EGIDIO da Viterbo
EGIDIO da Viterbo. – Nacque a Viterbo tra l'estate e l'autunno del 1469 da Lorenzo Antonini e Maria Del Testa. Il nome di famiglia non era pertanto Canisio, secondo un diffuso e persistente equivoco, derivato dall'errata trascrizione "Canisius" del "Caninius" che s'incontra nell'Ughelli, con riferimento a una supposta nascita a Canino, paese d'origine dei genitori e nel quale era nata la madre. Egli entrò nell'Ordine agostiniano relativamente tardi, all'età di diciotto anni (giugno 1488), forse conquistato dall'irresistibile oratoria di Mariano da Genazzano, che nel 1485 aveva tenuto un ciclo di sermoni a Viterbo. Trascorso il periodo di noviziato, venne inviato per un anno ad Amelia, in Umbria, ad insegnare filosofia agli allievi del locale convento agostiniano.
Nell'autunno 1490 si stabili a Padova, presso lo Studiumgenerale deiSs. Filippo e Giacomo, per completare il proprio curriculum e studiare teologia. Ebbe cosi inizio un periodo che non solo fu il più importante della sua formazione, ma che segnò in modo assai profondo il suo pensiero e la sua intera personalità. Nella città veneta, una delle più celebrate sedi universitarie e uno dei più vivaci centri intellettuali del tempo, egli concepi una profonda avversione per la filosofia aristotelica, e in particolare per le posizioni di Averroè, che avrebbe giudicato, oltre che "barbare", irrimediabilmente in conflitto con la religione. Primo frutto della sua ostilità nei confronti dell'averroismo fu l'edizione di tre testi, fino allora inediti, redatti da uno dei più rinomati teologi scolastici agostiniani, l'omonimo, e talora con lui confuso, Egidio Romano. Nel settembre 1493 vedono la luce a Padova, presso G. Duranti, le due quaestiones De materia celi e De intellectu possibili contra Averroim, e di lì a tre settimane i Commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis, editi in collaborazione con il confratello Bernardo Granello. A Padova E. segue le lezioni di Agostino Nifò, che pur nella diversità delle reciproche posizioni non potrà fare a meno di elogiare le doti eccezionali dell'allievo. A quanto ci informa un prezioso cenno autobiografico dell'Historiaviginti saeculorum, nella città veneta E. ha anche modo di conoscere di persona Giovanni Pico della Mirandola, di cui apprezza la polemica antiastrologica e con il quale già discute del significato più profondo e autentico dellà cabala.
Lasciata Padova, si recò ad insegnare per due anni a Capodistria, dove, come ricorderà in una lettera a un amico, s'immerse in uno studio indefesso della filosofia platonica: "bienniurn legi, noctes ac dies cum Platone terens". L'entusiasmo per la filosofia platonica, avvertita come il più valido antidoto all'empietà aristotelica, e accresciuto dall'incontro personale con Marsilio Ficino, il massimo esponente della rinascita del platonismo in una prospettiva di "pia philosophia", vale a dire dal punto di vista della sua compatibilità con i principi cristiani. L'incontro con colui che E. considerava il "nuovo Socrate" ebbe luogo a Firenze, dopo il soggiorno padovano, sulla via dell'andata in Istria, o, forse, su quella del ritorno (1496). Nella primavera seguente consegue il magisterium in teologia a Roma, discutendo tesi platoniche e tenendo testa con vigore agli aspri assalti degli interlocutori che gli contrapponevano tesi peripatetiche, come egli stesso riferisce in una lettera indirizzata proprio a Ficino.
Conseguita la laurea, E. venne assegnato come maestro al convento di S. Spirito a Firenze, ma il soggiorno nella città toscana fu di breve durata. Nell'autunno 1497 fu infatti convocato a Roma per predicare alla presenza del pontefice, Alessandro VI, che poi gli impedirà di tornare a Firenze, sottraendolo in tal modo al clima sempre più incandescente che si andava creando attorno alla vicenda di Girolamo Savonarola: il quale poi era fieramente avversato dal filomediceo Mariano da Genazzano, che nel frattempo era assurto al generalato dell'Ordine agostiniano e che avrebbe esortato il pontefice a ricorrere ai provvedimenti più estremi nei confronti del domenicano.
Nel 1498, mentre a Firenze si consuma la catastrofe di Savonarola, E. accompagna Mariano, che lo ha nominato suo coadiutore, nel Napoletano, per visitare i conventi di quella provincia, e forse anche per compiere una missione diplomatica per conto del papa, che avrebbe voluto indurre il re Federico a dare in matrimonio la propria figlia a Cesare Borgia. In Campania egli ha modo di visitare località cariche di reminiscenze classiche: Pozzuoli, i Campi Flegrei, l'antro e il tempio della Sibilla cumana.
Come già era avvenuto per Petrarca, guida e punto di riferimento ideale di questo pellegrinaggio, è Virgilio che rivestirà nel pensiero di E. un ruolo, oltre che di primo piano, fortemente emblematico, rappresentando al tempo stesso l'interprete latino della tradizione platonica e il più suggestivo punto di convergenza di poesia, classicità, filone profetico-sibillino e in generale delle prefigurazioni cristiane presenti nel pensiero pagano.
Alla fine dell'anno, lasciando Napoli via mare, E. e Mariano vengono sorpresi da una violenta tempesta. I due non solo sono costretti a sacrificare il proprio bagaglio, fra cui preziosi manoscritti, ma una volta toccata terra il generale agostiniano, già in condizioni di salute assai precarie, muore a Sessa.
Nei due anni successivi (1499-1501) E. soggiornò a lungo a Napoli, dove ben presto acquistò larga fama di predicatore insigne e strinse stretti rapporti con i più illustri umanisti della città, che mostravano di apprezzare vivamente l'inconsueto nesso di pietà e amore per le lettere. Affiliato all'Accademia Pontaniana, E. godeva della più alta stima di personaggi quali Jacopo Sannazzaro, il quale confesserà che la prima ispirazione a comporre il poema De partu Virginis gli era venuta dall'ascolto di una sua predica, e lo stesso Pontano, che all'inizio del 1501 gli invierà un inno scritto in onore di s. Agostino e farà dell'agostiniano il protagonista dei dialogo intitolato in suo onore Aegidius, nella cui prima parte è riportato un sermone del frate, considerato come l'esempio più persuasivo della rinascita dell'eloquenza cristiana.
I personali talenti e interessi letterari di E. sono conferinati dal fatto che egli coltivò la poesia con risultati non privi di eleganza: nel 1500 si cimenterà anche con la prosa, componendo una favola boschereccia in volgare, Cyminia, che non ci è pervenuta. Se già l'edizione dei Commentaria di Egidio Romano era accompagnata da versi in onore dell'illustre confratello, e altri furono composti sia nello stesso periodo padovano sia in periodi successivi, come i sei madrigali indirizzati a Vittoria Colonna, di maggior importanza e impegno si rivelano le tre ecloghe latine, inedite, intitolate Paramellus et Aegon, De ortu Domini e In resurrectione Domini: composte a Isola Martana nel lago di Bolsena nel 1504, esse riprendono il modello pastorale virgiliano e le immagini classiche, immettendovi contenuti cristiani (per il problema dell'attribuzione del poema Caccia d'amore, v. infra, p. 352; per altri testi letterari si veda D. A. Gandolfo, Fiori poetici dell'eremo agostiniano, Genova 1682, pp. 71-107; Le porpore agostiniane, Genova 1696, pp. 36-43; Dissertatio historica de … Augustinianis scriptoribus, Roma 1704, pp. 16-20). A E. fu talora erroneamente attribuito anche il poema Là 've l'aurora, che incluso in antologie poetiche a metà del Cinquecento, talora con la Caccia d'amore e con essa confuso, godette di fama ancora maggiore di questa: ma esso non è opera di E., bensi dell'accademico senese G. B. Lapini.
Nel giugno 1501 E. venne richiamato dalle province meridionali a Roma dal pontefice, insospettito dai rapporti troppo stretti che lo legavano al re Federico e convinto che l'agostiniano fosse stato inviato in Puglia, territorio conteso dal re di Spagna, non in qualità di predicatore, bensi in missione politica. Turbato dagli intrighi e dalle manovre che agitavano il Regno di Napoli, sul quale il papa stesso aveva precise mire, E. decide di rifugiarsi in Toscana, presso la Congregazione degli osservanti di Lecceto, nei dintorni di Siena. La scelta non è priva di significato, in quanto il convento di S. Salvatore vantava un ruolo di primo piano nel movimento di riforma all'interno dell'Ordine agostiniano. In quei luoghi intrisi di misticismo E. appaga uno degli aspetti della sua complessa personalità, quello proteso verso una vita ascetica e di intensa spiritualità, che già a Napoli l'aveva spinto a risiedere nel convento degli osservanti di S. Giovanni in Carbonara, e in seguito lo fara rifugiare a Isola Martana o nelle selve dei monte Cimino, nei pressi della città natale.
Il suo entusiasmo per Lecceto troverà espressione concreta sia nelle iniziative pratiche intraprese per giungere all'affiliazione del convento di Viterbo a quello toscano, sia nella stesura di due brevi opere, il De Ilicetana familia, pubblicato da F. X. Martin (1962), e il Panegyricus pro coenobio Ilicetano, che, ritenuto perduto, è stato rintracciato e pubblicato da M. B. Hackett (1983). I due opuscoli intendono tessere un caldo elogio dei più insigni rappresentanti della congregazione, la cui superiore purezza e spiritualità è collegata alla tradizione che faceva derivare le comunità toscane direttamente da s. Agostino.
Il gusto del ritiro e della vita eremitica non esonerava E. da un'intensa opera di predicazione, che lo portò nelle più svariate località della penisola, acclamato e richiesto dal popolo e dai principi; ma, a parte le dotte orazioni date alle stampe, purtroppo ben poco sopravvive di questa fervida attività (Monfasani, 1983) che lo fece annoverare tra i più celebrati predicatori del tempo. Oltre che a Roma, predicò in città dell'Italia settentrionale e centrale, conteso da Siena, Venezia, Ferrara, dove fra il pubblico lo ascoltò Lucrezia Borgia. In conseguenza di tale crescente popolarità venne nominato da Giulio II predicatore apostolico.
Alla fine dei giugno 1506, mentre trascorreva un periodo di ritiro nelle selve del Cimino, il pontefice gli comunicò di volergli affidare la direzione dell'Ordine in seguito alla morte del generale e in attesa dei capitolo generale. Dopo aver protestato la propria inadeguatezza E. accettò il gravoso incarico. Quindi, in qualità di vicario apostolico, accompagnò Giulio II deciso a riorganizzare lo Stato della Chiesa e a riconquistare Perugia e Bologna. Inviato dal pontefice a Napoli, perorò di fronte al re Ferdinando d'Aragona la causa della crociata; alla fine dell'anno era a Venezia, con l'incarico da parte del papa di persuadere la Signoria a restituire le città della Romagna di cui si era impossessata in seguito al crollo dello Stato di Cesare Borgia, o almeno Faenza, ma a nulla valse la facondia dell'agostiniano contro l'intransigenza del doge Leonardo Loredan.
Nel capitolo generale dell'Ordine, convocato nella primavera del 1507 a Napoli e le cui spese vennero sostenute dal viceré Consalvo di Cordova, E. fu eletto per acclamazione priore generale dell'Ordine, carica che manterrà per più di dieci anni, venendo rieletto nel corso dei due successivi capitoli nel 1511 e nel 1515. La solenne investitura ebbe luogo il 23 maggio, alla presenza delle maggiori autorità del Regno e di un folto gruppo di letterati e filosofi.
L'autorevolezza che gli derivò dalla nuova carica gli consenti di proseguire con determinazione nella strada già intrapresa di una rigorosa riforma dell'Ordine, per porre rimedio a quella che gli sembrava essere una situazione di grave decadenza e restituirlo all'antica gloria e dignità. Innanzitutto E. richiamò in vigore la regola di s. Agostino, curandone la stampa a Venezia nel 1508, accompagnata dall'interpretazione di Ugo di San Vittore e dalle successive costituzioni. Sul piano pratico, emanò poi tutta una serie di disposizioni volte a ristabilire una serie di prescrizioni liturgiche, disciplinari e morali che mano a mano erano state lasciate cadere o trascurate. Istitui controlli rigorosi sui conventi in Italia e all'estero, sostituendo le persone che gli sembravano inadeguate alle loro responsabilità e richiamando a un'obbedienza più rigida le congregazioni, come quella lombarda e di Sassonia, che aspiravano ad emanciparsi dall'autorità centrale.
Nonostante le gravose incombenze pubbliche e la tenace operosità riformista (aspetto questo su cui richiama particolarmente l'attenzione la monografia di J. W. O'Malley, 1968) E. non manca di dedicarsi allo studio e alla composizione di testi, che, spesso non condotti a termine e nella maggior parte dei casi non pubblicati, egli descrive come "tumultuosi".
Grazie alla vivace rinascita di interesse degli ultimi decenni per la figura e l'opera di E. che fu al centro degli eventi più rilevanti dei primi trent'anni del secolo e in rapporto con i personaggi politici, religiosi e intellettuali di maggiore spicco, una nuova attenzione è stata dedicata anche ai suoi scritti, per i quali un indispensabile punto di riferimento, da integrare con successive acquisizioni, resta l'elenco fornito da F.X. Martin (1979). Alcuni scritti inediti hanno visto la luce, altri creduti perduti sono stati rintracciati, altri ancora sono stati ristampati; ma, come si vedrà, almeno due delle opere di maggior rilievo giacciono tuttora manoscritte, come gran parte delle lettere, fonte documentaria quanto mai preziosa.
Significativo a chiarire i rapporti di E. con i valori umanistici è un breve testo di recente pubblicazione (O'Malley, 1972), non datato, ma presumibilmente composto tra il 1503 e il 1507.
Scritto in forma di lettera all'amico Antonio Zoccolo, cittadino romano e uomo di legge, esso affronta un tema centrale dell'età umanistica come quello della dignità dell'uomo in una prospettiva tutta particolare. La superiore dignità dell'uomo non è asserita, come in testi di altri autori su questo topos, facendo riferimento al fatto che l'uomo, secondo il versetto dei Genesi, è stato creato da Dio "a sua immagine e somiglianza". La centralità e superiore dignità dell'uomo è messa invece in rapporto con l'incarnazione di Cristo e la conseguente effusione dell'amore divino. A in virtù di tale amore, e della trasformazione interiore da esso operata, che l'uomo diventa capace di superare le tendenze egoistiche ed elevarsi a un mondo superiore: l'uomo può diventare Dio in quanto Dio è diventato uomo. La dignitas pertanto non dipende da particolari prerogative di cui l'uomo è stato originariamente dotato, bensi dalla missione di cui egli è investito in quanto oggetto dell'amore divino. Tale missione viene poi strettamente connessa con il destino e la dignità della città di Roma, cui spetta, in quanto centro della Cristianità, la responsabilità di attuare e favorire la convergenza di umano e divino.
Il 21 dic. 1506, nella basilica di S. Pietro, E. fu incaricato di pronunciare la solenne orazione a conclusione delle pubbliche celebrazioni indette da Giulio Il per festeggiare un triplice successo del re Emanuele di Portogallo, le cui flotte erano approdate felicemente a Ceylon, avevano riportato una vittoria navale a Calicut e scoperto il Madagascar. Benché già ritenuta "nimis longa" dal maestro di cerimonie, l'orazione, su richiesta del pontefice, venne ulteriormente ampliata in un libellus. Del testo, noto come De aurea aetate oanche De Ecclesiae incremento e pubblicato (O'Malley, 1969) sulla base del manoscritto conservato a Evora, è stata rintracciata una seconda copia, probabilmente quella di presentazione a Giulio II.
Si tratta di pagine fitte di erudizione e di allusioni, in cui le scoperte e le conquiste di nuove terre sono collocate su uno sfondo profetico e vengono viste come la realizzazione di un piano provvidenziale. Già in questo testo E. propone quella stretta connessione tra Sacre Scritture ed eventi storici che costituirà il filo conduttore del suo più importante inedito, l'Historia viginti saeculorum. La parte concernente gli eventi del presente, vale a dire la doppia esaltazione del sovrano portoghese e dei pontefice, che hanno promosso le vittoriose imprese, è preceduta da un'ampia trattazione dedicata alla tematica del secolo d'oro. E. distingue quattro età dell'oro: la prima è quella di Lucifero; la seconda di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre; la terza di Giano e degli Etruschi, visti in connessione con Noe e in genere con la civiltà aramaica, secondo le tradizioni rilanciate al cadere del Quattrocento dal domenicano Annio da Viterbo, nella sua discussa, ma fortunata raccolta di Antiquitates; laquarta, infine, quella di Cristo, che è la più pura e la più perfetta e giunge al suo apogeo con gli eventi celebrati.
Nell'opuscolo inoltre è già concesso un notevole spazio a considerazioni numerologiche (con l'insistenza su tutta una serie di corrispondenze quaternarie, o l'enfasi sul particolare valore del numero 12) e simboliche (con spiegazioni, ad esempio, del particolare significato della quercia che illustra l'emblema del papa Della Rovere), che troveranno più ampio sviluppo in opere successive. La dotta orazione ha suscitato l'interesse anche degli storici dell'arte, e H. Pfeiffer (1975) ha individuato in essa la principale fonte cui si sarebbe ispirato Raffaello negli affreschi della Disputa del Sacramento della stanza della Segnatura.
Ma l'opera più ambiziosa e di maggior respiro di questi anni, benché lasciata incompiuta, è quella nota con il titolo di Sententiae ad mentem Platonis, un commento alle prime diciassette distinzioni del primo libro delle Sententiae di Pietro Lombardo. Come la maggior parte delle opere egidiane, anch'essa non fu data alle stampe, ma ci si può fare un'idea dei suoi contenuti dagli stralci, presentati da un'ampia introduzione, pubblicati da E. Massa (1954: indice dell'opera, in Pfeiffer, 1975). Abbandonato lo schema scolastico della quaestio, l'opera, definita da C. Trinkaus (1970) "a strangely interesting work" per lo stile di pensiero e la metodologia adottati, si presenta sotto l'aspetto di un libero commento.
Composta nel primo decennio del secolo, rispecchia molto bene alcune delle tematiche ispiratrici più caratteristiche di E., che si coagulano attorno alla viva ostilità nei confronti dell'aristotelismo (fra gli inediti egidiani si conservano anche repertori ed elenchi di errori di Aristotele) e al conseguente tentativo di scalzarne il predominio in campo teologico, per sostituirlo con la filosofia platonica. Le Sententiae affrontano i temi che stanno maggiormente a cuore al suo autore, soprattutto quelli concernenti la Trinità e l'anima; e non mancano considerazioni a proposito della dignità umana, inserite nel contesto della tradizionale comparazione tra l'angelo e l'uomo, per concludere che se il primo è superiore per natura, in quanto ente soprannaturale e incorporeo, l'uomo riconquista il primato per il destino e la missione che è chiamato ad assolvere. L'autorità teologica cui E. si richiama è naturalmente Agostino, che già aveva individuato nei testi platonici spunti affini e compatibili con le verità cristiane. E. sviluppa in modo più radicale questi spunti, e quelli analoghi suggeriti da Ficino, individuando tra cristianesimo e filosofia platonica un accordo e una continuità molto più consistenti di quanto non fosse stato fatto fino ad allora. Egli sostiene che nel sesto libro della Repubblica si ritrova una compiuta dottrina delle prime due persone trinitarie, mentre è possibile rintracciare cenni e allusioni alla terza persona, lo Spirito Santo, nelle teorie dell'amore contenute nel Fedro e nel Convivio. Una delle convinzioni centrali di questo testo, e in genere del pensiero di R., è che la filosofia umana, rappresentata da quella aristotelica, è insufficiente e inadeguata, e va sostituita con una più articolata "sapienza", che sia in grado di cogliere ed esprimere in modo più pieno il dispiegarsi della divinità nella realtà. In tale diverso approccio, oltre che le tematiche derivate da Platone in primo luogo, e poi dal neoplatonismo, dall'ermetismo, da Dionigi Areopagita, confluiscono anche motivi mitici e poetici, ricavati da Omero e da Virgilio. In E. è presente il tentativo di elaborare una teologia "poetica", oltre che platonica, in cui abbia il più ampio spazio il linguaggio del simbolo e delle immagini, ciò che consente, ancor più che la cristianizzazione dei miti pagani, il loro recupero e iritegrazione entro un orizzonte più ampio. Non stupisce di trovare, fra i protetti di E., Pierio Valeriano (G. P. Dalle Fosse), che dal suo pensiero trasse ispirazione per alcuni arcani dei suoi Hieroglyphica, dedicandogli il libro XVII e la cicogna, considerato da E. l'animale più sacro (Basileae 1567, c. 123).
Una lettura particolare delle Sententiae è stata fatta per verificare se fosse possibile rintracciare al loro interno dottrine sulla giustificazione simili a quelle che sosterrà al concilio di Trento Girolamo Seripando, che di E. era stato un devoto allievo. Ma il tentativo di individuare, nel testo di E. e sul terreno di un comune agostinismo, la possibile fonte di tale dottrina e di quella, più radicale, ma non totalmente diversa, di Lutero, non ha trovato persuasivi riscontri. In ogni caso, è del più alto interesse ricordare che proprio E. era generale dell'Ordine nei primi tempi della ribellione dell'agostiniano tedesco. è altresi assai probabile che Lutero abbia avuto modo di conoscerlo di persona a Roma, nel corso del viaggio in Italia all'inizio del 1511, presenziando forse al capitolo generale di Viterbo che confermò per la seconda volta E. al vertice dell'Ordine.
Nel corso del medesimo 1511 E. assicurò a Giulio II piena lealtà e appoggio incondizionato per il concilio che sarebbe stato inaugurato la primavera successiva. In novembre venne inviato in Toscana per contrastare il "conciliabolo" di Pisa. In virtù dell'indefessa opera svolta a favore del pontefice e della Chiesa, il 3 maggio 1512 a E. toccò l'alto onore di pronunciare l'orazione inaugurale del quinto concilio lateranense, suscitando negli astanti la più viva emozione sia per la profonda pietà dei contenuti sia per la facondia ciceroniana dello stile. L'orazione fu uno dei suoi pochi testi dati alle stampe, a Roma e in Germania. Inserito in seguito in raccolte di atti conciliari, ne esiste una moderna edizione critica curata da C. O'Reilly (1977).
Il testo ha un'indubbia eloquenza nel rilevare l'importanza dei concili, che ravvivano la luce dello Spirito Santo che rischia di estinguersi e rinsaldano le fondamenta della fede. Grazie all'aiuto del concilio, il pontefice potrà porre rimedio ai gravi mali e disordini che affliggono la Chiesa, portare la pacificazione fra le potenze cristiane (ed E. non manca di deplorare la sanguinosa sconfitta inflitta al pontefice da Gaston de Foix tre settimane prima a Ravenna) e intraprendere la crociata contro gli infedeli (anche se E., proprio alla presenza del papa guerriero, pur non negando la necessità del ricorso alle armi, insiste che le armi più efficaci e che conseguono i risultati più duraturi sono la pietà e la santità della vita). Dell'orazione viene spesso citata una lapidaria sentenza, che, anche se nel contesto del discorso è pronunciata quasi di sfuggita, esprime in modo pregnante l'ispirazione più profonda dell'intero pensiero e dell'attività di E.: "Gli uomini devono essere cambiati dalla religione, e non la religione dagli uomini" ("homines per sacra immutari fas est, non sacra per homines"). La frase non si limita ad essere un'ingegnosa figura retorica, bensi riflette la concezione metafisica e ontologica di E., per il quale il corretto funzionamento dell'uomo e della società dipende dal rispetto di un ordine determinato e dal riconoscimento della supremazia dello spirituale sul temporale.Sei mesi più tardi, il 25 novembre, a Roma, nella chiesa di S. Maria del Popolo, spettò ancora ad E. di pronunciare la predica nel corso della solenne messa di ringraziamento, volta a celebrare il sospirato trattato d'alleanza tra il pontefice e l'imperatore Massiniffiano, allontanato dalla pericolosa alleanza con Luigi XII e collegato a una lega di cui facevan parte anche il sovrano inglese e quello spagnolo. La messa ebbe luogo alla presenza, oltre che di cardinali, ambasciatori e dei più alti dignitari, del plenipotenziario imperiale, Matthaeus Lang, che non aveva mancato di suscitare il più profondo imbarazzo del maestro di cerimonie per essersi presentato nei panni episcopali, e non con i più solenni paramenti cardinalizi che gli competevano. Il discorso di E. fu tra quelli messi a stampa, e dedicato, in una breve epistola proemiale, da Jacopo Sadoleto al Sannazzaro, come l'orazione del maggio precedente era stata dedicata, sempre dal Sadoleto, a Pietro Bembo.
Alla fine dell'anno E. era a Milano, dove assisté all'entrata solenne di Massimiliano Sforza, che riprendeva possesso della città in seguito alla sconfitta di Luigi XII, e nominò il duca protettore della provincia lombarda dell'Ordine.
Morto nel febbraio 1513 Giulio II, l'elezione di Leone X suscitò la più viva soddisfazione in E., che auspicava che il papa Medici inaugurasse una nuova epoca di pace e di splendore. Il neoeletto, da parte sua, ricambiò la stima e l'amicizia dell'illustre agostiniano, confermando gli antichi privilegi dell'Ordine e concedendone con larghezza di nuovi.
Come già il suo focoso predecessore, anche il più accomodante Leone X ritenne opportuno utilizzare l'abile eloquenza del predicatore in delicate missioni diplomatiche. Nel 1516 (dopo che l'anno precedente il capitolo di Rimini l'aveva confermato per la terza volta ai vertici dell'Ordine) E. venne inviato in Germania, per rassicurare l'imperatore circa la lealtà pontificia e tentare di persuaderlo a non scendere in Italia ad attaccare i Veneziani, come era sua intenzione. A quanto riferiscono fonti coeve, il primo impatto non fu dei più cordiali, ma il dialogo fra i due andò progressivamente acquistando toni più distesi, anche se Massimiliano non desistette dalla decisione di scendere in Italia, offrendosi anzi di scortare il nunzio pontificio fino a Trento.
L'11 luglio 1516 E. inviò da Roma una lettera a Jacques Le Fèvre d'Ataples per informarlo, rallegrandosene vivamente, che la commissione romana di teologi e prelati, presieduta dal cardinale Domenico Grimani e di cui egli stesso faceva parte, si era espressa in favore di Johannes Reuchlin, anche grazie alla lettura di una lettera di Le Fèvre in favore dell'umanista tedesco. L'ammirazione e la solidarietà di E. per il cultore di studi ebraici, al centro di un'aspra querelle tra teologi ed umanisti, è confermata da lettere direttamente inviate a Reuchlin, in una delle quali si rammarica di non aver avuto modo di conoscerlo di persona in Germania.
Nel 1517 nel complotto antipapale ordito dal cardinale Alfonso Petrucci venne coinvolto anche Raffaele Riario, cardinale di S. Giorgio al Velabro, protettore dell'Ordine agostiniano e legato ad E. da vincoli di stima e di amicizia. Mentre il principale imputato venne giustiziato, il Riario, incarcerato, fu liberato solo grazie all'intervento dei potentati europei e al pagamento di un'altissima somma di denaro. Quando, di li a qualche anno (luglio 1521), verrà a morte, E. gli subentrerà come protettore a vita dell'Ordine. Alquanto preoccupato dall'episodio della cospirazione, il pontefice nel corso di un fastoso concistoro Provvide a creare un elevato numero di nuovi cardinali, al fine di rafforzare la propria posizione. Fra i trentuno neoeletti la scelta non poteva non cadere anche sul devoto agostiniano, il quale nel febbraio dell'anno seguente rinunciò al generalato dell'Ordine, che venne assunto dal fedele amico Gabriele Della Volta.
Uno dei progetti che più stavano a cuore ad E., che lo rilanciava con foga in molteplici occasioni, era quello della crociata contro i Turchi, che di giorno in giorno sembravano diventare più minacciosi per la Cristianità. Se già il discorso con cui Leone X aveva concluso il concilio conteneva un appello alle potenze cristiane perché si unissero nella comune lotta contro gli infedeli, il pontefice in seguito prese iniziative concrete in questa direzione. Un primo passo indispensabile gli sembrava quello di ottenere una tregua di cinque anni da parte dei principi cristiani e per realizzare il progetto nominò dei legati da inviare presso i regnanti per ottenerne l'adesione alla tregua. E. venne inviato in Spagna: nel giugno 1518 fu accolto con i dovuti onori e una fastosa cerimonia a Barcellona, dove ebbe luogo anche l'incontro con re Carlo, che dichiarò la propria adesione (anche se ben presto subentrarono varie difficoltà di ordine pratico). La morte di Massimiliano rese però più delicata la situazione, in quanto Carlo, aspirando apertamente alla successione imperiale, avrebbe voluto garantirsi l'appoggio papale. Nel 1519 E. scrisse a Roma in favore della sua candidatura, ma il pontefice, che intendeva destreggiarsi fra il sovrano francese e quello spagnolo, lo invitò a restare rigorosamente neutrale. Nel corso della missione E. pronunciò un discorso in onore di Carlo, il cui testo a tutt'oggi non è stato localizzato. Rientrando in Italia passò da Milano e da Venezia, dove presenziò al capitolo generale dell'Ordine e venne ricevuto nel modo più solenne dal doge L. Loredan e dal Senato, e quindi raggiunse Roma.
Nel corso del pontificato di Leone X, probabilmente in un periodo compreso fra il 1513 ed il 1518, E. scrisse quell'Historiavigintisaeculorum che si è già avuta l'occasione di segnalare come il suo inedito di maggior interesse. Conservata in quattro codici, dei quali il più autorevole è l'autografo della Biblioteca nazionale di Napoli (Mss. lat. IX B 14), l'opera viene spesso citata ed è stata in parte utilizzata, anche per le preziose notizie autobiografiche che contiene, ma attende ancora un editore.
A metà del secolo scorso hanno visto la luce alcune pagine riguardanti i pontificati di Alessandro VI (al quale non vengono risparmiate dure critiche), di Pio III (la cui fine e il cui brevissimo pontificato, durato appena un mese, vengono messi a confronto con la personalità e la fine del precedente, per concludere che la provvidenza divina non viene mai meno, in quanto con la morte di Alessandro essa aveva inteso liberare i sudditi oppressi, con quella del secondo punire quanti non erano degni di un personaggio di simile valore) e di Giulio II, di cui si loda l'energia e le iniziative, pur rilevandone l'impetuosità del carattere. Al cadere del secolo L.G. Pélissier dedicava all'Historia la sua dissertazione di dottorato, nella quale non nascondeva il proprio sconcerto per un'opera che gli pareva oscura e disordinata, sottolineandone altresi la mancanza di originalità, in quanto, in molte occasioni, essa attingeva, talora alla lettera, dalle Vitae dei pontefici del Platina (B. Sacchi) e dal Liber pontificalis. Nonostante il giudizio alquanto critico, Pélissier forniva utili informazioni sulle linee generali del testo, Soffermandosi a considerarne in particolare talune parti, come il troppo ampio panegirico di Leone X, che pur forbito e facondo, gli pareva improntato a un innegabile atteggiamento adulatorio.
Il testo presenta una struttura peculiare e non può certo venire considerato come un'opera storiografica in senso tradizionale. E. suddivide la storia dell'umanità in venti epoche, dieci prima dell'avvento di Cristo e dieci dopo, mettendole in connessione con i primi venti salmi. Si tratta pertanto di una sorta di "teologia della storia", che insiste sulla costante presenza della provvidenza divina nella trama degli eventi umani e in cui i fatti e i personaggi vengono compresi e spiegati in una prospettiva simbolico-analogica, grazie a una continua trama di corrispondenze fra testo sacro ed eventi umani. Antichità e Medioevo vengono trattati in maniera sintetica e anche piuttosto sbrigativa, mentre il più ampio spazio è dedicato alla storia recente e contemporanea all'autore, che individua nella propria epoca e nel pontificato di Leone X l'apogeo dell'intero processo storico. Egli identifica i segni di tale pienezza dei tempi in eventi quali la scoperta di nuovi mondi, la conseguente dilatazione della fede, l'edificazione della basilica di S. Pietro, la rinascita degli studi ebraici e la diffusione dell'eloquenza sacra. Deplorando ogni fattore di scissione e di conflitto, E. esalta valori di unione e di concordia, insistendo sull'armonia tra classicità e cristianesimo, e utilizzando, in questo grandioso tentativo di leggere l'intera storia dell'umanità alla luce della costante presenza divina, gli strumenti a lui cari della filosofia platonica e della sapienza poetica, a cui si viene ad aggiungere la dottrina ebraica, che andrà acquistando nel suo pensiero uno spazio progressivamente più ampio. Come sempre, la più viva esecrazione è riservata alla filosofia padovana. Riprendendo un cenno già presente nelle Sententiae, E., pur senza nominarlo, allude evidentemente a Pietro Pomponazzi, nel passo in cui si compiace che l'"empietà" sia stata costretta a emigrare a Ferrara, soggiungendo che il sacco di Padova nel 1509 era la conseguenza della punizione divina abbattutasi sulla città che aveva osato dare ricetto a simili intollerabili dottrine. Pomponazzi risponderà da par suo alle accuse: a quanto ci informa il vescovo agostiniano Ambrogio Fiandino, è infatti da identificare con E. il bersaglio polemico dell'ultima parte della sua Apologia del 1518.
Uno dei punti più controversi e di maggior interesse della visione della storia di E. è quello che riguarda gli eventuali rapporti con le dottrine di Gioacchino da Fiore. M. Reeves (1958) ha ricostruito con attenzione la ripresa di taluni spunti gioachimiti da parte di alcuni esponenti degli eremiti di s. Agostino, che utilizzando abilmente certi passi di Gioacchino tendevano a identificarsi con il nuovo ordine spirituale da lui profetizzato, e vantare in tal modo la propria superiorità nei confronti dei canonici regolari. Anche se le simpatie agostiniane per le dottrine gioachimite sono state da altri ridimensionate, quel che è certo è che a Venezia, nei primi decenni del secolo, era operante un ristretto, ma vivace gruppo di agostiniani, animato da Silvestro Meucci, che nell'arco di un decennio, dal 1516 al 1527, promosse un'intensa opera di edizione di opere, autentiche e spurie, dell'abate calabrese. Nel 1527 egli dedicò l'Expositioin Apocalypsim proprio all'autorevole cardinale e vescovo del proprio Ordine, compiacendosi di ricordare come, nel corso del passato soggiorno a Venezia di ritorno dalla missione spagnola (1519), E. avesse voluto vedere gli opuscoli di Gioacchino già pubblicati. E. si era rallegrato di tale attività e aveva incoraggiato il Meucci a proseguire in questa direzione, esortandolo soprattutto a dare alle stampe il commento sull'Apocalisse, che per questa ragione gli veniva ora dedicato.
Finché l'Historia non verrà pubblicata nella sua integrità è alquanto difficile stabilire la natura e l'incidenza di eventuali suggestioni gioachimite su di essa. Senza dubbio E., nel contesto della propria teologia della storia, è interessato, come Gioacchino, a istituire parallelismi fra storia umana e testo sacro, e a un'interpretazione tipologica e simbolica di fatti e figure scritturali. Ma da quanto si può capire da uno sguardo d'insieme di questo testo e degli altri che conosciamo, dal suo orizzonte sembra sostanzialmente assente la tensione profetico-escatologica che anima drammaticamente gli scritti dell'abate calabrese. Se anche in E. non mancano critiche alla corruzione dei luoghi e delle cose sacre e indignazione per la decadenza morale dei tempi, accompagnate dalla sincera aspirazione a un profondo rinnovamento morale e al superamento dei conflitti che lacerano la Cristianità, in lui sembra prevalere la tendenza a giustificare e a celebrare il presente più che a criticarlo; a vedere nell'epoca in cui vive il compimento e la realizzazione delle aspettative profetiche più che a prospettare l'avvento di una nuova età dello spirito; a identificare l'apogeo del secolo d'oro nel mondano Leone X e nelle sue opere, quali l'incremento del sapere e l'edificazione della basilica di S. Pietro, di cui E. ammira la fastosità e magnificenza, più che a protendersi verso l'attesa di uno spirituale papa angelico.
Morto Leone X nel dicembre del 1521, dal successivo tormentato conclave usci eletto il fiammingo Adriano VI, che E. conosceva di persona e di cui apprezzava, contrariamente alla maggior parte dei contemporanei, l'austerità dei costumi e la serietà della cultura. La conquista dell'isola di Rodi da parte dei musulmani, che ebbero la meglio sulla strenua difesa dei cavalieri gerosolomitani - i quali abbandonarono l'isola il 2 genn. 1523 -, rilanciò il problema della minaccia degli infedeli e fece temere un'invasione in Italia e a Roma. Accorato dagli eventi, nel settembre 1523 il papa mori e nel novembre sali al soglio pontificio un altro Medici, Clemente VII, che si affrettò a manifestare la propria benevolenza nei confronti di E. nominandolo vescovo di Viterbo e conferendogli in seguito il patriarcato di Costantinopoli.
Con la battaglia di Pavia del 1525 e la disastrosa sconfitta francese la posizione di Clemente VII diventò assai critica fino a precipitare con il sacco di Roma (maggio 1527), di cui E. diede un'impressionante descrizione nella Scechina, presentando l'evento come la giusta punizione divina di quanti avevano corrotto e profanato le cose sacre. E. diede prova della sua energia e devozione nei confronti dei pontefice assoldando a proprie spese un'armata di 2.000 uomini in appoggio all'esercito della Lega di Cognac per cercare di liberare Clemente VII prigioniero in Castel Sant'Angelo, ma l'iniziativa non ebbe seguito soprattutto a causa della defezione del duca di Urbino. Non migliori le sorti della turbolenta patria del cardinale, Viterbo: travagliata da aspre lotte cittadine, che avevano richiesto a più riprese anche l'autorevole mediazione papale, venne percorsa dagli eserciti contrapposti e quindi presa con la forza dal capitano di ventura Pirro Baglioni. Per evitare tali turbolenze, E. preferi andarsene, recandosi a Venezia, e quindi a Padova, dove cadde gravemente malato. Da questa sede respinse la proposta, che gli sembrava scismatica, del cardinale inglese Thomas Wolsey, che proponeva, vista la prigionia di Clemente, la convocazione di un concistoro straordinario. Con il reinsediamento del pontefice, E. era di nuovo a Roma e al cadere del 1530 commutava il patriarcato di Costantinopoli con il vescovato di Zara. Al cadere del 1531 il Senato veneziano lo rifiutò come nunzio apostolico a Venezia, temendo che la sua presenza potesse risultare nociva alle relazioni con l'impero turco.
Esortato vivamente dal papa a concludere e a dare alle stampe le proprie opere, E. nell'ultimo periodo della sua attività letteraria prosegui un itinerario assai complesso iniziato fin dalla giovinezza e si dedicò in modo sistematico ed esclusivo allo studio delle dottrine ebraiche e della sapienza cabalistica.
Dal lontano incontro con Pico negli anni padovani E. aveva progressivamente approfondito e migliorato la sua conoscenza della lingua e della letteratura ebraica. Una delle caratteristiche di E. che più colpirono i dotti del suo tempo furono proprio le sue inconsuete competenze linguistiche. E. non solo padroneggiava magistralmente il latino e il greco, leggendo Platone e gli autori neoplatonici sui testi originali (si veda su questo punto l'esemplare contributo di Whittaker, 1977, che analizzando i manoscritti greci appartenuti ad E. oggi conservati alla Biblioteca Angelica, e dando conto delle glosse marginali e delle annotazioni in essi contenute, offre un contributo quanto mai suggestivo per comprenderne il metodo di lavoro e i contenuti del pensiero), ma conosceva anche l'arabo, il siriaco, l'ebraico e l'aramaico. Lo studioso biblico J. A. Widmanstetter nell'introduzione alla sua versione siriaca del Nuovo Testamento (1555) ritiene E. il solo in Europa dotato di un'adeguata conoscenza dell'arabo, e nel 1517 il giovane monaco maronita Elias bar Abraham, giunto a Roma due anni prima quale delegato al concilio lateranense, finiva di trascrivere per E. un prezioso psalterio siriaco. Quanto all'ebraico, E. ne apprese probabilmente i primi rudimenti fin dalla giovinezza, avendo come primo maestro forse Felice da Prato, che, convertito al cristianesimo e entrato nell'Ordine agostiniano, morira quasi centenario a metà dei secolo. Uno dei più importanti manoscritti della biblioteca di E., ora conservato alla Vaticana, è la sola copia conosciuta del Targum di Gerusalemme, che, fatto trascrivere nel 1504, ha suscitato la più viva emozione fra gli studiosi biblici quando è stato scoperto nel 1954. A più riprese E. supplica l'agostiniano veneziano Gabriele Della Volta di procurargli a qualsiasi prezzo manoscritti orientali, e nel 1514 gli chiede di fargli cercare, da qualcuno diretto a Damasco, una copia completa della più famosa delle opere cabalistiche, lo Zohar, di cui egli aveva fatto trascrivere e personalmente compendiato un esemplare incompleto. Si è già visto come nel corso dell'affare Reuchlin E. si sia schierato decisamente a favore dell'umanista tedesco, che gli aveva inviato copia del De arte cabbalistica, anche se non potrà impedire la condanna papale dell'Augenspiegel nel 1520.
Un contributo assai rilevante alla diretta conoscenza della lingua e della tradizione ebraica gli deriva dallo stretto sodalizio con il tedesco Elia Levita, che, scacciato da Padova in seguito al saccheggio della città, dopo un soggiorno a Venezia si stabilisce a Roma nel 1515 e viene ospitato con la propria famiglia da E., che gli commissiona lavori di trascrizione, di traduzione, di commento. Stimolato dal suo autorevole patrono, Elia compone anche importanti opere grammaticali, ortografiche (Massoret ha-Massoret) e un fondamentale lessico aramaico (Meturgeman).
A testimonianza di questa devozione per gli studi ebraici sopravvivono numerosi codici, conservati in larga parte nella Bibliothèque nationale di Parigi (Astruc-Monfrin, 1961), che contengono testi tradotti, postillati e commentati da Egidio. La passione in particolare per la cabala, considerata come una via d'accesso privilegiata per penetrare nei più riposti arcani divini, è poi espressa nel modo più persuasivo nei due testi meritoriamente editi da F. Secret (Roma 1959), che ha dedicato a questo arduo aspetto del pensiero di E. numerosi saggi. Il primo, intitolato Libellus de litteris sanctis, completato nel 1517, è dedicato al cardinale Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII, con grandi elogi per la famiglia dei Medici esaltata per il favore accordato agli studi scritturali e delle lingue orientali.
Si tratta di un breve testo introduttivo allo studio delle cabala, che contiene un'elegante spiegazione del significato riposto delle lettere dell'alfabeto ebraico. Esso, benché inedito, conobbe un'ampia notorietà in quanto fu elogiato dal francescano Pietro Colonna (Pietro Galatino) nel De arcanis catholicae veritatis (Ortona 1518) e citato estesamente da Teseo Ambrogio degli Albonesi nella sua Introduetio in Chaldaicam linguam (Pavia 1539).
Di ben maggiore estensione e ambizioni la seconda opera pubblicata da Secret, intitolata Scechina dall'appellativo della decima delle sěfirŏt. L'opera è dedicata a Clemente VII e la "presenza di Dio" è introdotta a rivelare i segreti della cabala all'imperatore Carlo V, considerato come il nuovo David, Salomone e Ciro, e a cui spetta quindi il compito di volgere le sue forze alla riforma della Chiesa e alla sconfitta dei Turchi. Si tratta di un testo assai complesso, che ripercorre l'intera letteratura cabalistica, proponendosi di inserirla e interpretarla entro un quadro cristiano.
Esso si distingue in tre parti: le prime due, più brevi (ll. I-IV), trattano delle lettere e dei numeri, riprendendo anche il precedente Libellus; la terza, assai più ampia (ll. V-X), dei nomi di Dio. Nell'opera, fondamentalmente esegetica, confluiscono elementi di varia natura, in un'esuberante proliferazione di analogie, simboli, metafore, nel tentativo di elaborare, in contrapposizione all'insoddisfacente filosofia umana, una "dialettica divina" più adeguata a cogliere la dinamicità del molteplice manifestarsi dell'essere divino nella realtà tutta e nella storia dell'uomo.
Il testo, che testimonia in modo eloquente dell'imponente tentativo concordista di E., che si sforza di far confluire in un'unica corrente ogni rivolo sapienziale e di riunificare dottrine diverse in un agglomerato magmatico e polimorfo, possiede un indubbio potere di fascinazione e suggestione: anche se non manca di suscitare un altrettanto innegabile disorientamento nel lettore a causa di uno stile e di un metodo che, rinunciando a qualsiasi organizzazione e distinzione propri del pensiero discorsivo, risultano alquanto alieni dalla tradizione occidentale.
E. morì a Roma nella notte fra l'11 e il 12 nov. 1532, e fu sepolto nella chiesa di S. Agostino.
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Monfasani, Hermes Trismegistus, Rome and th myth of Europa: an unknown text of Giles of V., in Viator, XXII (1991), pp. 311-342.
Le prime esercitazioni letterarie di E. risalgono al periodo di frequenza dello Studium padovano: sono due componimenti in latino che compaiono rispettivamente all'inizio e alla fine dell'edizione dei Commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis di Egidio Romano curata con Bernardo Granello nel 1493: "Aeterne studium laudis et inseri" e "Ecce opus antistes quod iam celeberrimus egit". Risale agli anni padovani anche un altro componimento poetico pubblicato da A. Gandolfo in Fiori poetici dell'eremo agostiniano (Genova 1682, p. 80): Domino Petro memoriae magistro, scritto in ricordo di un professore dello Studio padovano.
Si tratta di testi occasionali per i quali, data anche la loro collocazione, è stato usato naturalmente il latino, cosi come per le tre egloghe, Paramellus et Aegon, De ortu Domini e In resurrectione Domini, scritte, secondo una testimornanza dello stesso E., nel 1504 (M. Deramaix, La genèse du "De partu Virginis" de Jacopo Sannazaro et trois églogues inédites de Gilles de Viterbe, in Mélanges de l'école française de Rome, Moyen Age, CII [1990], I, pp. 173-276). Come nel De partu Virginis di Iacopo Sannazzaro e in molta altra poesia latina del tempo di genere pastorale, temi cristiani sono svolti attraverso l'uso di figure mitologiche: Aegon è lo stesso E. che attraverso un dialogo con Paramellus tratta dei tempi in cui vive e introduce gli argomenti delle altre due egloghe: la nascita e la resurrezione di Cristo. Altri testi latini sono il breve componimento "Quid vitam studium insanam exercemus inani?", pubblicato da F. Secret in Le Zôhar chez les kabbalistes chrétiens de la Renaissance (Paris-La Haye 1964) pp. 35-36), che introduce la traduzione e il commento dello Zohar curati da E., De mirabilibus Bononiae, e tre epigrammi: conservati in un manoscritto della Staatsbibliothek di Monaco, sono stati attribuiti ad E. da F.X. Martin (The writings of Giles of V., in Augustiniana, XXIX [1979], p. 172) anche se non presentano lo stesso stile degli altri suoi testi latini. E. avrebbe inoltre tradotto in latino la canzone petrarchesca "Vergine bella che di sol vestita", ma di questa versione, ricordata da Lucillo Filalteo in una lettera ad E. del 1527 (Libri tres epistolarum, I. A. Bissi, Papiae 1564, c. 38v), non si hanno altre notizie.
Della novella Cyminia, primo dei componimenti in volgare di E., che nel titolo ricorda il monte Cimino, si ha notizia solo da una lettera che lo stesso E. scrisse all'amico Antonio Zocolo nel 1504 mentre il poemetto in ottave Caccia d'amore edi madrigali a Vittoria Colonna hanno presentato diversi problemi di attribuzione. La Cacciad'amore, uscitaanonima a Bologna nel 1520 come Caccia amorosaenigmata novamente composta, et sotto velame fabricata, venne ripubblicata, con numerose varianti, e sempre anonima, altre quattro volte (nel 1521 e nel 1525 a Perugia, nel 1523 e nel 1526 a Venezia presso l'editore Zoppino) prima di essere attribuita ad "Egidio" nel 1532 ed al "reverendissimo Egidio" nel 1537. Quando E. mori a Roma nel novembre 1532, era già apparso, nel luglio dello stesso anno, L'Amore di Girolamo Benivieni con aggiunta una Caccia de amorebellissima de Egidio, per i tipi di Vittore e Piero Ravano della Serena a Venezia: egli avrebbe avuto quindi il tempo di confutare l'attribuzione se fosse stata falsa: essa fu invece accettata anche dagli storiografi dell'Ordine agostiniano, come il Gandolfo, che incluse la Caccia d'amore nel citato Fioripoetici (pp. 94-107).
L'attribuzione assai probabile della Caccia d'amore al poeta bolognese Tommaso Castellani scioglierebbe ogni dubbio sulla paternità egidiana del poemetto (cfr. il cap. III, par. 3.3. "Per l'attribuzione di una caccia d'amore" della tesi di dottorato di ricerca in italianistica, IV ciclo, discussa presso l'università di Roma la Sapienza nel 1992 da F. Calitti, Della ragion poetica dell'ottava. Per una storia dell'ottava rima, pp. 102-110).
I madrigali indirizzati a Vittoria Colonna furono invece pubblicati in Poesie italiane inedite di dugento autori (Prato 1847, III, pp. 124-129) da Francesco Trucchi, che li trasse da un manoscritto della Biblioteca nazionale di Firenze; essi si rivelano tipici prodotti della poesia "media" cinquecentesca.
L'altro aspetto dell'attività letteraria di E. è dato dalla sua presenza in alcuni dei luoghi chiave della cultura del tempo. Certamente egli non si occupò di letteratura strictosensu, ma le sue idee guida sulla fusione tra cristianesimo e mondo classico che ispirarono Giovanni Pontano e lacopo Sannazzaro cosi come, sembra, il Raffaello della stanza della Segnatura, furono importanti anche per i temi che seppero offrire alla letteratura del tempo, soprattutto latina. La prima esperienza importante è quella di Napoli, dove E. giunse nel 1498 al seguito del generale dell'Ordine Mariano da Genazzano; negli anni durante i quali vi soggiornò, e negli anni successivi, ebbe frequenti contatti, anche epistolari, con Giovanni Pontano ed i membri della sua accademia, fra i quali Iacopo Sannazzaro, Pietro Gravina e il Cariteo. Lo stesso Pontano si ispirò a E. per tracciare la figura di predicatore nel dialogo Aegidius, e Sannazzaro gli inviò una copia del suo De partu Virginis prima di consegnarlo alle stampe, per avere un suo giudizio sull'opera: nell'editioprinceps del De partu Virginis (Calvi, Romae 1526) è presente una lettera prefatoria di E. che ne esalta il valore cristiano e l'uso di temi classici. Durante l'attività di predicatore E. ebbe modo di fermarsi in molte città italiane, ma, a parte le testimonianze su incontri occasionali con letterati, non vi e ricordo di una partecipazione attiva ad accademie o a iniziative editoriali di carattere letterario. Diverso è il discorso su Roma: qui E. partecipò alle riunioni dell'Accademia Coriciana e del circolo che si riuniva intorno ad Angelo Colocci; testimonianze di questa frequenza ci vengono dallo stesso E. (Historia viginti saeculorum, ms. 502 della Biblioteca Angelica di Roma, c. 197v, dove si parla anche della poesia religiosa del suo tempo), da Pierio Valeriano (Hieroglyphica, Basileae 1575, c. 123) e da vari repertori coevi di letterati della Roma cinquecentesca. Cosi come a Napoli, il ruolo di E. in questi circoli fu più di "ispiratore" che non di autore di testi.
Fonti e Bibl.: L. G. Giraldi, Dialogi duo de poetis nostrorum temporum, Torrentinus, Florentiae 1551, p. 415; F. Ubaldini, Vita di mons. A. Colocci. Ediz. del testo originale italiano (Barb. Lat. 4882), a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano 1969, App. I; F. Fiorentino, E. da V. ed i Pontaniani di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap., IX (1884), pp. 430-452; G. Toffanin, G. Pontano fra l'uomo e la natura…, Bologna 1938; F. Tateo, L'Aegidius di G. Pontano e il De Trinitate di s. Agostino, in Vetera christianorum, VI (1969), pp. 145-159; P. P. Bober, The Coryciana and the nymph Corycia, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, XI, (1977), pp. 223-239; C. Dionisotti, Chierici e laici, in Geografia e storia della lett. ital., Torino 1977, p. 85; S. Foà, Vicende editoriali di un testo primocinquecentesco: La Caccia d'amore, in Annali FM (Ist. di filologia moderna, Facoltà di lettere e filosofia, Università d. studi di Roma), 1984, pp. 15-30.