Abstract
Un comune denominatore assiologico della dimensione giuridica dell’efficienza va rintracciato nella necessaria funzionalità dell’organizzazione pubblica: funzionalità in astratto, nel formale disegno organizzativo tracciato dall’amministrazione dello Stato liberale; funzionalità in concreto, connessa all’effettività dei compiti, nella dimensione inclusiva, e potenzialmente indeterminata, degli interessi rilevanti nell’esperienza dello Stato sociale; funzionalità manageriale e sussidiaria, nell’ambito di un sistema basato sull’esclusività degli interessi rilevanti e sulla riduzione della sfera pubblica generata dall’avvento dell’ordinamento comunitario; funzionalità sostenibile, in quanto ancorata ad un precetto di economicità, dopo la costituzionalizzazione diretta dei vincoli della Lex fiscalis europea.
Secondo la vulgata tradizionale, alla quale i giuristi da oltre quaranta anni attingono acriticamente, l’efficienza va riguardata con riferimento al sistema che limita gli inputs richiesti per il raggiungimento di un determinato scopo secondo un modello di allocazione razionale delle risorse disponibili e di risposte ottimali rispetto ai contesti di riferimento. In questa prospettiva, la definizione di Dwight Waldo, sintetizza icasticamente un concetto di efficienza cd. tecnica ampiamente condiviso in letteratura: «the efficiency of administration is measured by the ratio of effects actually obtained with the available resources to the maximum effects possible with the available resources» (Waldo, D., The Administrative State, New York, 1948, 191).
Si tratta di una concezione che affonda le sue radici in una lettura industriale e manageriale della pubblica amministrazione promossa dopo il secondo dopoguerra grazie alla diffusione degli scritti di Frederick Taylor, Henry Fayol per i quali efficienza è sinonimo di produttività. Secondo Taylor, in particolare, il sistema manageriale impone di conoscere cosa un’organizzazione deve fare e, dunque, determinare l’obiettivo da raggiungere nel modo migliore, nel senso di limitare al massimo le risorse necessarie. L’ingegnerizzazione delle procedure e la divisione del lavoro sono il parametro di valutazione dell’efficienza. Tale modello concettualmente riferito all’impresa fordista del primo Novecento, diventa parametro di lettura della burocrazia pubblica, anche mediante una interpretazione volutamente mirata e funzionale delle teorie di Max Weber. L’idealtipo weberiano, fondato sulla professionalità e sul riparto delle funzione, diventa la base su cui costruire una nozione tecnica di efficienza del potere amministrativo. Pertanto, l’idea di efficienza come criterio organizzativo teso ad ottimizzare la produttività, basato sulla relazione tra inputs ed outputs, costituisce il punto di riferimento, seppur con varie sfumature, dell’analisi scientifica e, per certi versi, diventa una sorta di postulato anche per la dottrina giuridica a partire dalla fine degli anni Settanta.
A ben vedere esiste un’altra, e più profonda, concezione di efficienza dell’amministrazione che affonda le radici nel pensiero occidentale e che vede il canone dell’efficienza quale connotato prevalente di una buona amministrazione.
Si tratta della concezione pacificamente in uso nel pensiero politico filosofico almeno sino alla fine del XIX secolo e che rinvia ad una idea di potenziale adempimento di un qualcosa: la ‘causa efficiente’ aristotelica,.
L’efficienza è l’adeguatezza ad un fine, la capacità potenziale di raggiugere un obiettivo. Essa è percepita come contributo al raggiungimento di uno obiettivo e giammai nel senso economico di relazione tra risorse e risultati. In questa prospettiva, l’efficienza è aptitude for office secondo la nota affermazione di Jeremy Bentham.
Alla luce di quanto detto, nella sua dimensione di adeguatezza, capacità e idoneità, il concetto di efficienza ha un contenuto prevalentemente indirizzato alla funzionalità, la quale viene interpretata in termini soggettivi – il carattere e le abilità del funzionario connesso ai suoi doveri – ovvero in termini oggettivi con riferimento alla capacità della struttura organizzativa di rispondere allo scopo nel migliore modo possibile.
In questo senso, l’assiomatica nozione tecnica di efficienza, oggi tanto in voga, altro non è che una declinazione, e nemmeno l’unica, della più tradizionale e sostanziale idea di funzionalità che, a seconda del contesto storico, talvolta si nasconde dietro lo schermo della legalità, talaltra si ammanta del paradigma della produttività, in altra ancora si riduce alla stretta economicità.
Se ciò è vero, nell’indagare come l’efficienza della pubblica amministrazione diventa rilevante nell’ordinamento italiano, appare opportuno adottare una prospettiva storica che, muovendo dallo Stato liberale, pervenga alle recenti letture del canone giuridico dell’efficienza in termini di Spending review.
Come è noto, la concezione dello stato liberale si fonda sull’idea che ci sono dei limiti necessari ed utili all’azione dello Stato, che personifica la funzione giuridica dell’autorità, ed essi vano ravvisati nella necessità di consentire, in un sistema di libertà, la condizione più favorevole allo sviluppo dell’individuo. L’organizzazione vera e propria dello Stato è subordinata a questa esigenza di libertà; essa è cioè un mezzo necessario, anzi un male necessario in quanto legate alla limitazione della libertà. L’intervento statale è ridotto al minimo in base appunto al criterio della necessità che porta ad intervenire solo quando ciò sia indispensabile ed a dettare esclusivamente precetti negativi (divieti) lasciando libero l’individuo, mentre la ricerca dell’utile porta a porre precetti positivi di azione. In tale concezione il concetto di efficienza è necessariamente limitato ed anche, se vogliamo, facilmente raggiungibile con l’applicazione della legge. Lo Stato di diritto, denominazione coniata dai giuristi tedeschi della seconda metà dell’Ottocento per qualificare lo Stato liberale, è quello che fonda il proprio ordinamento sulla garanzia della libertà individuale rispetto al potere dell’autorità. L’efficienza coincide con la garanzia giuridica ed è assicurata dall’ordinamento attraverso la tutela giurisdizionale.
Secondo le teorizzazioni della dottrina tedesca, l’autorità amministrativa deve essere in tutti i casi, ed in tutte le materie, subordinata al potere legislativo, nel senso che essa non potrà agire che in esecuzione, o per il permesso, di una legge. Questa subordinazione non si limita solo agli atti amministrativi che producono effetti nei confronti degli amministrati, bensì si estende, in linea di principio, a tutte le misure di amministrazione, anche quelle di natura regolamentare o particolare che, senza incidere sui diritti degli amministrati, concernono unicamente il funzionamento interno dei servizi amministrativi e sono efficaci solo all’interno dell’apparato amministrativo. Una regola invariabile: l’autorità amministrativa non può che assicurare l’esecuzione della legge, che altro non significa che l’amministrazione deve sempre cercare in un testo legislativo la legittimazione ed il fondamento della sua attività.
Il problema dell’efficienza nel periodo dello Stato liberale, pertanto, si risolve nella legalità formale e, dunque, nella sua irrilevanza sul piano giuridico in relazione ad una lettura rigida della separazione dei poteri che conferisce all’esecutivo l’attuazione delle prescrizioni della legge.
La formalizzazione sul piano giuridico dell’organizzazione avviene attraverso il filtro della spersonalizzazione operato con la teoria dell’organo sviluppata in Italia ed in Germania nella seconda metà dell’Ottocento.
La personalità del funzionario si trasferisce nell’astratta dimensione dell’ufficio soprattutto nella sua dimensione oggettiva data dalla competenza che diventa uno dei due criteri di adeguatezza allo scopo nella distribuzione dei compiti dello Stato persona. L’altro è quello della gerarchia, strumento di efficienza – nel senso ottocentesco del termine – in quanto collante funzionale dell’attività degli organi. In questo senso, giova rammentare quanto affermato da Vittorio Emanuele Orlando nei Principii: «l’amministrazione moderna suppone in gran parte la necessità di una suddivisione continua ed indefinita delle varie attribuzioni ai pubblici uffici pertinenti (…): siffatto sminuzzamento dei pubblici incarichi, reso sempre maggiore negli Stati moderni, quanto maggiore è il concentramento presso lo Stato, di servizi molteplici, e più rigorosamente mantenuta l’unità di direzione; un tale sminuzzamento, diciamo, produrrebbe l’anarchia, se fra tutti gli uffici suddivisi non corresse un legame riconducente ad un unità di criterio, di norma e di indirizzo l’azione di essi. Questo legame consiste appunto nel rapporto di subordinazione, per cui un pubblico ufficio da un altro dipende, e così via sino a risalire ad una suprema unità, unità così in rapporto alla suddivisione burocratica» (Orlando, V.E., Principii di diritto amministrativo, IV ed., Firenze, 1910, 57).
Nelle parole di Orlando traspare la ragione del criterio ordinatorio del sistema organizzativo unitamente all’idea della necessaria ‘professionalità’ in linea con l’evoluzione dell’amministrazione ottocentesca basata sulla razionalità hegeliana. Quanto espresso da Orlando palesa un’assonanza con i fondamenti dell’idealtipo prefigurato successivamente da Max Weber anche lui, sotto questo punto di vista, in perfetta linea con la tradizione. L’aptitude for office di Bentham viene oggettivizzata in un sistema di rapporti gerarchici basati sulla distribuzione delle competenze tra gli organi fondata sulla legalità. Tale modello transita, seppur con qualche distinguo, anche attraverso l’esperienza fascista, senza mutarne i propri connotati in maniera significativa.
Con riferimento alla conformazione giuridica dell’organizzazione amministrativa l’avvento della Costituzione certifica il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale.
Secondo Costantino Mortati, la formula Stato sociale può porsi in contrapposizione a quello dello Stato liberale per significare che il fine diventa quello di intervenire nei rapporti sociali per modificare gli effetti prodotti in passato dal non interventismo. Se ne deduce che lo Stato sociale, per essere tale, ha bisogno, ancora più che le altre forme di stato, di strumenti non solo giuridici ma anche e soprattutto amministrativi che siano idonei a consentigli di perseguire i suoi fini. Il problema di fondo dello Stato sociale è di realizzare il maggior benessere possibile attraverso un sistema di apparati e di garanzie che consentano la equità della ripartizione della ricchezza, l’indirizzo verso gli investimenti socialmente più utili, la realizzazione dei programmi nei modi e nei tempi più vantaggiosi alla collettività (Mortati, C., Le forme di governo, Padova, 1973, 62).
Ogni funzione richiede un tipo particolare di organizzazione in modo da essere adeguata, ogni volta, allo svolgimento della specifica funzione. La organizzazione ed i metodi di lavoro devono essere sempre impostati e risolti sul piano della funzionalità immediata, valida anche, nei limiti del prevedibile, per il prossimo futuro, in modo da ottenere, per il maggior tempo possibile, e senza dover ricorrere immediatamente a modifiche di un sistema che dia un buon rendimento, che sia, cioè, efficiente. Infatti, lo Stato sociale responsabile deve disciplinare, stimolare, controllare, incentivare i molteplici elementi in modo che la collettività ne riceva il vantaggio massimo (Guarino, G., Efficienza e legittimità dell’azione dello Stato: le funzioni della ragioneria dello stato nel quadro di una riforma della pubblica amministrazione, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Milano,1970,171).
Il valore dell’efficienza nello Stato sociale si rivela, quindi, non tanto nel fatto che lo Stato aggiunga ai fini preesistenti, un nuovo fine (come tale aggiuntivo), quello dell’efficienza, bensì nella necessità di utilizzare tutti i propri sforzi, e quelli della comunità, allo scopo di raggiungere i risultati migliori e più convenienti alla comunità medesima. Lo Stato esiste e deve operare coordinando tutti gli sforzi ed utilizzando tutte le risorse verso il miglior conseguimento di risultati effettivi in relazione agli obiettivi di eguaglianza consustanziati nell’art. 3, co. 2, Cost.
Se tale è la concezione dello Stato sociale, appare subito evidente come i problemi di fondo dello Stato sono l’organizzazione dell’apparato e la predisposizione dei mezzi ottimali per lo svolgimento dell’attività, perché, come è stato osservato, «l’amministrazione designa l’agire doveroso ed il suo contenuto è l’attività in ragione del bene comune. Là dove si opera nell’interesse generale entra in gioco l’amministrazione» (Berti, G., Amministrazione e Costituzione, in AA.VV. La pubblica amministrazione nella Costituzione. Riflessioni ed indicazioni di riforma, Milano, 1995,18).
Si assiste, in altri termini, al primato dell’organizzazione. Se nell’esperienza dello Stato liberale l’interesse per questo tema è minimo, se non proprio inesistente, in quanto minime sono le funzioni esercitate, caratterizzate prevalentemente dalla produzione di beni giuridici, e minima avrebbe dovuto essere la dimensione organizzativa, necessariamente e volutamente omogenea ed uniforme. Nello Stato sociale l’ampliamento dei compiti dell’amministrazione alla prestazione di utilità sociali e di benessere genera una corrispondente, e pervasiva, espansione dell’organizzazione nonché una relativa priorità dell’assetto strutturale rispetto al perseguimento degli scopi.
Inoltre, dalla pluralistica ripartizione dei centri di decisione statale si registra una tendenza alla fisiologica ‘estroversione’ degli apparati pubblici, in questo segnando, di fatto, la fine di ogni criterio aggregante interno, di ogni rispondenza a canoni astratti predeterminati.
La presupposta coerenza intrinseca del modello liberale si diluisce nella complessità organizzativa, nella quale ogni segmento manifesta, quale scopo primario, l’esigenza di dare una risposta effettiva alle domande sociali, indipendentemente dalla conformità alle tradizionali regole della responsabilità politica e giuridica del processo decisionale. In tale contesto, «la pura legalità non è sufficiente a garantire la realizzazione del pubblico interesse, e la efficienza non ha misurabilità puramente tecnica», laddove essa deve essere «efficienza rispetto ai fini determinati che condiziona e dai cui è condizionata» (Bachelet, V., Responsabilità del Ministro e competenza esterna degli uffici direttivi dei ministeri, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 590). In altri termini, se «in passato, la pubblica amministrazione aveva un solo input, la legge», dopo l’avvento della Costituzione, «non si chiede solo che la condotta amministrativa sia legittima, ma anche che essa sia adeguata al raggiungimento del risultato finale» (Cassese, S., Il sistema amministrativo italiano, Bologna,1983, 80).
Pertanto, in tale contesto, l’istituzionalizzazione dell’amministrazione di prestazione, l’affermazione di un approccio funzionale dell’agire amministrativo, l’assunzione di compiti fondati sul dinamico ed inclusivo confronto di interessi, la espansione degli apparati e delle competenze, il policentrismo decisionale, la programmazione delle politiche pubbliche di intervento e la redistribuzione delle risorse, il riconoscimento di diritti sociali diventano tutti fattori di emersione di un paradigma organizzativo incentrato sull’effettività, ossia sulla necessaria funzionalità in concreto, nel quale il criterio dell’efficienza assurge a parametro cogente di un sistema costituzionale ispirato alla legalità sostanziale.
In tal senso il tema dell’efficienza è legato al significato giuridico da attribuire al buon andamento di cui all’art. 97, co. 1, Cost.
Dai lavori preparatori emerge, tuttavia, che il dibattito sull’art. 97 Cost. sia stato tutto sommato povero e le formule contenute nella norma più che espressione di un autentico spirito innovativo rispetto al passato siano state prodotto di una sostanziale continuità ideologica rispetto alla formazione di coloro che quelle disposizioni hanno immaginato (Allegretti, U., Amministrazione pubblica e Costituzione, Padova, 1996, 57). Infatti sino agli anni Cinquanta l’interesse per la disposizione è pressoché limitato e tutto vocato al riconoscimento della stessa quale norma di carattere programmatico e non a contenuto immediatamente precettivo.
Solo negli anni Sessanta si riscontra la presa di coscienza da parte della dottrina dei temi dell’organizzazione riconoscendo all’impianto costituzionale in generale e all’enunciato dell’art. 97 Cost., in particolare il ruolo di avere sanato, nell’ottica finalistica, la frattura che le ricostruzioni precedenti hanno generato tra l’organizzazione e l’attività dalla stessa posta in essere.
Lo scopo dell’art. 97 Cost. richiede che imparzialità e buon andamento debbano essere guardati come risultati assicurabili da un tipo di organizzazione e da certe regole di organizzazione. «L’affermazione del costituente è tanto più importante in quanto non si riferisce alla sola attività del legislatore, ma ad ogni attività (normativa) di organizzazione, la quale è vincolata a costruire l’organizzazione in modo da garantire, attraverso di essa, l’imparzialità ed il buon andamento» (Nigro, M., Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966, 84).
Il costituente, cioè, chiaramente si preoccupa delle condizioni organizzative, strutturali, formali dell’imparzialità e del buon andamento. In tal senso, l’efficienza si configura, in ultima analisi, come complesso di esigenze strumentali alla realizzazione dei compiti amministrativi (Giannini, M.S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano,1981, 263).
L’idea di efficienza come effettività dell’apparato è, allora, il tratto caratterizzante del precetto costituzionale nell’analisi scientifica sul tema. Tale idea trova conferme, sebbene in via mediata e non sempre svincolata dalle singole fattispecie concrete, anche nella giurisprudenza costituzionale del periodo. In particolare, la Consulta, dopo avere in un primo momento riservato, dell’esercizio del potere discrezionale del legislatore l’apprezzamento sull’idoneità delle leggi ad assicurare il buon andamento (C. cost., 3.3.1959, n. 9), ha configurato il principio in esame quale parametro di razionalità o non arbitrarietà delle scelte operate dal legislatore, al fine di verificare la potenzialità funzionale dell’apparato pubblico (C. cost., 14.3.1962, n. 14; 4.2.1967, n. 8; 9.12.1968, n. 123).
Certo, occorre condividere l’opinione di chi ritiene che nella giurisprudenza della Corte Costituzionale il buon andamento mantiene il significato di obiettivo, o di valore finale, dell’azione e dell’organizzazione (Pinelli, C., Art. 97, in Commentario della Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1994, 99). Ma proprio per questo la Corte rifiuta di tratteggiarne con precisione i contorni, riferendosi latamente all’“interesse del servizio” o alle “necessità concrete dell’amministrazione” e guardando all’efficienza in una dimensione qualitativa e giammai, in senso tecnico, quale produttività. In altri termini, il tratto caratterizzante della nozione di efficienza condivisa in questo periodo è tutta tradizionale e legato al concetto di adeguatezza al fine e non di relazione tra input e output.
Poste queste premesse, negli anni Settanta, la piena attuazione della Costituzione con l’avviamento delle Regioni, la definitiva disaggregazione del sistema amministrativo diluito nel policentrismo funzionale e autonomistico, il consolidamento e sviluppo dell’imprenditoria pubblica, la nascita del ceto dirigenziale e la revisione del disegno organizzativo-gestionale portano con sé un attento esame della condizione delle amministrazioni pubbliche e del tema dell’efficienza che sembra assumere centralità anche nel dibattito politico istituzionale.
Come è noto, infatti, a differenza del decennio precedente, gli anni Settanta rappresentano un decennio operoso sul piano degli interventi sul sistema amministrativo, i quali, quasi sempre, sono indirizzati all’obiettivo della funzionalità degli apparati. In questa prospettiva, si vedano l’art. 2, l. 18.3.1968, n. 249 e la l. 28.10.1970, n. 775 e il conseguente intero impianto del d.P.R. 30.6.1972, n. 748, là dove si dispone, tra l’altro, la verifica della razionale organizzazione, dell’adeguata utilizzazione del personale e dell’andamento dell’ufficio. Ispirate all’obiettivo della efficienza complessiva sono anche la l. n. 70/1975 sul riordino degli enti pubblici, la l. 22.7.1975, n. 382, sulla cd. prima regionalizzazione, ed i conseguenti d.P.R. 24.7.1977, nn. 616 e 617, nonché la l. 23.12.1978, n. 833 sulla riforma sanitaria.
Tuttavia, la permanenza di un modello burocratico-legalistico, che, nonostante la Carta costituzionale, continua a prevalere e la scarsa coerenza di questo con le dinamiche sociali ed economiche raggiunte dal Paese in quegli anni spingono ad una riconsiderazione del significato da attribuire al concetto stesso di funzionalità in considerazione delle palesi inefficienze, in termini di risorse impiegate, che quel modello produce.
La necessità di riaggiornare le categorie di riferimento per rendere il mondo dell’amministrazione pubblica più coerente con il contesto socio-culturale ed economico e l’esigenza di porre ordine al panorama caotico delle organizzazioni secondo paradigmi nuovi sono i principi ispiratori del Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, presentato al Parlamento da Giannini nella sua veste di Ministro della Funzione pubblica nel 1979. Riprendendo alcune idee già formulate in precedenza dal Giannini scienziato, il Rapporto promuove un’idea di organizzazione focalizzata sui temi della analisi di produttività delle amministrazioni. La produttività alla quale si guarda è solo quella che «si riferisce alla produzione di beni e servizi fornita da un lavoratore nell’ambito di un arco di tempo determinato…(produttività-lavoro)» che rappresenta «una componente anche se importante dell’efficienza», ma soprattutto quella relativa al «rapporto tra risorse impiegate e risultati ottenuti».
Se dal punto di vista dei risultati concreti, il progetto di riforma immaginato non ha avuto un seguito significativo in termini di interventi legislativi, il Rapporto ha certamente avuto un grande impatto sul piano culturale, non solo prospettando un approccio differente rispetto al passato ai problemi giuridici dell’organizzazione in generale, e dell’efficienza in particolare, ma è stato sicuramente seminale nei confronti della grande stagione delle riforma degli anni Novanta.
Con riferimento alla giuridificazione del canone dell’efficienza negli anni Ottanta si segnala la svolta giurisprudenziale operata dalla Corte dei Conti, che in sede di giudizio di responsabilità amministrativa riconosce la natura di danno pubblico al danno al buon andamento della pubblica amministrazione e alla lesione derivante dall’impiego non funzionale ed efficiente delle pubbliche sostanze. (C. conti, II, 17.7.1982, n. 106; C. conti, II, 13.3.1989, n. 54).
Gli anni Novanta si aprono con l’approvazione del Trattato di Maastricht che in vista della moneta unica attribuisce all’Unione Europea una competenza molto forte in materia di politica finanziaria degli Stati membri. L’art. 3 impone agli Stati membri il rispetto di «finanze pubbliche (e condizioni monetarie) sane». Il principio viene esplicitato e sviluppato nell’art. 104 C che pone il divieto di disavanzi pubblici eccessivi. Nello stesso senso, si colloca la “costituzionalizzazione” nell’art. 205 del principio «buona gestione finanziaria» in precedenza previsto dall’art. 2 del Regolamento Finanziario del 1977, come modificato dal Regolamento n. 610 del 13.3.1990.
In questa prospettiva, con il Trattato di Maastricht il principio di efficienza nella sua accezione tecnica di rapporto tra costo e risultato, viene configurato, in ambito comunitario, quale parametro giuridico di valutazione della gestione dell’amministrazione. Pertanto, muovendo da una prospettiva finanziaria, si avvia un percorso di rilevanza giuridica dell’efficienza in termini di produttività che porterà ad affermare che esso non può che configurarsi quale principio fondante del sistema europeo. La norma europea, allora, non solo costringe gli Stati ad attuare politiche di risanamento della finanza pubblica, ma soprattutto impone la modernizzazione delle pubbliche amministrazioni. E proprio con riferimento a questo ultimo profilo si può ritenere che la via giuridica alla produttività dell’amministrazione, ossia la connotazione dell’efficienza quale requisito imprescindibile di una moderna politica dei risultati, sia il portato di una scelta eterodiretta dall’ordinamento comunitario più che da una consapevole trasformazione dell’amministrazione da parte della politica, la quale si è dimostrata assolutamente sorda o incapace di realizzarla nonostante gli accorati e autorevoli richiami operati nel Rapporto Giannini.
Alla luce di quanto detto si può verificare come il paradigma della produttività abbia trovato sede nelle riforme che hanno elevato in maniera esplicita l’efficienza a canone giuridico per l’amministrazione.
Compendiare interamente gli ambiti, i caratteri e le modalità di intervento delle riforme interamente indirizzate alla giuridicità dell’efficienza è cosa non solo ardua, ma pressoché impossibile. Quindi, in questa ci si limita a segnalare sinteticamente solo alcuni dei temi che si ritengono cruciali per cogliere il perimetro del paradigma della produttività.
Innanzitutto, sembra corretto articolare l’evoluzione in due momenti: i) le riforme degli anni Novanta indirizzate a approntare strumenti giuridici per la realizzazione della produttività secondo il modello del New Public Management (cd. efficienza promossa); ii) le riforme dell’ultimo scorcio del primo decennio degli anni Duemila che, invece, sono contraddistinte dalla volontà di imporre dall’alto standard qualitativi di produttività sanzionandone severamente le deviazioni nell’ottica del Neo-Weberian State (cd. efficienza imposta per legge).
Semplificando molto, nelle riforme degli anni Novanta, la giuridificazione del canone dell’efficienza ruota sostanzialmente intorno a tre temi: a) la managerialità; b) il controllo di e sulla gestione; c) il nuovo sistema di responsabilità pubbliche.
a) Con l’espressione New public management si fa riferimento al modello di amministrazione teorizzato dalla dottrina anglosassone alla fine degli anni Ottanta che ha come priorità il miglioramento dell’efficienza e dell’economicità del settore pubblico. L’amministrazione si discosta dal schema burocratico di stampo weberiano per avvicinarsi a forme razionali di gestione che provengono dal settore privato e che portano a considerare l’impiego delle risorse destinate al settore pubblico in un ottica di produttività. Dunque, un modello che ha per obiettivo «un amministrazione che costi meno e lavori meglio» secondo lo slogan del National Performace review promosso dall’Amministrazione Clinton (Osborne, D.-Gaebler, T., Dirigere e governare (1992), trad. it., Milano, 1995).
Si tratta di un modello che ha avuto nel corso degli anni Novanta ampia adozione in quasi tutti i Paesi OCSE e che è stato promosso dalle istituzioni comunitarie.
In Italia, come è noto, una definitiva sterzata nel senso della managerialità è realizzata, in un primo tempo, timidamente, con la l. 18.4.2000, n. 142 (oggi d.lgs. 18.8.2000, n. 267) e poi, in maniera più robusta, con il d.lgs. 3.2.1993, n. 29 e il d.lgs. 31.3.1998, n. 80 (oggi d.lgs. 30.3.2001, n. 165), nei quali si configura una nuova dimensione interna dell’amministrazione mediante una tecnica di distribuzione delle responsabilità completamente nuova, basata sull’esclusività della competenza attribuita a ciascun soggetto, sulla differenziazione dei criteri e dei parametri di esercizio delle attribuzioni nella quale questa competenza si concretizza e sulla contemporanea attivazione di meccanismi di coordinamento e di collaborazione che consentono di mantenere l’unitarietà del sistema nel suo complesso.
Per introdurre maggiore efficienza nelle pubbliche amministrazioni si cerca di fare in modo che ciascun attore che si muove su quella scena si trovi a svolgere il proprio ruolo assumendosene integralmente le responsabilità.
Tale obiettivo viene perseguito con la separazione delle competenze tra sfera politica e sfera gestionale attribuita alla dirigenza e con la privatizzazione del rapporto di lavoro, intesa non solo come fonte del rapporto stesso, quanto piuttosto in relazione all’attribuzione al dirigente delle capacità e dei poteri del datore di lavoro privato (art. 5, co. 2, d.lgs. 165/2001).
Con riferimento al primo profilo, la dirigenza amministrativa diventa titolare, in via esclusiva, di poteri autonomi, che non sono riconducibili ai poteri esercitati dagli organi di governo, ma sono a questi collegati mediante una strumentazione complessa, che comprende gli incarichi di funzioni dirigenziali, l’attribuzione di quote di bilancio, gli atti di indirizzo, i controlli sull’osservanza delle direttive e sul raggiungimento dei risultati.
Con riferimento al secondo profilo, il legame tra privatizzazione e managerialità passa attraverso la possibilità che la prima offre di impiegare l’autonomia privata in luogo della discrezionalità nell’assunzione di decisioni inerenti certi aspetti del funzionamento dell’amministrazione, soprattutto con riferimento all’organizzazione degli uffici e la gestione dei rapporti di lavoro. Il dirigente conosce, pertanto, un ampliamento della sua autonomia e dei suoi poteri, essendo chiamato ad operare per obiettivi e programmi e non più per atti. A ciò fa seguito, come necessaria conseguenza, la ridefinizione del sistema valutativo e della responsabilità dirigenziale, improntati all’accertamento del risultato complessivo dell’attività e non alla mera regolarità formale dei singoli provvedimenti (Torchia, L., La responsabilità dirigenziale, Torino, 2000).
b) Altro elemento caratterizzante la giuridificazione dell’efficienza è la riforma dei controlli esterni di competenza della Corte dei Conti, operata dalla L. n. 20/1994, che ha limitato le ipotesi del tradizionale controllo di legittimità e promosso il controllo sulla gestione a parametro di riferimento; e successivamente la riforma, introdotta dal d.lgs. 30.7.1999, n. 286, che ha disciplinato i controlli interni in un ottica di valorizzazione del risultato dell’azione amministrativa.
Con riferimento ai primi, si segnala la definitiva presa di coscienza da parte della Corte Costituzionale del canone dell’efficienza e del nuovo paradigma dell’attenzione al risultato che il principio del buon andamento ha assunto. In tal senso, nella sentenza n. 29/1995 esplicitamente si afferma che «il fine ultimo dell'introduzione, in forma generalizzata, del controllo sulla gestione è quello di favorire una maggiore funzionalità nella pubblica amministrazione attraverso la valutazione complessiva della economicità/efficienza dell'azione amministrativa e dell'efficacia dei servizi erogati» (C. cost., 27.1.1995, n. 29).
Con riferimento ai secondi, assume prioritaria rilevanza il controllo di gestione, ossia il controllo, previsto dell’art. 4, d.lgs. n. 286/1999, che è «rivolto ad accertare la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, con una valutazione con altre situazioni omogenee, dei costi, modi e tempi dell’azione amministrativa; lo scopo della verifica è pervenire ad una misurazione dell’efficacia (in rapporto alle aspettative degli amministrati)) e dell’efficienza (ottimale impiego delle risorse) dell’attività pubblica» (Berti, G.-Marzona, N., Controlli amministrativi, in Enc. dir., II, Agg., Milano, 1999, 474).
Nel linguaggio giuridico vengono accolte nozioni proprie degli studi di economia aziendale ed, in particolare, il concetto di efficienza interna intesa come rendimento dei fattori produttivi e come razionalizzazione dei processi di produzione da implementare al minor costo possibile. In questo senso, scopo del controllo di gestione è il monitoraggio finalizzato all’efficienza gestionale ossia alla capacità di minimizzare il costo di produzione la capacità. Così facendo si introduce nella nozione di efficienza la funzione di costo. Il costo unitario di un determinato prodotto diventa l’indicatore dell’efficienza complessiva di un’organizzazione.
c) La riforma della responsabilità per danno erariale ed il potenziamento della Corte dei Conti operato con le leggi 14.1.1994, nn. 19 e 20 hanno dato la stura ad una nuova concezione delle funzioni del giudizio di responsabilità amministrativa, il quale diventa lo strumento principale di tutela del coretto utilizzo delle risorse pubbliche. La natura del giudizio di responsabilità amministrativa si caratterizza in senso pubblicistico accentuando sempre più gli elementi sanzionatori rispetto a quelli risarcitori. Attraverso una concezione lata della “contabilità pubblica” di cui all’art. 103 Cost., l’istituto intende tutelare l’interesse della collettività, attribuendo al giudice contabile di rispondere, non tanto all’esigenza di un riequilibrio patrimoniale – caratteristica originaria dello stesso –, quanto a quella di una concreta attuazione dei precetti costituzionali racchiusi nel buon andamento e, quindi, dell’efficienza (Mercati, L., Responsabilità amministrativa e principio di efficienza, Torino, 2002).
A partire dai primi anni del nuovo secolo alcuni studiosi sottoponendo a critica il modello del New Public Management, non ritenuto soddisfacente sul piano dei risultati e sui paradossi che esso genera sul piano organizzativo, sviluppano un nuovo quadro teorico di studi sulle amministrazioni pubbliche denominato Neo-Weberian State. Questo si fonda sui meccanismi dell’affidabilità e della predictability delle norme, ossia l’adozione di regole formali che assicurino l’esercizio appropriato della discrezionalità amministrativa, la correttezza procedurale e l’integrità professionale. L’obiettivo dichiarato è perseguire l’efficienza dell’azione pubblica attraverso il contenimento dell’arbitrarietà del dirigente (Pollitt, C.-Bouckeart, G., Public Management reform, III ed., Oxford, 2011, 31 ss.).
Si tratta di un approccio che viene adottato dal legislatore italiano prima con la l. 6.8.2008, n. 133 e poi, in maniera più significativa, con la cd. “riforma Brunetta” – operata dalla l. 4.3.2009, n. 15 e dal conseguenziale d.lgs. 14.9.2009, n. 150. Infatti, si irrigidisce il sistema delle prescrizioni mediante la scelta di leggere nelle norme definite in modo accentrato il meccanismo di garanzia del miglioramento dell’azione pubblica e l’imposizione dell’efficienza perseguita attraverso la valutazione della performance secondo standard predeterminati. A ciò si aggiunge un inasprimento dell’apparato sanzionatorio di tutte le deviazioni dai canoni della produttività attesa in un ottica di maggiore rilevanza della pretesa del cittadino ad una buona amministrazione.
La ricerca dell’efficienza e della funzionalità dell’organizzazione degli apparati pubblici viene perseguita, non attraverso una maggiore parificazione tra settore pubblico e settore privato, ma attraverso la costruzione di un sistema di regole che ampliano l’ambito discrezionale del funzionario-manager senza, però, prevedere le garanzie che assistono il lavoratore privato.
Le spinte verso l’imposizione dell’efficienza secondo un modello top-down di stampo neo-weberiano si accompagnano alle spinte dall’esterno proveniente dalla formalizzazione di pretesa di funzionalità organizzativa riconosciuta ai cittadini.
Si ascrive a tale profilo l’introduzione un sistema di tutela collettiva stimolato dalla imposta trasparenza organizzativa e incentrato sull’azione per l’efficienza della pubblica amministrazione esperibile davanti al giudice amministrativo disciplinata dal d.lgs. 20.12.2009, n. 198.
L’art. 2, l. cost. 24.1.2012, n. 1 aggiunge all’art. 97 Cost. un comma secondo il quale «Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico».
Tal disposizione, che introduce un comma premesso, assume il significato di vincolo alla funzione organizzatrice dell’amministrazione pubblica, la quale deve implementare obbligatoriamente il principio di equilibrio del bilancio ed il principio di sostenibilità del debito.
Si tratta del portato dell’adesione da parte dell’Italia al cd. Fiscal Compact, ossia del Trattato assunto dal Consiglio europeo del dicembre 2011 per rafforzare gli impegni degli Stati dell’Eurogruppo per il raggiungimento degli obbiettivi comuni del “Patto di bilancio”: riduzione progressiva del debito pubblico, pareggio di bilancio, convergenza verso gli obbiettivi di medio e lungo termine. In particolare, per quanto riguarda le regole di bilancio, si prevede la regola fondamentale di introdurre nelle costituzioni nazionali o in atti di equipollente valore il principio vincolante del pareggio di bilancio, seguito da impegni per la riduzione automatica del debito. La “sana finanza pubblica” diviene dunque questione di interesse comune. In particolare, l’art. 3, co. 2, del Trattato sul Fiscal Compact dispone che le regole del Trattato producono effetti nel diritto nazionale degli Stati appartenenti alla Eurozona tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente o il cui rispetto fedele è in altro modo garantito lungo tutto il processo nazionale (Chiti, M.P., La crisi del debito sovrano e le sue influenze per la governance europea, i rapporti tra stati membri, le pubbliche amministrazioni, in Riv. Corte Conti, 2013,1, IV, 148 ss.).
Attraverso la disposizione costituzionale inserita nell’art. 97 – unitamente alla modifica dell’art. 81 – si impone direttamente ad ogni singola amministrazione il rispetto dei vincoli finanziari europei. Si crea una vera e propria catena di trasmissione tra la macro-dimensione degli obiettivi globali di finanza pubblica e la micro-disciplina organizzativa della singola amministrazione.
Mentre il principio di equilibrio di bilancio rinvia ad un concetto dinamico che esprime la necessaria corrispondenza tra le entrate e le spese pubbliche tale che nessuna delle due categorie soverchi mai quantitativamente l’altra, il principio di sostenibilità del debito pubblico individua, invece, una nozione quantitativa che impone il divieto di fare fronte alle spese correnti con entrate provenienti dall’indebitamento anziché con le ordinarie entrate tributarie e patrimoniali (Bottino, G., Il nuovo articolo 97 della Costituzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, 691 ss.).
In termini generali, dalla novella del 2012 emerge la costituzionalizzazione del criterio di economicità, il quale, in una interpretazione complessiva del testo dell’art. 97 Cost. si pone quale paradigma di determinazione del contenuto prescrittivo del buon andamento-efficienza. Il criterio di economicità, in termini giuridici, si traduce nell’obbligo di impiegare la minore quantità possibile di risorse pubbliche.
Il criterio dell’economicità, unitamente alla sostenibilità dell’indebitamento, comporta, inevitabilmente, una conformazione dell’efficienza possibile, la quale viene, di fatto, scorporata dalla funzionalità ed agganciata prevalentemente al risparmio gestionale. In altri termini, il prodotto finale non sarà conformato qualitativamente dal corretto rapporto tra input e output, ma dalla dimensione quantitativa iniziale dell’input, ossia delle risorse disponibili. L’efficacia, il risultato della gestione, degradano a variabile dipendente della funzione di costo sostenibile. Diminuendo le risorse disponibili diminuisce il prodotto e l’efficienza si qualifica come capacità di risparmiare risorse. La continenza del vincolo di funzionalità che il buon andamento ante riforma prefigurato si stempera nei rivoli della sostenibilità legittimando e per certi versi formalizzando a livello costituzionale il fenomeno dei diritti finanziariamente condizionati e che la Corte costituzionale ha registrato sin dal 1994.
Sul piano della giuridificazione di questo nuovo paradigma dell’efficienza si devono segnalare le prescrizioni normative che impongono la cd. Spending review e tutte le norme che abilitano della giurisprudenza contabile a sanzionare tutte le condotte non coerenti con i vincoli di spesa.
Lungi da promuovere una revisione della spesa sulla base di una riformulazione degli obbiettivi e delle priorità, si riscontrano invece interventi normativi, caratterizzate da manovre di taglio della spesa pubblica che non comportano una riconsiderazione dei processi e dei prodotti offerti dalla pubblica amministrazione o, in altri termini, che prescindono da qualsiasi valutazione dei programmi dispesa e della loro efficacia.
Dopo la riforma dell’art. 97 Cost. si sta facendo strada il mito dell’economicità e del risparmio a detrimento della funzionalità e del risultato. L’immediata cogenza della previsione non può che presagire ad un modello organizzativo che ha come obiettivo primario non solo quello di non esorbitare i limiti di spesa per fornire un servizio o esercitare una funzione, ma soprattutto di ridurli nel medio termine (De Ioanna, P., Degni, M., Il vincolo stupido, Roma, 2016).
Con l’avvento della economicità e con la deriva neo-weberiana delle riforme amministrative lo spirito legalista che ha sempre albergato nella amministrazione italiana, sembra rinvigorito e addirittura trovare una legittimazione costituzionale nei vincoli finanziari di derivazione europea. Il primato dell’economicità caratterizza una forma di legalismo dell’efficienza inteso come supino rispetto delle norme che comportano risparmio e permettono la compressione del debito pubblico. Per il funzionario l’importante è non sforare i limiti legali di spesa e non tanto fornire un servizio o esercitare una funzione. Sarà compito della giurisprudenza quello di ridimensionare la portata deflagrante dei principi racchiusi nel comma premesso alla disposizione costituzionale, tracciando il limite del rispetto della ineludibile funzionalità dell’organizzazione, nonché fare in modo che la giuridificazione del canone dell’efficienza paradossalmente non generi essa stessa ulteriore inefficienza della pubblica amministrazione. In tal senso alcune aperture si sono di recente riscontrate nella giurisprudenza costituzionale (C. cost. 26.01.2016, n. 16; 16.12.2016, n. 275) ma ancora le prospettive future sono tutt’altro che definite.
Fonti normative
Art. 97 Cost.; l. 14.1.1994, n. 20; art. 4, d.lgs. 30.7.1999, n. 286; artt. 4, 5, 21, d.lgs. 30.3.2001, n. 165; d.lgs. 14.9.2009, n. 150; d.lgs. 20.12.2009, n. 198; d.l. 6.7.2012, n. 95 (conv. in I. 7.8.2012, n. 135)); l. 7.8.2015, n. 124.
Bibliografia
Allegretti, U., Amministrazione pubblica e Costituzione, Padova, 1996; Bachelet, V., Evoluzione del ruolo e delle strutture della pubblica amministrazione, in Scritti giuridici, Milano, 1981, I, 419 ss.; Della Cananea, G., La lex fiscalis europea, in Quad. dir. cost., 2014,1 ss.; Giannini, M.S., Il pubblico potere, Bologna, 1986; Pinelli, C., Art. 97, in Commentario della Costituzione fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1994; Sepe, O., L’efficienza dell’azione amministrativa, Milano, 1975; Spasiano, M.R., Profili di organizzazione della pubblica amministrazione in cinquanta anni di giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Della Cananea, G.-Dugato, M., a cura di, Diritto amministrativo e Corte Costituzionale, Napoli, 2006, 163 ss.; Ursi, R., Le stagioni dell’efficienza. Paradigmi giuridici della buona amministrazione, Rimini, 2016.