer) sia da opportunità di creare mondi possibili e creature fantastiche altrimenti improponibili (come nel caso dei dinosauri di Jurassic Park III, 2001, di Joe Johnston, visivamente più efficaci e verosimili, se è possibile usare questo termine, di quelli che apparivano nel capostipite della serie di otto anni prima, che in parte si serviva ancora di modelli elettromeccanici). Quest'ultima tendenza ha invaso dalla fine del 20° sec. lo spazio riservato all'attore, facendo intravedere la possibilità di una sua sostituzione virtuale (v. digitale, cinema: Problematiche culturali).
La nascita degli e. s. in senso esteso, ossia comprensivi degli effetti ottici, da un lato può essere fatta risalire ai trucchi della seconda metà dell'Ottocento, che i fotografi adottavano servendosi di modellini posti a distanze diverse rispetto al piano principale, e dall'altro agli espedienti scenici ‒ quali i fili per simulare il volo, le botole e le polveri incendiarie ‒ utilizzati in teatro da tempi ancora più remoti. Qualche anno prima della nascita del cinema, le pantomime di Émile Reynaud realizzavano già effetti ottici, quali le onde in perpetuo movimento, che vennero ripresi da Georges Méliès. Quest'ultimo capì subito (1897-98) la valorizzazione che i trucchi potevano dare alla nuova arte, sia nel caso di espedienti fisici (modellini, miniature, fondali ecc.) sia ottici (sovrimpressioni, ingrandimenti, mascherini ecc.), e fu, con Segundo de Chomón, l'iniziatore del cosiddetto cinema dei trucchi (anche se il capostipite degli e. s. cinematografici fu probabilmente Edmond Fleury, il quale, assistito da Léon Gaumont, nel 1896 mostrò un naso che cresceva a dismisura fino a scoppiare). Il primo e. s. trasparente, che avrebbe attraversato l'intera storia del cinema, fu l'efficace innesto tra due settori di pellicola impressionati in momenti successivi (matte shot), utilizzato la prima volta da Edwin S. Porter in The great train robbery (1903; L'assalto al treno): nel breve film appare un ufficio di una stazione, all'interno del quale la cornice di una finestra inquadra il treno all'esterno (mentre in realtà l'immagine del treno era stata impressionata in tempi differenti). La rivoluzione degli e. s. di carattere fisico avvenne con il cinema espressionista tedesco degli anni Venti: in Der Golem, wie er in die Welt kam (1920; Golem ‒ Come venne al mondo), di Carl Boese e Paul Wegener, furono gli stessi registi a creare le fattezze della statua, nel cui telaio entrò un corpo fisico per animarla, mentre in Die Nibelungen (1924; La canzone dei Nibelunghi) di Fritz Lang, lo specialista Karl Vollbrecht realizzò il drago contro cui combatte Sigfrido. Di portata ben maggiore, nella prospettiva dei trucchi fisici e ottici, Metropolis (1927), ancora di Lang, esprime l'apoteosi della modernità, rappresentando una città con auto in movimento (in realtà i modellini erano spostati a mano e ripresi con la tecnica del passo uno, stop motion, ossia un fotogramma alla volta: una modalità che sarebbe durata fino agli anni Ottanta) e riproducendo la vita artificiale (l'automa Maria si animava sotto l'effetto di onde elettriche, dovute alla sovrapposizione dell'immagine dell'attrice con una palla argentata ruotante ad alta velocità). Anche il cinema surrealista fu attratto dagli e. s.: passò alla storia uno dei più cruenti, il dettaglio dell'occhio tagliato (in realtà appartenente a un bue, e montato molto abilmente insieme a quello di una donna) in Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel. Il comico statunitense degli anni Venti fu un'altra miniera di e. s.: in Sherlock, Jr (1924; Calma signori miei!, noto anche con il titolo La palla n. 13) Buster Keaton, regista e interprete del film, entra ed esce da uno schermo, e salta da uno scenario all'altro, simulando l'effetto del trasparente, inventato qualche anno dopo, e utilizzato da Willis O'Brien in King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack. In quest'ultimo film, oltre a sei modelli del gorilla di mezzo metro d'altezza, furono realizzati un busto a grandezza naturale (di 7 m) e alcuni arti meccanici: l'animale, che nel remake del 1976 avrebbe avuto una sua autonomia grazie al congegno elettromeccanico ideato da Carlo Rambaldi, in questa prima versione veniva mosso con la tecnica del passo uno. In Frankenstein (1931) come anche in Bride of Frankenstein (1935; La moglie di Frankestein), entrambi di James Whale, l'ideazione degli e. s. si basò più sul make up di Boris Karloff, mentre i trucchi usati per la trasformazione di Fredric March in Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1932; Il dottor Jekyll) di Rouben Mamoulian permisero di modificare il volto dell'attore nella stessa inquadratura, senza far uso di dissolvenze, ma solo di filtri dello stesso colore del maquillage. Le tecniche di filtraggio e mascheramento di parti della pellicola raggiunsero un notevole livello con il film The invisible man (1933; L'uomo invisibile) sempre di Whale, nel quale l'utilizzo di maschere mobili permetteva di isolare alcune parti del corpo del protagonista, che sembrano fluttuare nell'aria, mentre il resto rimane invisibile.
In The devil doll (1936; La bambola del diavolo) di Tod Browning alcuni pupazzi, interpretati da veri attori, si animano in una scala molto più piccola delle dimensioni reali, grazie a un perfezionamento del trasparente rispetto alle sequenze corrispettive di King Kong. Sul versante degli effetti catastrofici di carattere realistico, la scena dell'aereo che precipita in mare in Foreign correspondent (1940; Il prigioniero di Amsterdam) di Alfred Hitchcock resta un esempio della qualità degli effetti artigianali del periodo: la cabina di pilotaggio dell'aereo, ripresa dall'interno verso la linea dell'orizzonte, si affaccia su un'immagine delle onde riprese in trasparente; la superficie del mare si avvicina, e, al momento dell'impatto (la prua dell'aereo squarcia effettivamente lo schermo del trasparente), l'acqua contenuta in serbatoi posti dietro lo schermo entra nella carlinga, con un effetto visivo molto coinvolgente.
Negli anni Cinquanta, grazie al successo dei b-movies fantascientifici e horror, gli e. s. ebbero un periodo di gloria. Il cinema di Jack Arnold fu indubbiamente espressione di un filone che si reggeva su un'artigianalità, in alcuni casi molto ingenua: in Tarantula (1955; Tarantola) il ragno devastatore era realizzato con diversi modellini spinti da sistemi pneumatici, e addirittura nelle soggettive simulate dell'animale la stessa macchina da presa era addobbata con artigli e antenne aracnoidi; in The incredible shrinking man (1957; Radiazioni BX distruzione uomo) il protagonista diventa sempre più piccolo fino a raggiungere dimensioni molecolari: nel processo di riduzione si scontra prima con gatti poi con insetti, ripresi sia con tecniche di impressioni successive nella stessa inquadratura, sia facendo uso di modelli come in Tarantula. Per quanto riguarda Revenge of the creature (1955; La vendetta del mostro) occorre segnalare anche la distribuzione in 3D (un e. s. volto a un'efficace profondità di campo volumetrica, ma leggibile solo mediante l'uso di lenti bicromatiche distribuite durante la proiezione, che era di moda nel periodo). I migliori risultati degli e. s. del decennio non venivano ovviamente sperimentati nei b-movies fanta-horror, ma in produzioni a budget elevato, come quelle del musical. In Royal wedding (1951; Sua altezza si sposa) di Stanley Donen, Fred Astaire balla sul soffitto sfidando tranquillamente la legge di gravità e lasciando il pubblico oltremodo stupito (mentre in realtà tutta la struttura formata dalla stanza e dalla macchina da presa ruota in un blocco unico), ma già qualche anno prima, in Anchors aweigh (1945; Due marinai e una ragazza) di George Sidney, Gene Kelly danza insieme ai cartoons, grazie alle tecniche di sovrapposizione ottenute nel banco d'animazione già adottato dalla Walt Disney Production per i disegni animati, con l'aggiunta in questo caso di un piano reale. Nel genere mitologico-religioso memorabile è l'attraversamento del Mar Rosso da parte del popolo ebraico in The ten commandments (1956; I dieci comandamenti) di Cecil B. DeMille, mentre di ordine più ingegnoso che spettacolare erano i trucchi che visualizzavano la bestia invisibile in Forbidden planet (1956; Il pianeta proibito) di Fred McLeod Wilcox, realizzati con tecniche di animazione che, seppur per breve tempo, riuscivano a visualizzare un'interazione diretta tra gli attori e il mostro tratteggiato e luminescente. The birds (1963; Gli uccelli) di Hitchcock è una miniera di e. s., alcuni dei quali poco verosimili ma non per questo meno inquietanti, come i volatili dipinti direttamente a mano e affiancati a quelli veri in postproduzione; si tratta di una tecnica meno elastica del passo uno con cui, in Jason and the argonauts (1963; Gli argonauti) di Don Chaffey, venivano mossi i manichini di scheletro creati da Ray Harryhausen, uno dei 'maghi' degli e. s. soprattutto per il genere mitologico-fiabesco, che offrivano una notevole impressione quando questi ultimi interagivano con gli attori (i quali seguivano i tempi di scansione dei modelli).
La storia degli e. s. è prevalentemente segnata dal cinema di consumo e dalle grandi produzioni hollywoodiane, e, negli anni Sessanta e Settanta, inglesi (la serie degli 007; 2001: a space odyssey, 1968, 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick; Alien, 1979, di R. Scott ecc.). Considerati fino agli anni Sessanta elementi di supporto all'interno della grande macchina della messa in scena, gli e. s. diventarono protagonisti di una svolta nell'estetica cinematografica, grazie a opere quali 2001: a space odyssey, a cui offrirono la necessaria dimensione scenografica, e contribuirono a una metamorfosi iconografica e produttiva del cinema di fantascienza (nel cinema del passato forse solo Metropolis aveva decretato un tale successo di sinergie tra arte ed e. s.). La verosimiglianza del film di Kubrick, che ottenne l'Oscar per gli e. s., supervisionati dallo stesso regista coadiuvato da Douglas Trumbull, non nacque tanto da tecniche nuove quanto da una meticolosità estrema nella realizzazione dei modellini insieme alla creazione di mascherini diversi per ogni inquadratura: le scene a gravità zero furono realizzate in front projection (tecnica che consiste nel proiettare l'immagine su uno schermo molto riflettente, in modo tale che le figure in primo piano non vengono investite dall'immagine proiettata), e il monitor del calcolatore Hal-9000 può essere considerato la prima simulazione della computer graphics nel cinema. Dopo una leggera crisi negli anni Settanta, quando gli e. s. erano patrimonio perlopiù del genere horror, una nuova ondata apparve all'orizzonte, sulla spinta delle grandi produzioni fantascientifiche, tra la fine del decennio e gli anni Ottanta (la trilogia Star wars, iniziata nel 1977; Close encounters of the third kind, 1977, Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. The extra-terrestrial, 1982, E.T. l'extra-terrestre, entrambi di Steven Spielberg), che trascinarono gli e. s. verso il concepimento di mondi possibili. Star wars, i cui e. s. furono supervisionati da John Dykstra, impiegava tecniche computerizzate per il movimento dei 75 aeroveicoli impiegati (filmati a passo uno) e per gli spostamenti della macchina da presa montata su una gru, una tecnica detta motion-control (v. digitale, cinema: Storia). Superman (1978) di Richard Donner mostra, a livelli di perfezione mai visti prima, il volo del supereroe mediante tecniche dette di travelling shot, in cui le immagini di sfondo, ottenute da riprese aeree, e la figura in primo piano non sono semplicemente sovrapposte ma integrate nello stesso fotogramma. Alien non introduce grandi novità tecniche nel setto-re ottico, ma i disegni e le scenografie di Hans R. Giger, di impronta biomeccanica, rappresentano una tappa epocale per il genere; la costruzione tridimensionale ed elettromeccanica dell'alieno del film porta la firma dell'italiano C. Rambaldi, altro 'mago' degli e. s., capace di coniugare la perizia dell'artigianato europeo alle tecnologie statunitensi, che vinse anche l'Oscar della categoria. Le differenze tra i pupazzi elettromeccanici e le maschere di scena diventarono pressoché indistinguibili, con la possibilità di modellare i primi in forme e dimensioni non convenzionali (da quelle gigantesche di King Kong, un gorilla alto dai 13 ai 15 m, a quelle esili di E.T., realizzati da Rambaldi). I procedimenti del periodo per la costruzione dei modelli raggiunsero l'apice della complessità e della perfezione artigianale; per es., le fasi di progettazione e realizzazione dell'enorme bisonte bianco, creato da Rambaldi per il film The White Buffalo (1977; Sfida a White Buffalo) di J. Lee Thompson, erano ben undici, e andavano dai diversi progetti preparativi alle fabbricazioni degli stampi in gesso e fibra vegetale, alle iniezioni e ritocchi con materiale elastomero del corpo, ai rivestimenti in pelliccia, per poi mettere a punto il movimento grazie a un endoscheletro elettromeccanico, dotato di un centinaio di articolazioni pilotate da computer. Blade runner (1982) di R. Scott, con Douglas Trumbull supervisore agli e. s., film realizzato subito prima della rivoluzione digitale, ha raggiunto buoni risultati qualitativi (le tecniche digitali hanno permesso una migliore animazione di creature aliene, ma l'impatto scenografico e architettonico dei modellini della Los Angeles del film conservano una valenza estetica che ha fatto scuola). Un altro film uscito nel 1982, Tron di Steven Lisberger, di fattura grafica molto più semplice del contemporaneo Blade runner, ha diverse inquadrature realizzate completamente in modo virtuale, senza uso di modelli né sorgenti fisiche: le immagini sono state generate da computer, il cui segnale d'uscita veniva memorizzato su nastro e in seguito impressionato su pellicola (per dettagli v. digitale, cinema: Effetti speciali). The abyss (1989) di James Cameron presenta la prima creatura virtuale di forte impatto visivo: lo pseudopodo fatto d'acqua che imita mimeticamente il volto degli astanti. Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis, ha segnato un forte progresso del croma key, un apparecchio precedente all'epoca digitale che permette la copresenza di figure di sorgente diversa nella stessa inquadratura. Toy story (1995; Toy story ‒ Il mondo dei giocattoli), diretto da John Lasseter e prodotto dalla Pixar, ha inaugurato l'epoca dei lungometraggi d'animazione completamente digitali. Il kolossal di fine millennio (500 miliardi di bud-get), Titanic (1997) di Cameron, i cui e. s. sono stati affidati a Rob Legato della Digital Domain, adotta nuove tecniche tra cui il key framing, che permette di sviluppare un salto di pochi metri su distanze centinaia di volte maggiori, tramite procedimenti grafici d'interpolazione (in questo modo è stata simulata la caduta dei passeggeri nell'85% delle inquadrature della scena dell'affondamento). Il modello di base della nave è rimasto comunque quello reale, lungo circa 200 metri. The Matrix (1999; Matrix) di Andy e Larry Wachowski e Star wars: episode I ‒ The phantom menace (1999; Star wars: episodio I ‒ La minaccia fantasma) di G. Lucas, con gli alieni e le astronavi realizzati in digitale, hanno dato un ulteriore contributo al raffinamento degli e. s. (si osservi la differenza tecnologica rispetto alla prima serie di Star wars, in cui nessun personaggio è virtuale, trattandosi di attori camuffati o modelli animati con passo uno), mentre The perfect storm (2000; La tempesta perfetta) di Wolfgang Petersen ha dimostrato l'ancora scarsa verosimiglianza nella creazione completa di uno scenario digitale: in questo caso l'acqua dell'oceano tradisce le sue origini, mentre tale effetto viene migliorato, per es., nel secondo episodio di Star wars (Star wars: episode II ‒ Attack of the clones, 2002, Star wars: episodio II ‒ L'attacco dei cloni). Infine, Final fantasy: The spirits within (2001; Final fantasy) di Sakaguchi Hironobu e Sakakibara Motonori si è proposto come film completamente digitale, adottando uno stile da cinema d'animazione fotorealistico, in cui, per i primissimi piani, ogni capello dei protagonisti è stato controllato numericamente, mentre altri dettagli del volto, che impiegano una minore potenza di calcolo, rivelano la loro natura virtuale (a questo livello ovviamente l'e. s. è esteso a tutta la pellicola).
Come risulta evidente scorrendo i titoli, la cinematografia statunitense mostra ormai un netto se non assoluto vantaggio rispetto a quella europea e giapponese (che in futuro potrebbe emergere in opere completamente digitali); anche film di coproduzione europea come Harry Potter and the sorcerer's stone (2001; Harry Potter e la pietra filosofale) di Chris Columbus, vantano alla supervisione degli e. s. i maggiori esperti statunitensi quali R. Legato (Titanic) e John Richardson (Starship troopers, 1997, Starship troopers ‒ Fanteria dello spazio, di Paul Verhoeven). L'industria europea potrebbe lanciare nuove possibilità di edificazione di mondi possibili, e di mondi passati, nei film a medio e piccolo budget; ne offre un esempio L'anglaise et le duc (2001; La nobildonna e il duca) diretto da Eric Rohmer, che ricostruisce una Parigi di fine Settecento, a partire da scenari fotografati e dipinti, e successivamente digitalizzati, in uno stile visivo non iperrealistico (tipico del cinema di consumo statunitense), ma pittorico e sfumato, coniugando in questo modo costi con risultati.
Il confine tra trucchi ed e. s. è labile; non solo, il rapporto che sussiste tra e. s. e qualunque altro elemento che costituisce la macchina produttiva è precario, dal momento che tutte le componenti fanno parte dello stesso processo di illusione o di riproduzione del reale. Christian Metz, che si era occupato dell'argomento già nel 1968 (Essai sur la signification au cinéma; trad. it. 1975), tende ad assumere uno sguardo omogeneo e a tutto campo, senza distinguere gli e. s. da altri effetti, quali potrebbero essere quelli di montaggio, e ricordando che quest'ultimo costrutto, negli anni Dieci, era visto ancora come un artificio. Lo stesso Metz fornisce una classificazione dei trucchi rispetto alla posizione nel ciclo produttivo: quelli 'profilmici', adoperati e messi a punto prima delle riprese (i cosiddetti special effects, secondo l'accezione statunitense), e quelli 'cinematografici', che intervengono sia in fase di ripresa sia di laboratorio di postproduzione. A questa partizione, il teorico francese ne aggiunge un'altra definita in funzione della percezione dello spettatore, e ripartita nei casi 'impercettibili', come l'uso della controfigura che non deve essere riconosciuta come tale; 'invisibili ma percettibili', per es. gli enormi tornado di Twister (1996) di Jan de Bont che vengono avvertiti come falsi senza riconoscere i modi della falsificazione; 'visibili', come il ralenti o la dissolvenza. La doppia classificazione di Metz si scontra subito con un problema di evoluzione del linguaggio cinematografico; per es., la dissolvenza incrociata, utilizzata da G. Méliès per stupire e compiere apparizioni e sparizioni di oggetti, è entrata dopo qualche decennio tra le figure codificate della retorica cinematografica, impiegata per esprimere ellissi temporali o nuovi eventi significativi del racconto. Dopo l'avvento delle tecniche digitali, gli e. s. hanno subito un cambiamento di stato radicale, non solo rispetto all'appiattimento della prima classificazione di Metz (gli e. s. digitali avvengono tutti in fase di postproduzione) o alla qualità realistica della rappresentazione, ma rispetto alle regole pattuite tra spettatore e spettacolo filmico, alla fiducia percettiva che il primo concede, e alla scissione a cui va incontro se divide il mondo reale da quello fittizio. Si può procedere con un esempio: l'aggiunta del campanile alla missione spagnola di Vertigo (1958; La donna che visse due volte) di Hitchcock è stata realizzata come sovrapposizione successiva alle riprese, e veniva considerato un effetto invisibile, analogamente alla piuma che volteggia nell'aria nei titoli di testa, o alle gambe di Gary Sinise 'tagliate' digitalmente, in Forrest Gump. Il campanile di Vertigo non viene colto come un elemento singolare, la sua presenza non crea nessuno stupore o interesse particolare, se non quello di enunciare uno spazio necessario per il prosieguo dell'azione. La piuma, invece, con i suoi movimenti verosimili e controllati al contempo, è un dettaglio che concentra l'attenzione su sé stesso fin dall'inizio della scena, creando una sorta di dubbio e la domanda se sia vero oppure falso; lo spettatore è portato a dubitare della realtà di ciò che vede e a investigare sui processi effettivi con cui è stata ottenuta la simulazione. Inoltre, quando l'effetto invisibile coinvolge il corpo dell'attore ‒ come la cancellazione elettronica della corda utilizzata da Tom Cruise per assicurarsi a una parete del Grand Canyon mentre pratica free-climb in Mission: Impossible ‒ 2 (2000) di John Woo ‒ vengono sovvertite le regole del passato che pretendevano la sostituzione con una controfigura durante le scene più pericolose. Le nuove categorie di e. s. mutano la ricezione dell'opera da un punto di vista antropologico, nel senso che diventano generatori di nuove domande per lo spettatore, domande sul significato dell'artificiosità e sull'esigenza di trovare risposte tangibili a nuove espressioni di stupore. Non solo l'attuale lettura dello spazio circostante ha iniziato a cambiare, ma più in generale qualsiasi discorso sull'opera di finzione, a partire dai parametri consueti di fruizione, si avvia a una ricerca dei meccanismi che hanno esteso l'orizzonte del visibile cinematografico.
Gli effetti speciali da Coppola a Méliès, Mostra internazionale del cinema libero di Porretta Terme, a cura di S. Toni, Venezia 1983.
Carlo Rambaldi e gli effetti speciali, a cura di L. Pellizzari, San Marino 1987.
M. Bernardo, G. Blumthaler, I trucchi e gli effetti speciali fotografici ed elettronici. Manuale di pratica cinematografica, Roma 1990.
"Cahiers du cinéma", 1996, 503, pp. 66-130; "Cahiers du cinéma", 2000, nr. hors-série.: Aux frontières du cinéma.