Egidio Romano (Egidio Colonna)
Teologo (sec. XIII-XIV). L'appartenenza al casato dei Colonna fu dichiarata erronea dal Corazzini nel 1858 nella prefazione all'edizione da lui curata del volgarizzamento del Reggimento de' principi; fu indi riaffermata, ma è stata di nuovo messa in dubbio benché prove decisive non siano state mai addotte.
Nacque in Roma o nei dintorni nel 1247 circa, ma da alcuni si fa ascendere la data al 1242; entrò nell'ordine degli agostiniani eremiti da poco istituito; negli anni 1269-72 è probabile ascoltasse a Parigi le lezioni di s. Tommaso d'Aquino, delle dottrine del quale si farà strenuo difensore, salvo a divergerne lui stesso in più punti; nel 1286 conseguì il titolo di dottore; nel 1292 fu eletto superiore dell'ordine; per le benemerenze rese a Bonifacio VIII ricevé la dignità di arcivescovo di Bourges e di primate di Aquitania (mai però fu cardinale); morì ad Avignone il 22 dicembre 1316. Un epitafio nella chiesa di S. Agostino a Parigi, dove successivamente furono tumulati i suoi resti, lo ricorda in questi termini: " Hic iacet aula morum vitae munditia / archi-philosophiae Aristotelis perspicacissimus / commentator / clavis et doctor theologiae lux in lucem / reducens dubia / fr. Aegidius de Roma ord. fratrum eremit. / S. Augustini / archiepiscopus Bituricensis qui obiit / anno D. 1316 die XXII mensis / decembris ".
Delle innumeri sue opere - gliene sono ascritte con certezza un'ottantina - viene qui in considerazione per quelle politiche: De Regimine principum; De Renuntiatione papae; De Ecclesiastica potestate; commentario alla bolla Unam Sanctam; la Quaestio in utramque partem è ritenuta spuria (per esservi enunciate sì le tesi a favore del potere temporale del papa ma per esservi successivamente confutate, sicché nelle conclusioni viene a combaciare con le tesi di Giovanni da Parigi; nondimeno il Vinay ritiene l'attribuzione a Egidio).
Il De Regimine principum fu composto per incarico di Filippo III di Francia, detto l'Ardito, prima della sua morte cioè prima del 1285, per l'educazione dell'erede al trono Filippo IV detto il Bello, al quale era stato preposto precettore e al quale l'opera è dedicata. È un'opera solo parzialmente politica, in quanto si allinea in quella letteratura che ha remoti precedenti anche in un'opera di Isidoro di Siviglia (e il cui modello generico è il De Officiis ciceroniano con l'adattamento di s. Ambrogio per i ministri della Chiesa); i titoli di questa letteratura (l'elenco di queste trattazioni è in P. Brezzi, Il pensiero politico cristiano, in Grande antologia filosofica, V, Milano 1955, 803) variano ma il contenuto è più o meno sempre lo stesso: cioè la costruzione astratta del modello di perfetto principe, traendo elementi e spunti dall'antichità classica. Nel trattato egidiano trovano luogo precetti di etica, di condotta - si potrebbe dire di galateo -, di convenienza, di educazione, d'istruzione, ecc. I precetti sono dettati in riguardo alla persona stessa del principe (I libro), alla famiglia (II libro) e ai sudditi (III libro), che è la parte politica vera e propria: dove, dopo una rassegna delle dottrine filosofiche specialmente dei filosofi greci (I parte), si passa ai precetti del governo in tempo di pace (II parte) e a quelli del governo in tempo di guerra (III parte). Il fine generale è di parenetica al futuro re a esser virtuoso, ché solo chi sa ‛ reggere ' sé stesso è in grado di governare acconciamente. Nella parte politica segue da vicino la dottrina aristotelica rimessa in onore da s. Tommaso: quindi lo stato è naturale e dipende dall'istinto sociale, ‛ civile ', degli uomini. Pur non nascondendo in astratto le preferenze per là monarchia elettiva, in concreto si attiene a quella ereditaria e autoritaria. Si distacca però nettamente da Aristotele perché, nell'alternativa tra il re che si assoggetti alle leggi (" regimen politicum ") e quegli che le pone e ne rimane superiore (" regimen regale "), preferisce questo secondo. Vegezio è il modello che pedissequamente ricalca per il governo in tempo di guerra.
Con il De Renuntiatione papae, E. scese in lotta a fianco del suo benefattore Bonifacio contro l'aspra guerra libellistica - in cui il pontefice veniva accusato di simonia - mossa dai cardinali Colonna (sarà stato questo il motivo di lasciar cadere il cognome da parte di Egidio?). In essa si sostiene la tesi che la rinuncia è perfettamente valida, giuridicamente; anzi - e questo è incomprensibile per uno che aveva sostenuto l'assolutismo monarchico e che sosterrà ben più pesantemente l'assolutismo del papa -, siccome si regna e si governa in generale per volere del popolo, una volta venuto meno il favore popolare si decade dal potere. L'opera va datata intorno al 1297 in correlazione alle accuse degli accaniti avversari del pontefice.
Del De Ecclesiastica potestate, scritto, a quel che pare, prima della bolla Unam Sanctam del 18 novembre 1302 - di cui alcuni studiosi hanno voluto vedere in E. l'estensore -, è probabile gli fosse stata suggerita la composizione dal papa stesso, al quale con parole di profonda reverenza l'opera è dedicata. È probabile, ed è parere unanime degli storici, sia stata redatta in concomitanza della bolla Ausculta fili, del 1301, diretta contro Filippo il Bello. L'opera costituisce la più avanzata e ardimentosa e, nello stesso tempo, la più coerente e rigorosa date le premesse - dottrina ierocratica di tutto il Medioevo: né Innocenzo IV né l'Ostiense, pure audaci assertori della teocrazia, si erano spinti tanto oltre in una concezione così assolutistica e onnicomprensiva della potenza del papa, da assegnargli ogni potere spirituale e temporale - la plenitudo potestatis - e per ciò stesso persino il dominio (dominium superius) dei beni terreni. Al papa si appartengono come " vicarius Christi " i due " gladii "; solo per opportunità o, per meglio dire, per indegnità a esercitare direttamente il potere materiale, questo viene deferito ad altri: perciò il papa ha il " gladius spiritualis ad usum " e " ad nutum " quello temporale, cioè l'assegna all'imperatore ai principi ai re. Ma il potere temporale può esistere ed esercitarsi solo nel seno della Chiesa, che è datrice del fondamento del potere e per conseguenza di ogni ‛ possedere '. L'antitesi tra sacerdotium e imperium - come si esprimevano più genericamente i due poteri - è risolta tutta in favore del primo: esso unge e consacra i re, esso può giudicarne, e solo nell'ambito della Chiesa esistono gli stati, e, in virtù di questi ordinamenti terreni, le proprietà. Fuori della Chiesa non esistono stati che non siano associazioni criminali: i " magna latrocinia " di s. Agostino sono intesi in senso tale, al quale nessuno s'era mai avventurato in passato: tanto il vescovo di Ippona quanto i papi più audaci assertori del loro potere avevano considerato pur legittimi i regni degl'infedeli, salvo a considerarli destituiti della giustizia. Ma E. asserisce, non senza riconoscibile suggestione del pensiero di Ugo di San Vittore - la cui opera De Sacramentis è sovente richiamata -, che è possibile l'esercizio del potere e l'aver proprietà ed eredità solo in virtù della regeneratio (dal peccato originale) del battesimo e della absolutio (dal peccato attuale), sacramenti quindi che legittimano ogni possibile espressione di potere temporale. Per converso, la scomunica può privare tanto del potere quanto del possedere: il che riporta a dire che soltanto la Chiesa ha il potere temporale e i beni terreni, e li dispensa e ne permette il godimento agli uomini.
La trattazione si snoda, e meglio sarebbe dire si avviluppa, senza nessuna sistematicità, traendo argomento da tutto il repertorio di argomentazioni di sillogismi d'interpretazioni che la tradizione cristiana e scolastica metteva a disposizione. Le ripetizioni e la prolissità vi ridondano fino alla nausea; dei sillogismi si abusa senza scrupoli. Il metodo è dogmatico-teologico e l'intento è di divulgare una verità che è oggetto di fede: non si deve ignorare, afferma E., il potere della Chiesa e per essa del papa, se non si vuole essere ignorati da Dio; il conoscerla è dunque strumento di salvazione! Il presupposto assiomatico di tutta la costruzione, che pure sembra volersi appigliare e articolare da tante altre assiomatiche proposizioni, è che il potere spirituale è superiore a quello temporale: è quindi di tutti giudice e da nessuno può essere giudicato (se non da Dio). E non è dubbio che la suprema espressione del potere sia del papa: perciò a lui si appartiene ogni potere che vien detto ripetutamente. dominium. Si costruisce, accanto al carisma della perfezione personale propria del potere spirituale, il carisma dell'ufficio (le espressioni sono proprie di M. Weber ma i concetti sono di E.), sì che il potere del papa è sempre e comunque valido, anche in caso d'indegnità della persona, ed è rafforzato perché in esso confluisce tanto il carisma personale quanto dell'ufficio. Ma l'ufficio importa che la superiorità del potere spirituale non rimanga confinata nel mondo speculativo ma investa direttamente il mondo fisico: che è quanto dire che il papa esprime proprio la giurisdizione, che è la somma dei poteri effettivi che rivelano in concreto l'appartenenza di un potere.
A questo argomento fondamentale si viene ad aggiungere l'altro, filosofico, di origine aristotelica, che vuole che tutto, piramidalmente - le cose massime e le cose minime attraverso le medie -, sia ridotto a unità: e tanto non si avrebbe se il papa non avesse pure il potere temporale. Del resto, come l'anima sovrasta e prevale sul corpo così il potere spirituale prevale su quello temporale. Ma v'ha di più: l'anima è legata al corpo in composizione perfetta: per cui dire anima, alla quale presiede il potere spirituale in maniera diretta, significa dire l'uomo: per cui il potere spirituale intende al governo degli uomini nel corpo e nell'anima. Se talora la Chiesa ha riguardo solo all'anima prega a esempio per le anime purganti -, ciò è solo eccezionalmente. Il corpo d'altro canto non rappresenta se non uno strumento dell'anima, e anche il potere temporale, che è " ad nutum " di quello spirituale, non è che strumentale rispetto a quello spirituale. La stessa giustizia non potrebbe essere amministrata dal corpo, ché i sensi non potrebbero giudicare; solo l'intelletto giudica, e quindi essa giustizia si appartiene al potere spirituale.
La dottrina centrale viene corroborata e rinsaldata adunando tutti gli argomenti divenuti luoghi comuni della scolastica: quelli biblico-teologici: interpretazione in chiave simbolica e allegorica di detti e fatti della Scrittura; quelli storici, come la " translatio imperii ", la donazione di Costantino; quelli filosofici, tra cui principale quello della " reductio ad unum "; e non potendo essere che il papa si riduca e subordini all'imperatore, è gioco forza che questi e ogni altro detentore di poteri si riduca al papa.
Specificamente sono addotti quasi tutti gli argomenti confutati da D.: oro e incenso (II 4, 7); " quodcumque legaveris " (II 5); " ecce duo gladii hic " (I 3, II 5, 13, 15); donazione di Costantino (I 3); trasferimento dell'Impero (I 3, II 5, III 2).
Chi poi assumesse che il potere temporale abbia preceduto quello ecclesiastico non pone bene mente che il vero potere, che non fosse quello di briganti o di predoni e peggio, è solo quello che la Chiesa può istituire (gl'infedeli, come s'è accennato, non possono arrogarsi di avere un ordinamento valido, e di essi infedeli neppure ci si deve occupare, dichiara E.); infatti Saul fu istituito annuente Domino da Samuel, sacerdote.
Si arriva a parlare del papa come del mare da cui tutti i principi terreni possono attingere acqua senza esaurirlo.
Il rapporto di posizione del potere temporale e di quello spirituale si pone nei termini stessi del rapporto del corpo con l'anima: è quindi " ad nutum " di quello spirituale e si attua " sub famulatu et obsequio " di quello del papa. Nell'ambito però del potere concessogli, il principe ha pienezza di giurisdizione: ché come Dio lascia che il mondo naturale si svolga e attui secondo le leggi comuni - potrebbe sì Dio creare il leone ma lascia che si generi naturalmente, potrebbe far che il fuoco non ardesse, ecc. -, così il papa non turba la giurisdizione del potere temporale. Quest'affermazione, molto promettente per sé, e che ha fuorviato interpreti pur sagaci e addottrinati facendo loro asserire che " il potere temporale è assoggettato e ad un tempo affrancato dal papa ", è in verità premessa per ‛ edulcorare ' la casistica in cui il papa interviene pure nella giurisdizione interna all'ordinamento politico dei singoli principi. Questi casi si hanno quante volte la controversia investe il bene dell'anima: perciò anche in materia di dote e di eredità! Persino se per errore si sia appellato al papa in materia a lui non spettante, vale la giurisdizione del papa e la consuetudine in questo caso è legge durevole, e non viceversa.
Tutti gli storici delle dottrine politiche e gl'interpreti di E. non hanno mancato di sottolineare che l'agostiniano, mentre è aristotelico (naturalità dello stato), nel De Regimine principum è platonico - diciamo meglio agostiniano - (lo stato come rimedio all'imperfezione umana dopo il peccato originale), non senza influenza di correnti mistiche come quella già ricordata di Ugo di San Vittore. E ciò taluno spiega con il lungo lasso di tempo intercorso tra la prima e la seconda opera, e altri col carattere indeciso di Egidio. E c'è del vero nell'una e nell'altra ‛ giustificazione ', ma va tenuto conto invece della particolare e specifica finalità delle sue opere, entrambe occasionali e suggerite: per cui certe conseguenze erano inevitabili dati i fini cui ciascun'opera era rivolta.
Sul rapporto di D. con il De Regimine principum non è luogo a dubitare, giacché D. stesso lo cita come autorità - si afferma dal Vossler e si ripete dal Gentile -, laddove sarebbe semmai più preciso dire come non autorità, giacché lo disattende, come in proposito disattende altri autori, per attenersi ai dettami di ragione: E lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice ne la prima parte de lo Reggimento de' Principi (Cv IV XXIV 9), alludendo alla trattazione sui costumi e convenienze di giovani e di vecchi di cui al primo libro di E., attingendo - parrebbe - alla traduzione in volgare fatta nel 1288 (del De Reg. princ. le traduzioni in volgare italiano furono numerose, e l'opera si diffuse pure in tutte le lingue culte): I IV 1-4, pp. 108-109 nell'edizione di F. Corazzini (Firenze 1858), che pubblicò il volgarizzamento di probabile anonimo senese.
La citazione veniva quanto mai opportuna, si direbbe fosse inevitabile, per l'identità della materia trattata: i capp. XXIII-XXVIII del IV del Convivio sono null'altro che un ‛ reggimento ' generale degli uomini nelle loro diverse età (è l'epoca anche del Reggimento e costume di donna del da Barberino). E molto evidente l'incontro anche verbalistico tra le espressioni del Reggimento de' principi e il Convivio: E però dice lo Filosofo che l'uomo naturalmente è compagnevole animale (Cv IV IV 1); " l'uom die vivare in compagnia naturalmente ed essere compagnevole per natura " (Reggimento II I 1; cfr. F. Mazzoni, Contributi di filologia dantesca, s.1, Firenze 1966, 120).
Un'ultima curiosa coincidenza merita sia segnalata: E. chiama i giuristi " ydiotae politici " (Reg. princ. II II 8 " Sic legistae, quia ea de quibus est politica dicunt narrative et sine ratione, appellari possunt ydiotae politici "), che non può non far pensare alla taccia di iuristae praesumptuosi, di Mn II IX 20.
Qualche altra influenza, solo probabile, è segnalata nel commento del Busnelli-Vandelli al Convivio (I 181). È molto probabile che D. nella canzone Le dolci rime voglia colpire e contraddire anche l'agostiniano che riduceva la ricchezza a " nihil aliud quam antiquae divitiae " (Reg. princ. I IV- 5), anche se è a dubitare che l' " altri... di più lieve savere " sia proprio Egidio (U. Mariani).
Il Torraca scorge numerosi incontri e derivazioni nella Commedia, molti dei quali sono illusori e vanno spiegati meglio con la comune temperie spirituale e culturale in cui muovono i due autori. In particolare, a proposito dei celebri versi (Pd XXVI 130-132) Opera naturale è ch'uom favella; / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi secondo che v'abbella, afferma: " Dante traduce, com'egli sa fare, un passo del Reggim. de' Principi di Egidio Colonna III II 22 [ediz. Corazzini p. 266]: ‛ Naturale cosa è che l 'uomo favelli, e la natura lo 'nsegna all'uomo; ma la favellatura qual sia, o tedesca o francesca o toscana, la natura non la ‛ nsegna ' ".
Il Nardi (D. e la cultura medievale, Bari 19492, 244) rincalza la dimostrazione adducendo il passo latino (Reg. princ. III II 24 " Est naturale homini loqui: habemus enim impetum et naturalem inclinationem ut loquamur et ut per sermonem manifestemus alteri quod mente concepimus; sed quod loquamur hoc idioma vel aliud, non est naturale, sed ad placitum... Inde est... quod Philosophus, I Perihermeneias voces et sermones dicit esse ad placitum, qui primo Politicorum ait, sermonem vobis esse datum a natura. Sicut ergo loqui est naturale, sic autem loqui vel sic, est positivum et ad placitum ". Così, secondo il Nardi, seguendo E., D. avrebbe maturato il nuovo pensiero sul linguaggio, lasciando cadere il vecchio pregiudizio del I libro del De vulgari Eloquentia.
Altri (Vandelli, in " Bull. " XXIII [1916] 64) adduce come fonte Sum. theol. II II 85 1 " significare conceptus est homini naturale, sed determinatio signorum est ad placitum humanum "; altri ancora (Mattalia) rinvia ad Aristotele.
Il principio è indubbiamente aristotelico (Pol. I 2 [10] 1253a e il De Interpretatione, e quest'ultima opera era diffusa nel Medioevo attraverso la traduzione di Boezio); però nel filosofo greco l'enunciazione si limita alla prima parte dell'affermazione. Il Sapegno perciò rinvia tanto al passo di E. quanto a quello della Summa, avvertendo che il concetto è aristotelico, passato alla cultura medievale attraverso Boezio.
Per i rapporti tra il De Ecclesiastica potestate e l'opera e il pensiero di D., i pareri degli studiosi sono divisi.
Il Vossler (La D.C. studiata nella sua genesi e illustrata, trad. ital. II 2, Bari 19272, 176-181; cfr. la recens. di G. Gentile [ora in Studi su D., Firenze 1965, 102-107]. L'affermazione del dantista tedesco è ripetuta da F. Ercole, Dal Comune al Principato, ibid 1929, 131; cfr., dello stesso, Il pensiero politico di D., II, Milano 1928, 209 ss.) afferma che la Monarchia sarebbe in diretta confutazione dell'opera egidiana, anche se viene attenuando l'affermazione riconoscendo che D. non era poi così meschino, alla maniera di G. Vernani, da voler scrivere proprio una critica ad altrui opere, ma " attraverso tutto il trattato del nostro poeta passa, senz'esservi mai chiamata a nome, l'ombra d'E. "; lo Scholz crede invece che sia pur difficile dimostrare che D. abbia conosciuto il trattato ecclesiastico.
Ora non si tratta di stabilire se D. abbia o meno conosciuto l'opera di E., perché la dottrina in essa contenuta si trasfuse immediatamente nella bolla Unam Sanctam (impressionanti sono le somiglianze anche verbali tra i due testi) e dové divenire di dominio comune sicché il poeta ne avrà avuta di certo notizia. Si tratta invece di stabilire se D. abbia avuto in intento di confutare specifiche opere o speciali dottrine: e secondo il Barbi è da escludere, volendo il poeta scrivere la sua opera in opposizione a tutte le dottrine contrarie alla propria. Più in là va il Vinay, considerando la Monarchia non opera di polemica bensì di apologia; e D. si sarebbe giovato di pochissime opere. Cionondimeno è difficile liberarsi dal dubbio che con le parole alii quos credo zelo solo matris Ecclesiae di Mn III III 7 non abbia voluto colpire proprio Egidio. E naturale comunque che anche e soprattutto sullo sfondo delle dottrine del De Ecclesiastica potestate va studiata l'opera politica di D. (cfr. B. Nardi, Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960, spec. 225-226, 228-233): e nulla rileva che E. non si rivolge contro l'imperatore, al quale solo occasionalmente si riferisce, bensì contro ogni potere temporale.
Edizioni: De Regimine principum, 14 ristampe dal 1472, l'ultima: Roma 1607; Del reggimento de' principi di E. Romano, volgarizzamento trascritto nel 1288 a c. di F. Corazzini, Firenze 1858; G.U. Oxilia- G. Boffito, Un trattato inedito di E. Colonna [" De Ecclesiastica potestate "], Firenze 1908; Ae. Romanus, De Ecclesiastica potestate, a c. di R. Scholz, Lipsia 1929 (rist. anast., Aalen 1962); E. Romano, Quaestio in utramque partem, a c. di G. Vinay, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " LIII (1939) 93-136. Indicazioni complete sulle ediz. a stampa e sui manoscritti nelle numerose opere di G. Bruni, dal medesimo citate in Enciclopedia Filosofica, II, Firenze 19692, 752-756, sub v. E. Romano: ivi anche bibliografia generale.
Bibl. - G. Boffito, D., s. Agostino ed E. Colonna Romano, Firenze 1910; G. Lepore, De Re politica Aegidi Romani, in " Analecta Augustiniana " (1928); G. Bross, Gilles de Rome et son traité " De Ecclesiastica potestate ", Parigi 1930; E. Hocedez, Le premier Quodlibet de son traité " De Ecclesiastica potestate ", ibid 1930; U. Mariani, Le teorie politiche di s. Agostino e il loro influsso sulla scuola agostiniana del sec. XIV, Firenze 1933; G. Vinay, E.R. e la cosiddetta " Quaestio in utramque partem ", in " Boll. Ist. Stor. Medio Evo " LIII (1939) 43 ss.; G. Santonastaso, Il pensiero politico di E. Romano, Firenze 1939; P. De Lapparent, La question du commentaire sur la Bulle " Unam Sanctam ", in " Arch. d'Hist. Doctr. et Littér. du Moyen Age " XV (1940-42) 121-151; R. Kuiters, De Ecclesiastica sive de summi Pontificis potestate secundum Aegidium R., Roma 1948; F. Merzbacher, Die Rechts- Staats- und Kirchenauffassung Aegidius Romanus, in " Archiv für Rechts- und Sozialphilosophie " XLVII (1954); U. Mariani, Chiesa e Stato nei teologi agostiniani del sec. XIV, Roma 1957 (la prima edizione recava il titolo: Scrittori politici agostiniani nel secolo XIV, Firenze 1927); R. Kuiters, Ae. R. and the Authorship of " In utramque partem " and " De Ecclesiastica potestate ", in " Augustiniana " VIII 1958) 267-280.