ALBORNOZ, Egidio de
Nacque nell'ultimo decennio del sec. XIII in Cuenca (Nuova Castiglia), da Garda Alvarez de A. e Teresa de Luna: piccola nobiltà la sua; nè si hanno prove di una discendenza da sangue reale, favoleggiata dai suoi primi biografi; è errato anche attribuirgli il cognome di Carrillo. Fece i suoi studi universitari probabilmente in Tolosa (dove, forse, ebbe come maestro Stefano Aubert, il futuro Innocenzo VI), e certamente si addottorò in diritto canonico. Nel 1335 lo troviamo alla corte di Alfonso XI di Castiglia, come membro del Consiglio regio; nel 1338 divenne arcivescovo di Toledo, primate di Spagna e cancelliere del re. È probabile che abbia contribuito alla redazione dell'Ordinamento di Alcalà (1348), formandosi così un'esperienza che gli fu poi assai utile per la sua successiva opera di amministratore e legislatore in Italia. Acquistava anche una buona pratica di guerra, partecipando come legato papale alla ripresa della crociata e "riconquista" contro i musulmani: fu presente alla battaglia del Rio Salado (1340), alla presa di Algeciras (1344) e all'assedio di Gibilterra (1350).
Le sue notevoli attitudini di politico e di diplomatico ebbero a manifestarsi nel corso di una missione ad Avignone e presso il re di Francia (1345). Ma poi la sua eccezionale posizione a corte cessò con l'avvento al trono del re Pietro il Crudele (1350), con il quale l'A. ebbe ben presto a scontrarsi; è, però, infondata la tradizione che ciò avvenisse a causa della relazione fra il re e Maria de Padilla: questa ebbe inizio soltanto nel 1354, mentre già alla fine del 1350 l'A. abbandonava la Castiglia, spezzando così, secondo le leggi feudali spagnole, il proprio vincolo con il re; altrettanto fecero alcuni suoi parenti ed amici, che lo accompagnarono poi nell'impresa italiana.
L'A. si recàva ad Avignone, probabilmente su invito del papa Clemente VI, che lo fece cardinale del titolo di S. Clemente (17 dic. 1350; nel dicembre 1356 diverrà card. vescovo di Sabina). Quando fu eletto papa Innocenzo VI (18 dic. 1352), l'A. fu suo successore a capo della Penitenzieria apostolica. Il suo ottimo comportamento sia come arcivescovo di Toledo sia come cardinale, la sua pratica di guerra e di maneggi diplomatici, la sua dottrina di canonista lo fecero scegliere dal papa per la grande azione di "riconquista" (si può ben usare per lui questo termine del mondo spagnolo) dello Stato della Chiesa in Italia, alla quale è legata indissolubilmente la sua fama. È noto che in quel tempo lo Stato della Chiesa si era quasi tutto dissolto e praticamente non ubbidiva più al suo sovrano. Perciò l'A. è stato definito il secondo fondatore dello Stato ecclesiastico (dopo Innocenzo III); anche, e più esattamente, è stato detto il vero creatore della "monarchia pontificia" in Italia.
Il 30 giugno 1353 Innocenzo VI lo nominava legato in Italia (escluso il Regno di Sicilia) e vicario generale nei domini della Chiesa: la prima carica lo abilitava a risolvere tutte le questioni ecclesiastiche ed a riscuotere le decime in un ambito vastissimo; il vicariato-gli conferiva la posizione di "alter ego" del papa e ampie facoltà nel campo della giurisdizione. Era - almeno sulla carta un concentramento di potenza mai prima d'allora verificatosi in tal misura, ma era anche tutto l'aiuto e il viatico che il papa gli poteva dare, ché i mezzi finanziari erano e restarono sempre scarsissimi. Efficacemente il cronista Matteo Villani dice che il legato aveva l'animo grande, ma i la fonda vuotas. Partiva insieme con lui un piccolo stuolo di parenti e amici castigliani, gli unici di cui l'A. potesse fidarsi totalmente, e che gli furonp di grande aiuto: lo zio Lope de Luna, arcivescovo di Saragozza, i cugini Gòmez e Garda de Albornoz e Fernando Blasco de Belvis, l'amico Alfonso de Vargas, vescovo di Badajoz. Tredici anni sarebbe durata la sua legazione, interrotta, però, da un temporaneo richiamo in Avignone (settembre 1357-ottobre 1358), e poi ridotta a una parte soltanto dello Stato ecclesiastico; dal 1364 alla morte (1367) egli fu anche legato nel Regno di Sicilia.
Partito da Avignone il 13 ag. 1353, l'A. veniva onorevolmente accolto (14-17 settembre) in Milano dall'arcivescovo Giovanni Visconti, col quale aveva interesse di abboccarsi per averne consigli ed anche per evitare che si mettesse con i diversi nemici che doveva affrontare. Nelle soste del suo ulteriore viaggio, in Firenze, Siena e Perugia (dove fu dalla metà d'agosto alla metà di novembre), venne un po' alla volta formandosi un piccolo esercito, con il quale, il 20 novembre, entrava nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, la provincia ecclesiastica dalla quale intendeva iniziare la sua riconquista, e dove si formò la prima esperienza delle cose italiane. Anzitutto intese ad abbattere la potenza del "prefetto" Giovanni di Vico, che spadroneggiava su quasi tutto il Patrimonio ed estendeva le sue mire anche più lontano, dalle sue forti sedi di Orvieto, Viterbo, Vetralla e Corneto. Dopo vani tentativi d'intesa con lui, l'A. lo scomunicò (17 dicembre), ma non poté far altro; anzi, per tutto il resto dell'inverno, fu egli stesso più o meno assediato dai "prefetteschi" entro la rocca di Montefiascone, sede del rettore del Patrimonio e quasi unico posto che fosse del tutto sicuro.
Con la primavera del 1354 la situazione migliorò, perché giunse denaro da Avignone e si poterono assoldare armati per l'azione bellica contro il di Vico. Se l'assedio della fortissima Orvieto risultò vano, tuttavia, nel marzo, Toscanella e altre località minori si davano al legato. Ne prendeva possesso in suo nome l'ex tribuno Cola di Rienzo, che il papa aveva liberato (settembre 1353) e inviato in Italia perché l'A. lo mettesse a capo del governo di Roma, dove da poco tempo era stato rovesciato un altro tribuno del popolo, Francesco Baroncelli. Ma il legato non si fidava di Cola e scelse per senatore di Roma il nobile Guido Giordano de' Patrizi. Con l'aiuto di milizie romane riusciva poi a prender Viterbo, mentre Corneto resistette validamente (marzo-aprile 1354). Infine Giovanni di Vico si sottomise (5 giugno): conservò i suoi possessi privati, ma dovette rinunciare a Viterbo, Corneto e Orvieto; quanto al castello di Vetralla, il papa ne sarebbe entrato in possesso sborsando 16.000 fiorini. Il 9 giugno l'A. entrava in Orvieto, riammettendovi i fuorusciti; il 24 la popolazione decideva di darsi in signoria al papa ed all'A., ma come private persone e solo per la durata della loro vita e attraverso il personale giuramento di fedeltà, che tutti i cittadini poi prestarono: finzione giuridica che salvava formalmente l'autonomia cittadina, dato che Orvieto non era mai stata della Chiesa. Il 23 giugno si era Sottomessa Viterbo: l'A. vi si recava il 26 luglio e poneva la prima pietra della rocca che avrebbe dovuto tenere a freno la città, ma, soprattutto, difenderla da Giovanni di Vico, come del resto i Viterbesi desideravano.
Nel trattato del 5 giugno si era pattuito che Giovanni di Vico avrebbe potuto vivere da privato cittadino in Viterbo; ma poi, accortosi l'A. di quanto fosse pericolosa tale concessione, la ritirò, permettendogli in compenso di tenere Corneto quale vicario del papa, e quindi come signore legalmente riconosciuto. Era una felice, anche se non nuova formula, quella che l'A. ora adottava, e a cui poi sarebbe spesso ricorso per sistemare quei "tiranni" che non era abbastanza forte da annientare (situazione questa in cui quasi sempre si trovò). Ma Innocenzo VI non ne fu contento: la moderazione gli parve debolezza, mentre era anche saggia misura; nè volle sborsare il denaro pattuito per Vetralla, onde l'A. fu costretto a restituirla, e fu un grave errore. Così, in uno stesso tempo, l'A. era entrato nel pieno della difficile e complicata situazione italiana, e s'era dovuto accorgere che le sue vedute non collimavano con quelle di Avignone. Ne trasse rapidamente le norme del suo futuro comportamento: di fronte a ribelli e usurpatori, procedere il più possibile per accordi e concessioni e sanatorie giuridiche, e non con azioni di forza; mettere il papa e la Curia davanti a fatti compiuti e conservare al massimo l'autonomia delle proprie iniziative, sino a rasentare, occorrendo, la vera e propria disobbedienza.
Comunque, un primo successo vi era stato e, difatti, se ne ebbero favorevoli ripercussioni nel Patrimonio e fuori, e iniziarono le sottomissioni volontarie di signorotti e di città (in genere, quelli riconosciuti come vicari, queste prese m signoria, a titolo personale). Così passarono sotto la Chiesa Spello, Amelia e Gubbio (luglio), poi Narni (ottobre), Terni e Rieti (novembre). In tutte, egli compiva opera di pacificazione cittadina, facendo anche ritornare esuli e fuorusciti. Per Roma, dove non c'era che da consolidare il dominio della S. Sede, si adattò finalmente a servirsi di Cola di Rienzo. Questi allora si diede da fare in Perugia, dove trovò denaro circuendo il fratello del condottiero fra Moriale, e finalmente riuscì a essere fatto senatore dal legato, reggendosi in Roma per un breve e travagliatissimo periodo (1 ag. - 8 ott. 1354). L'A. assistette di lontano ai suoi errori, forse da lui previsti, e non poté evitargli la tragica fine; gli fu, però, molto utile che Cola avesse eliminato fra Moriale, decapitandolo dopo una specie di processo.
Notevole importanza, anche come spettacolare affermazione di potenza, ebbe il parlamento provinciale, convocato dall'A. in Montefiascone nel settembre 1354: v'intervennero tutti i nobili della regione ed i rappresentanti delle città e dei castelli. In quell'occasione si sanzionò la pacificazione della provincia e se ne avviò il riordinamento politico-amministrativo. Fu fatta allora una sistematica revisione dei titoli di possesso dei vari feudatari, e si tolsero feudi e castelli a coloro che non avevano le carte in regola. L'A. chiese il giuramento di fedeltà da tutti; alle città lasciò i loro statuti, ma non permise di farne nuovi senza la sua approvazione, e poi mise in esse dei podestà e rettori, che dipendevano direttamente dal rettore della provincia. Così veniva gradatamente ricostituendosi, nella legalità e non fondandosi sulla forza, il dominio papale. Il legato, oltre ad evitare dannose durezze, non procedette mai in maniera troppo sistematica, ma si regolò secondo le esigenze e anche le resistenze locali. Si può dire che non vi fosse un comune o un signore che, sottomettendosi, venisse trattato in modo uguale all'altro.
Già sul finire del 1354 egli rivolgeva la sua attenzione all'altra, più grande parte del dominio ecclesiastico che attendeva la sua opera risanatrice: più vicino, il Ducato di Spoleto, poi la Marca di Ancona e, infine, la Romagna. Le difficoltà si annunciavano maggiori, sia perché il processo di disgregazione panicolaristica vi era assai più avanzato, e quasi ogni centro aveva il suo signorotto; sia perché, e la cosa era molto importante, quelle terre rientravano anche nella sfera d'influenza di altri potentati, esterni allo Stato della Chiesa ed in vario grado temibili. Nel Ducato si doveva contrastare con il ricco e potente Comune di Perugia; alla Marca, e in speciai modo alla Romagna, erano interessati i Visconti ed anche Firenze.
Si aggiungevano poi due fatti nuovi, dei quali si doveva tener molto conto, perché potevano condizionare il resto dell'impresa. Nell'ottobre del 1354 moriva l'arcivescovo Giovanni Visconti e, quasi contemporaneamente, veniva in Italia Carlo IV di Lussemburgo, per l'incoronazione imperiale. C'era da chiedersi quale sarebbe stato il comportamento sia dei successori del Visconti, sia dell'imperatore. Dato che questi era del tutto devoto al papa ed aveva anch'egli l'interesse di compiere un'analoga opera di rivendicazione di diritti sovrani nelle terre imperiali d'Italia, soprattutto nei riguardi dei Visconti, si poteva sperare che facili-tasse in qualche modo la riconquista albornoziana. Ma così non fu. Non soltanto Carlo IV si comportò con indegna mancanza di energia, specie verso Bernabò Visconti, ma sembra anche che ne appoggiasse le mene e le pretese presso il papa, con manifesto danno per l'impresa del legato. Si discute se questi fosse presente all'incoronazione imperiale in Roma (5 apr. 1355); se vi mancò, può averlo fatto con intenzione.
Complicata era, in specie, la situazione nella Marca. Primeggiava là, fra tanti signori piccoli o minimi, il tiranno di Fermo, Gentile da Mogliano, ma da Rimini i Malatesta, che già si erano impadroniti di Ancona e Ascoli, miravano a sottomettere tutta la regione, e in quel tempo lo stavano assediando in Fermo. Gentile, per non combattere su due fronti, preferì accordarsi con il legato, cedendogli la città; non però il Girone o Girfalco, la formidabile fortezza che la dominava. Per essa esigeva un forte risarcimento: si ripeté la vicenda di Vetralla, ma con più gravi conseguenze, ché Fermo dominava tutta la Marca meridionale. Invece altri signori si sottomisero senza speciali difficoltà: tra essi Rodolfo da Varano, signore di Camerino, che fu poi un ottimo capitano al servizio dell'A. In genere, ora, il legato fu molto restio a concedere il vicariato: piuttosto lasciò quei tirannelli nelle loro città senza un titolo ufficiale, riconoscendoli, insomma, soltanto di fatto, in attesa di vedere come si sarebbero comportati (e per lo più si dimostrarono assai infidi e incostanti).
Prima di affrontare il problema marchigiano, occorreva, però, sistemare il territono intermedio, cioè il Ducato spoletano, e questo significava interferire con Perugia, sempre sospettosa che la Chiesa volesse toglierle la sua libertà. Un punto critico era e restò ognora Spoleto, dove Perugia si era abilmente impiantata, approfittando delle accanite lotte locali tra guelfi e ghibellini. Se ne valse non meno abilmente l'A., ottenendo la sottomissione della città (4 febbr. 1355), ma Perugia conservò il diritto di nominarvi il podestà. Passarono sotto la Chiesa anche Gualdo e Bettona, mentre Assisi restò per il momento sotto Perugia.
Intanto Innocenzo VI scomunicava i Malatesta (12 dic. 1354), come preludio all'azione militare, per dirigere la quale l'A. si stabiliva in Foligno (gennaio 1355) e poi in Gubbio. A capo del suo esercito era il cugino Blasco, ma scarsi erano gli effettivi, quasi inesistenti gli aiuti; magri perciò furono i risultati, salvo l'acquisto di Recanati, ribellatasi nel marzo ai Malatesta e prontamente presidiata e fortificata: il secondo vero successo, dopo quello d'Orvieto. Vedendo che la situazione si aggravava, i tre maggiori tiranni della Marca e della Romagna, Gentile da Mogliano (che s'era nuovamente ribellato e aveva ripreso Fermo), Malatesta de' Malatesti e Francesco Ordelaffi, tiranno di Forli, superando il loro antagonismo, si e unirono a comune difesa, e si accostarono a loro anche i Montefeltro, ma in maniera meno jmpegnativa. Questa sorta di triplice aveva il segreto appoggio di Bernabò Visconti, anch'egli allarmato per il graduale procedere della riconquista. Nel marzo del 1355 Ludovico di Durazzo, re di Napoli, propose che Carlo IV fungesse da arbitro fra l'A. e il Malatesta. Il legato era favorevole, ché ogni via pacifica gli pareva migliore di una incerta e costosa guerra, ma Malatesta non si presentò al previsto convegno, in Siena. Iniziata pertanto l'azione bellica, essa portò a una netta vittoria, quella conseguita a Paterno presso Ancona (29 aprile) da Rodolfo da Camerino su Galeotto Malatesta. Con la potenza dei Malatesta venne colpito anche il disordinato particolarismo marchigiano: le sottomissioni di città e signori si fecero frequenti; poi, il 2 giugno, lo stesso Malatesta rinunciava alla lotta e cedeva le due rocche di Ancona ed Ascoli (ma questa città si rese indipendente e lo restò a lungo). Il legato - d'accordo ora col papa trattò bene la potente famiglia, accordandole (7 luglio) il vicariato per 10 anni su Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone, che i Malatesta si spartirono fra loro. Dopo di che cessarono di essere ostili alla Chiesa: Galeotto fu anzi uno dei migliori capitani dell'Albornoz.
Era un buon successo, ma la situazione generale non accennava a stabilizzarsi. Il papa obbligava l'A. a togliere Corneto e Vetralla a Giovanni di Vico, e fu necessario combattere. In Bologna, colui che ne era il vicario per i Visconti, Giovanni da Oleggio, si era insignorito della città (aprile 1355),e questa poteva essere una novità favorevole; ma minacciosa era la presenza m Puglia della Grande Compagnia del conte Lando, che stava mettendosi in moto verso il nord e poteva devastare la Marca, oltre che offrirsi a qualsiasi signore che volesse combattere contro la Chiesa. Per fortuna, Gentile da Mogliano, sfiduciato per il crollo del Malatesta, abbandonava il Girone di Fermo (24 giugno) e spariva dalla scena politica. Si sottomisero anche i Montefeltro, che cedettero Urbino e Cagli, con patti non sfavorevoli (27 giugno), restandovi signori senza titolo; dovettero, però, rinunciare alla "custodia" del castello di S. Marino, troppo importante strategicamente.
Così, nell'estate del 1355, la Marca poteva dirsi sufficientemente pacificata, sottomessa (eccetto Ascoli) e ordinata. Ne fu segno visibile il suo primo parlamento provinciale, convocato a Fermo (24 agosto). Qui il legato stabiliva anche la sede del rettore (che fu Blasco), mentre in Ancona fissava la propria dimora, dal novembre del 1355, e incominciava a edificarvi la superba rocca di S. Cataldo. Di là iniziava la paziente e accurata preparazione della terza fase della riconquista, la più ardua, quella della Romagna, classica terra di irrequieti tiranni. Di una certa importanza erano i da Polenta di Ravenna, che si sottomisero, però, abbastanza presto. Ma i veri dominatori della regione, tenaci e pericolosi, erano Francesco Ordelaffi, signore di Forli e Cesena, e Guido Manfredi, signore di Faenza. Specialmente il primo, che si avvantaggiava della devozione dei propri sudditi e dell'appoggio di Bernabò Visconti. Contro questi due il papa bandiva la crociata, nell'inverno 1355-56:nel caso dell'Ordelaffi essa appariva giustificata anche da certi suoi atteggiamenti irrisori e sacrileghi verso la fede e la Chiesa. Non sappiamo se il papa si attendesse la conseguenza che l'A. ben prevedeva: l'urto armato con i Visconti, inevitabile e del tutto nella logica delle cose. Bernabò vi si era venuto preparando, con una subdola azione d'influenzamento della Curia, cui nemmeno Innocenzo VI poté sottrarsi. Bernabò sfruttava abilmente quel tanto di disaccordo che vi era tra il papa e l'A., e anche il fatto che Innocenzo VI non voleva più nè guerre nè spese in Italia; inoltre lo stesso Carlo IV deve aver appoggiato il Visconti.
Bernabò faceva anche di tutto per abbinare il problema dell'Ordelaffi con il riconoscimento del proprio vicariato su Bologna, mentre l'A. voleva trattare le due questioni separatamente. Il Visconti sapeva troppo bene chem dopo la sotto emissione della Romagna, sarebbe venuta la conquista di Bologna; e sapeva anche, assai meglio del papa, quale temibile avversario fosse l'A. Ottenne, un po' alla volta, di conseguire un risultato clamoroso e veramente incredibile: la caduta in disgrazia dell'A. e il suo allontanamento dall'Italia.
Tra il maggio e il giugno del 1356 l'esercito crociato, piuttosto numeroso, aveva incominciato a stringer Forlì e Cesena, ma poi la venuta della Grande Compagnia lo obbligava a desistere. Allora il Visconti offrì al papa la sua mediazione o anche il suo appoggio armato contro l'Ordelaffi, a patto che gli si restituisse il vicariato su Bologna, e da Avignone ne giunse l'ordine perentorio all'A. Questi non se ne diede per inteso e ravvivò la sua azione in Romagna, questa volta contro il Manfredi e con successo: il 18 clic. 1356 otteneva Faenza e, con la sottomissione del Manfredi (che conservò alcune terre minori, ma senza titolo vicariale), l'Ordelaffi perdeva un prezioso alleato.
Si ebbe proprio allora il colpo di scena finale: un breve biglietto del papa, ricevuto dall'A, il 17 marzo 1357, gli preannunciava la venuta dell'abate di Cluny, Androino della Rocca, in missione speciale, non meglio indicata: ma doveva soppiantare l'A. nella legazione, sebbene vi si recasse solo come nunzio. Era un mediocre uomo, del tutto favorevole ai Visconti e venuto appunto per fare il loro gioco. Dopo avere invano cercato di convincere l'Oleggio a lasciare Bologna (e lo scomunicò), Androino si abboccò a Faenza (1 aprile) con l'A., del quale possiamo immaginarci lo stato d'animo: chiese, infatti, il proprio immediato richiamo. Innocenzo VI avrebbe dovuto attenderselo, ma ne fu allarmato e gli chiese di restare al suo posto per instradare Androino, il quale venne ora fatto apertamente legato e vicario generale (6 maggio). L'A. accettò; riprese anzi a combattere, e preparò con più calma la propria partenza. Quasi a conclusione e monumento della sua quadriennale fatica, convocava a Fano il parlamento generale di tutte le province della Chiesa (29 apr. 1 maggio 1357) e promulgava in esso il "Liber constitutionum sanctae matris Ecclesiae", più noto come i Costituzioni egidiane s, quale è affidata la sua fama di statista e legislatore, sebbene per la massima parte non sia che là codificazione di ciò che precedenti legati e rettori avevano stabilito.
Ebbe ancora qualche buon successo. Cesena si era data alla Chiesa ribellandosi all'Ordelaffi, ma ta moglie di questo, Cia degli Ubaldini, eroica donna, si chiuse nella sovrastante rocca: dopo un assedio, nel quale l'A. mise a frutto la sua esperienza spagnola, il fortilizio cadde e Cia fu condotta prigioniera ad Ancona (21 giugno); poi ebbe anche la forte Bertinoro (23 luglio), che, da allora, divenne un'ottima base per il controllo militare della Romagna. L'A. riuscì anche ad accordarsi con il conte Lando perché la Grande Compagnia abbandonasse la regione. Non volle, però, occuparsi di Bologna, e il papa ne incaricò (luglio) una commissione di cardinali, che riconobbero i diritti di Bernabò al vicariato. Grave smacco per il legato, che, poco prima (28 giugno), aveva aderito alla lega antiviscontea, in atto fin dal 1355 fra i potentati dell'Italia settentrionale, incluso Giovanni d'Oleggio.
Ormai la sua partenza era decisa, e un ultimo appello del papa affinché restasse non lo raggiunse più. Alla fine di agosto, in Bertinoro, rimetteva il potere ad Androino; il 24 ottobre giungeva in Avignone, dove nuovamente prese a reggere la Penitenzieria apostolica.
Il tempo doveva rendergli giustizia. Androino dimostrò ben presto di essere veramente disadatto al duplice compito, di mandare a buon termine la riconquista e di governare lo Stato della Chiesa, tutt'altro che tranquillo. Non ebbe quasi alcun successo, tanto meno contro l'Ordelaffi, anzi peggiorò la situazione. Perciò l'A. veniva nuovamente incaricato della legazione in Italia (18 sett. 1358), e partiva da Avignone il 6 ottobre. Questa volta la sua prima tappa fu Firenze (novembre-dicembre 1358),dove cercò aiuti finanziari e un appoggio contro il Visconti, ma si urtò con quel Comune, non aderendo, nel suo solito modo realistico, a una lega contro le compagnie, caldeggiata da Firenze.
Purtroppo il papa continuava a non andar d'accordo con lui e poi subiva ancora l'influsso di Bernabò: nell'aprile del 1359 lo nominava legato nel Regno di Sicilia, modo questo per toglierlo nuovamente di mezzo. Sul momento l'A. riusciva a non andarvi, e inattesamente otteneva di concludere la lotta contro l'Ordelaffi (25 giugno 1359; l'accordo fu firmato il 2 luglio). Il 4 luglio entrava in Forli (e dava ordine che si rilasciasse Cia); il 17 luglio l'Ordelaffi veniva assolto, ma senza conservare alcuna città o castello importante, nè ottenere il titolo vicariale; e nemmeno ebbe il permesso di risiedere in Forti, dove l'A. costruì una rocca.
Pareva che, compiuta la riconquista, ormai egli potesse dedicarsi del tutto al riordino dello stato. Ma ora si trovava direttamente di fronte al Visconti. Nel dicembre del 1359 questi assaliva improvvisamente Bologna, e l'A. si trasferiva subito da Ancona a Forti, ben consapevole di quel che si preparava. Manovrava anche molto bene le cose: nel gennaio del 1360 prendeva contatto con l'Oleggio e mentre le milizie viscontee cercavano di accerchiare Bologna - occupando località del Modenese (Crevalcuore, Castelfranco) e della Romagna (Lugo) - trattava la resa della città (Cesena, i marzo). Il 15 marzo Bologna alzava le insegne della Chiesa; Biasco vi diveniva vicario, mentre Giovanni d'Oleggio ne partiva, avendo ottenuto in compenso l'ufficio di rettore della Marca e il dominio a vita della città di Fermo, col titolo di marchese e un lauto stipendio. Fino alla sua morte sarebbe restato fedele e utile collaboratore dell'Albornoz. Così Bologna passava sotto la Chiesa, in forma perpetua e totale, senza alcuna clausola o limitazione di sovranità. Il Visconti ne restava gravemente irritato, protestava (ma invano: il papa era soddisfatto dell'acquisto) e cercava di rispondere al colpo, occupando di sorpresa e per breve tempo Forli. Come risultato indiretto, l'Ordelaffi veniva inviato al confino, da Forlimpopoli a Venezia. Il 2 Ott. 1360 l'A. entrava in Bologna. Si presentava ora il problema di difenderla contro Bernabò, deciso a riaverla. La lotta continuò in Avignone, attorno al papa, di nuovo in-certo circa la legalità dell'acquisto e disposto anche a versare una forte somma di risarcimento, che non sarebbe certamente stato in grado di pagare. Per fortuna il Visconti ruppe gli indugi e riprese a combattere, assediando Bologna, ma l'arrivo di una forte colonna di cavalleggeri ungheri, inviati da quel re, costringeva le sue truppe a ritirarsi (30 settembre). Sembra che poi, nel maggio del 1361, l'A. stesso si recasse oltre l'Adriatico per abboccarsi con Luigi d'Ungheria, probabilmente per averne altri aiuti; e anche da altre parti ne cercò, febbrilmente. La situazione migliorò di colpo con la bella vittoria di S. Ruffillo (20 giugno 1361), merito del capitano Galeotto Malatesta e di una sua magistrale astuzia tattica.
Fu un altro durissimo colpo per Bernabò, che continuò però a battersi, senza molte speranze, e venne moltiplicando le sue iniziative, anclie fomentando ribellioni e agitazioni in vari punti dello Stato ecclesiastico e obbligando l'A. a una continua vigilanza. È il momento in cui sorgono le più tipiche sue rocche, quando nel 1362 si sottomettono Spoleto e Assisi. Altra rocca costruiva sul luogo di Forlimpopoli, da lui distrutta (la popolazione fu trasferita altrove e la sede vescovile in Bertinoro): ebbe il nome di "Salvaterra" e un'importante funzione strategica in Romagna. Questa attività dell'A. come costruttore di rocche è meritevole di particolare rilievo.
Nel settembre del 1362 moriva Innocenzo VI, ma l'A. non si recava ad Avignone per il conclave. Il nuovo papa, Urbano V, dalla energica personalità, era la persona meno adatta per andar d'accordo con lui: continuarono così i suoi crucci e le amarezze. Veramente l'inizio era stato promettente, quando il nuovo papa aveva scomunicato Bernabò e i suoi fautori e bandito la crociata contro di loro. Ma poi anche su lui ebbe presa l'abile propaganda del Visconti; del resto egli stesso era propenso a por termine all'azione armata, perché pensava alla futura crociata. Delle trattative per la pacificazione venne incaricato nuovamente Androino, creato legato in Lombardia e vicario in Bologna: così l'A. perdeva una parte importante della sua legazione (e le connesse decime) e il diretto contatto con Bernabò. Il risultato fu la pace del febbraio 1364, definita "vituperevole" dal cronista Villani: mezzo milione di formi in otto anni avrebbe dovuto pagare la Chiesa per avere Bologna, altrimenti il Visconti si sarebbe ripreso piena libertà di iniziativa. Ma la cosa più grave era la sconfessione di tutta la politica dell'A., al quale per giunta il papa toglieva anche la legazione sulla Romagna, che poi passava ad Androino; inoltre Gómez Albornoz dovette abbandonare il governo di Bologna, già ottimamente tenuto, e contro il cardinale si diffusero perfino voci di disonesta gestione.
Dimostrando, però, grande forza d'animo, l'A. si concentrò tutto nella sistemazione della Marca, ben aiutato da Giovanni d'Oleggio. In Ancona istitui, forse, il "Consolato del mare", sorta di tribunale mercantile. Motivo per lui d'ininterrotta preoccupazione fu sempre la minaccia delle compagnie di ventura, che riuscì, tuttavia, ogni volta a tener lontane dalle terre della Chiesa, sia pure con grandi fatiche e spese. Anche dietro ad esse erano l'incitamento e il denaro di Bernabò.
Alla fine dell'agosto 1365,l'A., cui il papa aveva di nuovo negato il ritorno in Avignone, accettava di rendere effettiva la sua carica di legato nel Regno di Sidlia, rinnovatagli da Urbano V: si era, forse, perso d'animo o voleva lasciare il nuovo legato di fronte alle sue gravi responsabilità. Nel Regno avrebbe dovuto compiere una lunga opera di sistemazione in molti campi, a incominciare dai difficili rapporti coniugali fra la regina e il marito Giacomo di Maiorca, per finire con la questione dei "fraticelli" eretici e con la delimitazione della enclave papale di Benevento. Ma nessuna impresa giunse a termine: sul luogo egli incontrò forti ostacoli e poi, non appena apprese che il condottiero Acuto minacciava lo Stato della Chiesa, abbandonava la sua legazione e il 7 luglio 1366 era di nuovo in Ancona. Trovò poi il modo di urtarsi nuovamente con il papa, a proposito delle compagnie di ventura: mentre Urbano V le scomunicava e promoveva anche una lega contro di esse (18 sett. 1366), l'A., conscio per lunga esperienza dell'impossibilità pratica di distruggerle, continuava nel vecchio sistema di trattare con esse.
Dopo il rientro in Ancona ottenne altre dedizioni o ritorni all'obbedienza: a Sassoferrato costruì un'altra rocca. Perugia temette allora di cadere in sua mano e, forse, questa volta l'A. non ne sarebbe stato alieno; ma, quando l'Acuto batté i Perugini presso Ponte S. Giovanni (primavera del 1367), non fece nulla contro la città, limitandosi a portarle via definitivamente Assisi e poi anche Nocera e Gualdo. Maturava intanto l'evento che doveva porre il compimento alla sua lunga fatica e garantire che lo stato, da lui ricostruito, continuasse a esistere: il ritorno di papa Urbano V in Italia. Il 4 giugno 1367 il papa sbarcava a Corneto, il 9 si stabiliva nella rocca di Viterbo per un lungo periodo. Narra un cronista perugino (forse ampliando con intenzione un episodio vero) che l'A., avendogli il papa richiesto di render conto della sua gestione, gli fece venir davanti un carro pieno delle chiavi delle città e rocche conquistate, dicendo sdegnosamente che quelli erano i suoi conti. Ma un gesto così clamoroso l'A. certamente non fece, tanto più che era di nuovo in buoni rapporti con il papa, il quale lo autorizzava a riprendere la lotta antiviscontea: il 31 luglio veniva, rinnovata la lega apposita, con l'accessione della regina Giovanna (e nel settembre successivo Gémez Albornoz, divenuto capitano generale delle truppe napoletane, avrebbe battuto Ambrogio Visconti con i suoi mercenari). L'ultimo atto dell'A. fu quello di assicurarsi Assisi, trasportandovi anche la Curia generale del Ducato spoletano. Poi, improvvisamente, iùoriva, il 23 ag. 1367, nella bastita di Buonriposo presso Viterbo. Come aveva stabilito nel testamento, il suo corpo, tumulato dapprima nella chiesa inferiore di S. Francesco in Assisi, venne poi, nel 1372, trasportato, con un lungo viaggio a spalla d'uomo, fino a Toledo e deposto nel sarcofago riccamente adorno, tuttora esistente in quella cattedrale.
Gli sopravvive ancor oggi, in Bologna, il Collegio di S. Clemente o Collegio di Spagna, da lui. istituito e riccamente do.. tato, col suo testamento del 1364, per facilitare a studenti spagnoli lo studio del diritto presso quella università: è il più antico collegio universitario che sussista in Europa.
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